La democrazia ha senso?
Alcuni recenti discorsi mi hanno offerto l’opportunità di riflettere su concetti che davo ormai per assodati e su un interrogativo che potrebbe sembrare banale, ovvero: la dialettica democratica ha senso? E tali riflessioni hanno partorito una risposta positiva, quindi una conferma di ciò che pensavo prima di intraprendere le sopra menzionate discussioni. Si potrebbe osservare che crucciarsi tanto a riflettere su un’opinione e poi ribadirla non sia molto utile, per dirlo con un eufemismo, ma piuttosto l’attuazione di una retorica fallace e faziosa come la risposta di un Anselmo d’Aosta, che, sotto lo sguardo di un accigliato Gaunilone, fa platealmente uscire Dio dalla porta per farlo rientrare dalla finestra, ponendo sottobanco fin da subito ciò che intende dimostrare poi.
Tuttavia, mettendo le mani avanti, rivendico il mio diritto di riconfermare un’opinione opinabile dopo che essa è stata sottoposta a critica e ha subito gli attacchi della dialettica, fosse anche indistinguibile dalla sua precedente versione, in quanto la dialettica fortifica il pensiero, permette la sua maturazione, implica un passaggio obbligato dinamico tra la tesi e la sintesi facendo sì che queste due non possano mai essere identiche: detto in altre parole, una critica non può essere ignorata e quando così sembra in realtà così non è.
L’argomento è stato al centro di molte considerazioni provenienti da amici e conoscenti dell’area libertaria (odio appioppare etichette) che antepongono l’individuo alla collettività e mettono fortemente in discussione la validità della democrazia in quanto mezzo di imposizione della maggioranza sulle minoranze e l’individuo.
Questi pensieri mi hanno riportato alla mente una lunga discussione, fatta due anni fa con un amico anarchico, che verteva sulla realizzabilità di un metodo decisionale in cui ogni scelta ha valore esclusivamente se condivisa all’unanimità dall’assemblea. Sostenitore dell’unanimità, il suo ragionamento era semplice:
«La maggioranza non può decidere per la minoranza, perché schiaccerebbe la libertà di quest’ultima, quindi il confronto e il dibattito devono continuare finché si trova non un compromesso tra le parti, bensì qualcosa che realmente è voluto da tutta l’assemblea e che sarà approvato, infine, all’unanimità».
«Ma ci sono questioni in cui non esiste tale alternativa», ribattevo io, «in cui va scelta questa cosa o quest’altra, senza vie di mezzo né vie traverse. E, soprattutto, ci sono questioni su cui non ci può essere unanimità perché non c’è certezza, non c’è assolutezza. Tante delle nostre opinioni si basano su presupposti non dimostrabili che, in virtù di tale indimostrabilità, non possono essere scalfite dal confronto e dal ragionamento dialettico e sono destinate a restare inconciliabili con altre opinioni: ecco perché su queste questioni non si potrà mai trovare un accordo unanime».
«L’accordo unanime si può trovare», ribadiva lui, «perché siamo tutti ugualmente intelligenti e quindi in grado di capire su cosa basare i nostri ragionamenti, se su pregiudizi o su dati reali: parlandone, alla fine si escogita una soluzione che riesce ad accontentare tutti».
«Ma come», replicavo, «come puoi esser certo che ciascuno sia in grado di distinguere la realtà da una sua interpretazione parziale basata su presupposti indimostrabili? Come puoi non prendere in considerazione la possibilità che il ragionamento sia scavalcato dall’irrazionalità e dall’emozione istintiva, trasformando l’unanimità in uno strumento dittatoriale ad uso di uno o pochi dei membri dell’assemblea, che, con retorica e sotterfugi, siano riusciti a manovrare le opinioni dei restanti membri?»
«Ma ciò non sarebbe possibile, perché ogni individuo conosce bene il proprio vantaggio e quindi non permetterebbe che la decisione dell’assemblea diventi la decisione di una sua parte».
Bene, ricordo che, conclusa la discussione, mi resi conto che essa era stata esattamente un esempio di ciò che avevo descritto: non riuscimmo a trovare un accordo sulla questione maggioranza-unanimità, sia perché è per definizione impossibile conciliare i due metodi, sia perché, latenti nel discorso, c’erano due diverse opinioni basate su presupposti non dimostrabili, che cozzavano sotterraneamente l’uno contro l’altro: lui, infatti, era convinto che siamo tutti ugualmente intelligenti e quindi capaci di prevenire prevaricazioni plebiscitarie all’interno di un’assemblea, io, dal canto mio, ero meno propenso ad accettare questa idea, sulla base di considerazioni scientifiche e sociologiche. Scientifiche perché se prima eravamo stupide scimmie e ora siamo senzienti esseri umani deve esserci stata selezione naturale sulla base di caratteri tra cui verosimilmente quelli riconducibili alla sfera intellettiva; sociologiche perché la sociologia, oltre che la storia, mostrano quanto sia facile che gruppi di persone siano dirottati verso interessi particolari che non giovano ad essi. Ora, oltre al fatto che la scienza, di cui io ho fatto il mio strumento per la dimostrazione del mio presupposto, per sua struttura non verifica ma falsifica, dunque non dimostra la verità ma la non verità, c’è anche un altro problema. Infatti sono sicuro che anche il mio amico riuscirebbe a sostenere ragionevolmente il suo presupposto, cioè che siamo tutti intelligenti allo stesso modo.
La morale di questo breve racconto è che alcune scelte, al netto degli obiettivi che ci si pone, sono destinate a rimanere arbitrarie, dunque arbitraria in sede teorica rimane la mia preferenza per la democrazia piuttosto che per il sistema unanime.
Esso suscita però altre domande, perché degli stessi problemi che esponevo in quella discussione (latenti derive autoritarie, predominio delle emozioni sulla ragione) è passibile il metodo democratico. Perché allora preferisco la democrazia? Perché preferisco il collettivo all’individuale? Perché penso che se pensi solo per te, commetti lo stesso errore di Adam Smith, a cui dobbiamo la convinzione che se alziamo il livello dell’acqua per far salire gli yacht dei ricchi, al nuovo livello si alzeranno anche le barchette dei poveri, lo stesso errore per cui si immagina l’individuo avulso da condizionamenti, capace di scegliere nel proprio interesse, autonomo e libero come se vivesse su un’isola deserta. Ma qui il discorso si chiude, tornando all’arguto Gaunilone, perché quest’isola non esiste.
Short Link:
Questione complessa. Un commento non mi basterebbe per risponderti; probabilmente sarebbe meglio un dialogo, magari cercando la famosa unanimità… 😉
“siamo tutti ugualmente intelligenti” è l’affermazione più stupida che si possa fare, se poi su di essa addirittura si basa una teoria, stiamo freschi…
Nello: diciamo semplicemente che nessuno è convinto di non essere abbastanza intelligente (e di non sapere cosa vuole per sé). Il problema è quando questa volontà va a scontrarsi con quella altrui.
Davide, so che la questione è complessa e sapevo che sarebbe stata pane per i tuoi denti. Non rinuncio all’invito e ci vediamo presto 🙂
Sulla questione intelligenza, capisco Nello cosa vuoi dire, ma ripeto che sono convinto che, in questo campo, anche chi sostiene il contrario, come quel mio amico, avrà i suoi buoni motivi e le sue ragionevoli prove a favore. Siccome è un argomento delicato in cui non c’è certezza (nemmeno scientifica, nemmeno sulla definizione del concetto!) io non sono nessuno per contraddirlo con il coltello dalla parte del manico: questo coltello ha lama da entrambi i lati ed è anche a doppio taglio.
Del resto, come ha osservato Davide, nessuno è convinto di essere stupido. Una volta Stefano mi ha detto: “e se inventassero un test efficace per stabilire se uno è stupido o intelligente e tu risultassi tra gli stupidi cosa faresti?”; immagino che sarei scettico sull’affidabilità del test.
Nell’attesa di rivederci, invito te (nonché Nello) a rileggere l’incipit del Discorso sul metodo:
Da notare che Cartesio non parlava di intelligenza, ma di ‘buon senso’… 😉
E chi l’ha detto che per convivere dobbiamo scegliere le cose all’unanimità? Forse per un aanrchico collettivista come (credo) il tuo amico del racconto sì; perché lui aveva in mente la comune ma per un libertario individualista il problema non si pone. Per l’anarchico individualista è una questione di scelta: ovvero gli individui che si sentono simili si associano per scelta e decidono, se vogliono, di prendere decisioni all’unanimità.
Beh la questione dell’intelligenza è molto ardua e spinosa, però il discorso evolutivo funziona solo in parte perchè è vero che in tempi geologici si vengono a verificare differenze tra individui della stessa specie tali da favorirne alcuni e quindi favorire la selezione di una nuova specie ma è anche vero che nessun individuo ha visto evolversi una specie davanti ai propri occhi quindi le differenze tra individui contemporanei sono minime, questo è ciò che penso ma come dicevi già tu, Piero, ognuno potrebbe dimostrare l’esatto contrario. Per il discorso dell’unanimità io credo che quando non si può raggiungere si può benissimo fare in modo che le due fazioni facciano entrambe ciò che volevano, apportando quindi un doppio contributo alla società, il tempo sicuramente può far maturare scelte unanimi ma è vero che ciò non è sempre possibile o necessario. Il fastidio della maggioranza è l’imposizione della scelta sulla minoranza, fastidio risolto in questo modo, ovviamente mi rendo conto che è un discorso astratto e che qualcuno troverebbe sempre situazioni concrete limite in cui questo ragionamento cozza, ma credo ciò si possa fare per tutto, inclusa la democrazia.
Articolo interessante, pero’ vorrei sollevare una questione; perchè si pensa che la libertà individuale sia un pensare solo per te? Non pensate che quando manchi la libertà della minoranza sia un pensare solo per se stessi ( maggioranza) come è già stato detto nell’articolo.La libertà individuale non esclude le altre libertà a differenza di quella collettiva. Individuale e collettivo, il primo egoismo il secondo eugualitario, non è cosi ma viceversa; è un po’ come pensare che la dittatura del proletariato sia una dittatura un po’ come quelle che la storia ci ha propinato. La dittatura del proletariato è la vera forma di democrazia.C’è un errore di fondo che si basa sull’etimologia della parola che con gli anni è diventato un modello bello e pronto.
Karim, il tuo discorso ha senso e si ricollega bene (mi permetto di fare collegamenti tra opinioni non mie) con il commento immediatamente precedente, quello di fabristol: tu dici, si può fare in modo che sia la maggioranza che la minoranza, compresi naturalmente eventuali altri gruppi di opinione, facciano ciò che vogliono; immagino che ciò possa avvenire soltanto se la maggioranza si svincola dalla minoranza e viceversa, ovvero, per ciò che concerne quella particolare decisione, il gruppo si dividerà e ciascuno seguirà il proprio volere.
Ma immagina un attimo che questo debba avvenire per ogni decisione: di scissione in scissione, alla fine (e io penso abbastanza presto) si arriverebbe ad un punto in cui ogni individuo è svincolato da tutti gli altri, perché due persone che la pensino allo stesso modo su tutte le questioni possibili direi che è difficile o impossibile trovarle. E allora, a quel punto, estendendo il “ciascuno faccia come vuole”, prima riferito ai gruppi della maggioranza e della minoranza, agli individui, non si giunge a “fate il cazzo che volete”?
Se la risposta è che sì, facciamo il cazzo che vogliamo ma a patto che ciascuno sia libero, il discorso a me non torna più, perché le divergenze di opinione ci possono essere anche su cosa voglia dire “essere liberi”.
Io credo che principalmente si debba cercare, come anche in democrazia, di andare il più possibile d’accordo e di integrare le varie soluzioni in un unica soluzione, o in un numero minimo che veda tutti d’accordo, se le assemblee vengono cominciate e finite con questo spirito allora credo che non si arriverà alla conclusione del “fate il cazzo che volete”, questa è l’unica cosa in merito che mi sento di dire. Volevo aggiungere che, come già credo sia chiaro, non si parla di stati, nazioni ma di comunità cittadine, o comunque di dimensioni umane, che variano a seconda dell’idea che ognuno s’è fatto, quindi mi viene da pensare che vengano create da persone che si trovino in sintonia, se una di queste non lo è più per un qualsiasi motivo può spostarsi e andare in una comunità in cui può trovarsi meglio, capisco che il doversi spostare è sempre un “obbligo” abbastanza pesante ma forse con questo metodo si possono generare comunità più coese e in accordo. Non vorrei però estendere il discorso troppo, era solo un accenno.
Perché non continuate – continuiamo – queste discussioni alla cena di domani sera? Monsieur en rouge, verrai? 😉
@Karim: ecco, non estendiamo troppo altrimenti non si finisce più, perché mi pare di capire che siamo d’accordo sul fatto che su alcune cose non si può trovare un accordo. Del resto avrei potuto subito rispondere alla tua prima osservazione con una dissertazione sul confronto tra teoria gradualista e teoria degli equilibri punteggiati, ma saremmo andati un po’ fuori tema e quindi non l’ho fatto. Anche perché, come hai detto, ognuno può dimostrare ciò che vuole in base all’interpretazione che dà di una scienza debole come la biologia.
@Davide: ehm, che cena? Non ne sono stato informato!
piero ormai credo sia un pò tardino per la cena, comunque l’associazione Ipazia fa una cena anticlericale domani sera alla società dei libertari in via g.b. odierna (il circolo), prima alle ore 18 e 30 ci sarà la proiezione di religiolus seguita da dibattito.
http://www.facebook.com/events/194441477314214/
in ogni caso, riguardo al mio commento sull’argomento, dato che sono andato troppo oltre tanto vale valutarlo fino al “questa è l’unica cosa in merito che mi sento di dire”.
ci sono due testi che potrebbero interessarti, o magari già li conosci:
intelligenza e pregiudizio di Stephen J. Gould,
e questo di Arrow: http://it.wikipedia.org/wiki/Teorema_dell%27impossibilit%C3%A0_di_Arrow
teorema dell’impossibilità di Arrow
@giacinto scelsi
Non conosco Gould, ti ringrazio del consiglio.
Il paradosso di Arrow lo conosco, ma, come recita la pagina che hai inviato, «Il teorema di Arrow è un risultato matematico, ma è spesso espresso in termini non matematici, con affermazioni come: nessun sistema di voto è equo, qualunque sistema di voto può essere manipolato, o il solo sistema di voto non manipolabile è la dittatura. Queste affermazioni rappresentano semplificazioni del risultato di Arrow che non si possono considerare universalmente vere.»
@Riccardo
Mi accorgo solo ora di non aver letto questo commento (24 dicembre ore 13.12).
Solo che ora che l’ho letto temo di non averlo capito: mi sembra che dia troppe cose per scontate.
sì, in effetti spesso si prendono teoremi del genere e si applicano senza averli bene studiati. io in realtà non l’ho ancora letto o studiato, ho pensato che ti potesse essere d’aiuto.
c’è una sua intervista ( fatta ad Arrow da odifreddi ) in cui alla domanda: ” il concetto di democrazia, ha perso un po’ della sua attrattiva e del suo significato, a causa del suo teorema di limitatezza”?
e arrow risponde: “il significato profondo del mio teorema è che non possiamo escludere la possibilità di conflitti irresolvibili. anche se questa è solo una possibilitò, rimane comunque una profonda verità sul mondo sociale. in poche parole, la democrazia non sempre funziona”.
aggiunge poi che il teorema si applica a qualunque sistema per conciliare preferenze individuali, comprese le dittature, perché anch’esse ammettono una pluralità di centri di potere.
Non mi addentro nel discorso perché ritengo di non avrne le competenze necessarie.
Tuttavia non posso che notare, egocentricamente, che la mia opinione sull’inconciliabilità di alcune opinioni trova una conferma autorevole anche da parte di Arrow: «il significato profondo del mio teorema è che non possiamo escludere la possibilità di conflitti irresolvibili».
Detto questo, credo che approfondirò l’argomento.
🙂 puoi anche dire alla prossima discussione, che la suggeresisti proprio a lui perché poi la sviluppasse in maniera matematica
il blog l’ho trovato per caso, leggerò qua e là indietro nel tempo. saluti
Quello che credo un errore fondamentale nell’ analisi dei sistemi democratici è porre troppa attenzione a come si può giungere all’ unanimità e poca alle cause che rendono difficile questa unanimità.
Tornando a parlare di anarchici, in questo caso nessun discorso torna più utile del “Dialogo tra Contadini” malatestiano, dove un convinto contadino nemico dello Stato chiede all’ altro se mai una comunità di coltivatore dovrebbe mettersi a votare per decidere qual’ è il tempo migliore per seminare ciò che ben tutti sanno che ha una stagione migliore.
Riportando il discorso alla realtà (cosa che i libertari solitamente faticano), l’ unanimità odierna è resa impossibile dalla diversità di obiettivi che diverse componenti sociali vogliono ottenere, ergo dalla diversità delle condizioni delle componenti, ergo è una conseguenza quasi diretta della società classista, che tra le altre cose pone una innaturale differenza di bisogni ad individui che per natura sono uguali.
Non è pensare modi diversi di ottenere un’ obiettivo, è avere obiettivi diversi, e opposti.
Ciò a cui si mira in un’assemblea che discute per decidere un qualcosa sia di pratico che di teorico non è l’attuazione di un ragionamento particolare, né di una verità predominante, ma un risultato finale che sia accessibile, conveniente e buono per tutte le parti che compongono l’assemblea. Detto questo ciò che dovrebbe animare tutte le parti è il bene personale, il bisogno di ognuno che può essere inizialmente condiviso da molti o da nessuno. Trovare un accordo secondo maggioranza lascerebbe la minoranza insoddisfatta e in un compromesso finale che riassumesse il volere di ognuno semplificandolo e sottraendolo della sostanza iniziale lascerebbe comunque parzialmente insoddisfatta l’assemblea. Se ci avviamo sul pensiero che ho accennato prima, ovvero che ognuno agisce per raggiungere il proprio bene, il problema iniziale si semplifica: il bene personale corrisponde a ciò che si ritiene essenziale per sé stessi. A questo punto io prenderò coscienza che il tuo bene essenziale, e il mio bene essenziale, seppure diversi tra loro sono entrambi spunto di beneficio collettivo e generale per la società perché sia io che tu facciamo parte di questa società, perciò i nostri bisogni diventano di pari valore, per questo riconoscerò alla fine che per accordarmi e costruire qualcosa dovrò evitare di nuocere a te. Il mio bene e il tuo non dovranno intralciarsi, ostacolarsi perché ognuno avrà preso coscienza che il bene generale corrisponde precisamente al bene a cui si è giungerà unanimemente, conciliando ogni bene in un bene ultimo, essenziale per tutti. E’ un pensiero che andrebbe molto approfondito e semplificato in questo modo può apparire banale, ma infondo è proprio questo il concetto su cui si basa la convivenza pacifica, priva di divergenze e fertile di pensieri diversi utili all’arricchimento collettivo. E credo sia simile al concetto che il tuo amico ti spiegò, credo anche che il pensiero di “ugualmente intelligente” possa accostarsi a quello che tento di spiegare ora riguardo al bene: ognuno è ugualmente capace di riconoscere il bene generale, mirato alla collettività. A mio parere per la società la verità applicabile dev’essere una: il bene condiviso e condividibile, null’altro. Tutti riconoscerebbero il bene ultimo se messi davanti alla realtà che il bene è ciò che è buono per te e contemporaneamente non ostile all’altro e quindi, in conclusione buono per l’altro.