Critica della tolleranza
«La distanza di sicurezza tra pensiero repressivo e azione repressiva si è pericolosamente accorciata» Herbert Marcuse, Critica della tolleranza
Quando si legge un libro ben scritto, di frequente ci si imbatte in semplici frasi o in più complesse manifestazioni del pensiero in grado di esprimere l’universale, lo spirito del tempo, quella sensazione che tutti avvertono ma che solo gli scrittori coraggiosi osano mettere nero su bianco.
Questo tipo di affermazioni è quello comunemente noto come aforisma, cioè una breve successione di parole che nella sua brevità riesce a cogliere la profondità del tutto, la sua densità e il suo significato: è una successione di simboli, i quali non sono intrinsecamente importanti, ma importante è la funzione che esplicano, quella di veicolare messaggi.
Le parole sono importanti, diceva qualcuno, perché esse sono il mezzo per raggiungere il significato, diceva qualcun altro; non solo questo, ma anche: le parole sfidano la realtà e possono precederla e nutrirla, giacché per noi la realtà non è che una percezione, e avere coscienza di un pezzo di realtà e parole per descriverlo significa astrarre, distruggere e dividere la realtà stessa. Per questo il linguaggio è strumento potenzialmente rivoluzionario: distrugge e crea. Imponendo il linguaggio si impone una visione della realtà: lo sanno (o forse semplicemente lo fanno) bene i giornalisti, i politici, i tecnocrati del XXI secolo. Ma lo sapeva altrettanto bene Herbert Marcuse.
La sua invettiva di neanche cinquanta pagine Critica della tolleranza meriterebbe quasi tutta d’esser citata: praticamente è un unico lungo aforisma, che sfidando la realtà permette di riconoscerla, illuminando il lettore, come un grande pensatore sa fare.
La tolleranza che Marcuse critica è la tolleranza pura o astratta, quella senza eccezioni e condizioni, o come si direbbe oggi “senza se e senza ma”: una tolleranza siffatta «trattiene dal prender posizione, ma nel far così attualmente protegge il meccanismo già stabilito della discriminazione». Tanti sono gli esempi quotidiani del fenomeno in questione, da quelli che non sono “né di destra né di sinistra” a quelli che non sono “né razzisti né antirazzisti”. Le posizioni di costoro sono, come si rifletteva per il grillismo, «passive, deboli, in realtà non-posizioni che derivano direttamente dall’omologazione e dalla rassicurazione che dà l’imitazione di opinioni dominanti». Per dirla con Gramsci, «L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera». Si è anche parlato spesso, su questo blog, di come la pretesa velleitaria di porsi “oltre le ideologie” sia in effetti essa stessa un’ideologia o un prodotto ideologico.
La tolleranza che ingrandì la portata e il contenuto della libertà fu sempre partigiana, intollerante verso i protagonisti dello status quo repressivo. La tolleranza necessaria per un processo di liberazione «non può essere indiscriminata ed eguale nei contenuti, non può proteggere le parole false e i fatti sbagliati che dimostrano che essi contraddicono e vanno contro alle possibilità di liberazione. Tale tolleranza indiscriminata è giustificata nei dibattiti innocui, nella conversazione, nella discussione accademica; ma la società non può esser priva di discriminazioni dove la pacificazione dell’esistenza, la libertà e la felicità stesse sono in pericolo: qui, alcune cose non possono venir dette, alcune idee non possono venir espresse, alcune politiche non possono esser proposte, alcuni comportamenti non possono esser permessi senza fare della tolleranza uno strumento per la continuazione della schiavitù».
La democrazia totalitaria non teme la libertà di parola e di pensiero: «l’opposizione e il dissenso sono tollerati a meno che essi non sfocino nella violenza e/o nell’esortazione e nell’organizzazione della sovversione violenta. La supposizione sottesa è che la società stabilita è libera e che ogni miglioramento accadrebbe nel normale corso degli eventi, preparato, definito e collaudato nella discussione libera ed eguale, sull’aperta piazza del mercato delle idee». Le premesse nascoste in questa supposizione sono «l’espressione e sviluppo di pensiero indipendente, libero dall’indottrinamento, dalla manipolazione, dall’autorità esterna», ed essendo che esse non si verificano, «qualunque miglioramento posa succedere nel normale corso degli eventi e senza sovversione è probabile che sia un miglioramento nella direzione determinata dagli interessi particolari che controllano il tutto».
Il motivo per cui la democrazia totalitaria non ha bisogno di un’ampia censura è che le parole e i pensieri potenzialmente rivoluzionari sono censurati a monte, nella mente degli individui, da una capillare opera di indottrinamento che comincia nell’infanzia (Marcuse nota come i liberali, storicamente paladini dell’idea di tolleranza, la ritenessero applicabile, parola di John Stuart Mill, «soltanto agli esseri umani nella maturità delle proprie facoltà», indirettamente rendendo accettabile l’indottrinamento).
Perché avvenga piuttosto il contrario, è necessario che le persone siano «capaci di decidere e di scegliere sulla base delle proprie conoscenze, con accesso alle fonti autentiche dell’informazione, perché la loro valutazione sia il risultato d’un pensiero autonomo. […] Ma con la concentrazione del potere politico ed economico e l’integrazione degli opposti in una società che usa la tecnologia come strumento di dominio, il dissenso effettivo è bloccato laddove potrebbe liberamente emergere: nella formazione dell’opinione, nell’informazione e nella comunicazione. Sotto la guida dei mezzi monopolistici viene creata una mentalità per la quale giusto e sbagliato, vero e falso sono predefiniti ovunque concernono gli interessi vitali della società».
«Il significato delle parole è rigidamente stabilito. Parole diverse possono esser dette e ascoltate, ma, sulla scala di massa, esse vengono immediatamente valutate nei termini del linguaggio pubblico, un linguaggio che determina a priori la direzione in cui si muove il ragionamento logico». Anche qui gli esempi non mancano: quante volte si assiste a dei veri e propri corti circuiti quando si parla di “anarchia”, “uguaglianza”, “rivoluzione”?
L’imparzialità è innegabilmente uno strumento indispensabile per prendere delle decisioni nel processo democratico, ma nella democrazia totalitaria l’obiettività svolge un’altra funzione: «incoraggiare un’attitudine mentale che tenda a scoraggiare la differenza tra vero e falso, informazione e indottrinamento, giusto e sbagliato. Infatti, la decisione tra opinioni opposte è già stata presa prima che la presentazione e la discussione fossero iniziate».
Per finire (altrimenti mi faccio prendere la mano e cito davvero tutta l’opera), per Marcuse il discorso sulla tolleranza porta a riesaminare la distinzione tradizionale tra azione violenta e azione non-violenta. Anche nelle civili società occidentali, la violenza è quotidiana: «è praticata dalla polizia, nelle prigioni e negli istituti per malati di mente, nella lotta contro le minoranze razziali, è portata fino nei paesi arretrati. Ma trattenersi dalla violenza di fronte alla violenza immensamente superiore è una cosa, rinunciare a priori a rispondere colla violenza alla violenza, in campo etico o in quello psicologico è un’altra. […] In termini di etica, ambedue le forme di violenza [rivoluzionaria e reazionaria] sono inumane e dannose –ma da quando in qua la storia è fatta in accordo alle norme etiche?– Cominciare ad applicarle laddove i ribelli oppressi lottano contro gli oppressori, quelli che non hanno niente contro i possidenti, è servire la causa della violenza reale».
«Se quelli che soffrono a causa di questa legge e di quest’ordine e lottano contro di esso usano violenza, non dànno inizio a una catena di violenze ma cercano di spezzare quella stabilita. Da quando verranno puniti conosceranno il rischio, e quando lo corrono volontariamente, nessuna terza persona, e ultimi di tutti l’educatore e l’intellettuale, ha il diritto di predicar loro che se ne astengano».
Short Link:
quando l’ho preso in libreria, Giulio mi ha detto “Tu certe cose non dovresti leggerle, ti fanno male!” e infatti intanto lo hai letto tu, ma non mi pare ti abbia fatto male…
È anche vero che gli effetti di un farmaco dipendono molto dal paziente… 😉
Nel teatrino della democrazia totalitaria intollerante è chi prenderebbe a sprangate i fascisti, violento chi non gli basta “manifestare” la propria rabbia e rivoluzionario è chi va da Santoro a dire che Monti è brutto.
La democrazia totalitaria è insomma un buon esempio di esempi da non seguire.
E comunque si, dovresti fare l’ antropologo 😉
Bene, mi hai convinto a procurarmi e leggere codesto libro. Tu però, se non l’hai già fatto, leggi quest’altro. 😉
(Se non lo trovi più in commercio posso prestartelo…)
@Florian
Sulle sprangate ai fascisti in realtà nutro forti perplessità; la non tolleranza verso certi comportamenti o certe posizioni può secondo me manifestarsi anche seguendo strade più umane. L’importante è avere dei punti saldi, fermo restando che i paletti vadano messi per quanto concerne gli obiettivi, non i metodi, almeno finché la scelta di determinati metodi non compromette tristemente il raggiungimento degli obiettivi.
Sul teatrino della democrazia totalitaria: il palco di quel teatrino riserva una porzione consistente di spazio ai rivoluzionari da salotto, come quelli che vanno da Santoro a dire che Monti è brutto, o come quelli che vanno ad applaudire Graeber al festival di Internazionale quando racconta di aver bruciato i debiti di cittadini americani, mentre sono sicuro che se qualcuno avesse fatto una cosa simile in Italia loro sarebbero stati i primi a condannare il gesto perché «la legge va rispettata», «se ci sono regole vanno seguite», «non si può non pagare i propri debiti», richiamando di fatto proprio quella retorica del debito analizzata e stigmatizzata da Graeber stesso nel suo saggio Debt
Sull’ultimo consiglio: be’ questo non fa che peggiorare le cose 😉
@Davide
Mi basta l’autore per accettare il consiglio. Dopo, per chiudere il cerchio dei compari situazionisti, mancherebbe solo Debord, che purtroppo avevo sfogliato in libreria scoraggiandomi per la difficoltà della lettura. Ma insomma, son cose che uno deve leggere.