Sarà che sono un pippaiolo
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Scrive Eveblissett (sul suo blog) che «di solito in circostanze drammatiche il non sapere che dire è una reazione quasi normale, umana. Nella socialvetrina, invece, il non sapere che dire è vietato, diventa un fallimento, una sconfitta per l’ego. E quindi, si dice e l’importante è che qualcosa si dica, anche se è una stronzata».
Tutto questo mi ricorda qualcosa. Premesso che io non sono un frequentatore di Twitter di lunga durata, perché è da appena un anno che ho aperto un profilo presso il più diffuso servizio di microblogging, e dunque non ho avuto l’occasione di conoscerlo quando era ancora un ambiente virtuale “di nicchia” con certe prerogative che lo rendevano appetibile come strumento di comunicazione e di informazione da parte dei movimenti, riconosco che qualcosa nell’ultimo anno è cambiato: già poco tempo dopo la mia iscrizione si erano verificati degli eventi che, a chi li sapesse leggere opportunamente, lasciavano presagire cambiamenti significativi.
Il primo evento precisamente collocabile (nonostante alcuni indizi fossero rilevabili anche da prima) risale al 14 novembre 2011: a partire da quella data, Fiorello dagli schermi televisivi lancia davanti a milioni di telespettatori (uno share bulgaro, intorno al 40%) la sua trasmissione dal titolo proposto sotto forma di hashtag #ilpiùgrandespettacolodopoilweekend. L’effetto immediato è analogo a quello sperimentato negli Stati Uniti in precedenza: molti personaggi famosi aprono un profilo su Twitter, seguiti inevitabilmente ciascuno dai propri fan.
Come riporta questa analisi sulla crescita di Twitter nella cybersfera italiana, ciò ha comportato non solo un incremento nel numero utenti, ma anche nel numero di tweet giornalieri (pare che l’Italia sia il paese in cui, in relazione al numero di utenti, ne vengono scambiati di più al secondo), nel tipo di trending topic (che ora riflettono gli interessi di un pubblico più vasto) e, secondo me, anche nel linguaggio e nel’utilizzo del social network. Infatti, un tale aumento numero di tweet non è un semplice incremento di attività, ma un sintomo di cambiamento nell’uso dello strumento: personalmente, ho idea che l’effetto Fiorello abbia condotto molti utenti di Facebook a iscriversi a Twitter mantenendo le abitudini che avevano e continuando a esprimersi come nell’altro social network, ignari del fatto che, per una lunga serie di motivi, le due cose sono concettualmente diverse.
E così, dopo sole due settimane dalla propagazione virale dell’amore viscerale per Twitter, Wu Ming si ritirava dal campo con le mani ai capelli, non senza prima aver fatto una buona analisi e autocritica sul fenomeno, in seguito a violente reazioni di indignazione da parte di questo nuovo “popolo di Twitter” in risposta al loro rifiuto di partecipare alla Colletta alimentare organizzata da Comunione e Liberazione.
Poi è stata la volta del movimento NoTav. Il “popolo di Twitter” ha trasformato l’appellativo di «pecorella» rivolto a un carabiniere da parte di un manifestante come pretesto per screditare il movimento e additarlo come violento. Grazie a questo tipo di ragionamenti fatti au trou du cul (per dirlo con un francesismo) il potere abbassa l’asticella che segna il limite di tollerabilità di azioni e pensieri, ed è l’unico a guadagnarci veramente.
Poi è venuto il 25 aprile, ed è nato l’hashtag #liberocommercio in supporto alla decisione del governo di permettere l’apertura dei negozi anche in occasione del giorno della Liberazione. Ho intrattenuto personalmente uno scambio di battute con alcuni dei sostenitori, chiedendo loro in che modo un lavoratore dipendente da qualche datore che avesse deciso di tenere aperto potesse partecipare alle celebrazioni della giornata senza prendersi delle ferie. Mi è stato risposto che solo i fascisti obbligavano i negozi a restar chiusi e che «il dipendente ha scelto di essere dipendente. Proprio per questo dipende dalle decisioni di qualcun altro. Fine». Ora, mi pare evidente che simili stronzate sono dicibili solo in un ambiente in cui si scrivono luoghi comuni e frasi fatte a palate.
Per non parlare di #bloccare2giugno, un hashtag che non ho seguito ma che a quanto pare è stato inquinato abbastanza da suscitare il fastidio e il disgusto di diversi utenti di lunga data, tra cui Scalva, che ha deciso di abbandonare per un po’ di tempo il social network per evitare il ripetersi di spiacevoli fraintendimenti. La sua dipartita è stata salutata da un hashtag di grande successo, #occupyscalva, che è stato in classifica sotto gli occhi increduli di giornalisti e utenti che in gran parte non hanno capito un cazzo di quello che fosse successo.
Ma insomma, con tutto questo pippone che cosa voglio dire? Che la mia previsione dicembrina si è realizzata pienamente. Tornando a Eveblissett, che lamentava il fatto che « Twitter non è più aggregatore di info ma “scazzatoio”», in riferimento sia alle polemiche sulla parata del 2 giugno sia, immagino, sullo spirito di “classe del liceo” di cui aveva già parlato in precedenza, non posso che riportarla:
«I giornali potranno fare proclami su qual è l’ultima battuta del popolo di Twitter o su qual è stato il motivo della lite online tra Fiorello e la Guzzanti, chi è più stronzo tra i personaggi dell’ultima serie televisiva secondo il popolo della Rete, quanto il web è incazzato e indignato per la violazione delle decisioni referendarie di giugno, se preferisce Vendola o Di Pietro, se Lady Gaga o Madonna. Tutto grazie alla nuova ondata di utenti freschi che ridarà aria ai polmoni del web italiano, che stava per diventare un frame troppo trito e ritrito per essere credibile, troppo poco di moda per fare notizia. Tutto grazie al popolino del web».
Mi scuso per i contenuti che forse risulteranno quasi incomprensibili a chi non usa Twitter (sarà che sono un pippaiolo). Ma di questo passo rischia di diventare incomprensibile anche a me che lo uso. O meglio, tristemente comprensibile, proprio come avevo previsto.
Short Link:
non mi pare proprio che tu sia un pippaiolo, solo non vedo esattamente dove porta il tuo accumulo di dati e analisi, e lo sai che sono contrario all’accanimento terapeutico 😉 adesso vado: c’è da diserbare, zappare, concimare, credo sia meglio darsi alle attività primarie (ma io ho già dato, adesso è il tuo turno)
Cosa punto a dimostrare?
Che Twitter è un mezzo che è stato “inquinato” e con tutto il rumore di fondo ha perso le caratteristiche che lo rendevano un ottimo strumento di diffusione di contenuti e di informazione alternativa. Prima di tutto perché tanti dei twitteriani attivisti lo hanno abbandonato stufi della situazione, e poi perché prende sempre più forma un social network in cui la forma prevale sulla sostanza (come su Facebook, insomma). Se prima la distinzione era ben esemplificata dalla contrapposizione tra “Are you on Facebook?” e “Do you Twitter?”, mi sembra che anche per Twitter cominci ad essere facilmente applicabile la seconda formula.
Si infatti. Incomprensibile a chi non usa twitter. Mi pareva di leggere una poesia di Quasimodo
Se devo essere sincero, non ricordo quasi nulla di Quasimodo. Però alle elementari la maestra ci chiese di scrivere una poesia e poi commentò la mia con le seguenti parole: «sembra di leggere Quasimodo»
e qual era questa poesia? la devo cercare negli archivi storici?
Era una poesia natalizia contro il razzismo che paragonava l’umanità a un albero di Natale e diceva che le sue luci sono diverse eppure «tutte di un unico colore». Vedi se riesci a trovarla! 🙂
la cerco e se la trovo la posto qui 🙂
Che scarso. E’ anche tuo concittadino.
(quello della maestra non so se fosse un complimento)
Lo so che è mio concittadino (in realtà non esattamente).
Ma perché «che scarso»? Scusa tu cosa pretendi da un bambino di 10 anni?
Che scarso perchè non lo conosci! Al di là dell’ermetica a me piace tantissimo anche perchè le sue traduzioni di alceo saffo e gli altri lirici greci sono le più belle traduzioni dal greco all’italiano che ci siano. Secondo me aveva quella sensibilità intuitiva/poetica che è assolutamente necessaria se si vuole accostarsi ad un testo greco.
Comunque io a 10 anni ho lasciato il mio quaderno delle poesie alla mia maestra delle elementari perchè ero la più brava e lei si è tenuta il quaderno come modello per gli anni successivi. Ero molto più bulla io di te!
sono sempre elisa non capisco perchè esca anonimo
Come fai a dire che eri più bulla tu di me? Che ne sai, magari la maestra il quaderno delle poesie me lo aveva chiesto scontrandosi con il mio rifiuto bullesco!
Ok, è una sfida quella che mi stai lanciando? Quando vuoi battaglia in endecasillabi sciolti sul tema ‘hoventannielitigoperquestecose’. Chi vince si prende il diadema e lo scettro di bullo.
Ok, sono d’accordo che esista una considerevole fetta della popolazione che si abbandona alle frasi fatte e alle “autoritas” del chezzo, oltre al fatto che più una cosa diventi diffusa più rischi di incancrenirsi (non per la cosa in sé, ma per chi la usa).
La forma mentis “l’importante è che qualcosa si dica, anche se è una stronzata” non è una novità, esiste nel web da anni prima del boom dei social network (penso ai forum, dove bighellonano/avano veri e propri contenitori di minchiate). Questa modalità non è altro che la versione digitale della “chiacchiera da bar”.
Volendo stringere, visto che è qualcosa di reale, va bene lasciare il campo (twitter, fb e altre magiche concubine) per non vedere il proprio discorso stuprato, ma abbandonarlo totalmente è davvero la soluzione? Non si rischia così di perdere chi quel discorso potrebbe seguirlo, se avesse la possibilità di essere più informato?
Sintetizzando ulteriormente: ho davvero possibilità di “vincere” il sistema se mi estranio da esso?
P.S. Se non si capisce un chezz di quel che ho scritto (cosa che temo) è colpa dell’ora. Comunque, post da pippae mentis o meno, è utile per fissare alcuni punti.
Invece il tuo discorso è chiarissimo.
Per rispondere alla tua domanda, se ha senso estraniarsi dal sistema per vincerlo, rimando alla discussione in calce a questo post su controllo sociale digitale e monetarizzazione dei rapporti interpersonali e della comunicazione (più che dei suoi contenuti).
In alternativa, potrei rispondere brevemente che non penso il luddismo sia efficace. Del resto è stata una malattia infantile del movimento operaio.
Sul fatto che l’obbligo di opinione è una spontanea controparte digitale della sempreverde chiacchiara da bar sono solo parzialmente d’accordo. Non sto infatti sostenendo che Twitter sia diventato quasi ingestibile a causa della libertà di stronzata, ma proprio a causa del suo obbligo: è uno spazio virtuale che è stato interpretato dall’opinione pubblica, grazie ad una sapiente manipolazione dei giornali e del loro fantomatico “popolo del web”, come un posto in cui si commentano i programmi televisivi. Convergenza pura.
Comunque, complimenti per il nome 😉
Mi sono letto anche l’altro articolo, più qualche commento. Convengo sul non demonizzare un medium quanto piuttosto il suo utilizzo e la consapevolezza con cui se ne usufruisce; idem per il positivismo sconsiderato. In particolare avevo già letto il post su Giap in merito a questa (e altre) faccende che sanno di litio e virtualità.
Ho colto la sfumatura che intendi quando parli di “obbligo”. Allora, se gli altri media riescono ad avere un peso così “decisivo” (oserei dire criminale) su internet, è un’ulteriore prova che internet non è di per sé la terra promessa, l’eden, il nirvana ecc. D’altronde, proprio per la sua natura di mezzo, è passibile di essere soggiogato.
Il nome l’ho scelto più per un’affinità del momento. Non mi permetto di paragonarmi al personaggio, però ammetto che Q è stata una lettura positiva. Grazie comunque!
«Convengo sul non demonizzare un medium quanto piuttosto il suo utilizzo e la consapevolezza con cui se ne usufruisce»
Ecco, il fatto però è: mi chiedo, personalmente per l’ennesima volta, se l’insostenibile leggerezza dei commenti su Facebook non sia in realtà qualcosa di fisiologico, di connaturato allo strumento utilizzato e dunque non arginabile.
Insomma, circa un anno fa ho sollevato una questione sull’alienazione da facebook-dipendenza proponendo di spegnere il teleschermo orwelliano e tornare a leggere libri.
Qui qualcuno mi rinfacciò che lo stesso si potrebbe dire della letteratura, che io proponevo come “soluzione”: anch’essa, infatti costruisce dei mondi paralleli di cui si può rimanere prigionieri.
Tuttavia, come risposi allora, la letteratura «certo è qualcosa di artificiale, ma non lede i rapporti umani (generalmente). Può anch’essa, come Facebook, diventare dannosa se alienante. È l’alienazione dall’essere umano che è dannosa, non lo strumento in sé per cui avviene l’alienazione. Anche il bovarismo è una forma patologica e alienante di rapportarsi alla letteratura. Tuttavia il bovarismo non è sistemico; e di facebook è difficile fare un uso piuttosto che un altro, se gli effetti alienanti derivano non dall’uso ma dalla struttura stessa dello strumento, che è indipendente da chi ne usufruisce».
Chiaro che uno strumento come i social network non possano sostituirne altri, perché per loro natura differenti, ma a mio avviso è rischioso e controproducente dare giudizi etici ad un medium.
Sono d’accordo che FB non possa e non debba sostituire un libro. Non potrebbe nemmeno sostituire, per dire, un comune forum. Ciò che voglio dire è che, come mezzo, ha i suoi limiti che hai mostrato ampiamente, ma se la sua istantaneità e sinteticità fossero usate in un divenire, cioè come una prima forma di approccio ad altri media, allora sarebbe così deprecabile un sistema del genere?
Perché ciò non avviene? Perché è l’utenza che definisce l’uso di un network, alla fine. FB è esploso da subito come la moda del momento (parlando di questo paese). Twitter invece è rimasto di nicchia per molto più tempo. Tra l’altro, l’esempio Twitter mi pare lampante: se passa la convinzione che un bene di rete abbia una data funzione prima si avvicinano gli interessati. Man mano che il bacino aumenta, il network si ingrandisce per naturale conseguenza. Esternalità di rete. Ma più si è, più gli interessi si dilatano, più la funzione primigenia dello strumento svanisce se il medium stesso non sa gestire questa ampiezza. Qui sì entrano in gioco quei limiti di cui parli, io credo, e qui forse diventano per l’appunto limitanti, a meno che lo strumento si evolva.
Più che altro il vero limite del virtuale è appunto l’essere virtuale. Dovrebbe anch’esso divenire un ponte verso il concreto. Non lo dico da cultore di un mondo naturale in cui la tecnologia è il demonio, penso solo che oggi, forse per i stessi motivi di velocità di cui parli tu, abbiamo tanti strumenti che sono isole separate tra di loro. Cioè linkate nel virtuale ma non nel concreto, non in un punto di vista culturale.