Ripensare il tempo della fine

Sulla necessità di una risposta cosmologica al tempo della fine, che parta dalle forme di vita prima che dalle loro rappresentazioni.

Poco meno di dieci anni fa, quando questo blog era molto più frequentato, il baricentro del dibattito online non si era ancora trasferito sui social network cronofagi e totalitari e l’elaborazione del pensiero collettivo non rispondeva ancora del tutto a logiche prettamente pubblicitarie e commerciali, ci fu un periodo in cui chi scrive si trovò in quella che un’amica e commentatrice suggerì di descrivere come un’aporia, ovvero in termini filosofici una “difficoltà di fronte alla quale viene a trovarsi il pensiero nella sua ricerca”. In effetti, una riflessione dopo l’altra, i miei scritti parevano ribadire le stesse identiche cose, magari da angolazioni diverse o in loro diverse sfumature, ma sostanzialmente ruotando intorno ad un unico problema, che si faceva tanto insistente da occupare tutto lo spazio come il proverbiale elefante nella stanza, finché non potei fare a meno di vederlo. Questo problema, che mi pare oggi ovvio, era l’innaturalità del capitalismo. Stavo allora prendendo coscienza del carattere sociale, dunque costruito, di ogni suo aspetto, da cui derivava anche la possibilità di infiniti altri modi di organizzare la società umana e i suoi rapporti con il resto del mondo. Ecco dunque un fioccare di scritti in cui mi scagliavo contro i seguaci anche inconsapevoli della dottrina impossibilista del pensiero unico che uccide ogni alternativa additandola non già come malvagia ma addirittura come impossibile, argomentavo contro il pensiero debole che non aspira più a sistemi onnicomprensivi e a progetti di emancipazione globali, ma solo a forme specifiche di resistenza e intervento, criticavo chi rifiutava o non vedeva la necessità di cambiamenti strutturali e mi ergevo a difesa di una decostruzione e demistificazione dei meccanismi del sistema capitalista. Notando l’ossessione per l’argomento, la mia amica scriveva di non capire se avessi io bisogno di convincermi di quanto affermavo, oppure se la mia testa fosse incappata in un’aporia: a distanza di anni, non so quale delle due ipotesi fosse più aderente alla realtà, ma è certo che da allora ne sono stato convinto sempre più profondamente.

In quei mesi, uscivo da una fase di apprendimento e di formazione personale e politica che mi aveva portato a credere nella forza della ragione pura, nella possibilità di condurre la lotta su un piano prettamente morale e nella fiducia ingenua nell’individuo che, dotato di una razionalità propria, scevro da condizionamenti e da interessi materiali in gioco nella sua determinazione sociale, avrebbe compreso le ingiustizie del mondo e si sarebbe adoperato di conseguenza per eliminarle. Pensavo allora che i fascisti si potessero sconfiggere nel libero mercato delle idee e che spiegando ai capitalisti che i loro interessi distruggono il pianeta e con esso tutta l’umanità essi avrebbero optato autonomamente e liberamente per un sistema più giusto, presi dai rimorsi e da un profondo senso di responsabilità, senza forzature e rinunce, senza nessun rapporto di forza che li obbligasse a farlo. I limiti di questo pensiero prettamente liberale mi sono oggi talmente evidenti che li attribuisco all’immaturità politica di un adolescente appena uscito dal liceo e spesso non esito a pronunciare con disprezzo il termine “liberale” ed usarlo per insultare, come meritano, quelli che storicamente sono stati i mandanti dei fascisti. Dalla presa di coscienza di questi limiti nasceva la difficoltà di fronte alla quale il mio pensiero si era venuto a trovare nella sua ricerca, e dal superamento di essi prendeva forza l’approccio del materialismo storico e del marxismo libertario che mi anima ancora oggi e che mi rende “autonomo, benecomunista, centrosocialista”.

Oggi esiste un nuovo limite. Non si è manifestato come un serie di scritti pubblici monotematici, perché prima di porsi come problema politico consapevole ha affollato le pagine di un diario personale. In esse, una sorta di tensione ha assunto le sembianze di sensazioni, pulsioni vitali, creazione poetica: una continua e amarissima insoddisfazione ha riempito progressivamente i miei scritti e ne ha nutrito per anni parole e immagini, costellandole di sentimenti contrastanti ma rivolti nella medesima direzione. Non andrò a recuperare quelle pagine per trascriverne i contenuti, ma esistono degli elementi ricorrenti. Per esempio, la figura del filo che connette i nodi in reti di interdipendenza, rendendo ciascuno un nodo, ed è un filo di cui non ci si accontenta di appurare l’esistenza, ma che si vuole sentire, toccare, percepire. O ancora, l’idea della vita che resiste sempre e comunque, che sia sotto forma di steli di gramigna a bucare il manto stradale, di una famiglia di pescatori in riva ad un lago inquinato di petrolio, o di un odore di storia dietro il vetro rotto della finestra di uno stabile abbandonato, lasciato all’incuria e poi rioccupato, e si tratta di una vita spontanea, immediata, più reale e più libera di qualunque sua rappresentazione. Altra immagine, quella del tempo che scorre sotto gli occhi increduli di persone che non riescono a capacitarsene e vivono tutto come un sogno o come un incubo senza più tempo, in una specie di eterno ritorno, un senso di apice ormai toccato e destinato alla coazione a ripetere e in cui tutto sfugge, più nulla appartiene. E infine: la fuga dal simbolico, in linea con il prevalere etico delle forme di vita sulle loro rappresentazioni, quindi una fuga dalla legge, dai codici, dalle azioni dimostrative, dai linguaggi velleitari, ma si tratta di una fuga contraddittoria, perché anche i fili, gli odori, la vita sono tutti simboli e forse non c’è nulla di dicibile che non lo sia.

Questo testo, in dichiarata continuità con quell’approccio di libera creazione di immagini, non ha nessuna pretesa di essere scientifico. Intende illustrare, se possibile, il portato di considerazioni innanzitutto molto personali e difficili da trasmettere, sapendo che esistono delle sensazioni che parlano a tante persone anche se non possono rendersi a parole, e nella speranza che si tratti di sensazioni di quel tipo. Quanto provo a riportare qui è uno spaccato di vissuto interiore, non so in che misura sia generalizzabile.

Mi trovavo in un’impasse. Perché tutti quei riferimenti all’esperienza sensibile? Perché le metafore sulla vita, i fili, gli sguardi? Perché le certezze emergenti, i pensieri sull’indicibile fine del mondo? Perché il continuo, quasi ossessivo ricordare la separazione incolmabile tra vita e legge? Quando si gira intorno ad un concetto senza trovarne le parole si sta vivendo un limite del linguaggio. Non a caso ho scritto che non c’è nulla di dicibile che non sia anche un simbolo: forse cercavo qualcosa di indicibile che non potesse quindi diventare simbolo? In realtà, non era dai simboli che intendevo fuggire, ma dal linguaggio che mi fa trasformare in simboli anche i fili, gli odori, la vita. È un imponente sistema di chiavi di lettura della realtà a cedere sotto i colpi sferzanti dell’esperienza, e non a caso, altrove, parlo di queste chiavi come di un “cordone ombelicale”, che ci è necessario e ci nutre durante la gestazione, ma per condurci ad un nuovo modo di conoscere la realtà usando sensi ormai sviluppati ma ancora sottoutilizzati.

L’uroboro, leggendario serpente che si morde la coda assurto a simbolo dell’eterno ritorno e della natura ciclica delle cose.

So che è molto vago, e che queste parole sembrano avere più il carattere della rivelazione mistica e religiosa, ma se la comunicazione verbale è così insoddisfacente è perché appunto manca proprio il linguaggio per descrivere il nostro tempo. Viviamo in un’epoca simile alla prima metà dell’Ottocento, in cui le classi dominanti intessevano un nuovo ordine, rimodellavano le strutture dell’organizzazione sociale in forme ad esse più vantaggiose, ridefinivano le condizioni di vita di centinaia di milioni di persone, mietevano vittime, avanzavano apparentemente incontrastate. Non c’era ancora un movimento operaio internazionale organizzato, né una dottrina politica capace di riunirlo, non c’era una classe in sé; eppure, si diffondevano pratiche di sabotaggio, si costituivano reti informali di mutuo aiuto, si accendevano sporadiche rivolte, proteste e scioperi, tentativi di insurrezione che non trovavano ancora parole d’ordine unificanti, tutti frammenti che si sarebbero ricomposti come tasselli di un mosaico trovando voce e struttura nel movimento comunista. Un desiderio di libertà stava covando.

Lo scempio di oggi ricorda lo scenario ottocentesco: il livello delle disuguaglianze sociali è per molti versi maggiore di quello esistente all’epoca, le classi dominanti sono impegnate da decenni nell’aggressione sistematica delle conquiste strappate loro con la lotta dalle classi oppresse, smantellao progressivamente il sistema di regole che tutelava i diritti sociali, aprono nuovi spazi in un incessante processo di accumulazione primitiva (spazi poco regolamentati, ovvero nuove forme di sfruttamento ed occasioni ideali per accaparrarsi sempre più risorse), intensificano il controllo sociale con nuovi dispositivi, ridefiniscono gli equilibri mondiali e sembrano essere riusciti ad assoggettare praticamente ogni angolo del pianeta. Davanti a tale avanzata, le grandi narrazioni del Novecento non sembrano più esercitare il fascino del passato ed appaiono come armi spuntate contro le magnifiche sorti e progressive dello sviluppo capitalistico. Eppure, non mancano avvisaglie di qualcosa che non ha ancora un nome né parole d’ordine. Ciascuno vive frammenti diversi e sparsi di un’inquietudine esistenziale che pervade il corpo sociale e investe il senso collettivo della storia.

Accennavo ad un nuovo modo di conoscere la realtà. Per me è stata rivelatrice e dirompente l’esperienza dei gilet gialli, ma avevo già fatto tesoro di una serie di frammenti. Un passo in questo senso è stato il movimento femminista negli ultimi anni; imprescindibili sono state le lotte delle persone migranti per il diritto alla circolazione e ad una vita degna, con l’incredibile reazione chimica esplosa dal connubio tra il pragmatismo del movimento autonomo francese e il vissuto dolorosissimo dei flussi migratori, sfociata in un’ondata di occupazioni senza precedenti nel passato recente; oppure l’entusiasmo per il ciclo globale di insurrezioni cominciato alla fine del 2018; per non parlare, infine, delle innumerevoli pratiche interstiziali di cui veniamo quotidianamente a conoscenza, che chiamo interstiziali appunto perché si fanno strada di volta in volta tra le crepe del sistema ed ai suoi margini. Questo per quanto riguarda un lato delle barricate. Dall’altro, non credo sia necessario descrivere cosa ci sia: un potere sempre più autoritario, sempre più capillare, sempre più totalitario, che avanza lento ma inesorabile e in forme di volta in volta più mostruose, dal razzismo che prende piede ovunque ai nuovi populismi di destra, dal fascismo in salsa neoliberale al negazionismo climatico.

La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati (Gramsci, Quaderno 3 § 34)

Qual è dunque il limite del linguaggio che porta al crollo delle grandi narrazioni e allo stesso tempo alla delegittimazione delle istituzioni che da tali narrazioni sono storicamente derivate?

Azzardo un’ipotesi: a sfuggire è una possibile sintesi tra il materialismo e l’aspetto spirituale dell’esistenza umana. Per chiarezza, sono profondamente convinto della giustezza del materialismo storico ed ancorato alla sua tradizione filosofica e politica, il punto non è in alcun modo una sua radicale messa in discussione. Tuttavia, la rigidità di interpretazione delle sue categorie, così come delle categorie tradizionali di tutte le grandi narrazioni novecentesche, non riesce a cogliere un nuovo, enorme, elefante nella stanza: la fine del mondo. Consapevole che ancora una volta tale affermazione rischia di suonare escatologica e dal (personalmente fastidiosissimo) sapore mistico-religioso, mi sono spesso trovato a ricacciarne indietro le manifestazioni, quasi indignato per la mia stessa leggerezza. Come può un materialista ammettere sul piano teorico una qualche forma di spiritualità? Lasciamo queste cose al movimento New Age.

L’esitazione dinnanzi a questa impostazione materialista rigida e giudicante è tuttavia emersa con forza sempre maggiore, da parte di molteplici punti di vista sinceramente materialisti, ma semplicemente non ortodossi. E lo scoprire che non ero il solo a vivere questa insofferenza mi ha permesso di uscire dall’imbarazzo nell’esprimerla (e, tra le altre cose, di condividere pubblicamente le qui presenti considerazioni). Per sugellare queste nuove convergenze di vedute, e perché altri hanno dato una formulazione più propriamente politica di quella stessa insofferenza, cercherò di spiegarmi usando le parole usate da uno dei fondatori di Liaisons, giovane rivista di riflessione politica pubblicata in più lingue che si definisce transoceanica (perché rifiuta il termine-trappola di internazionale, imbrigliato nella dicotomia nazionale-internazionale) e la cui versione italiana è stata di recente presentata (trovate qui la registrazione completa dell’incontro organizzato il 24 aprile dalla Mediateca Getaway di Bologna).

“Una cosa che ci sembrava importante era la necessità di riconoscere la globalità partendo dal particolare: […] noi ci siamo direttamente posti il problema di certi eventi, tendenze, sentimenti che ci influenzano immediatamente a livello globale e che non si devono assolutamente ingabbiare in logiche nazionali o regionali. Per esempio, la radioattività non conosce frontiere, la pandemia non conosce frontiere, anche le insurrezioni non conoscono frontiere, per quanto la dicotomia tra interessi nazionali e internazionali ci impedisca di pensare lucidamente alla potenza di queste nuove maniere di legarci a livello globale. L’idea è che esistono grandi fenomeni immediatamente globali, che mantengono una propria integrità su quel livello pur ovviamente articolandosi in tempi e fasi specifiche, e che dunque ci legano tutti. Ci siamo chiamati Liaisons (“legami” in francese) in onore di Giordano Bruno, pensatore del Rinascimento: secondo lui, la magia consiste nel creare dei legami tra le sostanze di cui si compone la materia, tramite operazioni di alchimia, e la potenza non sta nel dominio e nel controllo bensì nel legame e nella relazione. La forza più bella è quella capace di creare legami nonché di riconoscere legami altrimenti invisibili, per metterli in luce. Negli stessi anni in cui Bruno proponeva la propria teoria dei legami, Machiavelli pensava la separazione come un gesto politico: separare per meglio governare. Separare e unire sono infatti due poli politici opposti che chiunque si trova prima o poi ad affrontare: separare per meglio governare, unire per meglio sovvertire. Noi parteggiamo con convinzione per il legame, perché lo riteniamo una necessità dei nostri tempi. Con questo, rompiamo con una tradizione gruppuscolare spesso legata alla ricerca di un soggetto politico di riferimento e intendiamo piuttosto indagare quegli eventi globali che ci legano a prescindere da qualsiasi presa di coscienza rispetto alla loro natura.”

Si noterà qui l’insistere sull’esistenza di eventi globali a prescindere da qualsiasi presa di coscienza. Niente di nuovo in termini teorici: la distinzione, per esempio, tra classe in se e classe per se, è stata al centro della necessità dell’azione politica fin dagli albori del socialismo, con l’obiettivo di produrre coscienza di classe. Oggi siamo tornati ad una fase in cui questo problema va risollevato e vanno ridefiniti i termini del discorso per superare un suo limite interpretativo. A tal proposito, è centrale il concetto di tempo della fine.

“Ci sono diversi modi di intendere il tempo della fine. Il tempo della fine come tempo in cui il nostro stile di vita coincide perfettamente con l’autodistruzione, e più si continua a sperare di vivere come stiamo vivendo, più si avanza verso la fine. La nostra generazione è la prima a vivere su larga scala questa verità. Una formulazione meno recente del concetto è quella fornita da Ernesto Demartino negli anni Cinquanta, parlando dell’Occidente come di apocalisse senza fine: tutto ciò che ci è storicamente e socialmente dato, tutto ciò che è stato costruito e che ereditiamo dal passato si estingue rivelandosi essere un immensa apocalisse.”

Una volta per tutte: l’evento primordiale che accadde una volta per tutte, e che può essere ripetuto ritualmente, si manifesta come l’orizzonte di destorificazione del divenire storico, il quale è appunto caratterizzato da eventi in cui il «ciascuna volta» del loro prodursi vale per sé e non per le altre, tanto meno per tutte. Nella storia si deve ricominciare sempre di nuovo ogni volta: il mito delle origini offre un piano in cui riassorbire questo proliferante «sempre di nuovo» in una volta previlegiata, metastorica, che sta per tutte, e che destorifica il divenire nella ripetizione della stessa immutabile permanenza metastorica. (De Martino, La fine del mondo)

Approfondendo questa linea interpretativa, è possibile affermare che la cultura umana, nel senso più generale del termine, consiste nell’esorcismo continuo della fine del mondo. La modernità occidentale è fatta invece di continua dissoluzione del familiare, dell’ordinario, senza alcuna riparazione possibile. La cultura in cui viviamo oggi coincide con la fine del mondo, non può esorcizzarla se non negandosi: è un paradosso in cui è impossibile vivere. Si puntualizza nella presentazione di Liaisons: “Apocalisse e salvezza sono sempre stati legati, mentre l’apocalisse senza fine non contempla salvezza”. Dunque non più una cultura dell’esorcismo della fine, ma una cultura della fine. “Tutte le nostre categorie politiche, le nostre idee e tradizioni non ci hanno affatto preparato a pensare in questo modo, sono incapaci di farlo, ed è su questa precisa sensibilità che ci ritroviamo noi di Liaisons, su questa sensazione quasi di incredulità di vivere nel fallimento della cultura nonché di tutte le culture politiche rivoluzionarie nel pensare il mondo presente. Pertanto, per riprendersi, bisogna ricominciare tutto. Non che d’un tratto il marxismo, l’operaismo, il pensiero queer, la teoria moltitudinaria e così via, diventino per magia inoperanti ed inutili, ma sembra mancare a questi approcci la comprensione del frammento di esistenza che ci definisce sempre di più: il limite dei nostri tempi, il senso della fine. Se la fine risulta inconcepibile per quegli approcci teorici, è per una precisa ragione: soltanto l’esperienza diretta della fine, il vissuto delle persone nel loro frammento di questa condizione che ci lega tutti, può aiutarci ad rinnovare la nostra prospettiva. Di questa esperienza manca ad oggi una descrizione analitica organica e puntuale.”

Per dare un esempio dei limiti analitici ed interpretativi delle letture tradizionali, ci si sofferma non a caso sul movimento dei gilet gialli, lo stesso che di recente provavo a descrivere con parole molto simili.

“Per esempio consideriamo il movimento dei gilet gialli: tutti coloro che hanno provato a interpretare il movimento con letture classiche, anche quelle rivoluzionarie, non ne hanno colto l’ampiezza: più che un soggetto che esprime rivendicazioni, è stato un movimento esistenziale, esploso per l’impossibilità di trovare soluzioni diverse dal semplice esplodere sul piano esistenziale. […] Il movimento si espone all’esperienza e nell’esperienza trova ragion d’essere: non ha scopo preciso se non quello di essere se stesso in maniera permanente, in una sorta di rifiuto, di sospensione del tempo apocalittico in cui ci troviamo. I rivoluzionari non stanno comprendendo questo aspetto: la volontà di sospendere il tempo dell’apocalisse attraverso l’esperienza.”

Con la speranza di contribuire a colmare queste lacune e nel tentativo di dare forma più cosciente all’insoddisfazione che aleggia sulle forme di vita che popolano il tempo della fine, è necessario elaborare una nuova visione che apra alla possibilità di una nuova “ontologia politica della presenza”. Ecco dunque la dichiarazione d’intenti di Liaisons, comparsa in italiano in questa recensione prendendo a prestito le parole dell’antropologo francese Philippe Descola:

Siamo nati in un’era di separazioni, alle soglie dell’inabissamento di un secolo stanco. Condividiamo la stessa insoddisfazione nei confronti delle grandi narrazioni, ma il loro spettro ci tormenta. Prigioniere e prigionieri del tempo della fine, rimaniamo con le spalle al muro davanti a un compito dalla portata incommensurabile: le nostre aspirazioni infatti non possono più relazionarsi con alcun contenuto positivo, ma con ciò da cui partiamo. La nostra eredità politica non è figlia di nessun testamento.

Da quanto scritto, è chiaro che il punto è non partire da una soggettività, dalle identità, da ciò che si ha ereditato, ma da ciò che si vive nel presente e nella sua fine, dall’esperienza diretta e frammentaria che ciascuno fa di ogni grande situazione collettiva, e tessere dei legami tra tali esperienze.

Un ulteriore questione, che secondo me è in realtà centrale anche se il formato, le esigenze di comunicazione politica e (ancora) gli inevitabili limiti di linguaggio ci impediscono di assumerla in quanto tale, è quella cosmologica, relativa alla posizione dell’esistenza umana nell’universo.

È necessario su questo versante “trovare una maniera di riappropriarsi della coscienza dell’invisibile e delle forze animatrici di un mondo che pensavamo inerte. Prendiamo la radioattività: il fatto che nel mondo quotidiano si riconosca l’esistenza di qualcosa di imprevedibile e invisibile riprende in un certo senso l’animismo e le visioni cosmologiche perdute storicamente solo di recente. Il virus riattiva questo meccanismo che riconosce il ruolo attivo di materia tutt’altro che inerte. Nell’elaborare la nostra condizione, si deve tenerne conto: la materia non è qualcosa di inerte che si possa decidere di prendere per costruire, per nutrirsi, per vivere, come se questo non avesse automaticamente implicazioni etiche. Di fronte a questa verità esaminata nei contesti più diversi, che si tratti di radioattività, pandemia o insurrezioni, esistono due reazioni: l’opzione immuno-autoritaria del potere (tutti a casa, ogni spazio pattugliato dalla polizia, la paura, la menzogna) e quella che prende sul serio la necessità di reinventare un pensiero in cui la materia è attiva, nient’affatto inerte o passiva, e il mondo non è un contenitore di risorse legate da forze puramente meccaniche. Questo ribalta tutto ed è la sola porta di accesso per un ripensamento delle tradizioni politiche e dei concetti di comunità (contrapposta all’immunità), di morte e vita, di cosmo. Non esiste molta scelta: più il tempo passa, più le alternative si riducono alle due opzioni di cui sopra, una risposta immuno-autoritaria e una risposta che tenga conto delle relazioni tra tutte le cose.”

Questo esemplare di Cordylus cataphractus è straordinariamente simile a un uroboro. Però è decisamente più reale.

Di nuovo, il richiamo all’animismo e a visioni del mondo che attribuiscono all’intangibile (per non chiamarlo spirituale) un ruolo attivo nella definizione dei rapporti di forza non va, a un primo sguardo, propriamente d’accordo con la tradizione materialista. Invece, queste riflessioni mostrano come si tratti di una contraddizione solo apparente, che deriva da un limite del linguaggio usato da noi che ci riconosciamo in quella tradizione. Non stiamo scoprendo nulla: la questione del rapporto con le cose era già presente in Karl Marx, ad esempio nei discorsi sul feticismo della merce. Eppure, la tradizione marxista ha sempre affrontato in maniera superficiale il rapporto tra mondo interiore ed esteriore, tra il senso storico e il senso soggettivo degli eventi, le ha sempre considerate un contorno del discorso materialista. Occorre oggi un ampliamento di visione per dare al tempo della fine una risposta cosmologica (o olistica, o qualche altra parola che non abbiamo ancora elaborato e trovato collettivamente).

Anche la questione del superamento della soggettività politica è una questione aperta e lacerante. Ad esempio, si deve poter ammettere che il nemico oggettivo del capitalismo, cioè ciò a cui il capitalismo si contrappone a prescindere da qualsiasi presa di coscienza, possa essere non necessariamente una categoria umana, ma lo spazio e il mondo vivente in quanto tale, nelle sue irriducibili forme di vita in lotta. L’ecosistema non può avere coscienza di sé come soggetto rivoluzionario: non avrebbe ovviamente senso una distinzione tra vivente in se e vivente per se. Esiste una lotta che prescinde dalla rivendicazione e non passa dal costituirsi come soggetto: inutile andare alla spasmodica ricerca della “Rivendicazione” quando la rivendicazione si scrive da sé, è intrinseca alle cose e alla vita, senza doverla leggerla da qualche parte, in una svolta esistenziale che è più importante delle parole con cui ognuno la descrive.

Riprendo qui quanto scrivevo sull’incapacità di leggere il movimento dei gilet gialli: “Potrebbero non scandire nessuno slogan, non dichiarare niente, e sarebbero repressi ugualmente e con la stessa identica brutalità. La loro colpa è esistere con ostinazione in spazi che il potere ha deciso da decenni di rendere esclusivi per alcune categorie. Se poi si va a vedere che cosa fanno, le rivendicazioni appaiono ancora più facilmente inquadrabili”.

Di fronte all’apocalisse climatica, solo un approccio cosmologico può costruire un’uscita alternativa e reale dallo stato di cose presente. Già adesso appigli in questo senso sono suggeriti da compagne e compagni ovunque sul pianeta.

Bruno Latour parla di “realizzazione improvvisa e dolorosa che la definizione classica di società – gli umani tra di loro – non ha alcun senso. Lo stato del sociale dipende, in ogni momento, dalle associazioni tra molti attori, la maggior parte dei quali non ha una forma umana. Questo vale per i microbi – lo sappiamo fin dai tempi di Pasteur –, ma anche per Internet, per il diritto, per l’organizzazione degli ospedali, per le capacità dello Stato così come per il clima”; il collettivo dell’Internazionale Vitalista nota (qui in italiano) che se si tiene conto delle geografie relazionali, “il circuito di concause dell’epidemia ha avuto proprio inizio a New York per poi estendersi a Wuhan”; dalla Francia, oltre al gruppo di riflessione sviluppatosi intorno a Liaisons, arriva il Monologo del virus, a proporci un cambio di sguardo: “vi è un’intelligenza immanente alla vita. Non vi è alcun bisogno di essere un soggetto per disporre di una memoria o di una strategia. Nessun bisogno di essere sovrano per decidere”; il professor Yuk Hui dell’università di Hong Kong cita Nietzsche, paragonando l’umanità ad “un gruppo [che] lascia definitivamente il proprio villaggio per intraprendere un viaggio in mare alla ricerca dell’infinito, ma arriva solo in mezzo all’oceano per rendersi conto che l’infinito non è una destinazione. E non c’è niente di più terrificante dell’infinito quando non si può tornare indietro”. Yuk Hui insiste sulla necessità di diversificare la tecnologia, il che “implica anche la diversificazione degli stili di vita, delle forme di convivenza, delle economie” nella misura in cui “comprende le diverse relazioni con i non-umani e il cosmo più ampio”, e si fa promotore della tecnodiversità illustrando i limiti di “una tradizione filosofica – con le sue opposizioni tra natura e tecnologia, e tra cultura e tecnologia – che non riesce a concepire la possibilità di una pluralità di tecnologie come qualcosa di realizzabile.” E ancora, lo storico e romanziere Gil Bartoleyns osserva che “trattando i non umani come cose, abbiamo creato le condizioni per la nostra fine”; Salvo Torre considera il vivente come categoria rivoluzionaria e propone di portarlo al centro del conflitto, e lo fa nel solco della tradizione marxista usando termini e concetti ad essa propri.

Tutto lo sgomento e la solitudine della nostra epoca è forse dovuta al vuoto che separa ancora la miriade di sovversioni vitali locali dalla consapevolezza del loro carattere globale e tutta l’apparente vaghezza delle forme di resistenza al capitalismo a prescindere dalle loro rappresentazioni e da qualsiasi presa di coscienza dipende forse dall’abitudine che abbiamo alla separazione e al trattamento del non umano come materia inerte.

Gli appigli, i sommovimenti, le suggestioni non mancano. Non resta che continuare a lottare.

Noi siamo i figli dei padri ammalati:
aquile al tempo di mutar le piume,
svolazziam muti, attoniti, affamati,
sull’agonia di un nume

(Emilio Praga, Preludio a “Penombre”)