Al contrario – [1] Lo sbarco

Questo è la prima parte di un breve racconto che sarà pubblicato a puntate su questo blog. Si tratta di un tentativo, modesto e parziale, di raccontare l’immigrazione. Di volta in volta, sono ben accetti, anzi caldeggiati, commenti e suggerimenti per la parte successiva.


Ahmed osservò il traffico del porto scrutando fuori dalla finestra.
Il porto di Qarqarish non era imponente. Una volta, lo era ancora meno. I lavori di ampliamento risalivano ad una trentina di anni prima, quando la crescita dei flussi e delle rotte commerciali aveva reso necessaria la realizzazione di una serie di nuovi moli e la creazione di uno spazio di smistamento retrostante che nulla aveva da invidiare al porto principale se non la sconfinatezza.
‎Ṭarābulus era uno dei maggiori porti del commercio mediterraneo, e lui, Ahmed Maghur, era in quel momento il funzionario responsabile dell’area portuale. Gli sbarchi li facevano avvenire in un piccolo porto, Qarqarish, a qualche chilometro dal porto principale ma facente parte dello stesso settore, seppur lontano da sguardi indiscreti. Meglio non mischiare merci e migranti. Qualcuno potrebbe avere malattie ormai qui debellate da tempo e il contagio si diffonderebbe rapidamente. Spesso li facevano sbarcare a Misrata, ma questa volta si trattava di uno sbarco consistente e al momento i centri di prima accoglienza contenevano una tale quantità di persone da scoppiare. Per questo avevano dirottato l’imbarcazione verso la capitale, al porto di Qarqarish. Il porto principale non era lontano: neanche tre chilometri a est, proseguendo lungo corso Al-Shat. Ma appunto, meglio non turbare le normali attività con sbarchi anomali e magari qualche complicazione legata al mantenimento dell’ordine pubblico. La banchina in corrispondenza di uno dei moli era stata circondata da transenne. Alcuni fotografi e qualche curioso si affacciavano da dietro le reti di protezione installate dal personale portuale intorno all’area di sbarco, su disposizione delle forze dell’ordine.

Ayman Jibril attendeva da un paio d’ore, insieme a qualche decina di persone, tutte in disponibilità dalla notte precedente. La chiamata li aveva allertati verso le cinque del mattino, richiedendo la loro presenza per le operazioni di sbarco previste per le ore nove. Ayman era infermiere all’ospedale di ‎ Ṭarābulus. Per tre giorni alla settimana si metteva in disponibilità durante la notte per eventuali sbarchi, per spirito umanitario ma anche per racimolare qualche soldo. Ora attendeva accanto all’ambulanza, appoggiato alla grossa scritta “Isaaf”.
Alla fine, probabilmente, lo sbarco effettivo sarebbe avvenuto quasi due ore dopo. Come al solito. Ti allertano prima non tanto perché sia necessaria la tua competenza né il tuo aiuto, quanto per mostrare che se vogliono farti svegliare alle cinque del mattino possono farlo. Lo fanno per confermare e mantenere una gerarchia già stabilita. È una questione di autorità.
Da quando il Dipartimento per il Controllo dell’Immigrazione (Idāra Murāqaba al-Istīṭān) era passato sotto il Ministero degli Interni la vita era cambiata. Fino al governo precedente, esisteva un ministero indipendente dedicato interamente ai fenomeni migratori. Il governo attuale, per motivi elettorali e di “razionalizzazione della spesa pubblica” aveva smantellato tale ministero trasformandolo in un dipartimento accorpato al Ministero degli Interni, sotto la responsabilità e il controllo diretto delle forze di polizia. Ora, a quanto pareva, la questione era divenuta improvvisamente di competenza del Ministero degli Interni. E per fortuna non era del Ministero della Difesa, altrimenti sì che se ne sarebbero viste delle belle! Certo, a dirla tutta non è che le cose andassero sempre per il verso giusto. Ayman già storceva il naso per la subordinazione alle forze di polizia che faceva passare per problema di sicurezza pubblica una questione umanitaria, a questo si aggiungeva l’accordo con il Ministero della Difesa. L’immigrazione non era affare della Difesa, ma quelli erano riusciti lo stesso a metterci il naso.
Per farla breve, la vita era cambiata perché si usavano militari in situazioni non militari, perché in alto avevano deciso che era meglio dichiarare lo stato d’emergenza. Appunto, una questione di autorità.

Vito, anni 26, mediatore culturale, attendeva lo sbarco affiancato dalle forze di polizia. Era uno dei pochissimi civili a cui era consentito l’accesso all’area destinata alle operazioni di attracco e di sbarco. Fino a qualche anno prima, sarebbe stato attorniato da giornalisti e volontari delle associazioni non governative. Adesso percepiva i loro sguardi e i loro obiettivi fotografici confinati dietro la rete di protezione. Con la riforma del nuovo governo, erano le forze di polizia a decidere. I migranti venivano accolti da uno schieramento di forze dell’ordine dispiegato sulla banchina del porto e un primo smistamento era effettuato sulla base della provenienza. Il mediatore culturale serviva a questo: per confermare che la provenienza dichiarata da ciascun migrante fosse reale. In molti, infatti, mentivano sulla nazionalità, spacciandosi per baschi, catalani o sardi, sperando di ottenere più facilmente un riconoscimento dello stato di rifugiato politico. Nonostante tentassero di imitare l’accento della presunta comunità di provenienza, spesso la parlata li tradiva all’orecchio di un esperto o di un madrelingua. Vito era un madrelingua, la sua lingua era l’italiano. Era nato in un piccolo paese della Sicilia, aveva studiato a Palermo ed era emigrato. Per tre anni era stato attivista in un’associazione che si occupava dei diritti dei migranti, prestando soccorso durante gli sbarchi e nei primi momenti dell’accoglienza; a volte si era occupato anche delle condizioni di vita nei centri di detenzione temporanea, in cui avevano luogo le identificazioni per eventuali espulsioni. Poi, in virtù dei poteri conferiti dal nuovo governo, la polizia aveva deciso di allontanare le associazioni e gli attivisti dei movimenti, sostenendo che tra questi si nascondevano “elementi intenzionati a favorire la fuga degli immigrati irregolari durante le operazioni di sbarco”, potenzialmente “atti a turbare l’ordine pubblico e mettere a rischio la sicurezza dei cittadini”. Vito sapeva che erano tutte cazzate. Non la storia delle fughe, quelle avvenivano e per quanto lo riguardava potevano anche continuare ad avvenire. La cazzata era la motivazione addotta dal governo per legittimare l’allontanamento dei civili: le fughe erano minima cosa rispetto agli occhi dell’opinione pubblica. Vito sapeva per esperienza diretta che i migranti preferivano di gran lunga essere accolti da civili volontari piuttosto che da uomini in divisa, armati dalla testa ai piedi e bardati di casco e scudo. Aveva deciso di restare a contatto diretto coi migranti al momento dello sbarco, anche se questo ormai significava necessariamente lavorare al servizio delle forze dell’ordine, aveva ottenuto il posto e adesso stava sulla banchina a smentire i sedicenti sardi. Si chiedeva se fosse stata una scelta giusta e si diceva che almeno così poteva aiutarne qualcuno, che se un romano si fingeva sardo e poi lo scoprivano troppo tardi magari gli annullavano non solo lo stato di rifugiato politico ma anche tutto il resto e il poveretto doveva tornarsene al suo paese a fare la fame.

Lo sbarco cominciò circa mezz’ora dopo le operazioni di trasbordo. Erano in trecentocinquantuno: duecentosettantasette uomini, sessantaquattro donne, dieci bambini. Venivano dalle coste siciliane, ma non erano tutti italiani. A bordo dell’imbarcazione si annoveravano diverse nazionalità: una maggioranza di italiani compreso un cospicuo gruppo di profughi sardi, un nutrito gruppo di norvegesi, molti francesi e svedesi, pochi olandesi e inglesi. Molti di loro avevano sopportato un lungo e tortuoso viaggio, spesso in clandestinità e in condizioni poco invidiabili, prima di raggiungere le coste siciliane da cui era partita la piccola imbarcazione che li avrebbe portati in prossimità delle coste africane.
Le forze di polizia sul molo inaugurarono l’inizio delle operazioni di sbarco e accoglienza disponendosi a quadrato e formando un cordone schierato lungo tre lati del perimetro in modo da prevenire eventuali fughe via terra. Quattro agenti armati sorvegliavano le possibili vie di fuga attraverso il mare chiuso del porto.

Ayman Jibril attendeva al suo posto, a debita distanza ma pronto a intervenire in caso di bisogno, secondo le disposizioni ricevute. Tale evenienza si verificava spesso, perché le condizioni del viaggio intrapreso dai migranti erano pessime sotto ogni punto di vista: stipati a centinaia nella stiva di barchette o su gommoni scoperti, anche per giorni sotto il sole cocente e l’azione continua dell’acqua salata, i passeggeri non di rado erano colpiti da malanni di ogni tipo, che in quella situazione potevano risultare letali. Frequenti erano morti per annegamento o per asfissia. Molte persone, specialmente di origine nordeuropea, al momento dello sbarco erano gravemente ustionate dal sole.
All’azione distruttiva dei quattro elementi spesso si aggiungeva quella dovuta all’essere umano. Durante la traversata si generavano facilmente situazioni di tensione, che altrettanto facilmente sfociavano in risse, in un pericoloso groviglio di corpi sospesi sull’acqua a bordo di un’imbarcazione precaria e sovraffollata. Le conseguenze potevano essere devastanti. Una volta soccorsi da navi militari o, più raramente, mercantili, i migranti erano spesso oggetto di maltrattamenti da parte dei militari, che li ammassavano in stive di dimensioni di poco superiori a quelle in cui erano ammassati poche ore prima. Non mancavano episodi di violenza razzista di cui ufficiali e sottufficiali si facevano protagonisti o silenti complici. Al momento dello sbarco al porto, poteva essere necessario l’intervento del pronto soccorso e il trasporto in ambulanza, per guarire lesioni di entità più o meno grave che nella cartella clinica erano attribuite a “causa ignota”.

Le donne sbarcavano per prime. Ayman notò due donne incinte mettere piede a terra. Erano entrambe giovanissime, di bassa statura, scure di capelli e di carnagione, dall’aspetto tipicamente mediterraneo. Lo stato di gravidanza era evidentemente avanzato, forse al penultimo o addirittura ultimo mese. Ayman cominciò a preparare la barella, sicuro che ce ne sarebbe stato bisogno, in attesa del permesso dell’autorità militare. Osservò il mediatore culturale, il siciliano, raggiungere le due donne appena sbarcate, con il consueto intento di porre qualche domanda. Prima che quello potesse presentarsi, una delle due perse l’equilibrio spossata dal viaggio e cadde per terra. Il mediatore volse automaticamente lo sguardo verso l’ambulanza. Ayman fece un passo accompagnando la barella in direzione della donna, ma dovette fermarsi. Un poliziotto aveva fatto cenno di fermarsi. Un medico militare in compagnia di un ufficiale di polizia si avvicinò alla donna ancora per terra e si chinò. Disse qualcosa al mediatore culturale, che tradusse prontamente. Dopo qualche minuto, ad Ayman e i suoi colleghi fu permesso di entrare nel perimetro definito dallo schieramento di forze dell’ordine, per prelevare la donna. Mentre la barella attraversava il cordone di polizia, alcuni sguardi tradirono disprezzo. Una voce anonima si alzò abbastanza da essere udita da Ayman: «questi sardi sembrano proprio degli gnomi». Era il tipico insulto razzista riservato ai sardi.
Dunque le due donne incinte erano sarde. I poliziotti dovevano averlo intuito dal loro aspetto e la conferma era arrivata dal mediatore culturale, il cui unico ruolo, dal punto di vista delle forze dell’ordine, era confermare o smentire la provenienza dichiarata dai migranti. La provenienza doveva subito aver fatto insospettire l’ufficiale, perché il popolo sardo era oggetto di una nutrita serie di pregiudizi, tra cui l’idea che fossero bugiardi e inaffidabili. L’ufficiale doveva aver pensato che la caduta fosse una messinscena per poter andare in ospedale, luogo soggetto a minor controllo rispetto ad un campo di detenzione temporanea e dunque luogo da cui evadere più facilmente. Si era consultato con il medico militare che, con l’aiuto del mediatore culturale, aveva valutato che le condizioni di salute manifestate dalla donna erano da considerarsi reali e non il frutto di una buona capacità di recitazione.

L’operazione di sbarco continuava, i migranti erano smistati in numero sempre maggiore, lungo il molo, in attesa di essere caricati sugli autobus della polizia. Un giovane italiano si inginocchiò al suolo a mani giunte, pronunciando tra le lacrime una parola: «Tripoli! Tripoli!». Così gli italiani chiamavano la città di Ṭarābulus.