La vita di una città-vetrina

Il 13 maggio, il sindaco di Firenze Dario Nardella ha dichiarato che senza le entrate da turismo cultura e commercio nelle case del Comune verranno a mancare 200 milioni rispetto ai ricavi previsti e che di fronte a problemi di tale entità è stata addirittura presa in considerazione la possibilità di spegnere l’illuminazione pubblica la sera. Come fatto notare da altri, una città che deve spegnere l’illuminazione pubblica perché senza turisti per una paio di mesi è un non-luogo, più simile a un’aeroporto senza più voli o a un’autostrada caduta in disuso che ad una città. Il concetto di non luogo è stato introdotto dall’antropologo francese Marc Augé in riferimento a “spazi architettonici e urbani di utilizzo transitorio, pubblico e impersonale, destinati a essere utilizzati in assenza di ogni forma di ‘appropriazione’ psicologica e in cui il movimento e orientamento dei fruitori è prevalentemente affidato alla segnaletica; si tratta di spazi altamente omologati nei quali l’uomo contemporaneo vive per tempi significativamente lunghi, non più riferiti a una struttura sociale organizzata in grado di favorire rapporti durevoli, privi di radicamento al contesto, alle tradizioni e alla storia”.

Questa impressione può essere confermata da praticamente chiunque abbia visitato Firenze con occhio attento all’architettura urbana, con interesse per i temi che si articolano intorno ai concetti di diritto alla città e di città vetrina o semplicemente con sufficiente sensibilità per gli effetti sociali e culturali dei processi di valorizzazione capitalistica. Sono andato a ripescare un mio scritto dell’agosto 2018, quando seguendo la Via degli Dei che collega Bologna a Firenze in un percorso di quattro giorni di cammino raggiunsi infine quest’ultima. Quel giorno, l’asprezza dell’impatto fu probabilmente amplificata dal contrasto tra i giorni (lunghissimi, come sempre quando si viaggia camminando) passati in ambiente montano o rurale e le dinamiche e i ritmi di una grande città, ma è anche vero che certi caratteri tipici delle città turistiche sono particolarmente spiccati nella città tra le più turistiche, se non la più turistica, d’Italia. Ecco cosa scrivevo sul treno allontanandomi da Firenze.

«Firenze è una città inospitale: non è fatta per la vita, solo per una sua rappresentazione. Una città che vuole essere fotografata, ammirata, guardata nella sua maestosità quasi barocca, ma che non vuole essere vissuta. Non esiste a Firenze un bar, un posto in cui veramente ti siedi per il puro piacere di lasciar scorrere il tempo: solo trappole per turisti, macchine tritacarne nel gioiello della città-vetrina. È una città dissociata nel puro senso del termine: è popolata da esseri umani che le sono alieni e dunque non è realmente popolata in modo sano, vero, genuino, è l’incarnazione dei principi religioso del cristianesimo e filosofici del platonismo, si nutre cioè di un mondo altro, mai di questo, tutto di essa ruota intorno a cose che non le appartengono. Nelle chiese -ma questo è un discorso generale- non si può più entrare stanchi e in cerca di rifugio, ma con voglia di spendere soldi e vestiti in maniera decorosa nella casa del Signore che dovrebbe essere aperta a tutti, poveri e bisognosi per primi. Alla stazione di S. M. Novella non esiste una fontanella d’acqua, simbolo banalissimo della vita, e se c’era è stata tolta come alla stazione centrale di Bologna in nome della guerra ai poveri la cui crosta più esterna e purulenta è l’ideologia del decoro. Una volta, solo qualche anno fa, c’era un self-service in stazione, di cui oggi non rimane che l’indicazione scolpita in pietra e affissa sopra quello che ne era l’ingresso: quello spazio accessibile a tutti oggi è chiuso, sostituito da una sala d’attesa Trenitalia Business Class, con le pareti di vetro oscurate e al suo interno le uniche panchine, a testimonianza dell’avanzare di un mondo non più distopico ma compiutamente neoliberale in cui possono sedersi solo i ricchi… e in cui solo se hai un biglietto puoi avvicinarti ai binari e non si può quindi neanche salutare un amico che parte nel momento in cui parte. Firenze è la città esclusiva, che più di tutte le altre città italiane incarna il paradigma della dissociazione intellettuale, prima che sociale. Non a caso, è a Firenze che la vita di un senegalese vale meno di un paio di vasi da decorazione della pubblica via»

«A Firenze non ci sono parchi verdi e accoglienti e ben tenuti: se non si paga, non si capisce perché occuparsene. Per vivere? Non è un’attività contemplata. Nei periodi più turistici, le trattorie più buone e antiche di Firenze chiudono per ferie: quelle buone, infatti, hanno un giro che prescinde dai turisti, e va in ferie coi clienti locali, che dal carnaio quale Firenze diventa scappano volentieri non appena possibile, come da una scena dell’Inferno dantesco, così che i quartieri appena fuori del gioiellino vetrina che è il centro storico si spopolano diventando strade fantasma in cui l’unica presenza umana è costituita da militari e turisti diretti in centro. Turisti e guardie: come nei parcheggi e le biglietterie dei parchi di divertimenti»

«Tutto ciò che serve a vivere bene e non solo a farsi guardare o ergersi a imperitura memoria dei bei tempi andati dell’abbiamo inventato la lingua italiana o dell’abbiamo prodotto le più belle opere d’arte sono qui considerati privi di valore, o meglio: non sono considerati affatto. Non potrei mai vivere a Firenze, forse nessuno potrebbe mai viverci… e infatti non ci vive nessuno. Come in tutte le cose, qualcosa si salva, e la vita resiste come la ginestra di Leopardi, inspiegabilmente: il lato buffo delle frasi di un netturbino apparentemente non in contrasto con la continua, terribile impressione di trovarsi in una scena di un film di Pieraccioni, la comunità dei migranti nel finto verde dei parchi fiorentini, il sapore del cibo dell’Antico Vinaio nonostante le orride e insensate magliette del personale piene di frasi con hashtag, la Strega Nocciola e la sua bontà al netto del prezzo, unico in Italia a competere col prezzo medio lionese di un gelato»