Sull’estetica del conflitto [parte 2]

Manifestazione bracciantile a Mantova, 1957

Il modello della minaccia, che evidenzia un conflitto reale, è valido solo sotto certe condizioni, che naturalmente non sempre si verificano in ogni sistema sociale, in ogni luogo e in ogni epoca, come naturalmente non mantengono la propria validità in ogni sistema sociale, in ogni luogo e in ogni epoca le leggi socio-economiche che molti ritengono, a torto, avere un carattere assoluto.

A prescindere dalla moltitudine di fattori che possono avvalorare o, al contrario, compromettere l’applicabilità del modello della minaccia, esiste un presupposto per la sua efficacia, ovvero l’effettività della minaccia stessa: deve prospettare al minacciato la possibilità che realmente egli corra un rischio non trascurabile. Tolto ciò, la minaccia perde il suo valore potenziale ed è assunta piuttosto come semplice reiterazione tradizionale di linguaggi non più credibili non solo nella forma ma anche nella sostanza. Quando gli operai per entrare nella storia minacciavano il blocco della produzione, la classe a cui essi si rivolgevano sentiva e subiva la minaccia perché era cosciente che un’eccessiva negligenza avrebbe realmente rischiato di compromettere l’esistenza del sistema che loro, per sé stessi, avevano costruito, perché sapevano che certamente gli operai, se l’avessero voluto, avrebbero potuto bloccare definitivamente una fabbrica, un paese o una nazione forgiando un sistema alternativo all’esistente modellato su basi già poste da altri, decenni prima, solo sul piano teorico ma con l’intenzione dichiarata di non lasciare che restassero meri scritti utopici e inconcludenti. Questo significava il blocco del sistema produttivo: plasmare la realtà concreta dandole una forma voluta, realizzare il sogno di pensatori e grandi uomini del passato, riscattare la dignità di miriadi di esseri umani che avevano da sempre popolato la storia del mondo.

Risulterà allora chiaro che il blocco produttivo come strumento ha senso soltanto quando è causa della rovina di chi controlla il sistema produttivo; che esso non può dunque valere come minaccia se non implica la certezza che al blocco produttivo seguirà un insieme di blocchi in grado di rendere inutile la strategia di sopravvivenza dell’altrui sfruttamento, se non implica in ultima anlisi la volontà e la possibilità di proporre un «ordine nuovo».

Oggi questa condizione fondamentale manca, pertanto è poco efficace, ai fini della lotta, tutto il linguaggio che da tale condizione fondamentale ha tratto in passato le mosse: sarebbe una reiterazione poco credibile non solo nella forma ma anche, particolarmente, nei contenuti.

Ed è per questo che cambieremo linguaggio e parleremo dell’estetica del conflitto, del modo con cui si trascina dietro il ricordo di vecchie forme di lotta (il ché non è di per sé negativo, anzi più che meritevole) eppure trascura la speculazione teorica (l’elaborazione di nuove idee, o ancora meglio sistemi di idee, teorie, che spieghino a quelle miriadi di esseri umani cosa succede nel mondo reale) e l’invenzione di forme di lotta nuove, che sostituiscano le vecchie e tornino a rappresentare una minaccia vera, viva, valida.