Il popolino del web [1]

Un aspetto della mia personalità che alcuni lettori potrebbero aver già conosciuto è il periodico sottopormi ad esperimenti psicologici di mia invenzione, per avere un’idea di quale sia il mio livello di autocontrollo su determinate azioni che, spesso, diventano abitudini superflue e magari insensate e irrazionali. Per esempio, intorno al 18 novembre mi sono reso conto che, reduce da un periodo di intensa frequentazione quotidiana di Facebook e di continue visioni delle sue incessanti notifiche, non avrei effettuato l’accesso o ricevuto notifica via mail (peraltro sistema da me disattivato già da mesi) per il più lungo intervallo di tempo possibile. Attualmente, da circa due settimane non vedo il gigante blu: considerando che, sui circa 13.9 milioni di internauti italiani che ogni giorno entrano in rete, 13 milioni accedono a Facebook, direi che l’esperimento è riuscito, anche perché ho notato che più tempo passa dall’ultimo accesso, meno sento il bisogno di accedere e ciò significa che non sono dipendente da Facebook. Sono sollevato. Di più: se qualcuno è convinto che Facebook sia ormai indispensabile per informarsi, conoscere gente o semplicemente svagarsi, gli dirò che non mi sento meno informato né più annoiato né i miei rapporti interpersonali risentono della mia astinenza.
Ma ora dovrei spiegarvi come mi è saltato in testa tutto ciò: nei prossimi post cercherò di farlo.

Da una ricerca internazionale sui comportamenti “tech” dei giovani, condotta nel 2010, risulta che la possibilità di accedere a internet mentre si lavora è tra i principali criteri di scelta del lavoro, anzi esiste una percentuale cospicua degli intervistati che considera tale possibilità determinante e preponderante rispetto al salario.

Secondo uno studioso, l’attaccamento ossessivo (e tecnicamente feticista) di alcune persone all’iPod è un fenomeno che può essere, piuttosto che assimilato ad una dipendenza, meglio descritto come amore. Ora si spiega quella ressa che c’era la mattina del 27 ottobre a Roma: cosa non si fa per amore? L’amore, però, è qui solo una condizione psicologica personale del consumatore che compra una merce; la condizione sociologica oggettiva è invece un capovolgimento del rapporto di possesso tra l’uomo e la merce. Ossia, non è l’uomo a possedere la merce bensì la merce a possedere l’uomo, chiedendogli in tributo denaro e parte del suo tempo: si tratta di assoggettamento dell’uomo alla merce.

Un simile assoggettamento è in effetti presente anche in Facebook, per meccanismi intrinseci o estrinseci. Infatti, questa deve essere la spiegazione di quella percentuale altissima di utenti del web che accedono al proprio profilo facebook tutti i giorni, per diverse ore. E anche della percentuale bulgara (93% un anno fa) di italiani meno che trentenni con un account. Non è possibile pensare che non ci sia un qualche meccanismo omologante alla base di una diffusione così capillare di uno strumento, dopotutto non indispensabile, di cui qualche anno fa tutti si faceva a meno.

Ma i meccanismi intrinseci sono, forse, i più pericolosi, perché sono impliciti e sembrano innocui: se l’omologazione è dovuta a condizionamenti sociali da parte di altri individui, questi meccanismi colpiscono singolarmente l’individuo e sono quelle caratteristiche connaturate alla struttura grafica e funzionale del social network che lo rendono un magnete irresistibile, tale da spingere l’utente a tornare spesso sul sito, a controllare gli aggiornamenti, a dar conto alle notifiche. Inoltre Facebook è totalizzante: tende a inglobare tutto, fagocita servizi di posta, chat, condivisione di video e immagini, utilizzo di applicazioni, come discusso quasi un anno fa.

Insomma, Facebook è omologante sul piano sociale e persuasivo sul piano individuale: uno strumento omologante e persuasivo, come lo si definiva già alla fine del 2010 in un saggio di Maddalena Mapelli pubblicato su Aut Aut e ripreso da Carmilla online.

Certo, ciascuno è liberissimo di gestire come vuole il proprio tempo, i propri dati, il proprio account : può scegliere, per esempio, di non caricare una foto di sé o di usare la funzione di condivisione a suo piacimento o di rifiutare l’amicizia a qualcuno. Ma la forza totalizzante è tale che, addirittura, «se non lo facciamo, saranno i nostri stessi “amici” a sollecitarci, perché tutti su Facebook hanno una loro immagine!» (dal saggio di cui sopra). Ancora, detto con le parole di Wu Ming 1 che discuteva di questo interessante articolo, «non c’è scritto da nessuna parte che non si possa rifiutare un’amicizia, ma se in una comunità questo comporta uno stigma sociale, e se la logica di fondo del dispositivo tende a imporsi conformando approcci e comportamenti, e quindi rendendo più cogente la “pressione dei pari”, tu puoi anche dire che nessuno obbliga di diritto, ma è un obbligo di fatto».

[continua…]