Cosa ci viene incontro? – Pandemia, strategie statali e imperativi economici

Il 13 aprile, il sito francese Lundi Matin ha pubblicato “Qu’est-ce qu’il nous arrive ?” (“Cosa ci viene incontro?”), un prezioso contributo di Jérôme Baschet, storico francese, riguardo alla fase attuale. Sottotitolo: “Molte domande e qualche prospettiva ai tempi del coronavirus”. Questa è la traduzione della seconda parte. Qui la prima, qui la terza ed ultima. Buona lettura.

La temperatura media della superficie terrestre sta aumentando ad una velocità senza precedenti. Si stima che oltre 250 miliardi di tonnellate di ghiaccio si siano sciolte solo nel 2018.

Piuttosto che descrivere di nuovo in dettaglio l’evoluzione della crisi sanitaria e della crisi finanziaria ed economica, qui ci si concentrerà sulle misure adottate dai diversi Stati e sulle analisi che se ne possono proporre. La quarantena generalizzata che si è imposta su scala planetaria e che sconvolge profondamente le nostre esistenze sarà dunque al centro dell’attenzione. I contributi su questo argomento non mancano e, senza ritornarci in dettaglio, occorre almeno insistere sul carattere altamente diseguale della quarantena. L’epidemia funge da rivelatore ed accentuatore delle disuguaglianze preesistenti; e la disugualianza è duplice, in riferimento tanto alla malattia e quanto alle condizioni della quarantena. Parecchie differenze sono state ampiamente descritte e denunciate: tra le categorie professionali più privilegiate che si danno al telelavoro e coloro che, invece, sono costretti a lavorare, in condizioni di tutela insufficiente e per salari che sono spesso più bassi; tra chi si è rintanato in seconde case in campagna e chi è cristallizzato in città; tra chi dispone di appartamenti confortevoli e di risorse significative e chi fa parte dei milioni che vivono in alloggi inadeguati, patendo una convivenza più difficile del solito e poco favorevole alle misure di prevenzione, senza parlare della situazione dei senza fissa dimora, dei carcerati, delle persone chiuse nei centri per migranti o delle donne e dei bambini alle prese con la violenza domestica. Le disuguaglianze razziali molto spesso intersecano e rafforzano quelle sociali, come indicato per esempio dalla flagrante sovrarappresentazione degli afro-discendenti tra le vittime del Covid-19 negli Stati Uniti (70% dei decessi in molti stati in cui non rappresentano che un terzo della popolazione). La sovraesposizione delle donne alla malattia è stata altrettanto sottolineata, sebbene le forme gravi e la mortalità colpiscano, poi, maggiormente gli uomini (con differenze tra i sessi molto variabili tra i paesi). Le disuguaglianze sono ancora più forti sul piano internazionale: molti paesi del Sud hanno sistemi sanitari fragili se non totalmente inadeguati; pullulano di quartieri insalubri; l’importanza dell’economia informale e la scarsità dei servizi pubblici lasciano una parte considerevole della popolazione senza alcuna risorsa non appena la quarantena si estenda a livello generale. C’è da temere che un’ampia diffusione della malattia in questi paesi, soprattutto in Africa, si trasformi in un’ecatombe molto più grave che altrove.

Occorre notare che, in queste regioni, il Covid-19 è spesso percepito come una “malattia dei ricchi”. È così che l’ha definito Miguel Barbosa, governatore dello stato di Puebla, in Messico (aggiungendo, in uno spirito prossimo al messianismo lopezobradorista, che “a noi poveri la malattia non farà nulla, siamo già immunizzati”). In modo più sensato, molte voci del Sud hanno criticato un’eccessiva mediatizzazione del coronavirus, legata alla sua diffusione iniziale nel Nord in contrasto con altre malattie più tipiche del Sud ma che non interessano nessuno. In Africa, il Codiv-19 è anche apparso come una malattia delle élite, dal momento che sono proprio i membri di quest’ultime, avvezzi ai viaggi in aereo e ben integrati nell’alta società globalizzata, i primi ad essere colpiti (in certi paesi, si è perso il conto di ministri, alti funzionari e generali). Ciò è in forte contrasto con l’Ebola, malattia proveniente dalle zone rurali dei paesi interessati, che ha toccato innanzitutto i più poveri. Va sottolineato, come controparte della constatazione inconfutabile di un’accentuazione delle disuguaglianze sociali di fronte al Covid-19, che è anche vero che questa pandemia colpisce prima di tutto alla testa. In questo, si tratta di una vera e propria malattia della globalizzazione: ha dapprima raggiunto le regioni più integrate ai flussi globali e subito attaccato con forza le élite dirigenti. Il caso di Boris Johnson è emblematico, ma va ricordato che anche altri capi di Stato o di governo, a cominciare da Angela Merkel e Donald Trump, sono stati in contatto con persone infette dal virus e avrebbero benissimo potuto contrarre la malattie; infine, la quantità di ministri colpiti, in Francia come in altri paesi, è ben lungi dall’essere puramente aneddotica. È un aspetto da tenere in considerazione, sebbene, man mano che la pandemia si generalizza, la sua diffusione e i suoi effetti si conformano sempre più alle gerarchie sociali vigenti (così, uno dei primi decessi provocati dal Covid-19 in Brasile è stato quello di una lavoratrice domestica costretta a continuare ad andare a casa della propria datrice di lavoro di ritorno da una vacanza in Italia).

Il Delta del Niger è stato devastato da decenni di sfruttamento incontrollato del territorio da parte dell’industria petrolifera. Foto: Sunday Alamba / AP

Veniamo all’analisi delle misure prese dai governi dei diversi Stati di fronte alla progressione della pandemia. Si dovrebbe forse vederci un ulteriore passo nell’attuazione dello stato di eccezione, un’apoteosi del controllo biopolitico delle popolazioni, la semplice perpetuazione delle liturgie della religione economica, o tutte queste cose insieme? Potrebbe essere utile cominciare da una descrizione più precisa e una cartografia sommaria delle reazioni statali. Diciamo innanzitutto che le strategie sanitarie di fronte a un’epidemia virale a rapida diffusione, e per la quale non esistano né cure certe né vaccini, sono essenzialmente tre (con ovviamente, molteplici varianti): lasciare che l’epidemia si propaghi aspettando che prevalga l’immunità di gruppo, come si fece per l’influenza di Hong Kong nel 1968-1970; optare per un contenimento drastico (con quarantena generale e blocco della maggior parte delle attività economiche e delle occasioni di assembramento), per bloccare il più rapidamente possibile l’ondata di contagi e farla passare sotto la linea delle capacità del sistema ospedaliero, il che lascia inalterato il problema di potenziali seconde e terze ondate; l’attenuazione che consiste nel prendere misure più morbide incentrate sulla prevenzione sanitaria, la restrizione parziale delle attività e l’isolamento dei soli malati per mitigare la prima ondata, ma con una circolazione più ampia del virus meglio adatta a preparare le onde successive. Più concretamente, le politiche adottate si possono suddividere in tre poli principali.

a) La quarantena iper-autoritaria ha senza dubbio la Cina come modello. È nota la brutalità della quarantena imposta da un giorno all’altro a partire dal 22 gennaio a Wuhan e nella regione del Hubei (60 milioni di abitanti) e poi ad altre città e regioni, con un enorme effetto paralizzante sul funzionamento della fabbrica del mondo. Le modalità della quarantena sono state delle più severe, escludendo quasi ogni motivo di uscita, inclusa la necessità di fare la spesa, incaricando squadre del Partito di portare ad ogni famiglia gli approvvigionamenti necessari. Il rigore del controllo e della repressione è stato imparagonabile a quanto si possa conoscere in Europa, con l’arresto immediato e il rischio di sparizione per chiunque diffondesse messaggi che mettevano in dubbio la buona gestione da parte del governo (per esempio, video che mostravano la situazione disastrosa negli ospedali). Oggi, nel momento in cui, dopo due mesi e mezzo di quarantena, gli abitanti di Wuhan ricominciano ad uscire di casa, la Cina impiega tutte le risorse della sua propaganda per apparire, agli occhi della propria popolazione e del mondo intero, come un modello di efficienza dinnanzi all’epidemia. Eppure, al di là delle polemiche sul numero dei morti (si parla di 40 000 o 80 000 invece dei 3 000 ufficiali), sarà difficile far dimenticare i fallimenti della sua gestione iniziale. È noto il caso del dottor Li, medico che per primo ha dato l’allarme, è stato incarcerato dalle autorità del Hubei ed è diventato un eroe popolare dopo la morte. Ma il fallimento è stato ben più profondo. Dopo la SARS nel 2003, la Cina aveva istituito un imponente dispositivo di monitoraggio dei rischi infettivi: il Centro cinese di controllo e prevenzione delle malattie, che impiega 2 000 persone, aveva per obiettivo l’individuazione più rapida possibile di qualsiasi nuova malattia, con lo scopo di arrestarne la propagazione. Tuttavia le autorità del Hubei hanno impedito che i segnali di allerta raggiungessero Pechino e anche se già a partire da metà dicembre la crescita del numero di casi stava accelerando, il direttore del centro nazionale non ne è venuto a conoscenza che il 30 dicembre, e in maniera indiretta. La tendenza a sottovalutare l’epidemia ha ancora prevalso fino al 22 gennaio, giorno di inizio della quarantena nel Hubei: solo quattro giorni prima, a Wuhan si è tenuta un’immensa festa di 40 000 persone per il nuovo anno lunare tutta in onore di Xi Jinping. Si stima anche che milioni di persone abbiano lasciato la regione tra l’annuncio della quarantena e la sua effettiva applicazione, con le conseguenze che si possono immaginare per quanto riguarda l’espansione dell’epidemia. Così, il cattivo funzionamento di ingranaggi locali dello Stato cinese e la corruzione generalizzata che lo affligge, così come la volontà di proteggere ad ogni costo la vita del Partito, hanno causato una propagazione dell’epidemia che avrebbe potuto essere ridotta del 95% se non fossero state perse tre settimane preziose. Quando si valuta l’efficienza della gestione autoritaria della crisi da parte della Cina, non va dimenticato il disastro iniziale che ha reso inutile quel sistema di prevenzione che avrebbe dovuto evitare proprio lo scoppio di una vasta epidemia. Ci si può anche chiedere se la forza, addirittura la brutalità della risposta dello Stato, non siano direttamente proporzionali agli errori che tenta di nascondere o minimizzare. Peraltro, questa ipotesi potrebbe forse essere formulata anche per altri paesi.

Acqua inquinata proveniente dalle attività dell’industria mineraria, vicino a Johannesburg, Sudafrica, il 24 settembre 2015. Foto: Mike Hutchings / Reuter

b) I dragoni asiatici, in particolare Hong Kong e la Corea del Sud, sembrano essere riusciti a mettere a punto delle misure di contenimento precoce e di attenuazione che hanno permesso, almeno in un primo tempo, di controllare l’epidemia senza bloccare radicalmente l’economia. Esiste, però, un insieme di condizioni ben definite che hanno reso questa risposta possibile: caratteristiche geografiche specifiche, con territori di estensione modesta e di natura insulare o quasi-insulare; preparazione rigorosa, dovuta soprattutto all’esperienza della SARS nel 2003, che ha permesso di agire a uno stadio molto precoce; mezzi materiali importanti che hanno consentito l’uso generalizzato di mascherine, una grande capacità di test, una pratica massiccia di disinfezione urbana (a Seoul, le metro sono interamente disinfettate alla fine di ogni corsa); un sistema sanitario dalle elevate prestazioni (7 posti di terapia intensiva ogni 1 000 abitanti, ovvero un po’ più che in Germania e più del doppio della Francia); ma anche l’impiego immediato di tecniche di controllo della popolazione (tracciamento dei malati e dei loro contatti tramite sistemi informatici). In tal modo, coniugando forza economica ed efficienza statale, la Corea del Sud è assurta alle cronache per essere riuscita ad appiattire la curva dei contagi senza troppo compromettere la macchina produttiva.

c) Gli iper-liberali darwinisti e i populisti illuminati hanno a lungo rifiutato di sacrificare l’economia per questioni di salute. Boris Johnson è stato sostenitore dell’atteggiamento un tempo dominante, ovvero lasciare che la malattia si propaghi fino all’ottenimento di una immunità di gregge sufficiente a far sì che l’epidemia finisca per esaurirsi da sè. Ha dovuto tuttavia fare marcia indietro -ancor prima che il virus lo spedisse in terapia intensiva- quando è apparso che il costo umano dell’inazione sanitaria avrebbe superato il livello socialmente tollerabile (le proiezioni dell’Imperial College stimavano mezzo milione di morti solo in Gran Bretagna). Con le giravolte imprevedibili che lo caratterizzano, anche Donald Trump ha tentato di minimizzare il più a lungo possibile la gravità dell’epidemia e limitare le misure di contenimento per non creare difficoltà economiche. La sua dottrina era chiara: “non possiamo adottare un rimedio peggiore del problema”, giacché “il blocco dell’economia ucciderà delle persone”. Come di consueto, Trump espone la verità nuda e cruda dell’economia: è lei che bisogna salvare, e questo deve vincere su ogni altra considerazione. In questo campo dove solitamente la fa da padrone, la scena gli è stata rubata dal vice-governatore del Texas, che ha dichiarato che gli anziani, a cominciare da se stesso, dovessero accettare di sacrificare la propria vita per il buon funzionamento dell’economia e per il bene del paese. Jair Bolsonaro ha manifestato lo stesso rifiuto della gravità dell’epidemia, gli stessi atteggiamenti noncuranti e sprezzanti delle misure sanitarie, lo stesso rifiuto delle misure che rischiano di provocare la paralisi del paese. Si aggiunga, nel suo caso, il rilievo dato alla necessità delle classi popolari di lavorare per sopravvivere e una giustificazione più esplicitamente colorata di religione: “mi dispiace, della gente morirà, ma questa è la vita”; “dobbiamo lavorare, ci sono dei morti ma questo dipende da Dio: non possiamo fermare tutto”. Ciononostante, proprio come Trump il quale, senza prendere tutte le decisioni attese dal capo del governo federale, ha finito per accettare le misure sanitarie suggerite dai suoi consiglieri, così Bolsonaro ha perso la partita. Si è inimicato tutti i governatori e ha pure visto evaporare il sostegno dell’esercito, come testimonia la vicenda nella quale i generali gli hanno impedito di silurare il ministro della salute, mettendo in evidenza quanto avesse perso il controllo sulle decisioni di governo. Così i seguaci più cinici di un’economia pura, senza temere di ammettere la propria completa indifferenza per la vita umana, hanno finito per mangiarsi le mani e si sono conformati alla tendenza globale della quarantena generale.

Un uomo cammina sulla costa del Mar Arabico, a Mumbai, in India. il 30 luglio 2012. Foto: Rajanish Kakade / AP

Va ancora inserito in questa categoria il caso, a priori ben distinto, del presidente messicano Andrés Manuel Lopez Obrador. Considerato da alcuni come eroe della sinistra progressista, nondimeno ha eguagliato Trump e Bolsonaro per il modo di disprezzare le misure di prevenzione, di continuare a tenere riunioni, di abbracciare i propri sostenitori e di rifiutare ostentatamente il disinfettante fornito ai propri ministri. Le sue dichiarazioni non sono state meno sorprendenti (secondo lui, il virus non poteva far niente in Messico, perché si tratta di un grande paese di cultura e perché la lotta contro la corruzione permette di avere ottimi stanziamenti per la sanità), fino ad arrivare al giorno in cui, disdegnando la laicità dello Stato, ha brandito i santini conservati nel portafogli presentandoli come vere e proprie “guardie del corpo” contro il virus. Allo stesso tempo, nonostante le segnalazioni si moltiplicassero nel paese, si rifiutava di prendere misure rischiose per le attività economiche. Lopez Obrador non è forse l’uomo dell’economia pura, ma non è comunque la perfetta incarnazione dello “sviluppismo”, che ne è la versione progressista. Basta vedere, nel momento in cui alla fine la quarantena entra in vigore, la priorità che continua ad attribuire alla realizzazione delle sue grandi opere infrastrutturali, come il contestato “Treno maya”. Complessivamente, i casi di Lopez Obrador, Trump e Bolsonaro mostrano quanto il fanatismo dell’economia (nelle sue diverse varianti) e quello della religione si riuniscano e s’intreccino a meraviglia. L’ipotesi benjaminiana del capitalismo come religione mai è stata più appropriata.

Che ne è adesso dei paesi europei, che ne è della Francia? L’esitazione e l’improvvisazione hanno decisamente prevalso, in un contesto di impreparazione sia sul medio termine sia di fronte all’imminente pandemia annunciata. Contro ogni evidenza, ogni governo ha sperato che il proprio paese sarebbe stato risparmiato (come in Francia, quando già l’Italia era fortemente colpita). Nell’impreparazione e nella mancanza di anticipazione c’è un tratto squisitamente presentista che, soprattutto in Francia, ha raggiunto proporzioni criminali, ma c’è anche più semplicemente una forma di rifiuto legata alla volontà di credere che si potrà evitare di prendere misure dannose per il funzionamento dell’economia. In Francia, la svolta è avvenuta tra il 12 e il 16 marzo, ovvero tra i due interventi di Macron il secondo dei quali ha annunciato la quarantena generale. Si dice spesso che le proiezioni dell’Imperial College avrebbero anche in questo caso avuto un ruolo determinante: l’estensione della mortalità prevedibile aumenta improvvisamente il costo politico dell’inazione o dell’insufficienza di azione pubblica. Il primato della questione economica non è più sostenibile.

Resta da capire perché sia stata allora adottata l’opzione a) piuttosto che l’opzione b). Il fatto è che non erano soddisfatte le condizioni necessarie alla realizzazione di quest’ultima (la via coreana). L’impreparazione era troppo grande ed era troppo tardi per agire in tal modo. Soprattutto, mancavano tutti i mezzi materiali: niente maschere, niente tamponi, posti letto insufficienti, niente cultura della prevenzione. È qui che la responsabilità delle precedenti politiche sanitarie si fa sentire: un’altra strategia sarebbe stata possibile, ma non nelle condizioni d’impreparazione e insufficienza materiale della Francia che, come la maggior parte dei paesi vicini, appare vittima della “terzomondizzazione” provocata da decenni di neoliberismo. Non appena è stata ammessa la necessità di limitare la propagazione di un virus sconosciuto e subdolo nel proprio sviluppo micidiale, non c’è stata allora altra soluzione credibile che quella della quarantena generale. Rimane comunque il caso di qualche paese europeo, a cominciare dalla Germania di cui, curiosamente, si parla piuttosto poco. Organizzazione efficiente, mezzi materiali importanti e qualità del sistema ospedaliero (due volte più posti letto per abitante che la Francia) spiegano probabilmente un livello di mortalità più basso nonostante le misure di contenimento siano più morbide (come è anche il caso della Svezia). La specificità della potenza dominante in Europa potrebbe spiegare la possibilità di una via intermediaria tra quella dei paesi vicini e quella della Corea del Sud?

Ciminiere e fumi di una zona industriale. Foto: Hramovnick / iStock

Insomma, le decisioni degli Stati si possono suddividere in uno spazio organizzato in tre poli principali: il minimalismo sanitario liberal-darwinista; l’attenuazione realizzara da Stati ben preparati e dotati di importanti mezzi materiali e tecnici; la quarantena generalizzata, realizzata in maniera più o meno autoritaria. Si deve aggiungere che molti governi hanno dato prova di lunghe esitazioni, presi com’erano tra le esigenze sanitarie e la preoccupazione di nuocere il meno possibile al buon andamento dell’economia, ma hanno finito quasi tutti, con più o meno convinzione e con più o meno ritardo, per conformarsi all’opzione della quarantena, che tocca ormai più di 4 miliardi di persone nel mondo.

È impressionante vedere come dei governi che sono tutti, in misura variabile, bravi soldatini del mondo dell’Economia abbiano potuto optare, almeno inizialmente, per delle strategie tanto differenti. Devono dunque essere in gioco fattori diversi dalla semplice sottomissione agli imperativi dell’economia: il grado di preparazione e il livello di potenza materiale (in altre parole, il posto nella gerarchia dello sviluppo capitalista); le differenti tradizioni politiche e le varie articolazioni tra Stato ed economia che ne risultano. Ma, alla fine, la via coreana, la sola che permetta di conciliare esigenze sanitarie e imperativi economici, è accessibile solo a un numero esiguo di prescelti. Per quanto riguarda la via liberal-darwinista, essa è l’affermazione della verità stessa dell’economia che si impone sprezzante di qualsiasi considerazione sanitaria e attenzione per la vita, ma che non ha tenuto di fronte alla portata della mortalità annunciata e ha dovuto cedere ovunque. Non resta dunque che l’opzione a), quella della quarantena generalizzata che per arrestare la progressione dell’epidemia ha anche paralizzato l’economia mondiale.

Ecco allora la cosa più incredibile. A malincuore e con tutti i colpevoli ritardi e tutte le ambiguità che non si è mancato di osservare (tra un discorso marziale sul rispetto rigoroso della quarantena e gli sforzi per mantenere l’attività di certi settori economici evidentemente non essenziali), ma alla fine lo hanno fatto comunque. Hanno fatto l’impensabile e messo l’economia mondiale quasi in arresto, scatenando una recessione -e presto una crisi economica- ben maggiore di quella del 2008 e che merita il confronto, a quanto afferma lo stesso FMI, con la crisi del 1929.

Come comprendere questo? L’economia ha forse improvvisamente smesso di regnare sovrana? Perché tali misure? Perché sarebbe semplicemente ovvio che la priorità è “salvare vite”, come pretenderebbe il discorso medico? Eppure tutte le vite che non si salvano nel corso ordinario del mondo dell’Economia ci ricordano che non è affatto ovvio. Il fatto che non si sia agito così nelle grandi epidemie del secolo scorso avvalora l’assenza di ogni ovvietà in merito. Allora come sfuggire all’ingenuità di una lettura “umanista” e alla denuncia dogmatica di un primato sempre assoluto degli imperativi economici?

A cosa risponde l’esigenza, largamente contemplata dall’azione pubblica, di “salvare vite”? Sarà l’apoteosi della governamentalità biopolitica? Il Leviatano statale avrà fiutato la migliore occasione per imporre un rafforzamento dei suoi dispositivi di sorveglianza e controllo, con il pretesto dello stato di emergenza sanitaria permanente in fase di elaborazione? Sarà perchè, nelle condizioni attuali, ne va della capacità degli Stati di assicurare la riproduzione dei rapporti sociali, attraverso i servizi pubblici essenziali? O più banalmente si tratta di salvaguardare le “risorse umane” minacciate dal virus?

La più grande isola di plastica galleggiante dell’Oceano Pacifico copre una superficie di 1,6 milioni di chilometri quadrati.

Potrebbe essere interessante quello che si delinea come un discorso ufficiale emergente in tempi di coronavirus. L’articolo che la direttrice del FMI e il suo omologo dell’OMS, Kristalina Georgieva e Tedros Adhnom Ghebreyesus, hanno firmato insieme sul Daily Telegraph del 3 aprile ne è probabilmente un documento chiave. Come interesse centrale ha quello di tentare un riassorbire la contraddizione tra questione sanitaria e imperativo economico: “tutti i paesi si trovano di fronte alla necessità di contenere il contagio al prezzo della paralisi delle loro società e delle loro economie” affermano innanzitutto gli autori, subito prima di negare che si tratti di un dilemma: “salvare vite o salvare i mezzi di sussistenza? Controllare il virus è, in ogni caso, condizione preliminare per salvare i mezzi di sussistenza”; “il corso della crisi sanitaria mondiale e il destino dell’economia mondiale sono inestricabilmente collegate. Combattere la pandemia è una necessità perché l’economia possa recuperare”. Certo, si fatica a immaginare cosa un messaggio comune emanato da questi due organismi internazionali potrebbe affermare se non questa grande unità di esigenze sanitarie ed economiche. Significativo è invece il fatto che le misure connesse alla lotta contro la pandemia non siano affatto presentate come un ostacolo al funzionamento dell’economia, ma come una condizione per il suo completo ristabilimento. Bill Gates, molto impegnato nelle questioni sanitarie e del resto co-organizzatore di Event 201 Scenario, ha precisato: “nessuno può continuare come se niente fosse. Qualunque ambiguità su questo punto non farebbe che aggravare le difficoltà economiche e aumentare le probabilità che il virus ritorni e causi ancora più morti”; “se prendiamo delle buone decisioni, sulla base delle informazioni scientifiche, dei dati e dell’esperienza del personale sanitario, possiamo salvare delle vite e fare in modo che il paese riprenda il lavoro”. Dietro la combinazione di esigenze sanitarie ed economiche, si disegna la triplice alleanza di capitale, potere politico lungimirante ed esperti del mondo scientifico.

Questa ideologia, elaborata a livello globale e che si fonda su un’articolazione che si presume non conflittuale tra questione sanitaria e imperativi economici, è certamente chiamata ad affermarsi sempre di più negli anni a venire. Essa offrirà alle grandi imprese estese opportunità pubblicitarie, in cui il health-washing potrebbe concorrere con il green-washing finora in voga, del tipo: “come vedete mettiamo le vite davanti al profitto”. Nell’immediato, essa esclude di evitare le conseguenze della pandemia in termini di mortalità e di disorganizzazione (sociale, politica e direttamente economica). Nel mondo dell’Economia, non si può agire nel disprezzo aperto ed esplicito di milioni di vite umane sotto gli occhi di tutti; ma “salvare vite” vale comunque di più se fatto per motivi di necessità economica che in maniera disinteressata.

Gli Stati sono ancora degli ingranaggi essenziali della macchina economica globalizzata. Si trascura a volte questo fatto, perché il normale funzionamento di quest’ultima fa prevalere l’integrazione crescente, se non proprio simbiotica, delle sfere politiche ed economiche. Ma non appena le difficoltà si accentuano, gli Stati ritrovano un ruolo che è più autonomo solo in apparenza: davanti ai fattori di crisi economica, essi agiscono come garanti in ultima istanza dei mercati, come stanno facendo in questo momento con forza poderosa; davanti alle crisi sociali, si sentono in dovere di agire coniugando promesse di cambiamento e forme sempre più intrusive di controllo e repressione; davanti alle crisi sanitarie, si sentono in dovere di agire per preservare la vita e la salute delle popolazioni. Non farlo, o farlo con mancanze, significa esporsi ad un accresciuto discredito -in un contesto in cui la credibilità dei governanti è seriamente intaccata dappertutto, se non proprio vacillante. Del resto, come già suggerito, l’intensità delle misure prese sembra talvolta proporzionale agli errori commessi, all’impreparazione e ai colpevoli ritardi che i governanti cercano di occultare o di far dimenticare, di fronte a movimenti di indignazione di cui i procedimenti giudiziari in corso o a venire non sono che una piccola parte. Infine, bisognerebbe forse tener conto di un ulteriore fattore che rafforza il rischio di disorganizzazione politica ed economica agitato dalla pandemia di Covid-19. Come visto, si tratta di una malattia che colpisce prima alla testa: si è subito diffusa nelle zone più centrali del mondo globalizzato e si è rapidamente diffusa nelle cerchie di dirigenti (capi di Stato o di governo colpiti o a rischio, ministri e parlamentari, generali e alti funzionari, uomini d’affari, eccetera). È possibile che il rischio di disorganizzazione delle catene di comando, in caso di propagazione incontrollata della pandemia, sia stato molto elevato: salvare delle vite diventa allora salvare il buon funzionamento del mondo dell’Economia. La reazione sarebbe stata proprio la stessa se la pandemia si fosse propagata esclusivamente o principalmente tra le popolazioni povere del Sud del mondo?

Il fumo sale dagli impianti di una centrale nucleare in funzione.

d) Prima di concludere questa parte, va menzionato un caso notevolmente differente, che potrebbe rivelarsi illuminante. Mentre il presidente messicano ostentava giorno dopo giorno di negare della gravità della malattia e di rifiutare ogni misura seria di prevenzione e di protezione, gli zapatisti e le zapatiste del Chiapas hanno sorpreso per la celerità e la chiarezza della loro reazione. Nel suo comunicato del 16 marzo, l’EZLN dichiara l’allerta rossa nei territori ribelli, raccomanda ai consigli di buon governo e alle comuni autonome di chiudere i caracoles (centri regionali) e invita i popoli del mondo a prendere coscienza della gravità della pandemia e adottare “misure sanitarie eccezionali”, senza per questo abbandonare le lotte in corso. Ispirati dalla loro diffidenza per le imposizioni statali -e alle volte anche, in modo specifico, da parole come quelle di Giorgio Agamben sull'”invenzione dell’epidemia” come leva per lo stato di eccezione, o sulla miseria di una vita nuda, privata di ogni contatto fisico- sono stati numerosi, negli ambienti radicali, a tendere subito verso il rifiuto delle misure di distanziamento fisico o di quarantena e ad opporre a queste un dovere di resistenza. Nei giorni successivi al comunicato, i e le responsabili della sanità autonoma zapatista si sono scambiati le informazioni disponibili sui sintomi della malattia e le sue modalità di contagio e hanno raccomandato misure di prevenzione e contenimento, quali la sospensione delle assemblee o la messa in quarantena delle persone che rientravano da altre regioni. Ma è spettato alle comunità stesse prendere decisioni che esse consideravano opportune, a seconda delle particolari condizioni in ciascun luogo. Questa esperienza -che non è certamente la sola nel suo genere e che si è probabilmente prodotta in molte regioni in cui le tradizioni comunitarie dei nativi restano forti- permette di rappresentare meglio la forma che potrebbe avere un’organizzazione di sanità popolare ed autogestita. Permette anche di comprendere che misure drastiche ed impegnative come una quarantena o l’impossibilità di toccarsi e di abbracciarsi diventano odiose solo per la forma che assumono quando sono imposte dallo Stato, a forza di controlli di polizia e di misure repressive: possono invece esistere delle forme di quarantena e distanziamento decise collettivamente ed autorganizzate, al di là dei meccanismi istituzionali statali.

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La pandemia provocata lal SARS-CoV-2 è giunta ad approfondire una frattura tra l’esigenza sanitaria di tutela delle popolazioni e la conservazione dell’apparato economico. La via che ha permesso di conciliare con meno danni possibili queste due preoccupazioni si è rivelata inaccessibile alla maggior parte dei paesi, per mancanza di preparazione e di mezzi materiali -sommandosi gli effetti di presentismo, neoliberismo e disuguaglianze planetarie. La via cinica di un sacrificio palese delle vite umane al dio Economia ha finito per apparire politicamente insostenibile. Le misure drastiche di contenimento e di quarantena che sono dunque state adottate hanno bloccato una parte considerevole dell’economia mondiale. Anche se la nuova versione dell’ideologia dominante globalizzata si adopera per affermare che non esiste alcuna contraddizione tra la questione sanitaria e quella economica – essendo la pandemia infatti la condizione per il ripristino del buon funzionamento della seconda – è evidente che le politiche adottate mondialmente sono andate a collidere con gli imperativi economici, al punto da innescare la più grave crisi economica dopo quasi un secolo

In tale contesto, è ovvio che gli Stati cerchino di trarre il massimo vantaggio dalla situazione si emergenza sanitaria, imponendo uno stretto controllo delle popolazioni: rafforzamento del potere poliziesco (quando non addirittura militare), perfezionamento delle tecniche di sorveglianza e controllo, specie tramite il tracciamento informatico, misure di eccezione che rischiano di diventare durature, deroghe alla legislazione sul lavoro, generalizzazione del telelavoro e del tele-apprendimento, isolamento che permette di spezzare i legami di solidarietà e le mobilitazioni collettive emergenti, eccetera. La “strategia d’urto” descritta da Naomi Klein, che consiste nel giustificare l’imposizione di misure impopolari con la necessità di rispondere a gravi crisi è più che mai all’opera (e come tale deve essere combattuta), ma limitarsi a quest’analisi significherebbe non vedere che una parte della realtà: la crisi sanitaria è reale e ha costretto la maggior parte dei governi a prendere misure in contrasto con le loro normali priorità. Dalla comprensione di tale inversione di tendenza -ovviamente provvisoria e giustificata in nome dell’economia stessa dal nuovo discorso dominante- dovranno prendere le mosse analisi più approfondite. Possiamo comunque già adesso trarne la seguente considerazione: invece di pensare le misure di quarantena solo come espressione astratta del carattere autoritario dello Stato, come la quintessenza del controllo biopolitico delle popolazioni o come la semplice perpetuazione dell’onnipotenza dell’economia (tutte analisi che sono tutto sommato probabilmente necessarie), si dovrebbe ammettere che tali misure sono, per i potenti stessi, cariche di tensioni e di contraddizioni -come sarà anche la posta in gioco della fine della quarantena. Malgrado il carattere schiacciante delle forme di dominio e la loro tendenza a rafforzarsi continuamente, non andrebbe dimenticato che i governanti e le élite mondiali agiscono sotto la minaccia costante della delegittimazione e della perdita di fiducia, del malcontento e della rabbia sociale che ha condotto negli ultimi due anni a delle sollevazioni popolari di proporzioni decisamente inaspettate -processi che non potranno che accentuarsi sulla scia della crisi del coronavirus.

Resti di foresta dopo gli incendi in Amazzonia, Altamira, stato di Para, Brasile, 27 agosto 2019 Foto: Joao Laet / AFP via Getty Images