L’antirazzismo che legittima Salvini

Partiamo da un fatto: si assiste in misura crescente ad un’involuzione del discorso pubblico verso posizioni sempre più esplicitamente razziste, in cui la violenza non va più nemmeno letta tra le righe. E, se non va letta fra le righe, diventa esplicita anche la sua espressione pratica, perché «la distanza di sicurezza tra pensiero repressivo e azione repressiva si è pericolosamente accorciata» (Herbert Marcuse, Critica della tolleranza).

Così, nel giro di pochi mesi, sotto l’incalzare della campagna elettorale per le elezioni politiche del 4 marzo e poi con la successiva stabilizzazione e normalizzazione formale della xenofobia, si sono susseguiti la tentata strage di Macerata (3 febbraio), le aggressioni ai migranti da parte di gruppi fascisti a Pavia (5 febbraio), l’assassinio di Idy Diene a Firenze (5 marzo), l’attentato incendiario alla moschea di Padova (5 marzo), la caccia al migrante a Rosarno (resa nota il 17 marzo),  l’omicidio di Sacko Soumayla a San Calogero e il ferimento di altre due persone a colpi di fucile (2 giugno), gli spari contro due ragazzi maliani a Caserta (10 giugno), l’attacco armato da parte di due italiani in un centro per migranti a Sulmona (13 giugno), il pestaggio di gruppo di un ragazzo ivoriano di 17 anni a Ballarò (15 giugno), l’uccisione di un senegalese dopo insulti razzisti a Corsico (17 giugno), il ferimento con arma da fuoco di Konate Bouyagui da un’auto in corsa a Napoli (22 giugno) e chissà quanti altri innumerevoli eventi quotidiani che sfuggono alla stampa perché non fanno più scalpore: aggressioni, intimidazioni, pestaggi, insulti razzisti, esclusione, o ancora la normalizzazione delle affermazioni razziste, la loro sempre più diffusa accettazione ovunque in fila al supermercato o al bar, con la formazione di occasionali gruppi di affinità in cui ci si sente portati, perché ormai pienamente legittimati, a rispondere a commenti razzisti con osservazioni “di circostanza” altrettanto razziste, in un circolo che si autoalimenta (sulla costruzione delle verità sociali razziste, cfr. Alessandro Dal Lago, Non-persone).

Sono in molti a dichiararsi preoccupati dal clima di tensione montante e a cercare di contrapporre i valori democratici alla retorica razzista imperante. Peccato che il linguaggio e la cultura siano ormai talmente impregnati del discorso xenofobo e strutturalmente razzisti che anche le opinioni espresse per la difesa formale dei diritti umani, per l’uguaglianza dei popoli, per i valori dell’antirazzismo, sono fin troppe volte esse stesse depositarie di un sapere razzista.

Esiste uno spettro di opinioni che va dalla proposta (messa in pratica) di «sparare sui negri» come Luca Traini e Gianluca Casseri o quella di «affondare i barconi» come Matteo Salvini e Elio Lannutti fino a quelle più umane, per esempio, di accertarsi che nei campi di detenzione libici sia assicurato il rispetto dei diritti umani, senza mettere in discussione la necessità dei campi, considerati inevitabili, né chiedersi perché mai dovremmo rinchiudere delle persone soltanto perché non si trovano nel proprio paese d’origine. Come questa, esistono decine e decine di convinzioni entrate nel senso comune e non più messe in questione, accettate socialmente come verità evidenti. Questo sciame di posizioni apparentemente antirazziste non sono altro che l’espressione di una opposizione interna al campo delle posizioni razziste, perché si muovono dentro la cornice di senso disegnata dal sistema di pensiero razzista.

Non si tratta soltanto di chi non mette in discussione il sistema di repressione e deportazione, ma anche di molte posizioni che accettano e promuovono il sistema di accoglienza, concependolo come uno strumento di controllo e di gestione. Sono le posizioni, per esempio, di chi sostiene che i migranti vadano accolti “perché conviene all’economia” o “perché molti sono laureati”, illustrando le proprie argomentazioni con tanto di grafici e statistiche e ricerche di settore, rivelandosi così non solo profondamente classisti, giacché non serve una laurea per “meritarsi” diritti umani, ma anche razzisti in quanto partono strutturalmente dal principio che è l’eventuale laurea, non l’essere umano, a riscattare l’umano stesso da una altrimenti condizione di inferiorità. Analogamente, ci sono le posizioni di chi insiste su casi di cronaca in cui un qualche migrante ha dato prova di coraggio, come è stato per l’immigrato irregolare cui Macron ha regalato i documenti e la cittadinanza come premio per aver salvato un bambino, e che tira fuori esempi di migranti bravi, generosi, senza problemi con la legge, intraprendenti e integrati, che sanno perfettamente l’italiano e addirittura a volte il dialetto, e tutto questo senza rendersi conto di quanto sia controproducente per tutte quelle persone che in quanto persone dovrebbero avere gli stessi diritti, pure senza essere bravi, intelligenti, integrati, bilingue o il padre di Steve Jobs.

SteveJobs

Uno dei contenuti che circolano sui social network in risposta alle politiche contro i migranti.

Quando nell’aprile 2015 l’ONU ventilò la possibilità di fermare i trafficanti impedendo le partenze con l’affondamento delle imbarcazioni (a proposito, Silvio Berlusconi aveva già da anni dichiarato che bastava «togliere i motori alle barche»), Matteo Salvini reagì dai microfoni di Radio Padania dicendo «Ci hanno criticato e insultato dandoci dei razzisti e oggi che fanno? Dicono di voler affondare i barconi e fare i blocchi, cose che noi diciamo da tempo!» e aveva ragione, non nel senso che lui non era razzista, ma nel senso che lo erano anche gli altri. Perché, appunto, si muovono nello stesso campo, entro lo stesso orizzonte di pensiero. All’epoca, il ministro degli Interni era Angelino Alfano. Le reazioni dell’opposizione politica e presunta opposizione culturale furono, per fare alcuni esempi significativi, del tenore di un Gianluca Di Feo che sull’Espresso spiegava che «difficilmente la distruzione di una o più flottiglie di barconi cambierà la situazione», passando in rassegna i precedenti storici delle politiche di contrasto al traffico di esseri umani, che non avevano funzionato come deterrente ma anzi incentivato e ingigantito gli interessi economici dei trafficanti; di una Laura Boldrini che faceva notare con indignazione che per affondare i barconi degli scafisti «bisogna avere l’autorizzazione del Paese in cui sono presenti e a chi si chiede in Libia questa autorizzazione?»; fino ad arrivare alle dichiarazioni di cardinale Antonio Maria Viganò secondo cui distruggere i barconi non fosse una soluzione, perché «gli immigrati scapperebbero comunque da persecuzioni e violenze». Tutte queste risposte parlano di una soluzione tecnicamente inefficace al problema: se affondare i barconi fosse una soluzione tecnicamente efficace, essi la abbraccerebbero in pieno. Le argomentazioni sono tecniche, non politiche. E, come rivelato dalle parole del cardinale, per queste posizioni il problema da risolvere non è il traffico di esseri umani in se, ma l’arrivo dei migranti: sono contrari al traffico di esseri umani solo perché contribuisce ai flussi migratori e sono contrari all’affondamento dei barconi solo perché non li ridurrebbe. Il problema sono dunque i flussi migratori e la soluzione efficace al problema sarebbe quella che impedisce ai migranti di arrivare in Italia, in perfetta sintonia con il pensiero di Salvini.

Saranno assicurati i diritti umani nei campi libici? Mandiamo qualcuno a vedere.

Un altro esempio, più recente: le reazioni sconvolte di fronte al vagheggiamento di un censimento etnico dei Rom da parte del ministero degli Interni di Matteo Salvini. Risponde l’alleato Di Maio, sincero democratico: «Mi fa piacere che Salvini abbia smentito qualsiasi ipotesi di schedatura e censimento degli immigrati [n.d.r.: qui Di Maio identifica malamente Rom e immigrati] perché se una cosa è incostituzionale non si può fare». Così reagisce Franco Mirabelli, senatore del PD: «Il ministro dell’Interno sembra non sapere che in Italia un censimento su base etnica non è consentito dalla legge». E per finire la squisitissima reazione di Nicola Fratoianni di LeU, cioè la cosa più a sinistra nell’attuale Parlamento: «Ricordo a Salvini che la maggioranza dei Rom sono cittadini comunitari. Quindi sarebbe come schedare i francesi presenti nel nostro Paese».

Se il censimento etnico non si può fare perché è incostituzionale, e non perché è profondamente sbagliato sul piano morale e politico, allora basterebbe cambiare la Costituzione, unico ostacolo. Se non si può fare perché non è consentito dalla legge, allora se fosse consentito dalla legge, invece, si potrebbe fare, e magari sarebbe tutto normale. Se i Rom non fossero cittadini comunitari, anche in questo caso, sarebbe tutto normale, potremmo dare il via libera al censimento etnico. Anche le dichiarazioni della sinistra di questo Parlamento, se va bene, sono costruite su un sistema di valori sostanzialmente razzista incapace di non fare del razzismo una pura questione formale, come se fosse quello il nocciolo del problema.

Con Salvini si fa troppo spesso lo stesso errore: invece di contestarlo perché è un razzista di merda, si va a citare la clausola della leggiucchia che impedirebbe di discriminare tale gruppo o di bloccare tali porti a tale orario, finendo col legittimare implicitamente il suo discorso, perché non gli si contrappone alcun principio politico, limitandosi a interventi circostanziati e invariabilmente tecnici, mai strutturali. Questo è un errore strategico se i parte da principi antirazzisti e dalla prospettiva di una lotta contro ogni discriminazione; è invece un obbrobrio ideologico in tutti gli altri casi.

Sull’onda di questo errore (che non chiamerò obbrobrio, lasciando il beneficio del dubbio) abbondano le argomentazioni di quelli che accusano Salvini di essere un incapace, come per esempio un Ettore Rosato (PD) che “contro la destra” minaccia: «Li misureremo alla prova dei fatti, per verificare se almeno le promesse le manterranno», senza avere neanche il coraggio di elencare quali promesse elettorali della Lega Nord gradirebbe fossero mantenute (ma l’enigma non è difficile da risolvere, basta guardare più avanti nell’articolo). Ovvero, questo governo non va contestato perché il programma che intende realizzare è intrinsecamente razzista, ma perché non sarà capace di realizzarlo, essendo gestito da incapaci. Se ne deduce che il problema non è il principio ma la sua fattibilità. E anche se fosse? Lo preferirebbero capace? Ecco perché a Salvini si deve rispondere “razzista di merda”, ecco perché qualsiasi altra argomentazione legittima il piano del suo discorso razzista.

Ora, forse per il democratico Ettore Rosato, data l’appartenenza partitica, il beneficio del dubbio non è propriamente lecito concederlo, ma per altri personaggi è possibile che si tratti di un mero corto circuito ideologico che impedisce di vedere le conseguenze politiche delle proprie posizioni, cioè il rafforzamento della posizione opposta (ma sempre interna allo stesso campo). Per esempio, Annalisa Camilli, giornalista che scrive su Internazionale e si occupa di immigrazione, ha pubblicato il 4 giugno un articolo che spiega, come da titolo, “perché il programma di Salvini sull’immigrazione è impraticabile”. I motivi elencati sono molteplici «i rimpatri hanno costi esorbitanti e non ci sono accordi con la maggior parte dei paesi di provenienza dei migranti, i porti non si possono chiudere a meno d’infrangere le norme marittime internazionali, revocare l’accoglienza ai richiedenti asilo significherebbe venir meno a una serie di impegni presi e rinunciare a fondi europei, inoltre farebbe aumentare il numero delle persone che dormono per strada e paradossalmente favorirebbe i centri di accoglienza di emergenza rispetto ai centri gestiti dai comuni nel sistema Sprar. Già nel 2017 regioni e amministrazioni locali avevano impedito al suo predecessore Marco Minniti che fossero aperti più centri permanenti per il rimpatrio (Cpr), vanificando i decreti Minniti-Orlando, che avevano stabilito l’apertura di un Cpr in ogni regione». L’elenco dei motivi per cui il programma di Salvini sull’immigrazione è impraticabile è concluso senza una parola sul razzismo di fondo, sul disprezzo per la vita umana, sulla ferocia subita da chi è respinto e deportato, sulle condizioni disumane di povertà e ricattabilità cui sono costretti i migranti: il programma è definito “impraticabile” sul piano tecnico, senza cenni a quello umano. (Per dovere di cronaca, si sappia tra l’altro che l’autrice dell’articolo, con cui il sottoscritto si sarebbe volentieri confrontato sullo spostamento della sua critica da un piano strutturale ad uno contingente, ha provveduto quasi subito a bloccare su Twitter rifiutando la discussione. Grande esempio di giornalismo di sinistra.)

«Non riuscirà mai a rimpatriare mezzo milione di immigrati, non ci sono i soldi, è tecnicamente impossibile, ci vorrebbe troppo tempo!» lascia troppo rischiosamente aperta la possibilità che si sottintenda che se ci fossero i soldi, il tempo e i mezzi, allora, non ci sarebbe nessun punto politico da attaccare.Sembra assurdo doverlo ripetere, ma per criticare un politico sul piano politico, bisogna valutare se il principio che intende applicare è condivisibile o meno, prima di verificare se è attuabile praticamente: credere di delegittimare le proposte razziste di Salvini attaccandole, per esempio, perché non ci sono i soldi è nocivo oltre che ridicolo.

«Salvini ce l’ha con gli immigrati ma i dati dicono che sono in calo!» anche se fosse vero, tirare fuori dati e statistiche per mostrare che Salvini si sbaglia quando dice che i migranti vanno rimpatriati «perché sono troppi» significa distogliere l’attenzione dal fatto che sbaglia in quanto parla di rimpatri razzisti, di gestione delle vite, di dominio coloniale del bianco occidentale sui corpi neri razzializzati, e i numeri non c’entrano nulla con questo. Inoltre se fosse vero che ci sono sempre più immigrati («troppi»), allora Salvini avrebbe ragione. Come si fa a non capirlo? Perché nessuno di rilievo nell’opinione pubblica risponde semplicemente a Salvini “sei un razzista di merda”?

«Ai tempi di questa virile stretta di mano, Matteo Salvini non era ancora ministro dell’Interno a Roma e Luca Traini non era ancora stragista fascista a Macerata» commenta Alberto Robecchi

Continuando con gli esempi. Il 3 febbraio 2018 il fascista Luca Traini, cui l’attuale ministro degli Interni Matteo Salvini ha stretto la mano appena qualche anno fa, gira per il centro di Macerata sparando ai neri che incontra, ritenendo di vendicare l’omicidio di Pamela Mastropietro in quanto l’imputato è nero. Dopo ore di silenzio scomposto, in cui il PD, allora partito di governo, esita a condannare fermamente l’attentato razzista (chiaramente visibile sin da subito, dati il profilo dell’attentatore e la scelta inequivocabile delle vittime), le dichiarazioni cominciano a fioccare. Tra queste, un Matteo Renzi di spessore afferma che «Quello di Macerata è un atto razzista, ma non sono i pistoleri che possono portare giustizia» e inaugura una serie di dichiarazioni di altri esponenti politici della stessa area che gli fanno eco parlando dell’inopportunità di «farsi giustizia da soli». Ma farsi giustizia da soli sarebbe stato sparare contro il presunto omicida, non sparare contro persone a caso solo perché di pelle nera. (Per dovere di cronaca, va riportato che durante la diretta di SkyNews una giornalista sente necessario dire che, sparando da un’auto in corsa, il terrorista di Macerata «avrebbe potuto colpire chiunque», come se delle persone scelte a caso solo per il colore della pelle non fossero “chiunque” e lasciando trapelare il sospetto che chiunque significhi “un qualunque bianco”. Anche qui, concediamo il beneficio del dubbio.) Chi, sui fatti di Macerata, ha parlato di farsi giustizia da soli, ha detto neanche troppo implicitamente che le persone colpite erano colpevoli di qualcosa. Di cosa non si sa, a parte avere la pelle più scura. Nel frattempo gli stessi pontificavano contro Salvini, così come da tutto l’arco costituzionale, mentre invece avrebbero meritato di essere annoverati tra i mandanti morali di Luca Traini tanto quanto i leghisti e i fascisti. Chiunque metta in relazione l’omicidio di Pamela Mastropietro con i fatti di Macerata come se esistesse legame oggettivo e senza ragionare sulla costruzione sociale di tale legame, fa propria la posizione fascista e razzista di Luca Traini. Qualche giorno dopo, quindi trascorso tutto il tempo necessario per meditare le proprie dichiarazioni, Marco Minniti, allora ministro dell’Interno, conferma l’impressione che il Partito Democratico sposi essenzialmente il ragionamento razzista dell’attentatore dicendo «ho fermato gli sbarchi perché avevo previsto Traini», riconfermando di pensare che le persone vittime della tentata strage di Macerata siano colpevoli di qualcosa. Ancora, di cosa non si sa, a parte avere la pelle più scura. Pe rincarare la dose, Minniti dalle colonne dei maggiori quotidiani accusa Salvini di voler adottare politiche che porteranno a una crescita della presenza migrante in Italia, facendo propria l’idea di Salvini che questo sia un problema. Si sente parlare di “bomba sociale” in riferimento all’immigrazione. È veramente difficile spiegare di quale bomba sociale si parla senza essere razzisti.

sackoQuando il sindacalista maliano Soumaila Sacko è stato ucciso a colpi di fucile in una fabbrica abbandonata a San Calogero mentre cercava materiale per costruire la propria baracca, l’evanescente presidente del Consiglio Conte si premurava di sottolineare con indignazione che era stato ucciso «un migrante regolare», come se uccidere un migrante irregolare potesse essere un delitto meno grave. L’articolo di Repubblica che riportava la notizia scriveva, in riferimento a possibili risposte di protesta da parte degli abitanti della tendopoli di San Ferdinando, in cui vive in condizioni disumane la comunità dei braccianti stranieri sfruttati e maltrattati di cui Sacko faceva parte: «si teme una reazione all’omicidio di Soumaila Sacko». Ovvero, ci sono persone che muoiono uccise a fucilate in quanto povere e straniere e la reazione si teme invece di auspicarla. Anche nell’immaginario “antirazzista”, veicolato abbondantemente dalle maggiori testate giornalistiche italiane, e in modo particolare da La Repubblica, espressione massima della sinistra borghese progressista e illuminata, i migranti sono vittime e sono destinati a rimanere vittime: ogni iniziativa di organizzazione autonoma, di protesta, di riscatto da parte dei migranti si teme, perché comprometterebbe la loro rappresentazione smentendo l’identificazione migrante-vittima diffusissima nell’associazionismo umanitario, dove è strumentale alla coscienza pulita dell’antirazzista bianco. Si tratta dello stesso antirazzista bianco che non si indigna prima che dal report di qualche organizzazione non governativa risultino violazioni di diritti umani in Libia e in Turchia, perché finché le stesse cose sono raccontate dalle persone che le hanno vissute sulla propria pelle alle loro parole non viene dato peso o non vengono neanche ascoltate, forse perché la loro pelle è troppo nera. Non significa forse adottare esattamente lo stesso atteggiamento di Salvini che parla di «retorica in base alla quale in Libia si tortura e non si rispettano i diritti umani» quando per capire se i diritti umani sono rispettati o meno basterebbe chiederlo a un qualunque migrante che sia passato in Libia?

Ci si ricorderà anche che il giorno stesso dell’omicidio di Idy Diene a Firenze, la comunità senegalese pianse con rabbia i propri morti (Idy non era il primo, Samb Modou e Diop Mor erano stati freddati da Gianluca Casseri il 13 dicembre 2011) e improvvisò un corteo di protesta verso il Municipio, dopo un diniego del Sindaco alla loro richiesta di un incontro. Nel corso della manifestazione, due fioriere furono rovesciate. I giornalisti erano tutti intenti a dare voce ai negozianti, che dichiaravano «li ho visti distruggere, abbiamo avuto paura», ma gli stessi giornalisti rimanevano a quanto pare insensibili alla paura di essere uccisi solo perché neri. L’infelice dichiarazione di Dario Nardella, sindaco PD di Firenze, è nota: «L’omicidio di Idy Diene per mano di uno squilibrato, ora agli arresti, ha colpito tutta Firenze. Comprendiamo il dolore della comunità senegalese ma la protesta violenta di questa sera in centro è inaccettabile. I violenti, di qualsiasi provenienza, vanno affidati alla giustizia». Il razzismo di chi mette sullo stesso piano una vita umana e un paio di vasi non deve essere spiegato.

29 giugno 2017

29 giugno 2017, Marco Minniti minaccia di chiudere i porti alle ONG dopo averle demonizzate come “taxi del mare” e aver instaurato un opprimente clima del sospetto.

In generale il PD, con le sue dichiarazioni elettorali è stato l’apripista del nazismo esplicito di questo governo. In campagna elettorale Minniti era applaudito e portato alto a motivo di vanto per l’efficienza con cui era stato ed era responsabile dei rimpatri di migranti. Ancora molto dopo le elezioni, fino ad oggi, nonostante Matteo Orfini abbia ammesso il 24 maggio che «alcune scelte di governo hanno favorito lo sfondamento a destra» e che la «lettura sull’immigrazione data dal nostro governo ha sdoganato lettura di destra del fenomeno», si assiste alla difesa imperterrita di tali scelte: Gentiloni, a solo qualche giorno dall’autocritica di Orfini, si vantava di «aver ridotto dell’80% il traffico degli scafisti: fatti, non propaganda sulla pelle dei migranti». Come se bloccare i migranti lasciandoli torturare in Libia con la complicità del governo italiano e i finanziamenti dell’UE non fosse «sulla pelle dei migranti». Nella stessa dichiarazione, Gentiloni si congratulava con il nuovo presidente del Consiglio spagnolo Sanchez per la solidarietà dimostrata nella vicenda della nave Aquarius, dimenticandosi che appena un anno prima, Minniti, ministro del suo governo, aveva minacciato esattamente di fare ciò che Salvini aveva fatto (vedi immagine a lato). Bisogna sapere che la maggior parte dei migranti dell’Aquarius “accolti” dalla Spagna sono stati rinchiusi in attesa di rimpatrio e che lo stesso giorno in cui il porto di Valencia era reso disponibile per risolvere lo stallo creato dai ministri Salvini e Toninelli, le frontiere a Ceuta, dove ogni anno i migranti muoiono nel tentativo di oltrepassare le enormi barriere, venivano blindate, addirittura anche agli stranieri che ci lavorano per le pulizie.

Ma come sarà successo che il discorso pubblico si è appiattito sulla retorica razzista di Salvini? Ma di chi sarà la responsabilità? Chi ha sdoganato il razzismo istituzionale? Chi ha spianato la strada a governi apertamente razzisti? L’intera cronologia lasciamola da parte, limitiamoci invece ad una sola data: il 19 marzo 1997, quando il governo Prodi inaugura la politica dei respingimenti con il primo blocco navale italiano anti-immigranti, con la collaborazione dell’Albania per il contenimento del traffico clandestino di profughi. Il piano prevedeva un «efficace pattugliamento» delle coste dell’Adriatico e dava alla Marina disposizioni per fare «opera di convincimento» e di dissuasione per mezzo di tecniche di disturbo del traffico navale. Nel giro di pochi giorni questa politica portò ad uno dei più drammatici naufragi avvenuti nel Mediterraneo (81 morti, un numero imprecisato di dispersi, 34 sopravvissuti): il 28 marzo 1997, nel Canale d’Otranto, su ordine del governo la Sibilla, nave della Marina, insegue un barcone con a bordo oltre 120 persone finché lo capovolge e affonda. In pratica, il governo Prodi nel 1997 ha fatto ciò che il ministro Salvini oggi dice di voler fare.

«I salvataggi sono una cosa, ma andare a prenderli in Libia e portarli qui è traghettamento». Chi l’ha detto in campagna elettorale? Non potrebbe essere chiunque?

E allora?

Un ultimo punto su cui vale la pena soffermarsi è l’insistenza nel giustificare disparità di trattamento in funzione della categoria di migrante cui si appartiene. Era il 18 febbraio 2014 quando scrivevo del legalitarismo violento di parti del M5S secondo cui se non sei regolare allora devi essere respinto, espulso, rifiutato, marginalizzato, allontanato e «non si può prescindere da un sistema di trattenimento e accompagnamento forzato alla frontiera di chi va espulso, dunque non si può fare a meno di qualcosa che funzioni come un CIE». Spesso le posizioni del M5S sono cartine tornasole del senso comune, in questo caso un senso comune cominciatosi ad affermare con la Turco-Napolitano (1998) e da allora sempre più rafforzato fino ad essere accettato socialmente.

Questo vale per tutti quelli che si dichiarano, per esempio, a favore dell’accoglienza selettiva «di chi scappa dalle guerre, ma non di clandestini ovvero immigrati economici», oppure «dei rifugiati di guerra, tutti gli altri sono traffico di esseri umani» (sic!). Queste posizioni tracciano linee nette di demarcazione tra categorie di migranti determinandone l’accoglienza o il respingimento, definendo il desiderato e l’indesiderato e sottintendono tra queste categorie una differenza intrinseca e sostanziale che nella complessità del reale, in cui le identità e le definizioni si intersecano e si sovrappongono, semplicemente non esiste. Una persona che scappa da una guerra è anche un migrante economico, un migrante economico può essere regolare, quasi tutti i migranti sono irregolari prima che sia riconosciuto l’asilo politico (praticamente ormai l’unico status per essere in regola), quasi tutti i migranti che arrivano dal mare sono vittime di traffico di esseri umani (grazie alle politiche europee che impediscono di arrivare in altri modi).

Rifugiati vs clandestini,  regolari vs irregolari, profughi vs economici. Queste distinzioni servono a semplificare una realtà complessa facendo credere che sia una questione di legge, regole e ragione mentre invece si tratta solo e semplicemente di razzismo dissimulato. Qui, tutte le essenzializzazioni nascondono razzismo: dire «rifugiati sì, delinquenti no», così come «profughi sì, economici no» o «regolari sì, clandestini no» alla fine si rivela sempre un modo indiretto di dire che in realtà di migranti non se ne vorrebbero tout court, perché se si chiedesse a chi parla in questo modo di stabilire le regole, sarebbe lecito nutrire un fondato sospetto che dall’applicazione di queste ultime i migranti risulterebbero in fondo tutti delinquenti, tutti economici, tutti clandestini. Semplicemente, chi parla così, non vuole immigrati, punto e basta. Storicamente è andata esattamente così: oggi il ministro Toninelli assicura che «l’immigrazione verrà gestita nella legalità» senza curarsi del fatto che la legalità non è un valore assoluto ma un prodotto sociale e che le leggi in materia di immigrazione le ha scritte la Lega Nord, facendo in modo che fosse difficilissimo e, per molti, impossibile entrare regolarmente in Italia. Ormai è considerato normale e accettato da tutti come un fatto necessario e inevitabile che a moltissime persone è impedito ogni tipo di accesso legale all’Europa, solo perché ne sono nate fuori. Questo non è assolutamente scontato, ed è stato imposto progressivamente nel discorso pubblico fino ad diventare la norma culturale, a destra come a sinistra, tanto tra i razzisti quanti tra i presunti antirazzisti, senza distinzione. Tanto che il ministro Toninelli, quando rassicura sul rispetto della legalità, lo fa per rispondere ad accuse di razzismo. Tanto che, spesso, la risposta è che «si fa così in tutti i paesi d’Europa, sono tutti razzisti?»

In quanti sanno che si può essere razzisti anche senza dichiararsi tali e, anzi, prendendone formalmente le più sentite distanze salvo poi perpetuare materialmente un sistema di pensiero e di organizzazione sociale fondato su principi razzisti? In quanti sanno che si può essere fascisti anche senza braccia tese, camicie nere, fez e fascio littorio?

Questa è la posizione “antisalviniana” ma tutta interna al campo del razzismo: un razzismo che si dichiara solidale, umanitario, umano, che “accoglie” i migranti dell’Aquarius con una mano e blinda le frontiere di Ceuta con l’altra; un razzismo incapace di vedere che il problema non è Salvini (in perfetta continuità con Minniti) ma la normalità della xenofobia in tutto il mondo neoliberale. Come è stato osservato parlando di regime della bianchezza, «è razzista l’integrazione, sono razzisti i centri d’accoglienza, sono razziste le politiche di protezione, anche quelle che non lo sembrano. È razzista ogni politica che che riduce i migranti a “vittime” passive incapaci di articolare una propria voce. È razzista, molto razzista, Minniti e la sua legge. È razzista il mercato del lavoro che sfrutta i migranti come manodopera a basso costo».

Tutto ciò non è una costruzione teorica, ma una verità storica materiale. La posizione antisalviniana crede che il razzismo sia solo un pretesto propagandistico, un’arma di distrazione di massa per non occuparsi di altro: non vede che il razzismo è fondamento strutturale della storia e della società italiane, prima che un orpello ideologico (come argomentato benissimo qui). Non vede che invece di aprire i porti, “accogliere” rinchiudendo in campi di concentramento, gestire le persone come un problema, assicurarsi che i diritti umani vi siano rispettati, chiedere che i migranti siano smistati con umanità, indignarsi per un’emergenza che non è un’emergenza, emozionarsi per l’integrazione tramite il lavoro gratuito dei migranti per il decoro urbano nei progetti di “accoglienza diffusa”, un solo obiettivo politico è alternativo al campo razzista: l’apertura delle frontiere e i documenti per tutti, perché tutti possano viaggiare e stabilirsi dove meglio credono. L’ingiustizia del privilegio di un europeo che ha la possibilità di andare e venire a proprio piacimento nella maggior parte dei paesi del mondo, rispetto a un africano (non ricco) cui questa possibilità è negata, è ingiustificabile. È impossibile da giustificare con un ragionamento che non sia razzista.

Vale la pena di ripeterlo un’ultima volta: queste posizioni non sono realmente antirazziste, ma più propriamente “antisalviniane” e si articolano, a volte inconsapevolmente, all’interno di una cornice razzista rispetto alla quale non possono neanche pretendere di attestarsi come opposizione: si configurano, nei fatti e nella sintassi del linguaggio politico, come semplici concorrenti. E finché si resta nella stessa cornice di Salvini, vince Salvini. Non esiste oggi, a parte lodevoli minoranze, nessun argine democratico alle derive autoritarie di sapore nostalgicamente nazista.