I beni comuni, il profitto e la nostra sopravvivenza
Quando mi sono diplomato, ho preparato una tesina sul determinismo. Dentro ci stavano bene la sua origine democritea ed epicurea, l’opera letteraria di Lucrezio, la filosofia kantiana, il positivismo, il realismo, la fisiognomica e la psicanalisi, le divagazioni di Tacito sui popoli germanici, la meccanica quantistica e la fine del meccanicismo, la contrapposizione tra compatibilismo e incompatibilismo, insomma il determinismo in tutte le salse; e, visto che avevo letto da poco Armi, acciaio e malattie, dentro ci ho fatto stare anche quello.
Jared Diamond, l’autore, mi ha affascinato con le sue spiegazioni di natura antropologica e geografica riguardo le cause che hanno favorito l’ascesa dei popoli europei e la loro supremazia nel corso della storia: per rispondere a questo interrogativo, Diamond rifugge da ogni possibile forma di razzismo e darwinismo storico, rigettando l’idea che l’ascesa di alcuni popoli piuttosto che altri sia dovuta a ragioni di tipo genetico o comunque innate nelle particolari etnie protagoniste degli eventi storici. Per lui, spiegare scientificamente il predominio di alcuni popoli su altri non vuol dire giustificarlo, ciò significherebbe «confondere una spiegazione di cause con una giustificazione di risultato». Insomma, capire che “doveva andare così” non implica una valutazione etica del “così”.
Ora, a distanza di tempo, mi trovo a leggere l’inizio di un altro saggio di Diamond, intitolato significativamente Collasso, che cerca di spiegare perché alcune società sono scomparse lasciando ai posteri suggestive rovine mentre altre, coeve di quelle altre, sono sopravvissute fino ai giorni nostri. L’analisi parte da considerazioni economiche: tutte le società sfruttano le risorse del territorio, dal pesce al legno, dai metalli al terreno da coltivare. In che modo l’errata gestione del territorio ha portato alla scomparsa di alcune civiltà? Com’è possibile che i loro abitanti non se ne siano accorti? E cosa, se se ne sono accorti, ha impedito loro di invertire la rotta?
Tutte queste domande sono utili anche per comprendere il presente e per cercare di prevedere gli sviluppi del nostro tipo di società. A tal proposito, riporto un estratto preso dal primo capitolo, sul Montana e le sue risorse minerarie, la cui estrazione richiede l’utilizzo di pratiche inquinanti e la produzione di rifiuti tossici.
«La ASARCO (American Smelting and Refining Company), un gigante dell’industria mineraria e metallurgica, può essere difficilmente ritenuta responsabile per non aver bonificato una sua miniera particolarmente tossica. Le imprese americane esistono per procurare guadagni ai loro imprenditori; è questo il modus operandi del capitalismo americano. Un corollario del processo di arricchimento è di non spendere il capitale quando non sia necessario. Una filosofia così ferrea non è tipica soltanto dell’industria mineraria. Le aziende di successo tracciano una netta linea di demarcazione tra le spese necessarie al proseguimento della loro attività e quelle che vengono definite «obblighi morali». La difficoltà o la riluttanza a capire e ad accettare questa distinzione determina gran parte della tensione tra gli ambientalisti e il mondo degli affari. I capi delle grandi industrie sono contabili e avvocati, e non sacerdoti mossi da preoccupazioni morali».
La maggioranza delle persone non ha idea di quanti effetti spaventosi dell’attività umana si trovino solo in Montana, che è una zona degli Stati Uniti relativamente povera e poco inquinata. Se sommiamo tutta la merda di tutte le attività di tutte le società umane finiamo per impazzire. Qual è la soluzione per Diamond?
«L’azienda è una società a scopo di lucro, non un’organizzazione di beneficenza. Se gli abitanti del Montana vogliono che l’azienda modifichi il suo operato, con la conseguenza di diminuire i suoi profitti, è loro responsabilità far pressione sulla classe politica, per far approvare e rispettare leggi che obblighino le aziende a cambiare le loro pratiche, oppure spetta a loro acquistare in blocco quei terreni per gestirli diversamente».
Secondo me c’è un’altra soluzione, che Diamond trascura: l’abbattimento del sistema che pone il profitto prima dei beni comuni. Somiglia alla sua seconda ipotesi, ma è più globale; ciò non toglie che l’autogestione dei beni comuni possa essere un buon inizio.
Think globally, act locally.
Short Link:
l’abbattimento del sistema che pone il profitto prima dei beni comuni mi sembra una chimera incompatibile con la natura stessa dell’uomo, natura per la quale come sai non ho alcuna stima
Quindi la nostra civiltà morirà inevitabilmente? Eppure in passato civiltà che avevano gli stessi problemi sono riuscite a superarli; insomma non darei così per scontato il paradigma economico che mette il profitto al centro di tutto. Che l’economia politica alla base del capitalismo sia astorica è stato già mostrato negli ultimi due secoli, passando per Marx e Polanyi. La “natura” dell’uomo, nonostante quanto dica qualcuno, non è l’accumulazione di capitale: quella è una convinzione fittizia imposta dal pensiero dominante.
Che modelli di economia alternativi siano incompatibili con la natura dell’uomo è proprio la spiegazione che generalmente viene data per giustificare le ingiustizie, no? Leggevo qualche tempo fa su un blog che non facciamo fatica a immaginare che in un futuro non troppo lontano si potranno fare viaggi spaziali o possedere parti anatomiche robotiche, mentre qualsiasi modifica all’assetto economico viene immediatamente bollata come utopia. Perché l’occhio bionico sì e i beni comuni no?
EDIT: comunque, devo portarmi più avanti col libro: della possibilità di invertire la rotta se ne parla.
Il concetto fondamentale della decrescita è esattamente quello, spostare finalmente l’accento, all’interno dell’attività umana, dal “profitto” (trasformandolo in profittò?). Per come la vedo io, il significato letterale di decrescita, in termini di PIL, segue da quest definizione (a mò di corollario) piuttosto che essere una definizione.
In risposta alla tua obiezione al tuo fornitore di cromosomi:
se non quella, qual è la natura dell’uomo? Se non erro l’ultima volta che sen’è parlato tu hai optato per una visione “pagina bianca”.
@stefano
Il fatto che sia difficile definire cosa sia la “natura dell’uomo” non vuol dire che sia altrettanto difficile definire cosa non lo sia. Le ingiustizie implicate nella natura del capitalismo (perché questo sì che ha una natura definibile) vengono spacciate per fenomeni ineluttabili che fanno parte dell’ordine naturale delle cose: è a questo che mi riferisco quando sostengo che la visione dell’uomo proposta da questo sistema economico è distorta.
Ti ricordi quell’intervista? «Più in alto vuoi andare e più devi passare sui cadaveri, è così ed è giusto che sia così», «se tu vuoi ventimila euro al mese devi vendere tua madre, mi dispiace ma è così». Ecco. Lo stesso tipo di distorsione.
«Il concetto fondamentale della decrescita è esattamente quello»
Solo che la decrescita non specifica il modo con cui attuare tale concetto: se farlo tramite la creazione di nuove istituzioni al servizio dei beni comuni (cioè con una rivoluzione) oppure aspettando che qualche esponente “illuminato” si decida a violare qualche dogma secondario pur garantendo il perpetuarsi dell’insieme di dogmi economici principali, che nel complesso formano il sistema economico.
Non specificare, nell’epoca del pensiero unico, significa sottindendere che si opta per la seconda delle alternative.
P.S. I’d rather go for “profiterol”, even if I don’t like it. Se ti stai chiedendo perché l’ho scritto in inglese… be’ era per evitare la ripetizione del verbo optare.
@ Piero
la decrescita non è prima di tutto un modo, ma un traguardo. E poi ti torno a dire che molti teorici hanno già parlato anche delle concrete strategie, individuali e collettive, che si possono attuare.
L’intervista in questione ( http://wp.me/p1CXzG-12 ) me la sogno tutte le notti, da ben più di una settimana! Hai gabido?
Cosa intendi per «abbattere il sistema» eccetera?
È il “sistema” che antepone i profitti ai beni comuni o sono gli stessi singoli individui a preferirli?
E sempre sui beni comuni: vogliamo parlare della tragedia a cui sono destinati?
(Sì, sono un libertario con molte remore). 😉
@Stefano
La mia idea di decrescita la trovi in calce a questo post del blog S.O.S.iety di qualche mese fa. Per i pigri che non vogliono scremare i commenti, riporto il cuore della mia posizione: «qualcuno potrebbe anche auspicare uno Stato totalitario che controlli l’economia in maniera decrescitista, ma è per questo che la decrescita da sola non basta ed è necessario invece un suo complemento politico e sociale che la indirizzi».
Però questo complemento sociale ci deve essere e deve essere chiaro. Invece io ho l’impressione che sia relegato ad una questione marginale e questo non va per niente bene, perché si rischia di creare solo dei “vuoti da riempire” ciascuno con ciò che più gli aggrada (come si diceva non molto tempo fa qui). È il pensiero debole che non funziona e che poi alla fine ti frega.
@Davide
Sì, a favorire i profitti ai beni comuni è secondo me il “sistema”, inteso come l’insieme degli individui che detengono il controllo economico della produzione e che posseggono i mezzi per attuarla. Con i vari distinguo, ovviamente, ma è proprio questo tipo di sistema economico, finalizzato all’accumulo di denaro anziché al raggiungimento di un bene materiale o immateriale (cioè che ha per dogma la crescita economica e solo economica), a generare un tale sistema di valori. Valori che poi sono adottati praticamente da tutti, non solo dalla classe che li ha “inventati”. Ecco perché l’anteporre i profitti ai beni comuni è tanto diffuso da farti domandare se la tendenza non sia in realtà insita nella natura umana.
A questo punto, credo che sia chiaro cosa intendo con «abbattere il sistema»: capovolgere la gestione della produzione e costruire nuove istituzioni che siano espressione degli interessi “comuni”, come, per esempio, la difesa dei beni comuni e la crescita umana e culturale.
Sulla tragedia dei beni comuni, l’articolo recita: «il bene comune (il pescato) è messo a disposizione di tutti i pescatori, i quali però seguendo i propri interessi personali senza incorrere nella possibilità di essere monitorati sfruttano eccessivamente la risorsa in modo da causare una situazione diversa dall’ottimo sociale». Ma infatti “bene comune” non significa che ognuno fa quello che vuole! Almeno per come lo intendo io, cioè come una risorsa che è autogestita come fanno nel Chiapas le comunità zapatiste. Né pubblico né privato, ma comune.
Omnia sunt communia.
il cane quando non ho più fame non cessa di accumulare cibol, piuttosto lo sotterra ma non lo lascia; possiamo ipotizzare che il cane sia un capitalista culturalizzato, oppure dobbiamo pensare che la natura (non solo umana) è fatta in questo modo, per motivi legati alla sopravvivenza?
(scusate i refusi, la tastiera del notebook mi è ostile)
Diamond trascura l’abbattimento del sistema per il semplice fatto che negli USA a mentalità imprenditoriale è alla base della società.
Quello è uno stato che è nato da immigrati che cercavano lavoro e le loro leggi sin dalla loro costituzione ( perfetto specchio della società) pongono i limiti essenziali per una convivenza in cui ognuno fa da se’,proprio in opposizione alla mentalità feudale Inglese a cui si erano ribellati.
Il problema si profila non tanto nelle parole, quanto nei fatti : come cambiare una mentalità su cui una nazione è stata costruita? (nazione che, di fatto,influenza un pianeta…).
Scusate il ritardo nelle risposte
@Nello
Se il cane, preso da un raptus, inizia a uccidere le prede del suo territorio, pur non avendone bisogno, e le sotterra, rischia un disastro ecologico tanto quanto l’uomo che deforesta completamente l’isola di Pasqua o pesca tutto il tonno del Mar Mediterraneo. La gravità del disastro dipende da quanto l’ecosistema è fragile (o, viceversa, stabile), tanto per il cane, quanto per l’uomo o una qualsiasi altra forma di vita: alterare gli equilibri può portare a un disastro (in un sistema molto fragile), a una ridefinizione di equilibri o a nessun effetto netto (se è stabile e dunque capace di un forte “potere tampone”). Solo che il cane non lo sa, mentre l’uomo può saperlo e prevenire danni irrimediabili, se lo vuole.
@LeSaboteur
La tua interpretazione mi sembra piuttosto riduttiva, perché parla del capitalismo come se fosse una caratteristica peculiare degli Stati Uniti e del problema dello sfruttamento del territorio come di un “problema di mentalità nazionale”. La domanda da porsi non è su come «cambiare la mentalità su cui una nazione è stata costruita» ma su come cambiare i paradigmi su cui un sistema economico è basato: bisogna costruire un’economia che non si scontri distruttivamente con gli equilibri ecologici e con le esigenze dell’uomo (e una cosa non implica l’altra, vedi la discussione linkata sopra in risposta a Stefano).
Inoltre, conoscendo lo stile cristallino di Diamond e la sua onestà intellettuale, direi che se scartasse a priori la soluzione rivoluzionaria, lo scriverebbe comunque nero su bianco: «ci sarebbe quest’altra ipotesi ma non la esamino per questo e quest’altro».
Secondo me se non la cita è perché: o, in qualche modo, intende proporre soluzioni percorribili nell’immediato e di facile attuazione per gli abitanti del Montana, oppure perché la rivoluzione non è che il passo successivo (magari non direttamente) alla seconda ipotesi proposta. Certo, io l’avrei specificato, perché non è un’implicazione automatica, ma mi piace pensarla così e continuare ad apprezzare Diamond per la sua onestà intellettuale.
Monsieur en rouge, mi pare che ti rispondi da te: l’uomo sa che i danni accadranno. È una cosa che non lo tocca, pertanto (a meno di non tirare in ballo fantomatici diritti dei nascituri). Nel frattempo la cosa più razionale da fare è arraffare il più possibile. Del resto, basta che lo faccia uno per far sì che si diffonda come strategia razionale (cfr. il dilemma falchi-colombe).
Il “sistema” emerge spontaneamente non appena vi è competizione per le risorse, a mio modo di vedere. Aver sovrappopolato il pianeta esacerberà la lotta per l’esistenza, e dunque la “concorrenza” (capitalistica? A me pare abbastanza naturale…).
Che ne pensi, da aspirante biologo?
Riguardo la discussione sulla natura umana consiglio a tutti i partecipanti di leggere “Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana – Marshall Sahalins” .
Ricordo che l’uomo non è come tutti gli animali, in quanto è dotato di un cervello sviluppatosi attraverso la necessità di comunicazione (verbale e non), quindi utile alla sopravvivenza.
Inoltre, la prima ed universale forma associativa è proprio quella della parentela.
E se volessimo utilizzare gli esempi drastici tanto cari ad evoluzionisti ed economisti occidentali: nessun padre mangerebbe il proprio bambino per sopravvivere…
Quindi cercare una verità assoluta sulla natura umana, è un pò come dibattere sulla forma esatta di un frutto, di un albero o di un animale… possiamo solo cercare una forma che si possa approssimare a quella reale in base alle nostre personali esperienze!
Per chi stesse ancora seguendo la discussione, segnalo un articolo sulla questione (qui) di Cacciari, pubblicato su Carta.org, a proposito delle possibili soluzioni a fronte del “feticcio della crescita”.
condivido, questa faccenda della crescita senza fine è illogica oltre che deleteria, ma quel genere umano che dovrebbe rendersi conto di tante cose, di questa non si rende conto affatto