Convergenze ideologiche: il circolo fallace delle sociobiologie
Le coincidenze a volte sanno essere sorprendenti. Nelle ultime due settimane ho esposto su questo blog le mie perplessità su chi ha la pretesa di considerare universali, naturali, indiscutibili presunti sistemi sociali o leggi economiche quando piuttosto la loro giustificazione è ideologica.
Ho cercato di dimostrare, nei dibattiti sviluppatisi in calce agli ultimi due post, che non esiste un’astratta e settecentesca “natura umana”, perché l’uomo vive in ogni epoca e in ogni luogo immerso in un ambiente culturale e imbrigliato in una rete di rapporti sociali.
E cosa mi capita di andare a seguire? Una conferenza, tenuta da Maria Turchetto, docente di epistemologia delle scienze sociali all’Università di Venezia, peraltro già da me conosciuta come direttrice de L’Ateo, che tratta proprio del tema che mi ha ultimamente affascinato e che continua ad appassionarmi. Ve ne propongo un riassunto, ricostruito dai miei appunti e dalla mia memoria.
Non molti sanno che nella Bibbia sono contenute due versioni della Genesi: in una Dio crea l’uomo a sua immagine e lo crea maschio e femmina, nell’altra, quella più conosciuta, la donna Eva è creata da una costola di Adamo, successivamente alla creazione di quest’ultimo. Nella prima versione i due generi sono creati uguali, mentre nella seconda esiste una evidente subordinazione della donna all’uomo, sia materiale (deriva da una sua parte) che temporale (è creata dopo).
Richiamandosi all’esegesi biblica, è proprio questo argomento che, nel 2004, l’allora cardinal Ratzinger usò per giungere a una conclusione sulle differenze di genere che si può riassumere con la seguente: è giusto che la donna si adoperi per la conservazione della famiglia tradizionale. La donna ideale è una brava casalinga.
Partendo da presupposti differenti, di natura scientifica, negli anni Settanta E. O. Wilson, considerato il fondatore della sociobiologia, giunse alle stesse conclusioni: le donne devono anzi non possono non stare a casa e svolgere un ruolo di cura, perché tale ruolo è determinato geneticamente.
Potrebbe sembrare strano che basandosi su due pensieri così diversi quali quello scientifico e quello religioso si raggiungano idee tanto simili. Eppure questi due ragionamenti hanno qualcosa in comune: il determinismo. Nel caso dell’argomentazione religiosa del cardinal Ratzinger si tratta di un determinismo metafisico («Dio ha detto così quindi non può che essere così»), nell’altro, di derivazione scientifica, di un determinismo meccanicistico («così è scritto inevitabilmente nei geni»); ma sempre di determinismo si tratta, di affermazione dell’esistenza di leggi naturali a cui è impossibile evitare di sottostare.
Le argomentazioni di Wilson suscitarono moltissimo interesse ed ebbero successo, soprattutto presso il pubblico allora crescente di lettori di divulgazione scientifica, ma in verità non si trattava di un fenomeno nuovo: era l’ultimo di innumerevoli esempi storici di utilizzo della biologia come strumento di legittimazione delle disuguaglianze sociali.
Tale utilizzo fu fortemente criticato dal genetista Lewontin, che confutò la teoria sociobiologica fin dalla sua formulazione. In un suo libro, intitolato Biologia come ideologia, egli getta luce sulla fallacia dei presupposti sociobiologici su cui Wilson elaborava le sue teorie: l’errore di Wilson risiede nel considerare un particolare sistema sociale come espressione universale e naturale del genere umano, anziché come costruzione di forze sociali, culturali, politiche.
In questo, nell’epoca moderna è possibile la sostituzione della religione con la scienza come strumento di giustificazione della realtà sociale esistente, affermando attraverso il determinismo l’impossibilità di alternative.
Storicamente questo è accaduto in epoca moderna con il darwinismo sociale, il razzismo scientifico, la sociobiologia di Wilson. Lorenzo Calabi (in Darwinismo morale) ha definito «circolo fallace» l’artificio dimostrativo che sarebbe sotteso ai ragionamenti basilari di queste teorie, ovvero:
Astraggono un comportamento sociale moderno e lo traspongono in una condizione naturale, […] dando ad esso un significato in quella condizione. Astraggono poi il significato e lo ricollocano nella contemporaneità
concludendo così che quel comportamento è naturale e intrascindibile. Questo salto ontologico non è razionalmente accettabile. Allo stesso modo, qualcuno potrebbe osservare le formiche in fila indiana e notare che somigliano a operai lungo una catena di montaggio; tornato poi in fabbrica, troverebbe gli operai al lavoro e, vedendoli in fila indiana, concluderebbe che, dal momento che anche le formiche adottano un comportamento simile, questo deve essere naturale («Toh, gli operai fanno come le formiche, evidentemente è una legge di natura!»).
Il darwinismo sociale è stato formulato da Spencer nella seconda metà dell’Ottocento prendendo spunto dalla teoria darwiniana dell’evoluzione attraverso la selezione naturale: secondo Spencer, ciò che accade in natura, ovvero la lotta per la sopravvivenza e la vittoria del più forte, si replica all’interno della società e ciò avviene inevitabilmente in quanto dovuto a leggi insite nella natura animale dell’uomo. Oltre che per la forzatura e l’interpretazione inesatta della propria teoria (che parla di sopravvivenza del «più adatto» e non del «più forte»), Darwin respinse la paternità di tale trasposizione sociale dell’evoluzionismo non appena gli fu rinfacciato di aver giustificato Napoleone e ogni commerciante che raggiri i clienti, in quanto più forti. Anzi, in opere successive esaltò le qualità collaborative e di solidarietà dell’animale uomo.
Marx, con una strizzata d’occhio al naturalista, riconosceva il circolo fallace nella concorrenza e nell’interpretazione che Spencer ne dava («Nel mercato c’è concorrenza. La competizione è naturale. Dunque il mercato è naturale»).
In effetti, nel caso del socialdarwinismo, il circolo fallace di cui parla Calabi non si chiude: Darwin aveva esplicitamente preso ispirazione, nella formulazione della sua teoria, dall’economista Malthus; ma Malthus non aveva preso ispirazione dalla natura. Si tratta dunque di un semicerchio, in cui la fallacia non risiede tanto in un salto ontologico bensì nell’invasione, da parte del darwinismo, di un ambito esterno al suo campo di applicabilità.
La sociobiologia di Wilson attribuisce ai geni la responsabilità per comportamenti sociali, procedendo come segue: descrive caratteri comuni dell’essere umano in ogni luogo e in ogni tempo; afferma che tali caratteri sono universali perché genetici; conclude che, essendo genetici, sono stati determinati dal processo della selezione naturale, che seleziona caratteri vantaggiosi per l’individuo e, per estensione, per la specie. Ovvero: viviamo nel migliore dei mondi possibili.
I più notevoli tra i caratteri comuni sono, guarda caso: eterosessualità, monogamia, amore per la proprietà privata, predominio del sesso maschile, xenofobia. Si tratta insomma di un pensiero profondamente reazionario espresso in forma scientifica. Oggi un qualunque antropologo può confermare che i caratteri sopracitati non sono effettivamente comuni alle società umane in ogni luogo e in ogni tempo, eppure liquidare la teoria di Wilson come stupida è inutile e potrebbe addirittura rivelarsi dannoso: le masse di “profani”, infatti, notoriamente tendono a optare per la via più lineare, semplice e breve e trascurare questo fenomeno comporta il rischio che si ripetano grandi tragedie come quelle che il secolo XX ha tristemente conosciuto.
Va quindi confutata razionalmente punto per punto. La confutazione sistematica di questo modus operandi prende in esame i passaggi logici in cui si articola e l’affidabilità sperimentale delle presunte affermazioni scientifiche in esso contenute:
–la scelta di caratteri comuni non è scientifica, perché non contempla un controllo; inoltre ignora concetti elementari di antropologia
–affermare che i caratteri comuni sono universali significa confondere la descrizione di un fenomeno con la sua spiegazione
–affermare che i caratteri comuni sono genetici non ha semplicemente senso: sarebbe come dire che siccome in Finlandia sono quasi tutti luterani allora esiste il gene del luteranesimo.
–il meccanismo di espressione genica proposto denota una profonda ignoranza dei principi di biologia dello sviluppo (che del resto erano ancora poco chiari negli anni Settanta)
–ricondurre la presenza di ogni carattere a eventuali vantaggi evolutivi significa seguire erroneamente un ingenuo adattazionismo (mentre non tutto ciò che c’è c’è perché favorito dalla selezione naturale, come spiegato elegantemente qui da Lewontin e Gould). Ragionando così, potremmo dimostrare che le mele cadono verso il basso perché la selezione naturale ha sfavorito quelle che “cadevano verso l’alto”.
Insomma, i tentativi di legittimazione biologica dei sistemi sociali sono di scarso grado di scientificità. Da sempre le classi dominanti hanno cercato di fare apparire le differenze di classe come differenze antropologiche naturali, ma ciò impone loro di rievocare il mondo naturale, in cui, purtroppo per loro, l’enorme varietà di comportamenti e strategie rende del tutto arbitraria la scelta che operano sugli aspetti della realtà: per esempio, in natura la formica regina è la casalinga perfetta, non esce mai di casa e non fa altro che sfornare figli, e sarebbe un ottimo modello per chi volesse sostenere le disuguaglianze di genere, se non fosse che è incestuosa, dato che solo una copula con i propri figli maschi può farle avere figlie di sesso femminile. Ora, nessuno prenderà la formica regina come esempio per dimostrare la naturalità dell’incesto, invece ciò può accadere per il ruolo di cura del sesso femminile o per la catena di montaggio fordista.
Confutati i principi della sociobiologia, resta da individuare cosa, se non i geni, determina i comportamenti umani nelle loro relazioni sociali. Nel fare questo, si deve reprimere la tendenza a considerare l’umanità, specificità distintiva del genere umano, in contrapposizione all’animalità.
In Ontogeny and phylogeny, S. J. Gould insiste sulla continuità tra uomo e altri animali: sul piano genetico, uomo e scimpanzé sono affini per più del 98%. Allora cosa ci contraddistingue sul piano cognitivo? La risposta deriva paradossalmente proprio dall’alto grado di affinità genetica con i primati più vicini all’uomo: strettissima somiglianza genetica ma importanti differenze nei caratteri rivelano che le differenze genetiche interessano geni regolatori, che influiscono sulla costruzione dell’assetto morfologico, sui tempi dello sviluppo, sull’espressione di altri geni. Da qui deriva l’ipotesi, oggi piuttosto accreditata, che l’evoluzione dell’uomo a partire dalle grandi scimmie primitive sia un caso di neotenia, ovvero di ritenzione di caratteri infantili nello stadio di vita adulto: un uomo appena nato somiglia molto più ad un feto tardivo di scimmia che a una scimmia appena nata e un uomo adulto somiglia molto più ad una scimmia appena nata che a una scimmia adulta. L’uomo ha mascelle non prominenti e denti piccoli, ha pochi peli sul corpo, ha una notevole capacità di apprendimento, è capace di digerire il latte anche da adulto, nelle femmine la vulva è in posizione più frontale che negli altri ominidi, e soprattutto la testa nei neonati è grande in proporzione al resto del corpo e contiene un cervello che alla nascita non è ancora completamente sviluppato.
Da quest’ultima caratteristica dipende il fatto che lo stadio dello sviluppo dell’encefalo che nelle altre scimmie è fetale, nell’uomo avviene in un neonato che è già a contatto con l’ambiente esterno, costituito principalmente dall’esperienza culturale.
Allora non si può più dire che gli elementi comuni all’uomo in ogni tempo e in ogni luogo, ammesso che ce ne siano, sono di derivazione genetica, perché potrebbero essere dovuti all’influenza culturale! Che, siccome non è eliminabile, non permette di isolare sperimentalmente i fattori esclusivamente genetici: durante lo sviluppo del cervello, la cultura lo plasma, non solo metaforicamente ma anche materialmente, promuovendo la realizzazione di sinapsi tra certe popolazioni di neuroni piuttosto che tra altre, la sintesi di certi neurotrasmettitori piuttosto che di altri.
Qualcuno a questo punto potrebbe pensare di aver dimostrato che l’uomo è del tutto privo di determinazione comportamentale. Non è esattamente così.
Innanzitutto restiamo esseri corporei, costruiti secondo informazioni contenute nei geni, e tale vincolo non è da trascurare, almeno in linea teorica. Per quanto concerne il comportamento, comunque, è l’ambiente a farla da padrone (del resto il comportamento è definito come «modo di agire di un individuo nei rapporti con l’ambiente e con le persone con cui è a contatto») e nel caso dell’uomo l’ambiente è approssimativamente assimilabile alla cultura: non c’è nulla di assoluto.
Detto questo, aggiungo una mia riflessione.
Siamo dunque determinati nei comportamenti non tanto da fattori genetici quanto da fattori culturali. Ora, se fossimo determinati dai geni dovremmo pensare, come i sostenitori del pensiero unico e dei vari tipi di determinismo biologico, che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che lo stato di cose presente è inevitabile, che non esistono alternative possibili, perché i geni non sono sotto il controllo della nostra volontà.
Ma siamo determinati dalla cultura, che al contrario dei geni è una nostra costruzione, e che se non ci piace possiamo distruggere, proprio come l’abbiamo costruita, seppur tra mille difficoltà.
Viva Kant, viva la liberazione sociale.
Short Link:
Consiglio anche questo interessantissimo scritto di Maria Turchetto sullo stesso argomento, con particolare attenzione per il modo di produzione capitalistico:
Salti ontologici. Darwinismo, evoluzionismo e scienze sociali
L’uomo ha da tempo “creato” cose che “sovvertono” la selezione naturale, vedi la medicina. concordo pertanto pienamente con te che sostenere il darwinismo sociale è errato. per quanto riguarda la presunta “natura umana universale”, chi la sostiene semplicemente si dimentica che l’uomo può evolversi culturalmente
È un buon riassunto sul dibattito “non tecnico” sulla Sociobiologia… e ha quindi alcuni dei difetti di quel dibattito. Il discorso è complicato, ma riassumendo:
1) è del tutto ovvio (almeno alla stragrande maggioranza di persone informate E evoluzionisti) che il tema di fondo dei critici (non esiste, né può esistere, alcuna giustificazione naturale oggettiva di un qualsiasi sistema sociale moderno) è giusto;
2) si fa però spesso confusione tra la sociobiologia (ormai molto diffusa e straordinariamente esplicativa) e le sue applicazioni al genere umano (su questo il link era corretto per certi versi, decisamente superficiale in altri);
3) c’è infine il grosso equivoco, sicuramente il più ricorrente nei rapporti evoluzione/scienze sociali, di fare l’equivalenza spiegazione=giustificazione. In pratica, se anche si dimostrasse la base evolutiva di un qualsiasi comportamento umano (e – opinione mia – succederà per molti casi) non vedo perché mai questo dovrebbe equivalere ad accettare quel tratto come “giusto”. Facciamo gli occhiali per i miopi, trattiamo le malattie genetiche, aiutiamo i disabili. La storia del “viviamo nel migliore dei mondi possibili” è una stupidaggine che persone serie come Wilson non potrebbero mai avere neppure pensato, perché la selezione naturale (anzi, l’evoluzione biologica tutta) non ha nulla a che vedere con “migliore” o “progresso”. L’associazione tra Spencer e Wilson è molto forzata. Infine: da grande fan di Lewontin e Gould, devo però dire che entrambi sono stati molto più produttivi nei loro contributi positivi alla scienza, e molto meno incisivi di quanto si pensi nelle critiche alle posizioni altrui; e di sicuro non hanno detto l’ultima parola in nessuna delle diatribe che li hanno coinvolti. Cazzo, quanto è venuto inutilmente lungo questo commento…
Tutto molto interessante, Piero, anche se su un paio di punti ho capito meno causa mie carenze di certe nozioni scientifiche. Però, per favore, trova un modo di far aprire i link intratestuali in un’altra finestra e non in questa (è un po’ fastidioso veder scomparire la pagina che stavo leggendo e dover fare il copia-incolla del link ogni volta).
Il link di Lewontin e Gould mi dà “pagina non trovata”, per caso si chiama “I pennacchi di San Marco e il paradigma di Pangloss”?
Bellissimo articolo! E’ molto curato e ricco di informazioni, complimenti! Mi ha ricordato alcune teorie di Bruce Lipton…
M’è piaciuta. Ricordo che non scordi mai Malthus
@Emmanuele
Sul fatto che la medicina e altre invenzioni dell’uomo sovvertano la selezione naturale non sono affatto sicuro. La selezione naturale è la pressione esercitata sui caratteri dall’ambiente: quando l’uomo inventa un farmaco o una stuttura sociale solidale modifica l’ambiente, che continua ad esercitare la sua pressione selettiva sui caratteri espressi. La selezione c’è ancora, semplicemente l’ambiente è cambiato perché è composto da molti fattori che sono stati introdotti dall’uomo.
Ma dove sta la distinzione tra “ambiente artificiale” e “ambiente naturale”?
Il principio attivo di un farmaco può essere contenuto in natura in una pianta commestibile, consumata con la dieta per millenni prima che l’uomo riuscisse a individuarne, estrarne e isolarne il principio attivo. Mangiare quella pianta in un’insalata di tremila anni fa costituiva una sovversione della selezione naturale?
@Vittorio
Grazie per la tua risposta, ti avevo invitato proprio per la tua competenza in materia.
Sulla confusione tra spiegazione e giustificazione: credo che questo discorso dovrebbe essere fatto non a me, ma a chi prende una teoria scientifica e la traspone nella società umana, invadendo un ambito che non necessariamente ricade nel campo di applicabilità della teoria. Questo vale sia per Wilson che per Spencer e non è una forzatura, perché è un tratto che li accomuna. Forse non giustificano ma perlomeno legittimano dei comportamenti umani.
Non ce l’ho con Wilson perché legittimamente cerca una base genetica nei comportamenti (anche se il suo discorso, come già detto, offre il fianco a molte critiche per via della mancanza di solidità sul piano logico), dico solo che ha compiuto una trasposizione illegittima, un’invasione di campo.
Per il resto, sulla sociobiologia generale e non necessariamente applicata all’uomo sono poco informato (ancora non ho dato etologia!) e sono sicuro che ne sai mille volte più di me. Anzi, mi hai fatto incuriosire, consigliami qualche testo!
@Eduardo
Risolvo subito il problema.
L’articolo di Lewontin e Gould penso non sia broken link perché manda a materiale esterno da scaricare. Cerco di risolvere anche quello. Comunque il titolo l’hai azzeccato.
@Teo
Non conoscevo Lipton, ho cercato qualcosa su di lui. Le sue teorie mi sembrano un po’ troppo eccentriche. Forse Vittorio, se lo conosce, può dirci che ne pensa.
@Karim
Non colgo il riferimento a un fatto che evidentemente ho rimosso.
Ciao Piero,
come dicevo, l’argomento secondo me è un po’ complesso, per una miriade di ragioni – quasi tutte non di tipo “scientifico”. Una è che il dibattito “tecnico” tra evoluzionisti e quello “divulgativo” sono molto diversi. Lewontin e Gould, per esempio, che sono comunque stati due giganti della biologia evolutiva post-Sintesi, sono però decisamente sopravvalutati negli ambienti non biologici (come quello delle scienze sociali) perché le loro posizioni e i loro testi sono molto più chiari, semplici e fruibili di altri. Ma non per questo hanno detto l’ultima parola in ogni disputa. Un altro appunto: Spencer era un eccentrico gentiluomo vittoriano con una passione per la scienza ben superiore alla sua capacità di comprenderla (Huxley, che pure era suo amico, di lui disse “Spencer’s idea of tragedy was a deduction killed by a fact”), il cui unico ruolo duraturo nella storia è stato quello di fondatore del darwinismo sociale. Cioè proprio quel genere di cosa che (e ci mancherebbe) critichi: prendere una teoria scientifica valida in un campo e adattarla a un contesto sociale basandosi solo su vaghe similarità e deboli passi logici. Wilson è un biologo che ha fondato un’intera branca dell’etologia, tra le più prolifiche. “Sociobiology” è un grosso mattone in cui getta le basi per una biologia del comportamento sociale quantitativa e evoluzionistica (cosa che i fondatori dell’etologia come Lorenz non erano riusciti a fare) e solo nell’ultimo capitolo (mi pare) specula liberamente sulla sua applicazione alla nostra specie.
Solo per rimarcare il punto (ce ne sono altri però, come le tue obiezioni sulla logica del ragionamento…): Spencer, così come gli esponenti del razzismo scientifico e altri [inciso: per chi vuole conoscere qualcosa su quest’argomento – peraltro del tutto in linea con le tesi qua esposte – può leggere The Mismeasure of Men, di Gould – Ontogeny and Phylogeny in realtà parla di tutt’altro] hanno esplicitamente preso una teoria scientifica, l’hanno adattata e ne hanno ricavato una ragione per “correggere” l’ambito sociale. E’ del tutto diverso, invece, provare a spiegare le cause di alcuni fenomeni – anche nel regno dell’antropologia – in senso scientifico. Qualsiasi conclusione non può in alcun modo “indicare la strada”, in un senso o nell’altro. Detto questo, a mio parere i problemi della Sociologia umana sono ben altri, e cioè che fondamentalmente è troppo complessa. Se anche (come io credo) esistono basi biologiche di una discreta gamma di comportamenti umani, forse alcuni anche riflessi nelle società, temo che sia troppo difficile individuarli, confusi come sono da molto “rumore di fondo” dell’evoluzione culturale (e non solo: anche da vari bias dovuti alle idee preconcette e inevitabili del ricercatore).
Vabbè, ci sarebbe molto altro da dire ma poi il tutto diventa illeggibile. Se posso però permettermi un suggerimento snob: prendere sempre con cautela i dibattiti sull’evoluzione, quando sono presentati da studiosi non biologi! Avviene una buffa trasformazione e “cambio di fuoco” nel passaggio, dovuto a seri problemi di comunicazione da ambo le parti.
Testi divulgativi di sociobiologia non ne conosco, a parte quelli “storici” che probabilmente conosci come The Selfish Gene di Dawkins (altro caso di totale incomprensione da parte dell’opinione pubblica, almeno nel primo periodo). Però se seguirai Etologia ti consiglio “Animal Behavior” di Alcock, che ha anche la sua bella parte di etologia umana.
Ciao,
Vittorio
PS: mi spiace, non conosco Lipton, ho letto solo ora quello che si dice di lui su Wikipedia.
niente piero, già alle superiori citavi Malthus nelle interrogazioni di storia e certe volte in filosofia, tutto qua XD
@Emmanuele
concordo, sicuramente una cosa permette di sopravvivere a chi invece sarebbe destinato a soccombere sovverte, almeno in parte, la selezione naturale e riduce il suo campo d’azione a malattie incurabili, a mio parere la conoscenza della cura al male e la maggiore fruibilità del principio attivo sono d’ostacolo alla selezione naturale, allo stesso modo in cui potrebbe esserlo l’acquisire l’abitudine di nutrirsi di una certa pianta quando si avvertono certe condizioni di salute del proprio corpo. Probabilmente è un pò l’apprendimento, quando generalizzato ad una popolazione intera o ad una specie, che ostacola la selezione.
Apro con tanti complimentoni a piero per il blog… per quanto riguarda invece il quesito posto, leggendo le answer dei tuoi lettori mi ha solleticato questo pensiero che forse… la butto lì, potrebbe essere nuova chiave di lettura del tema trattato… perché soffermarci a valutare la selezione naturale nei fenomeni che a quanto pare la vedono coinvolta solo ed esclusivamente nel suo significato più primitivo ovvero decidere della vita o della morte di un organismo … quello che penso è che andrebbe espansa la sfera di azione della sopracitata selezione. Ad esempio quello di intendere l’operato di un medico, o di un farmaco come diretta azione della selezione naturale andrebbe rivisto … già essere un medico aver avuto l’opportunità di diventarlo è frutto di una selezione che altri se non da chi può essere operata solo dalla natura ” in senso lato ” . Purtroppo per fortuna …. o semplicemente è sempre stato così una selezione c’è sempre stata tuttavia ai tempi dei viaggi sul Beagle era da intendere in un certo modo questo forse perché la realtà da esaminare era ben altra … Il nostro amico Charles stava ricostruendo il modo in cui ci la specie più adatta sopravviva … sarebbe alquanto intricata lettura quella in cui si pensa di riuscire a spiegare il modo in cui l’uomo si afferma su se stesso visto che per spiegarlo c’è bisogno di tutta l’analisi contemporanea effettuata da psicologi psicoanalisti …ma allo stesso tempo economisti storici panettieri e quant’atro… ogni nostra azione contribuisce a formare un nuovo ecosistema dove doversi adattare … le nostre menti sono diventate così sofisticate da determinare le condizioni di vita della nostra specie giorno per giorno… è come se presi nella totalità della nostra specie agissimo come un unico very big essere umano che decide un pò per tutti condizionando le scelte di chi asseconda il cambiamento e di chi invece lo rifiuta, quindi agiamo su noi stessi e tanti di noi non sanno che proprio in questo momento sta effettuando quella scelta … quella data azione che lo etichetterà come non idoneo…. quindi da come i più arguti ahahhahahaha avranno inteso dal discorsetto per me NO! è impossibile scappare alla selezione … agisce sempre … p.s. il discorso è molto interessante e soprattutto su questi temi è bello confrontarsi
@Monsieur en rouge
sapevo che qualcuno avrebbe obiettato riguardo alla mia visione sulla medicina. cercando di essere sintetico, il motivo per cui penso ciò è che la medicina, curando anche le malattie a trasmissione ereditaria, riduce la pressione selettiva su quegli alleli “svantaggiosi”. detto questo, ci tengo a precisare che ovviamente ritengo giusta e necessaria la medicina in quanto la selezione naturale è solo un fenomeno naturale, non un dio contro il quale non bisogna intervenire (nel caso del genere umano)
@Emmanuele
Ribadisco che anche un agricoltore di ottomila anni fa che mangiava arance evitava lo scorbuto (con ogni probabilità inconsapevolmente), ma questo non significa che la selezione naturale non agisse su di lui: cosa c’è di diverso nell’assumere farmaci? La selezione naturale agisce ancora, semplicemente lo fa diversamente da prima, ma non è scomparsa né penso sia corretto dire che si sia ridotta (come quantifichi il “grado” di selezione naturale? ha senso parlarne?)
@Monsieur en rouge
per favore, non interpretate male la risposta che sto per dare, non vuole essere in alcun modo offensiva verso nessuno. il tuo ragionamento è del tipo: una macchina che ce la fa ad andare avanti grazie ai continui interventi di un meccanico può battere, senza l’aiuto del meccanico, una ferrari senza alcun difetto di fabbrica. mi spiace, ma non ha senso a mio avviso
@Emmanuale
Non mi offendo, ma perché non ha senso? Se un catorcio trova il modo per battere una ferrari, non importa come, il fatto evolutivamente rilevante è che riesca a batterla, meccanico o meno.
Faccio un altro esempio. Il linguaggio e l’organizzazione delle società umane hanno permesso una collaborazione intraspecifica che tra le altre cose consiste nella possibilità di produrre farmaci e somministrarli a un individuo malato. questo significa che l’individuo singolo, molto difficilmente riuscirebbe a sopravvivere alla sua malattia letale, senza l’aiuto di altri organismi.
Ma anche una formica, da sola, non ha molte speranze di sopravvivere. Diciamo per questo che la formica sfugge alla selezione naturale?
Estendendo il discorso ad una collaborazione interspecifica, diciamo una simbiosi, diciamo che la mucca, siccome non potrebbe sopravvivere se non avesse fauna intestinale adatta, subisce una pressione selettiva ridotta o nulla?
No, l’ambiente continua a selezionare, poi se alcuni individui prima li selezionava e ora non li seleziona più o viceversa, questo rientra perfettamente nell’ordine naturale delle cose, da miliardi di anni a questa parte.
@Monsieur en rouge
si, ma a quel punto la selezione viene ridotta perché se la tecnologia può sopperire alla biologia di un organismo allora la tecnologia stessa livella, entro certi limiti ovviamente, il grado di funzionamento di tutti gli organismi, il che è naturalmente POSITIVO per la specie umana, dal punto di vista etico. il fatto evolutivamente importante (e non è il solo) secondo me è che ci sia stata selezione o meno e NON il successo: se ad esempio un esemplare meno adatto sopravvive ad uno più adatto per puro effetto del caso, c’è stato il successo ma non la selezione. è la selezione che plasma le specie, non il successo, che è una conseguenza della selezione (escluso il caso umano per le ragioni menzionate prima).
comunque credo che il motivo per cui non ci capiamo è che a mio avviso io tengo ben separate la selezione naturale dei caratteri biologici da quelli culturali, mentre ho l’impressione che per te siano una cosa sola. comunque forse è meglio che non continui ad esprimere le mie personali visioni in ambito evoluzionistico, d’altro canto sono solo un semplice studente di biologia e quindi corro il rischio, non avendo ancora sviluppato solide competenze in ambito evoluzionistico, di cadere in gravi errori concettuali dovuti più a mie visioni personali che a dati di fatto. comunque ci tengo a ribadire una cosa: che la medicina vada o meno contro la selezione naturale, io ritengo sia giusto andare contro la selezione naturale nell’ambito del genere umano
@Emmanuele
Non saprei: se per successo intendi successo riproduttivo, perché dici che quando un individuo curato (altrimenti con scarsa probabilità di sopravvivenza) non ne ha? Potrebbe averne ed essere selezionato dall’ambiente.
Penso che il problema di fondo sia la tendenza a considerare la tecnologia umana come discontinua rispetto al resto dei fattori che determinano la pressione selettiva; io non la vedo così: una volta prodotta, la tecnologia fa parte dell’ambiente, è un ambiente prodotto dall’uomo, va bene, ma quale animale, pianta o altro organismo non influenza l’ambiente che lo circonda?
La selezione naturale dipende dall’interazione tra fattori ambientali e caratteri espressi, non sa quale sia la natura di quei fattori ambientali, siano essi biogeochimici, fisici, culturali, tecnologici.
Condivido pienamente.
Dunque, a parte il fatto che non leggo i commenti sopra perchè non ho tempo, quest’articolo mi da un sacco di soddisfazione perchè tratta argomenti di cui al momento mi sto ben occupando. Io farei solo un appunto. Riguardante l’evoluzione.
Sappiamo che “il processo di cerebralizzazione è ontogenetico (cioè la complessificazione socioculturale spinge al pieno impiego delle attitudini celebrali) e filogenetico (avviene cioè attraverso mutazioni che producono nuove attitudini, che cominciano a essere sfruttate dalla complessificazione socioculturale). ciò equivale a dire in breve che se lo sviluppo della paleo-cultura esercita una pressione fortissima a favore della cerebralizzazione (onto- e filogenetica) inversamente la cerebralizzazione apporta un surplus di sviluppo alla complessità socioculturale.” Il tutto è correlato al processo di giovanilizzazione (neotenia), che comporta un individuo in grado di apprendere molto in itinere e porta con sè una possibilità di complessità sociale. Infatti sono proprio i giovani che portano nel gruppo elementi nuovi, di disordine, che vengono poi integrati e diventano cultura.
Indi per cui data questa precisazione direi che non siamo ‘determinati’ da fattori culturalli, direi piuttosto che siamo immersi in una complessa interdipendenza tra fattori biologici, sociali, culturali. L’uomo insomma andrebbe considerato come individuo-società-specie. 3 aspetti inscindibili e che non possono darsi l’uno senza l’altro.
All’interno di ciò noi siamo Liberi, e richiamo il concetto di Libertà che dà Jaspers.
Ti ringrazio dell’intervento, aspettavo giusto quello di un’autorità nel campo antropologico. Non conosco il concetto che dà Jaspers della libertà, ma direi che il punto cruciale non è quello: non stiamo cercando di stabilire se siamo liberi o meno, ma di mettere in discussione il presunto determinismo di particolari caratteri. È diverso, no?
Sul libero arbitrio non mi arrischio ad addentrarmi, ma sulla critica alla rassegnazione sì.
Non penso sia diverso. Quando si parla di determinismo, esso trascina a forza con sè la questione della libertà. Dove non arriva l’uno arriva l’altro. Tertium non datur.
Jaspers (e che poi è il succo del pensiero tedesco) pensa che l’uomo sia libero, ma non possa prescindere dalla situazione. Tu sei libero di essere ciò che vuoi ma devi tenere conto dei tuoi limiti. (Se hai 18 anni e non sei snodabile non puoi pensare di fare in un mese di allenamento la spaccata.-esempio molto autobiografico-) Perciò intendevo dire che certo vi è la componente culturale, ma essa è strettamente correlata alla componente biologica. (E all’interno di queste la libertà esiste, per quanto mi riguarda). Quale sia poi l’influenza di quest’ultima (c.biologica) non ne ho la più pallida idea essendo al momento ignorante come una zappa a riguardo, ma basti pensare quanto influisca sul comportamento umano il variare di sostanze quali serotonina, dopamina, noradrenalina. Anche se qui effettivamente non ho toccato l’ambito genetico. Per cui non so quale possa essere in realtà la mia utilità in questo dibattito dal momento che faccio fatica a concepirlo mentalmente un gene. Meglio che torni a fare la tesina.
Non sono un’autorità antropologica. Al momento ho solo la terza media.
Premettendo che non sono un esperto di economia, segnalo questo articolo che secondo me è un esempio di come la descrizione e la spiegazione di fenomeni biologici viene spesso applicata impropriamente a campi estranei alla biologia, invadendoli illegittimamente. Qui si paragona la diffusione della crisi del debito pubblico alla diffusione della peste nera. Mah. Mi sembra possa meritare la stessa affidabilità di quella recente pubblicazione che metteva in relazione la ricchezza delle economie nazionali alla lunghezza media del pene degli abitanti nativi delle singole nazioni. E non sto scherzando!
Che motivazioni si nascondo – in questo caso – dietro all’ utilizzo della religione o della scienza se non il tentativo di porre all’ esterno di sè la responsabilità della propria opinione?
E il tuo ultimo commento lo dimostra, giungendo persino a giustificare in modo deterministico non un opinione bensì una crisi, un fatto che dovrebbe avere responsabili reali.
Non ho le minime conoscenze biologiche o antropologiche per analizzare la questione dalla radice, ma dalle conclusioni che traggo nell’ osservazione dell’ “animale-uomo” è che questo accoppiamento mi sembra sempre più forzato. Nel bene e nel male ciò che l’ Uomo ha saputo fare è proprio, per dirla in termini Hofstadteriani, “uscire dal sistema”, realizzare sè all’ interno di un comportamento, e, in tempi e modalità diverse, talvolta, cambiarne l’ assetto.
Sto parlando del fatto che nessuna formica, credo, ha mai ipotizzato che una forma diversa di gestione del formicaio meno verticistica avrebbe portato miglioramenti “sociali” e funzionali, e non mi riferisco solo al fatto che tale intuizione sarebbe stata difficile da comunicare alle generazioni future, mi riferisco proprio ad una differenza caratteristica dell’ Uomo, che se vogliamo è il determinante della differenza intelletto animale ed umano, il che li dovrebbe portare, a mio avviso, a catalogarli in modo del tutto distinto.
Conseguenza logica e diretta di ciò? Nessuna giustificazione sociale o decisionale in nome della natura, perchè la natura ci ha dato quell’ intelletto che è in grado di opporsi agli istinti e ai comportamenti irrazionali che l’ essere umano è capace di mettere in discussione.
faccio riferimento a questo articolo ed a quello di E.O.Wilson del 18 mg su internazionale che viene analizzato dall’autore di questo articolo.Mi sembra che il modo di affrontare il problema del peso della biologia e della genetica e dell’embriologia nella sociologia sia in entrambi e casi gran parte assai discutibile e e le conclusione sia di Wilson (che forse ha qualche ragione,ma è sensazionalistico e va contro le conclusioni che J. Mitani- a cui W. rimanda- in altri articoli non ha mai fatto, perchè invita a considerare con estrema cautela la estrapolazione dei suoi esperimenti da lle scimmie al genere umano, ma non certo dalle formiche ), sia dell’articolista in questione di cui non so il nome non le accetterei come definitive. Mitani, tien molto ben separatil comportameno degli insetti eubiotici da quello delle scimmie.Il paragonare gli insetti all’uomo non può essere fatto e d è fonte di estrema confusione.Non mi sento di avallare una sociologia che non tenga conto della biologia e di separare di netto la cultura la storia e la evoluzione biologica, gli istinti dalla cultura…Mi sembra che questo dibattito sia utile,tuttavia con altre serie aperture.
@Maurizio Enzo Lazzerini
Spero di aver capito il tuo intervento (forse se usassi un linguaggio più chiaro potrei capirlo senza doverlo sperare). Nessuno qua propone di avallare una sociologia «che non tenga conto della biologia». Quello che si sta affermando è, piuttosto, che l’evoluzione non può spiegare tutto, e che forzando l’applicazione dei principi evoluzionistici a qualunque disciplina, si rischia di giungere a conclusioni ridicole, giustificazioniste o addirittura complottiste (come messo in luce da questo recente articolo). In altre parole: la cultura non può essere considerata istinto. L’istinto è per definizione un comportamento innato e dunque soggetto alla selezione naturale propriamente detta (cambiamento delle frequenze alleliche dovuto a differenze di successo tra i caratteri fenotipici corrispondenti a quell’allele); la cultura è acquisita e quindi è, almeno teoricamente, separabile dall’istinto.
Nessuno credo vuole meccanicamente applicare le leggi della evoluzione biologica alla evoluzione culturale, ma nessuno credo vorrebbe rifiutare a priori l’esistenza di leggi generali che regolano l’evoluzione delle culture Mi sono rotto di considerare l’uomo come prodotto di un artefice divino privilegiato separato da tutto il resto .Le leggi della evoluzione biologica e le leggi della evoluzione della cultura sono su due piani separati ma hanno moltiplici interdipendenze.Per questo non mi va di bocciare la sociobiologia come pseudoscienza.Gli istinti sono in profonda relazione con i bisogni primari e l’inconscio, negli animali ed anche nell’uomo..La razionalità la sociologia la politica la stessa economia e le leggi del pensiero ne sono condizionati.Quindi le leggi delle evoluzione biologica hanno più di qualche rapporto con le leggi che regolano ,ma non determinano,l’ evoluzione della società e della cultura. Nessuno ha mai scoperto come si formano gli istinti quali sono i nodi del passaggio fra i comportamenti automatici che prima sono culturali e poi diventano istintuali. Eppur ci sono questi passaggi.
«Mi sono rotto di considerare l’uomo come prodotto di un artefice divino privilegiato separato da tutto il resto».
Se è questo che pensi si sia affermato in tutta questa discussione, evidentemente c’è stato un grave errore di comunicazione da parte mia, perché non è un messaggio che mi sognerei mai di trasmettere; anzi, forse proprio il dare per scontato che il messaggio non fosse questo mi ha portato a tacerlo, il che ha portato te a fraintendermi.
Innanzitutto, non è stata affatto millantata una presunta superiorità della specie umana sulle altre: quando affermo, con Gould e Lewontin, che l’evoluzione non può spiegare tutti i fenomeni biologici, non mi riferisco solo a Homo sapiens, ma a qualunque forme di vita.
Inoltre, nessuno mette in dubbio che i comportamenti umani siano influenzati da una componente innata e istintiva così come da un’altra acquisita per esperienza “individuale” o culturale. Ciò che si sta discutendo è la possibilità di separare queste due componenti scientificamente. Bene, come è già stato esposto ampiamente (e non credo sia necessario ripeterlo riprendendo tutto il contenuti dell’articolo e gli altri emersi nel dibattito in calce), questo non è possibile: è difficile dir qualcosa sulle vespe e i piccioni, figuriamoci sull’uomo, per il quale è molto più complicato (e forse impossibile) sbrogliare la rete intricatissima di comportamenti. Chi sostiene di esserci riuscito, ha preso un abbaglio.