Il feticismo dei post-it
Dedico le mie parole a tutti coloro che hanno condannato ciecamente le violenze (ostiniamoci ad etichettarle così, almeno ci capiamo, care anime belle) dello scorso 15 ottobre rivendicando la natura pacifica della manifestazione, anche se in realtà non ho intenzione di parlare direttamente di quei fatti. Ho scelto voi come interlocutori perché ritengo che il movimento (sì, mi ostino anche ad utilizzare questa parola per esprimere qualche cosa che forse in realtà non esiste) italiano debba rivedere le sue strategie per ritrovare la vitalità e l’efficacia che aveva un tempo e che prima del 15 ottobre era riuscito ad esprimere l’ultima volta verso la fine del 2003, quando era già agonizzante: e siccome voi fate parte del movimento tanto quanto me e io credo nella forza del dialogo e nelle armi della democrazia, vi dico da pari come la penso.
Non mi va di rifare discorsi che sono già stati fatti sulla questione violenza-nonviolenza e che hanno prodotto un’immensa mole di materiale su cui riflettere. Ai fini dell’argomento che mi accingo ad esporre è però necessario rimarcare come la violenza sia da considerarsi, senza esprimere giudizi morali, uno strumento come tanti altri: può essere lo strumento del potere che si difende, del capitale che sfrutta, della mafia che minaccia, dell’autonomo che lancia il sampietrino, e come ogni altro strumento può essere usato bene o male, da intendersi come efficacemente o meno. Per esempio, i fatti dimostrano che la violenza del 15 ottobre è stata poco efficace per il raggiungimento degli obiettivi che ci si proponeva di raggiungere (a parte quello immediato di alcuni: esprimere un disagio, lanciare un segnale di rabbia e frustrazione).
Ma sarebbe stata efficace la strategia che auspicavano quei tanti che intendevano recarsi a Roma per esprimere coloratamente o coloritamente la loro “indignazione”? Fa davvero paura al potere un corteo di centinaia di migliaia di persone, anche di un milione di persone, se queste camminano insieme, piantano tende, intonano cori? O fa forse più paura una folla di qualche decina di persone che minaccia di chiudere il proprio conto in banca?
A chi condanna la violenza a priori vorrei ricordare che quando la violenza l’hanno praticata in Tunisia e in Egitto andava a tutti bene, anche ai giornalisti de La Repubblica che una settimana fa invitavano alla delazione di massa di coloro che potevano aver preso parte al respingimento delle cariche della polizia in piazza San Giovanni. Ma certo, in Egitto sono sporchi e con la pelle scura, in più parlano arabo e sono musulmani, quindi la violenza la possono usare perché sono degli animali, perchè sono violenti: questo è il messaggio implicato nella morale di certa informazione perbenista. Tanto che quando, in primavera, la protesta stava migrando dal mondo arabo alla più civile Europa (prima in Croazia poi in Spagna), i giornali occidentali inizialmente hanno pensato bene di non parlarne.
A chi si illude di cambiare le cose solo accampandosi in una piazza a oltranza, come al Cairo, ricordo che l’occupazione di piazza Tahrir è stato un evento riuscito e di grande successo, efficace e non solo simbolico, grazie a successive ondate di scioperi che hanno paralizzato l’Egitto per settimane prima e durante la lotta di piazza.
A chi ripete meccanicamente, come un bambolotto parlante, lo slogan «no alla violenza», vorrei ricordare cos’è la nonviolenza: una pratica attiva di resistenza a leggi o decisioni che si ritengono ingiuste. In altre parole: disobbedienza civile. E vorrei ricordare sempre a costoro che Gandhi, con le cui parole si riempiono la bocca e adornano gli striscioni, in India non ha vinto standosene seduto davanti alle forze di occupazione inglese o prendendo manganellate insieme a migliaia di persone, ma boicottando il sale inglese e permettendo agli autoctoni di riappropriarsi di un bene comune da sottrarre alle grinfie dell’Impero.
Questo quindi si deve fare: ripartire dai beni comuni, dalla loro socializzazione, dal consumo critico. Ciascuno è importante. Inutile protestare contro la finanza con indosso un paio di scarpe fabbricate da bambini bengalesi, dei jeans scoloriti a costo di compromettere la salute degli operai che li hanno raschiati, una maglietta prodotta da lavoratori cinesi sottopagati, il tutto pubblicizzato attraverso i più infimi sistemi di controllo mentale magari da aziende quotate in borsa, la borsa che tanto si critica. Vano sputare nel piatto da cui si mangia: bisogna imparare a mangiare da un altro piatto. E dopodiché, invitare altri a mangiare dal nostro.
Sia chiaro che non sto proponendo la ricetta che ci libererà dal male, ma semplicemente un poco di coerenza e un poco di riflessione sul significato della nostra azione politica: il consumo critico è solo un modo per tirarsi fuori dal problema, ma non ancora di far parte della soluzione. Il consumo critico da solo non basta. Neanche gli scioperi da soli bastano. Le acampadas da sole non bastano. Tutti questi eventi devono essere espressione di un’unica Lotta, con la maiuscola, che le unifica tutte (io direi che è quella contro l’Ancien Régime). Senza la coscienza della necessità di tale unificazione, ogni singolo tassello sarà troppo piccolo per formare un’immagine sensata.
Avete tutti una scelta, a questo punto: o, in virtù del vostro “pacifismo nonviolento” continuate ad aderire ad appelli online, raccolte di firme e petizioni, mandate i vostri post-it a La Repubblica e affiggete i vostri striscioni e le vostre lenzuola per far contenta L’Unità (che poi in fondo, cosa cazzo sperano di ottenere?) oppure vi inventate un altro modo di praticare la nonviolenza. Anzi: la praticate e basta, niente feticismo dei post-it.
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Hai ragione Piero: tutti ripetono quasi compulsivamente “no alla violenza”, soprattutto dopo le scene del 15/10, però non arrivano alla conclusione che Gandhi ha fatto qualcosa di concreto e non si è limitato ad accamparsi, ma ha boicottato un sistema. Sono convinta che il boicottaggio sia un efficacissimo strumento di rivolta pacifica (nel senso non violenta, ovvio) il problema è che al consumo dei beni necessari a basso prezzo E ai beni di lusso pur sempre importati nessuno vuole fare un’operazione di boicottaggio. Forse la mia è un’idea strana però quello che penso è che se ci immedesimassimo in una famiglia con un reddito basso (ma basso davvero), ci penseremmo 10000 volte prima di comprare prodotti made in Italy che costano un occhio della testa. Cioè, se io mi rendo conto che facendo determinate cose rimescolo le carte dell’economia, non è detto che riesco a convincere gli altri “a mangiare dal mio nuovo piatto”. Sempre per il motivo che ho detto prima. La diversità sociale si è fatta così polarizzata che sarebbe impossibile sovvertire il sistema perchè la stragrande maggioranza delle persone non sarebbe minimamente disposta a spendere e spandere per beni che alla fine non aveva tutta questa gran voglia di avere, in fondo, si accontentava anche dei jeans scoloriti perchè costavano 5€ anzichè 50.
come sempre condivido tutto, io non credo che sia impossibile una efficace forma di boicottaggio economico, almeno non impossibile teoricamente, ma la pratica si scontra sempre sempre SEMPRE S E M P R E con la stessa faccenda: l’80% (oggi sono buono) degli umani sono coglioni incapaci di analizzare un testo più complesso della cartina dei Baci Perugina
Quasi totalmente d’accordo. Due cose però mi lasciano perplesso.
La prima: è veramente possibile un consumo equo-etico-solidale-critico e quant’altro? Non è questione della diffusa stupidità, come dice Nello: purtroppo spesso un consumo-non-consumo è solo alla portata dei ricchi più ‘attenti’ – quella media borghesia che vuole e può lavarsi la coscienza. A noi poveri non resta che lottare con altri poveri(ssimi). O tornare al saio di juta e alla maglia di lino – se riuscissimo nuovamente a coltivarli…
La seconda: non sono certo che la socializzazione sia la via migliore. L’esito più verosimile, infatti, è la cosiddetta “tragedia dei commons” – solo chi possiede un bene sarà invogliato a tutelarlo. (Purtroppo qui entriamo nel terreno scivoloso della proprietà, di fronte alla quale perfino gli anarchici si scannano almeno dai tempi di Stirner…).
(Ok, ho ripetuto delle cose che aveva già detto Chiara).
Rileggendo l’articolo ora, ho l’impressione che quello che ho scritto non sia chiaro: mi sembra di aver parlato troppo di consumo critico e di decostruzione e troppo poco di azioni di costruzioni di alternative all’esistente. (Mi sembra anche di aver inserito troppi link, me ne scuso.)
Ma per fortuna posso ancora rimediare spiegandomi meglio, soprattutto dopo aver letto il commento di Chiara che mi ha fatto capire dove avevo sbagliato a scrivere: nella parte in cui scrivo che non capisco chi «protesta contro la finanza con indosso un paio di scarpe fabbricate da bambini bengalesi, dei jeans scoloriti a costo di compromettere la salute degli operai che li hanno raschiati, una maglietta prodotta da lavoratori cinesi sottopagati» davo per scontato che le parole centrali del discorso fossero bambini, salute, sottopagati e non, come Chiara fa intendere di aver recepito, bengalesi, scoloriti, cinesi. Ci mancherebbe altro! Se è passato il messaggio che boicottaggio significa comprare made in italy mi metto le mani ai capelli!
Questo fraintendimento continua quando il mio invito a «imparare a mangiare da un altro piatto» viene scambiato per un invito a incentivare l’economia italiana. Non esiste l’economia italiana: il sistema è globale e globalizzato, le merci italiane non inquinano meno di altre né arricchiscono padroni meno cattivi di altri.
Imparare a mangiare da un altro piatto significa autoproduzione, autoformazione, autoinformazione; senza che tutti questi “auto-” comportino autoreferenzialità della protesta e della lotta. Il messaggio che volevo comunicare nell’ultima parte dell’articolo è proprio questo: i vari “auto-” non sono ancora lotta, ma secondo me ne sono un presupposto perchè implicano autocoscienza.
Quando, Chiara, tu scrivi «la stragrande maggioranza delle persone non sarebbe minimamente disposta a spendere e spandere per beni che alla fine non aveva tutta questa gran voglia di avere» dici esattamente ciò che voglio dire: decrescita e riappropriazione di ciò che è umano, uscita dallo stato di minorità dell’homo oeconomicus e riconquista della humanitas. Poi, detto tra noi, ho tirato in ballo i jeans scoloriti non perchè sono di moda (neanche so se è vero) ma perchè la loro produzione implica un processo di raschiatura del tessuto che comporta danni alla salute degli operai: era un esempio di scarsa attenzione ai lavoratori in nome del profitto.
Rispondo anche a Nello: la frustrazione per la situazione attuale non deve prendere il sopravvento. Non credo che l’umanità e il suo Q.I. medio fossero migliori nel 1871, nel 1798 o nel 1968, tuttavia allora c’erano le condizioni per un cambiamento e qualcuno ha avuto l’opportunità di far tremare il potere. È tutta una questione di circostanze.
Scusami Davide, scrivevo mentre tu avevi già pubblicato il tuo commento.
La questione della realizzabilità di un qualsiasi progetto di consumo critico si può discutere se ci mettiamo d’accordo (e penso che lo siamo) sul fatto che la necessità primaria, prima ancora che praticare un “consumo alternativo”, sia quella di ridurre il consumo in sé. Il consumo, nella società di massa, credo sia sempre una pratica di assoggettamento; quindi in linea di principio è la sua riduzione ad essere una pratica di liberazione. Preciso che naturalmente la riduzione o l’eliminazione non passano necessariamente dal rifiuto luddista del consumo e dei suoi simboli (merci e vetrine), altrimenti sosterrei la necessità di spaccare bancomat e negozi.
Per evitare che la lotta sia corporativa e NIMBY (della serie: «lotto per lavorare meno e se lo ottengo la lotta finisce»), secondo me, si deve avere ben chiaro che si lotta per la liberazione dai consumi intesi come espressione dei rapporti di forza del sistema liberista.
Insomma, voglio dire, è necessario tutto ciò? Questo dalle mie parti si chiama assoggettamento alla merce: è lei che ti possiede.
Sul presupposto della decrescita e della diminuzione dei consumi siamo più che d’accordo (del resto la carenza di moneta circolante o la sua svalutazione rendono questi processi una necessità, il che non è necessariamente un male); solo, chi non ha grandi possibilità economiche non avrà molta scelta: dovrà comprare merce prodotta mediante sfruttamento di gente ancor più povera di lui. Certo, magari non finanzierà le multinazionali: i suoi acquisti avverranno in discount, stock e outlet – ma così facendo avremo risolto il problema solo a metà, o anche meno.
Salve Monsieur, fa molto “Fight club” il discorso che fai e lo dico con accezione positiva, non fraintendermi.
Sono d’accordo su molti punti, ma trovo tutto così utopistico, non perché lo sia effettivamente perché parliamoci chiaro, togliere i soldi dalla banche o altre forme di boicottaggio (su cui possiamo discutere dell’utilità) sono concrete, facili e pratiche, bensì per la calma, quella calma piatta che regna sempre in Italia, dove sembra che tutto resti sempre com’è e le cose avvengano dietro le quinte.
La chiamerei una mesta arresa al potere verso cui la maggioranza (e per maggioranza intendo la vera maggioranza di questo Paese ovvero quelli che si astengono) si sente impotente, si tappano le orecchie, si turano il naso, fanno finta di non vedere e pensa al proprio orto e le cui soddisfazioni (o masturbazioni) sono gli sconti o una vacanza in qualche villaggio turistico.
Prova a parlarne in giro di fare qualcosa che vada oltre la petizione di Repubblica o la raccolta firme dell’IDV o di Beppe Grillo, ti prendono per pazzo, ti dicono che non sono più gli anni ’70 etc.etc., la lobotomia è completata.
Questa è la vera grande tragedia.
Ps. Ti do un link anche io: http://ildeboscio.com/2011/10/16/criminali/
…i suoi acquisti avverranno in discount, stock e outlet – ma così facendo avremo risolto il problema solo a metà, o anche meno.
È proprio quello che cercavo di dire nell’articolo e che poi mi è sembrato opportuno rimarcare visto il fraintendimento che mi sono reso conto di aver provocato: il boicottaggio è una cosa buona perchè implica consapevolezza, ma non risolve il problema bensì è una maniera di non farne parte (nei limiti del possibile). In effetti si dovrebbe fronteggiare efficacemente il rischio (concreto e già appurato) che diventi un modo per lavarsi la coscienza, come dici tu, e questo rischio si fronteggia capendo che il boicottaggio è uno dei tanti tasselli e non l’unico, così come gli scioperi sono un’altro dei tasselli ma non sono sufficienti se li fai e il giorno dopo spendi cento euro per le scarpe Nike o 500 euro per il nuovo iPod (vedi notizia sotto).
Non sono d’accordo in generale sul discorso che fate secondo cui i prodotti delle multinazionali costano di meno di altri. Dipende molto dai singoli casi. Se un paio di scarpe vale una ventina di euro ma le paghi un centinaio allora stai comprando un logo e la pubblicità. In questo caso, anzi, sarà al contrario: il meno abbiente comprerà a 25 euro delle scarpe che valgono 20. Non è vero, in generale, che il boicottaggio fa spendere di più.
Se poi a questo aggiungiamo pratiche di autoproduzione, il discorso ha molto più senso: i pomodori e le patate non le pago né 3 né 10, le ho gratis dalla terra e sono anche contento di averle coltivate; oppure mi metto in contatto con un Gruppo di acquisto solidale e spendo “il giusto”.
Ciao Dave, ti ringrazio per aver contribuito al dibattito.
Anche io mi guardo intorno e vedo gente sostanzialmente pigra, superficiale, che rinuncia subito ad andare avanti e a spingersi nella lotta se questo compromette più di un quarto d’ora di “tempo libero” o la possibilità di compiere qualsiasi azione senza dover stare lì a pensare se è giusto o sbagliato farla e che aspetti sociali, politici e “umani” implica. Però, come ho già detto a Nello, mi solleva pensare che forse in altre epoche le cose non andassero così tanto meglio di ora e che gli uomini siano sempre stati in qualche modo “lobotomizzati”. Ci serve per questo una serie di eventi catalitici che prima ancora di risvolti sociali o economici deve averne nella sfera personale, quotidiana, umana: ogni progetto di reale cambiamento deve passare per la riappropriazione di relazioni, di socialità, di humanitas. Io confido in questo e ci provo ogni giorno.
Ps. ho guardato il tuo blog, la parte sulla maglietta di Zizek è senz’altro la migliore. 🙂
condivido i dubbi già espressi nei commenti riguardo al consumo critico, e vorrei fare un’altra precisazione.
mi sembra che nel tuo articolo manchi un fatto fondamentale: i disordini durante il corteo del 15O sono stati – almeno in parte – architettati come un sabotaggio della manifestazione da parte di alcuni di coloro che avevano aderito. non dimentichiamocelo questo.
con questa precisazione non mi metto assolutamente dalla parte di casarini & co.
Ciao Adrianaaaa, se ti riferisci a questa frase:
«…la violenza del 15 ottobre è stata poco efficace per il raggiungimento degli obiettivi che ci si proponeva di raggiungere (a parte quello immediato di alcuni: esprimere un disagio, lanciare un segnale di rabbia e frustrazione).»
con “obiettivi che ci si proponeva di raggiungere” intendevo quelli condivisi dalla maggioranza, cioè la lotta alla crisi e alle sue cause. Il fatto che poi una minoranza fosse interessata al sabotaggio della manifestazione perchè non condivideva con il resto del corteo le forme e le strategie da adottare in piazza è stato già ampiamente discusso su Giap e su tanti altri spazi sia virtuali che (purtroppo un po’ meno) concreti, come entrambi sappiamo. Eppure non penso che tutti coloro che hanno di fatto sabotato la manifestazione avessero l’immediata intenzione di farlo: voglio dire, a volte se sei incazzato sei incazzato, non so se hai visto quella parte del documentario di Santoro del 18/10 in cui un uomo col passamontagna e un forte accento campano spiega di non essere pazzo (minuto 36:25).
L’idea del consumo critico è una buona idea, ma è incompleta, perché non s’innesta in quella logica global-local di cui bisognerebbe che i soggetti rivoluzionari si facessero padroni.
In sostanza non è solo una questione di produzioni critiche, ma di sostegno della produzione locale, in contrasto con quella che viene dal resto dello stato. E’ una produzione a costi ridotti, che aiuta i processi d’occupazione locale.
Voiglio portare esempi pratici, che sono quelli di cui in questa sede si richiede fortemente la necessità. I prodotti dell’allevamento a Ragusa sono, per esempio, fortemente competitivi, ma il loro sistema è vecchio, tarda a modernizzarsi e in campagna si vivono contrasti tra laureati in agraria e vecchi allevatori; in più non c’è nessun interesse critico-ambientale nei vecchi lavoratori della terra, mentre i ragazzi sono piuttosto vicini al pensiero ecologista. Il loro prodotto sarà sempre vincente a Ragusa? Non penso. Se i nuovi allevatori pensassero a come organizzarsi per prodotti competitivi non solo per il mercato strettamente locale, ma anche per i competitors che arriveranno in futuro, potranno vincere con facilità la sfida alla globalizzazione. E la produzione critica, che ricalca e migliora i sistemi tradizionali, può solo avvantaggiarli contro il prodotto cinese. In più la qualità, la fideizzazione e i costi bassi renderebbero il prodotto locale imbattibile.
Ora, lo scopo di quest’esempio è dire che se i produttori locali si organizzano in rete possono assicurare un sistema produttivo più umano. Se poi producono più criticamente, possono essere sicuri dei risultati.
Il problema quindi non sono tanto i consumatori, che saranno sempre inamovibili, stregati dal mastro lindo di turno e da un Magalli alla tv, ma i produttori locali. E’ interesse dei produttori cambiare logica, mentre ai consumatori, per cambiare, servirebbe uno scossone divino.
bene, mi inserisco a discussione già molto inoltrata. Ricalcando un pò il pensiero di jack, credo che potrebbe essere più efficace partire dalla produzione, in quanto i produttori hanno, oltre che una motivazione etica, una motivazione economica. Per non parlare del fatto che un’azione dei produttori in questo senso faciliterebbe di molto la strada al consumo critico.
A Torino, ad esempio, quando compro le arance, guardo la provenienza. Arrivano prima quelle sud americane, poi le spagnole ed infine le siciliane. Non me ne compro finchè non arrivano quelle siciliane. Non è patriottismo, è solo che non capisco alcune cose: in Brasile non ne mangiano arance? E quanto si inquina di più per trasportarle da un altro continente? e infine, perchè noi dobbiamo mangiare le arance brasiliane mentre gli agricoltori del sud sono in bancarotta e la regione sicilia gli da i fondi per distruggere le coltivazioni??? allora, siccome posso fare a meno delle arance, aspetto che arrivino quelle siciliane.
Ma il problema non è solo questo. I produttori italiani vengono pagati miseramente rispetto a quanto i prodotti sono poi venduti al dettaglio. Ciò mi fa pensare che il problema stia al centra della catena, in chi si occupa della distribuzione.
Allora, se i produttori si organizzassero, ad esempio in consorzi, e si occupassero direttamente loro della distribuzione, magari dando un’impronta pure ecologica alla produzione stessa, creerebbero un circuito economico alternativo che alimenterebbe il consumo critico.
Infine, ho da ridire su una cosa che hai detto, Piero. Quando dici che non è vero che il boicottaggio costa di più, portando come esempio il meno abbiente che compra le scarpe da 25 euro, credo che trascuri delle cose. Quando io penso al boicottaggio, penso al boicottaggio di merci prodotte senza alcun criterio ecologico e di sostenibilità dello sfruttamento delle risorse, senza alcun rispetto di equi salari ed equi orari di lavoro, penso al boicottaggio di prodotti delle multinazionali occidentali che producono in cina e rivendono qui a prezzi esorbitanti, ma penso anche al boicottaggio delle merci delle multinazionali cinesi che vendono le scarpe anche a dieci euro, ma sono prodotte con le stesse tecniche di cui sopra. E se il boicottaggio è questo che ho cercato di delineare, io e molti altri non ce lo possiamo permettere. Io uso solo scarpe da 20 euro, e d’altronde non saprei dove comprare delle scarpe prodotte civilmente. Certo poi hai detto pure che il boicottaggio non è la soluzione ma una parte di essa, il che vuol dire che si pratica fin dove si riesce. E come sempre hai detto tu, è anche una questione di riduzione dei consumi: infatti non ho 10 paia di scarpe e per le arance aspetto! 😀
Dico davvero l’ultima cosa. Esistono anche azioni di boicottaggio che possono essere fatte mirate e per breve tempo, solo ai fini di scuotere il sistema. Come qualcuno ricordava, il prelievo simultaneo del denaro dalle banche, piuttosto che il boicottaggio di una grossa banca italiana, o non comprare più benzina per due giorni. Anche queste non sono soluzioni, ma penso che potrebbero essere inserite nel contesto dei vari modi di protestare che andrebbero fatti tutti insieme.
@Jack: “Produzione critica”. Ti ringrazio per aver trovato le parole adatte. In verità questo concetto, che tu esponi come speculare alla mia considerazione del consumo critico, è un suo complementare. La scelta del consumatore è indice di consapevolezza, la scelta del produttore è indice di forse ancor maggiore consapevolezza. Se domani dovesse esserci un tentativo di creare una rete del tipo di cui tu parli o di ampliarne una già esistente, non vedo come potrei respingere l’idea. Il fatto che io parli di consumo critico non significa che altre strategie non vadano bene, anzi mi pare di essere stato chiaro su questo punto: il consumo critico non può essere una strategia, perchè non raggiunge i suoi scopi ultimi, ma va piuttosto accostato ad altre azioni ed usato come mezzo di cui servirsi all’interno di una strategia (i.e. non può essere fine a se stesso).
@Andrea: faccio notare come in quest’ottica la tua azione per favorire una produzione sia una scelta da parte del consumatore. Evidentemente, se i produttori fanno la produzione critica ma poi non c’è coscienza da parte dei consumatori per praticare un consumo critico, allora si fa un buco nell’acqua. Servono entrambe le cose, non è questione di aspettare «uno scossone divino», come scrive Jack, ma di fare in modo che i due processi (produzione e consumo) si catalizzino reciprocamente: già esistono centri di contatto diretto tra produttore e consumatore, volti ad evitare i dubbi processi di smistamento, distribuzione e trasporto (inquinante e insensato) in ogni angolo del pianeta, oltre che il fisiologico aumento del prezzo quando la merce passa da un anello all’altro della catena.
Sull’ultima cosa che scrivi, sui boicottaggi mirati, io ho molto da ridire. Per oppormi consumismo sfrenato non ho bisogno di fare rinunce, perchè la rinuncia implica sempre una valutazione positiva di ciò che si perde. Non mi serve sdegnare la benzina per due giorni consecutivi, penso che sia molto più importante farne un uso consapevole per tutti gli altri giorni dell’anno (per esempio prendere la bici o andare a piedi quando si può).
Così come non ho bisogno di dire (per inciso, non che centri molto con il tuo specifico intervento) che boicotto una multinazionale quando mi rifiuto di comprare un suo prodotto: è una questione forse più umana che politica, se non lo compro è perchè non sono indifferente.
Ma infatti sono d’accordo con te sul fatto che siano complementari.
Per quanto riguarda i boicottaggi mirati, è ovvio che nell’ottica di un consumo critico alla benzina, ad esempio, ci sto attento tutti i giorni, però immagina che botta può essere per una settimana fatturare la metà di quanto si fattura solitamente. Voglio dire, non è una questione di valutazione positiva, però certe volte è ancora inevitabile non ricorrere alla benzina (sempre per restare nell’esempio), quindi si, privarmene completamente per una settimana è un sacrificio.
Sottolineo comunque chee queste cose le dico nell’ottica che ogni piccola azione, associata a tante altre, ci possano portare ai nostri fini.
Entro in questa discussione con un po’ di ritardo ma prima d’ora non ho avuto modo di leggere per beene questo post così da poterlo commentare.
Non sono cose sbagliate quelle che ho letto fino ad ora in questo post, così in molti dei commenti, ma non riesco a credere che si possa avviare un consumo critico e selettivo, in modo da poter mangiare nel “proprio piatto”. Sarà che io sono molto sfiduciato, ma sono fortemente convinto dell’idiozia umana di cui ahimè anche io so di far parte.
Riuscire a capire quel che hai detto per molti, a mio avviso, è difficile. Riuscire a farlo capire ancora di più. Riuscire ad applicarlo mi pare quasi impossibile.
Come si potrebbe sradicare l’insieme di abitudini di tutta società?
Giancarlo, alias LaSaboteur
[…] Pensato e scritto da: Monsieur en Rouge […]
@Andrea: mi sa tanto che una tattica di questo tipo (boicottaggi mirati e circoscritti nel tempo) rischia di diventare un ulteriore modo per lavarsene le mani, al pari di una petizione su La Repubblica. Certo, in questo caso c’è coscienza dei meccanismi economici, ma se uno ha realmente coscienza di tali meccanismi, perchè applicarli una volta all’anno?
@LeSaboteur: mangiare nel proprio piatto è ciò che si cercava di fare durante gli scioperi del Novecento. Allora era più facile per la forte coscienza di classe, ma io non credo che oggi sarebbe impossibile e comunque tentar non nuoce: ci sono tante comuni sparse per l’Europa 😉
Non lasciamoci prendere dalla frustrazione e dalla certezza di fallire, quella lasciamola a Winston Smith.
«Come si potrebbe sradicare l’insieme di abitudini di tutta società?»
È quello che si chiama rivoluzione.
Sì, si chiama rivoluzione. Ma i suoi effetti quanto durano? Le idee infervorano gli animi per una, due o tre generazioni al massimo.. la storia ce lo prova. Se poi le cose andranno meglio, che ben venga!
Serve un’adesione di massa ad una nuova forma di protesta, che potrebbe essere la scelta etica: non frequentare più, non fornirsi più, non usufruire più di tutti quei servizi, cose, cibi, di cui si è certi della mancanza di etica; ancora meglio: uno sciopero silenzioso ad oltranza, ognuno nelle proprie case, facendo solo l’essenziale, tirando la cinghia al massimo per sganciarci dall’attuale modo di vivere. Non ho letto tutti i commenti, forse qualcuno ha già detto le stesse cose, o forse sono solo un pazzo visionario.
In disaccordo con la becera logica uniformante del rifiuto della violenza senza distinzione, così di moda in questa Italia buonista e invertebrata, vorrei ricordare che partigiani e alleati nel ’45 non hanno cacciato i tedeschi con discorsi affabili e mazzolini di mammole.
Quindi smettiamola di condannare aprioristicamente la violenza, e cominciamo a fissare quali sono i paletti oltre i quali il ricorso alla violenza diventa eticamente accettabile e necessario.
@LeSaboteur: E quindi? Meglio lasciar fare? Stiamo a guardare? Chi non lotta ha già perso.
@robybulgaro: Non direi che il consumo critico è una “forma di protesta”. È l’adesione consapevole ad un rifiuto. Non lo si pratica per protestare contro qualcosa, ma per non rendersi complici di qualcosa: ecco perchè dico che da solo non è sufficiente.
@Nello: Penso che anche fissare dei paletti non sia la tattica migliore, perchè comporta già un ingabbiare le proprie strategie di azione in schemi predefiniti. Dire «dopo questo limite si fa così» non funziona, perchè non c’è una pratica di liberazione universale. Il si fa così è proprio ciò che ha distrutto i molteplici movimenti della storia italiana una volta giunti al culmine della partecipazione, perchè ha ostacolato l’elaborazione di nuove forme di lotta; è un po’ come l’ipse dixit, che impose il pensiero aristotelico durante tutto il Medio Evo e ritardò notevolmente la nascita del metodo scientifico.
Per evitare fraintendimenti, preciso un aspetto della questione discussa nel mio ultimo commento, nella parte in risposta a Nello.
Ho scritto che ritengo che «fissare dei paletti non sia la tattica migliore». Mi correggo: fissare dei paletti sui metodi di certo non è la tattica migliore; anzi è proprio ciò che porta i movimenti a dividersi e molte persone dei movimenti e non a condividere una logica giornalistica di distinzione tra “buoni” e “cattivi”; d’altro canto, fissare dei paletti sugli obiettivi e i principî, quella sì che è una tattica vincente (è la tattica che permette al movimento NoTav di esistere da decenni senza indebolirsi!). Per questo l’intransigenza sull’antifascismo è necessaria, ma l’intransigenza sulla violenza è deleteria.
sono perfettamente d’accordo