Cosa ci viene incontro? – Pandemia e mondi futuri: tendenze e opportunità

Il 13 aprile, il sito francese Lundi Matin ha pubblicato “Qu’est-ce qu’il nous arrive ?” (“Cosa ci viene incontro?”), un prezioso contributo di Jérôme Baschet, storico francese, riguardo alla fase attuale. Sottotitolo: “Molte domande e qualche prospettiva ai tempi del coronavirus”. Questa è la traduzione della terza parte. Qui la prima e qui la seconda. Buona lettura.

Barricata sul ponte Al-Jumhoriya, Baghdad, 12 novembre 2019. Foto: Mustafa Al-Sumaidaie

In questi tempi piuttosto deprimenti di urgenza sanitaria, di continue conte dei morti e di reclusioni forzate, c’è chi si preoccupa di ciò che è possibile fare fin da subito e in tanti fanno congetture sulle opportunità del “dopo quarantena”. Su questo punto particolarmente importante sarà meglio rimandare alle elaborazioni collettive presenti o future. E non si dovrebbe trascurare la necessità di individuare già adesso le tendenze in atto e che hanno ottime probabilità di continuare a esserlo in seguito. Queste tendenze sono fortemente avverse, pur senza escludere possibilità più favorevoli dalle quali dovremo provare a trarre il massimo vantaggio.

Anche se il sogno di molti è un importante esame di coscienza da parte di una civiltà infine messa di fronte ai propri limiti e ai suoi effetti mortiferi, va riconosciuto che le forze sistemiche che hanno condotto fin qui il mondo globalizzato non sono magicamente scomparse per effetto di un virus vendicatore. Esse sono ancora all’opera e ancora dominanti. È quindi più che probabile che impongano, non appena le condizioni sanitarie lo consentano, un ritorno al business as usual -se possibile ancora più blindato di prima. Ben inteso, tutto dipenderà dalle proporzioni della crisi economica, che rischia di intensificarsi rapidamente negli Stati Uniti con l’effetto probabile di un aumento vertiginoso della disoccupazione (che portebbe raggiungere 30 milioni di persone in più rispetto ad ora), dell’insolvenza da parte di nuclei familiari sempre più indebitati, della crisi delle banche che potrebbe seguire e che aggraverebbe la serie annunciata dei fallimenti aziendali. Ma superati questi episodi estremi, la tendenza alla ripresa del normale corso dell’economia dovrebbe infine vincere, facendo leva sulla necessità di compensare le perdite e forse anche spingendo ad un consumismo di recupero. È molto probabile che l’urgenza di un rilancio dell’economia, abbinata alle ristrettezze finanziarie giustificate dai deficit e dall’indebitamento esorbitante provocato dalla crisi sanitaria, sia ancora una volta addotta per relegare in secondo piano le questioni climatiche ed ecologiche rinviando così i già esigui progressi in corso o previsti su quei fronti. Del resto, tanto è già stato detto sulla strategia d’urto in corso e a venire, la quale permette e permetterà di rafforzare le misure eccezionali, gli attacchi alle libertà con la scusa dello stato di emergenza, l’intervento permanente e discriminatorio delle forze di polizia, le forme di sorveglianza e controllo, e così via. Tuttavia, se è vero che la crisi sanitaria è una buona occasione per rafforzare queste tendenze, bisogna anche ricordare che esse erano già ampiamente in atto. È chiaro che il regime cinese non ha avuto certo bisogno del coronavirus per imporre un controllo della popolazione generalizzato e brutalmente repressivo, servendosi da tempo delle nuove tecnologie.

Eppure, potrebbe la crisi del coronavirus segnare una svolta nel dispiegamento delle forze sistemiche? Due punti sembrano trovare consenso quasi unanime fin dentro le cerchie dirigenti e mediatiche. In primo luogo, la necessaria rilocalizzazione di certe filiere produttive di cui la crisi ha messo in luce il carattere vitale, soprattutto per quanto riguarda l’industria farmaceutica -per non parlare delle mascherine, diventate criterio decisivo di sovranità delle maggiori potenze mondiali (ci si protegga almeno dal ridicolo!). Secondo Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno, questa rilocalizzazione sarebbe già stata ufficializzata. E da qui sarebbe tuttavia avventato concludere che si tratti di una conversione alla de-globalizzazione: probabilmente sarà solo un riaggiustamento nelle catene di produzione, sempre all’interno della globalizzazione. In secondo luogo, spesso si accenna ad una rivalorizzazione dei servizi pubblici, addirittura ad un ritorno dello Stato-Provvidenza. Ma dovremmo credere all’improvvisa conversione di coloro che, come Macron, dopo essere stati fedeli esecutori dei dettami dell’economia neoliberale, sembrano adesso discutere di intervento dichiarato dello Stato in nome dell’interesse di tutti? E dovremmo credere a chi, come un disco rotto, annuncia da una buona decina d’anni la fine del neoliberismo? Non lasciamoci imbrogliare, la questione è già stata ben sviscerata: le politiche neoliberali hanno sempre avuto bisogno dello Stato, che fosse per realizzarle (negli anni 1980) o per garantirle in ultima istanza, così che in caso di crisi lo Stato è chiamato ad operare per socializzare le perdite, mentre in tempi favorevoli esso si eclissa nuovamente per lasciare libero corso alla privatizzazione dei profitti. È quanto avvenuto nel 2008-2009 e non c’è alcun ragione per cui stavolta le cose vadano diversamente. Resta il fatto che, anche se i parametri fondamentali del neoliberismo non sono stati intaccati, le turbolenze successive al 2008 sono state marcate da interventi statali più evidenti, certo meno nel campo del sociale rispetto a quanto concerne la dimensione poliziesca e repressiva. È altamente probabile che si intensifichi questa tendenza verso ciò che è stato definito “neoliberismo autoritario”. Eppure, avendo il sistema sanitario avuto un ruolo di primaria importanza nella crisi del coronavirus, sarebbe difficile immaginare che dopo averne tanto celebrato l’impegno eroico non si prenda almeno qualche misura significativa in merito, e neppure come si possa rimanere sordi davanti ad una richiesta sociale molto forte in materia di salute e di cura. Un aumento della spesa in questo settore non potrà pertanto essere evitato, ma non ci sono dubbi che la realizzazione di tali promesse fatte in preda all’urgenza e alla necessità assoluta di contenere la rabbia del personale sanitario sarà accompagnata da tutti gli stratagemmi possibili per privilegiare, invece che l’indispensabile aumento dei mezzi e del personale, piuttosto le stesse misure di riorganizzazione e razionalizzazione che hanno condotto agli errori e alle mancanze venute a galla con la crisi del coronavirus.

La bandiera mapuche issata su un monumento colonialista, 26 ottobre 2019. Foto: Susana Hidalgo

In generale, si profila uno scenario del tutto ambivalente. Non esistono dinamiche unilaterali, ma tendenze fortemente contraddittorie. Da un lato, si può prevedere qualche riaggiustamento interno alle dinamiche dell’economia globalizzata (con un rafforzamento delle sue debolezze, in particolare il suo deficit di crescita e il suo colossale sovraindebitamento), ma anche un’intensificazione delle pulsioni autoritarie e liberticide, con un nuovo giro di vite nella normalizzazione dello stato di eccezione e lo sviluppo ulteriore delle tecniche di controllo e sorveglianza. Ma tutto ciò non può essere separato da un’altra tendenza, esistente già prima e che è destinata a consolidarsi sotto la crisi: un grande movimento di delegittimazione tanto delle élite dirigenti quanto delle loro politiche neoliberali. Tre aspetti sono qui riuniti: una perdita di credibilità dei governanti e un’insoddisfazione crescente rispetto ad una democrazia rappresentativa col fiato corto (le cause profonde di questo processo sono strettamente legate alla subordinazione strutturale degli Stati alle forze dell’economia globale); un livello crescente delle disuguaglianze che le rende ormai sempre più inaccettabili; e, infine, la consapevolezza ormai chiara, specie tra le giovani generazioni, delle devastazioni ecologiche indotte dal produttivismo capitalista. Al di là delle caratteristiche e delle motivazioni specifiche di ciascuno di essi, le sollevazioni planetarie degli ultimi due anni sono indice del grado di delegittimazione delle élite e delle politiche neoliberali. Dopo quattro decenni di onniptenza del “pensiero unico”, questo comincia ad accumulare delusioni e sconfitte, almeno sul piano ideologico. Questo è un fatto importante, che senza dubbio determina in maniera molto forte l’agire dei governanti, che sanno quanto rischiano di essere spazzati via, che sia per un’ondata populista o per delle vere insurrezioni popolari.

Si potrebbe pensare che la crisi del coronavirus, durante e dopo la sua espansione, non può che rafforzare questa tendenza. Offre infatti tutti gli elementi di una condanna senza appello delle politiche neoliberali applicate al settore della sanità, dal momento che sono la causa diretta dell’insufficienza di mezzi e dell’impreparazione, la cui dimensione criminale è si è manifestata agli occhi di tutti. Al contrario, si è acceso un immenso bisogno di servizi pubblci, allo scopo di rispondere alle esigenze di cura, di solidarietà e di tutela dei più vulnerabili. D’altro canto, i livelli di disuguaglianza generati da decenni di neoliberismo sono apparsi con ancor più violenza nelle situazioni createsi in ambito sanitario: si pensi soprattutto alle classi popolari costrette a lavorare per salari divenuti doppiamente inaccettabili, sia rispetto ai rischi corsi sia per il carattere di necessità improvvisamente riconosciuto a compiti prima disprezzati o malvisti. Inoltre, non è escluso che l’emergenza assoluta della crisi sanitaria dia una consistenza più percepibile alla minaccia del cambiamento climatico, questa “emergenza lenta” ma molto ancor più temibile del Covid-19. Infine, la gestione governativa della crisi del coronavirus potrebbe convincere sul carattere fuorviante della presunta necessità dell’austerità finanziaria e della sottomissione imperativa ai vincoli della concorrenza mondiale: in qualche giorno, i governi hanno trovato centinaia se non migliaia di miliardi per sostenere l’economia, dimostrando che di fronte ad un pericolo ritenuto serio è possibile agire senza più badare a spese, costi quel che costi. Nel mondo dell’Economia, non esiste alcuna ragione possibile per mobilitare somme comparabili per far fronte ai pericoli meno tangibili e più lontani del cambiamento climatico, ma questa differenza sarà sempre più difficile da giustificare dinnanzi a preoccupazioni ecologiche sempre più pressanti.

Marcia di protesta per chiedere le dimissioni del presidente haitiano Jovenel Moise, Port-au-Prince, Haiti, 13 ottobre 2019. Foto AP / Rebecca Blackwell

In sintesi, la crescita del movimento di delegittimazione dei governanti e delle politiche neoliberali è altamente probabile, sebbene ciò non significhi la fine del neoliberismo e neanche che la crisi del coronavirus offra un terreno necessariamente propizio alla rinascita delle politiche keynesiane, per esempio sotto forma del Green New Deal caro alla sinistra del Partito Democratico negli Stati Uniti. Piuttosto, si tratta di riconoscere la doppia tendenza rivolta al contempo verso una delegittimazione crescente delle politiche neoliberali e verso una loro prosecuzione, dal momento che rispondono alle logiche strutturali del capitalismo globale e finanziario. La risultante di questi due movimenti implica una tensione sempre più esplosiva, con da un lato l’imposizione delle politiche richieste dalle forze dominanti del mondo dell’Economia usando se necessario mezzi sempre più autoritari, dall’altro un dominio sempre meno certo e una probabilità sempre più alta di esplosioni sociali. Il potenziamento delle tecniche di controllo e repressione, ormai impugnate nel nome della salute e della tutela della vita, potrà di certo essere impiegato dinnanzi a tali rischi, ma non potrà farli sparire. È possibile addirittura che quei rischi siano proprio il motivo di tale potenziamento, che peraltro non farebbe che aggravarli nel tentativo di contenerli. La risoluzione di una tensione del genere è altamente incerta. È questa la sfida delle lotte in corso, tanto dal punto di vista di chi governa che di quello di chi a loro si oppone.

In questo contesto, si può provare a individuare qualche occasione per alimentare delle possibilità già in atto. Ci limiteremo qui a qualche nota telegrafica, in attesa di elaborazioni collettive adesso e in futuro.

–”Non metterete in quarantena la nostra rabbia”. La rabbia, per adesso trattenuta, comincia già a straripare. Rabbia dinnanzi alla natura criminale dell’inazione dei governanti che hanno sottoposto la sanità pubblica a cure ripetute di austerità e che sono rimasti sordi alle rivendicazioni insistenti del personale sanitario. Rabbia accesa dall’impreparazione al rischio epidemico (smantellamento degli organi preposti alla preparazione e alla risposta alle emergenze sanitarie, nonostante la sua creazione nel 2007; incapacità di rifornire le scorte di mascherine e tamponi nonostante l’avvicinarsi della pandemia…). Rabbia per l’nsufficienza di mezzi e di organizzazione che avrebbero permesso di contenere il dilagare dell’epidemia nelle case di riposo. Quanti contagi e quante morti tra i medici e gli infermieri, “mandati al fronte senza equipaggiamento”? Quanti contagi e quante morti tra i candidati alle amministrative e gli scrutatori dei seggi elettorali lo scorso 15 marzo? Quanti contagi e quante morti provocate dai controlli di polizia effettuati senza le dovute cautele e senza tante cerimonie? Quanti contagi e quante morti tra cassieri e lavoratori dei supermercati, costretti a lavorare senza protezioni adatte? Nelle fabbriche, nei trasporti, nei magazzini di Amazon, tra i fattorini a domicilio? Non mancano certo motivi per una rabbia profonda. Alcuni medici lanciano appelli per una “insurrezione generale di tutto il personale sanitario”. Altri iniziano a portare a processo i membri del governo. Le azioni a venire sono molteplici. Sotto l’immobilità della quarantena, cova un’onda dilagante di rabbia. Una collera che non ha niente di cieco e che, al contrario, si adopera per mostrare ciò che i governanti cercano di nascondere. Una giusta rabbia, una collera degna. Quanto potrebbe bastare per ravvivare la fiamma della rivolta dei Gilet Jaunes. Abbiamo almeno qualche ragione per prospettare una “giletjaunizzazione” della fine della quarantena, malgrado i vari giri di vite che il governo sta già preparando, proprio questi motivi.

I gilet gialli rivendicano Place de la Republique, Parigi, 8 dicembre 2018. Foto: Stephane Mahe / Reuter

–”Blocchiamo tutto, riflettiamo e non è triste” diceva Gébé in L’an 01. La versione Covid-19 è piuttosto: “bloccano tutto, non è molto divertente ma almeno possiamo riflettere”. Certo, il piacere della grande introspezione e l’esame di coscienza non è ugualmente condiviso. Riguarda in primo luogo le classi medie e agiate, in quarantena ma comode. Per altri, al contrario, il carico di lavoro è maggiore del solito, le condizioni di vita più precarie e le preoccupazioni quotidiane più pressanti. E ciononostante, i ritmi imposti dall’apparato economico si sono ampiamente allentati; la fretta crescitista e immediatista si è fatta meno insistente. In Francia, 8 milioni di lavoratori dipendenti stanno lavorando a orario ridotto e ricevono una buona parte del proprio stipendio senza lavorare. Ciò significa sì molto tempo liberato, anche se le condizioni impongono vincoli drastici al suo utilizzo; ma resta il fatto che l’esperienza di un’esistenza in cui gli obblighi quotidiani del lavoro si affievoliscono rappresenta una porta socchiusa verso possibilità che la routine quotidiana sovrassatura di attività non lasciava prima neanche immaginare. Se la mancanza di tempo è una delle principali patologie dell’homo oeconomicus, la quarantena crea la situazione inversa di una grande disponibilità di tempo anche se, il più delle volte, non si sa bene come altro occuparlo se non digitando freneticamente sul proprio smartphone o ingrossando il pubblico dei canali di informazione. Nonostante tutti i limiti del caso, la convergenza tra la rabbia verso uno Stato sempre meno credibile e la rottura dei ritmi di vita che sconvolge persino le abitudini più radicate è foriera di un potenziale non irrilevante di critiche, di messa in discussione e, si spera, di apertura a possibilità profonde e molteplici. La crisi del coronavirus può aiutare a riflettere meglio su ciò che non vogliamo più e magari anche su come potrebbe essere un mondo in cui producessimo di meno, lavorassimo di meno, inquinassimo di meno, avessimo meno fretta. Questo contesto di crisi in cui per giunta la questione della morte è meno nascosta del solito attribuisce uno spazio particolare a domande come: cosa è veramente importante? A cosa teniamo davvero? Si tratta di fermenti potenzialmente creativi nell’attuale situazione.

–Bloccare l’economia: molti lo sognavano, il virus lo ha fatto. A partire da questo momento, è logico voler rifiutare ogni ripresa e ogni forma di ritorno alla normalità. Servono però i mezzi per opporvisi concretamente. Eppure bisogna almeno constatare che la crisi attuale si configura come una sorta di esperimento in grandezza reale di un vero blocco generalizzato dell’economia (35% dell’attività globale e 44% dell’attività industriale). Certo, si tratta in parte di un auto-blocco, ma non va trascurato l’impatto del ricorso massiccio al diritto di recesso, ad altre forme di pressione da parte dei lavoratori, o anche allo sciopero, come in Italia e altrove. L’ipotesi di pratiche generalizzate di blocco che interessino allo stesso tempo la circolazione, la produzione, il consumo, la riproduzione sociale, la gestione dei territori, che era già stata riattivata dal movimento dei Gilets Jaunes potrebbe uscirne consolidata. L’episodio dell’attuale auto-blocco dell’economia per cause sanitarie potrebbe rendere più facile l’individuazione dei settori produttivi meno utili e più dannosi, che sarebbe possibile bloccare in maniera prolungata o addirittura eliminare senza alcuna conseguenza nefasta e anzi con grandi benefici come la riduzione delle cause delle prevedibili catastrofi climatiche.

Enorme manifestazione ad Hong Kong, circa trenta minuti prima di abbattere un lampione intelligente di sorveglianza, agosto 2019 Foto: Studio Incendo via Wikimedia Commons

–Le pratiche di aiuto reciproco e di autogestione non hanno certo atteso la crisi del coronavirus per emergere ed apparire come la base concreta di un mondo desiderabile e finalmente di nuovo vivibile, ma le condizioni di esistenza imposte dalla pandemia e le misure prese dall’alto per contenerla non possono che accentuarne il bisogno e l’importanza. L’esperienza dell’epidemia rivela, in primo luogo, la necessità di pratiche di cura e tutela autogestite: case di cura autonome, reti di competenze condivise ed ogni altro modo di organizzazione praticabile in questo ambito avrebbero permesso, come è stato per le comunità zapatiste, di fare emergere collettivamente le misure sanitarie adatte ad affrontare l’epidemia piuttosto che allo Stato il piacere di imporle in modo coercitivo. La situazione creata dalla pandemia pone anche, con un’urgenza che ormai non è più soltanto teorica, la questione dell’autoproduzione soprattutto alimentare e delle filiere autorganizzate, che si dimostrano cruciali sotto la minaccia latente della scarsità, soprattutto nelle città. Infine, il tessuto consolidato delle pratiche di aiuto reciproco e di autogestione dovrebbe condurre abbastanza logicamente ad ampliare il desiderio di produrre forme di autogoverno e autonomia, che permettano ai gruppi e alle comunità di prendere autonomamente decisioni che riguardano la propria vita, autodeterminandosi.

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Il coronavirus può essere considerato come rivelatore e amplificatore di tendenze già pre-esistenti. Non potrebbe esso stesso essere attore di una transizione o di un cambiamento storico radicale, non è il Messia che condanna al crollo finale una civiltà corrotta. Nondimeno, la crisi provocata dal SARS-CoV-2 è un evento che ha obbligato i governanti del pianeta ad invertire temporaneamente le gerarchie del mondo dell’Economia per garantirne la riproduzione nel tempo. Gettandoci per la prima volta su una scala tanto estesa e con effetti tanto tangibili nel tipo di catastrofe che sarà caratteristico del prossimo secolo, il virus funge anche da acceleratore dei tempi storici. In questo, pur essendo la crisi immediata sanitaria piuttosto che climatica, ci fa già percepire quanto sia esorbitante il costo del Capitalocene, rende concreto ciò che si profila all’orizzonte -anche se non bisogna aspettarsi effetti immediati, pena la probabile vittoria di una lettura naturalizzante dell’epidemia.

Dire che il coronavirus non fa che intensificare tendenze già esistenti non significa in alcun modo sostenere che tutto riprenderà il proprio corso come prima. L’accentuare le tendenze già esistenti, e in particolare rafforzare antagonismi e tensioni risultanti da tali tendenze, in una situazione caotica in cui prevale l’estrema instabilità crea una maggiore apertura di ciò che è possibile, con opportunità in parte nuove. I ritmi sono stati stravolti, molte certezze minate, certi equilibri modificati e certi tabù infranti, almeno temporaneamente. Ciò che prima era possibile diviene adesso un poco più possibile di prima. Ovviamente questo vale tanto per il consolidamento delle forme di dominio -che potrebbero aggiungere al loro armamentario già ben nutrito lo stato d’eccezione sanitaria permanente- quanto per tutte e tutti coloro si adoperino seriamente per ritrovare dei mondi vivibili, liberati dalla tirannia dell’Economia.

Jérôme Baschet

I manifestanti provenienti da Khartoum affluiscono ad Atbara in occasione del primo anniversario dell’inizio della rivolta che ha rovesciato l’ex presidente sudanese Omar al-Bashir, 19 dicembre 2019. Foto: Ashraf Shazly / AFP via Getty Images