Appunti su un nuovo colore – Chi sono? Cosa vogliono?

Partiamo da una verità di base: tutto quello che la maggioranza degli italiani sa del movimento dei gilet gialli è falso. Si è detto nel post precedente a questo che il movimento dei gilet gialli è stato raccontato dai media italiani in maniera distorta per compiacere gli interessi politici locali e confermare una lettura del mondo, purtroppo diffusissima, estremamente provinciale.

Che cosa è stato distorto, dunque? Che cosa hanno vissuto quelle persone che a milioni hanno improvvisamente creato una frattura nel tempo scandito da ingranaggi che sembravano ben oliati? Da dove vengono i gilet gialli? Chi sono? E cosa vogliono? Qui si cercherà di fornire delle piste per rispondere a queste domande. Delle piste e non delle risposte, perché come già detto «tutto questo rappresenta qualcosa di difficilmente esprimibile con linguaggi e sistemi di riferimento tradizionali, fuorché quelli appunto della rottura» e sarebbe pretenzioso credere di dare risposte, men che meno risposte complete e convincenti, se non si ha ancora un linguaggio per formularle, ovvero se, parafrasando Gramsci, il vecchio muore e il nuovo non è ancora nato. Per questo motivo, senza pretesa di imparzialità, saranno forniti anche esempi aneddotici forse non del tutto generalizzabili, ma che aiutano a capire che aria si respirava e che impressioni e sensazioni hanno avuto le persone che hanno attraversato questo movimento.

Un primo punto, che non sarà discusso qui ma che vale la pena di riportare almeno per sconfessare una delle verità preconfezionate propagandate in Italia, è quello del posizionamento elettorale dei gilet gialli. All’inizio, gli studi concordavano nell’individuazione di tre poli elettorali di uguale peso in seno al movimento: un polo mélenchoniano di sinistra, uno lepenista di estrema destra e uno astensionista. Non si discuterà qui di tale lettura elettorale e dei suoi limiti interpretativi, perché non è lo scopo di questa analisi, ma è opportuno ricordare che col tempo, e pure abbastanza rapidamente, si è verificato un progressivo spostamento a sinistra, cui ha contribuito principalmente la repressione violenta: la questione della polizia si è imposta come tema centrale del movimento, soprattutto a partire dal trattamento subito dai liceali di Mantes-La-Jolie, e l’avversione per le imposizioni, le gerarchie e le forze dell’ordine hanno ulteriormente allontanato le simpatie dell’estrema destra, che sulla retorica di “legge e ordine” basa il proprio discorso politico ed elettorale. Di conseguenza, oggi, le istanze xenofobe che erano ambiguamente presenti tra i contenuti espressi nelle prime settimane sono state messe da parte e ampiamente sostituite da una dimensione sociale, grazie anche all’allontanamento fisico dei gruppi neofascisti nei modi a loro più appropriati (soprattutto a Parigi e Lione).

In ogni caso, il discorso elettorale ha scarsa presa sui gilet gialli, perché il sistema di valori che esprimono collettivamente è poco incline a tollerare i vincoli della rappresentanza: la maggioranza non si fida dei sindacati né soprattutto dei partiti politici. Alla richiesta di collocare il proprio pensiero politico su una scala da sinistra a destra, già all’inizio un terzo si dichiarava “né di destra né di sinistra”, circa la metà di sinistra, una minoranza di destra. Percentuali irrisorie degli intervistati si collocano come “di centro”, a ennesima conferma di quanto questo movimento sia sintomatico di un mondo che sta morendo, quello basato sugli equilibri internazionali dell’ordine liberale e che della “corsa al centro” fanno il proprio atteggiamento prescelto.

Per quanto riguarda la composizione sociale, le prime inchieste e analisi sociologiche agli esordi del movimento hanno restituito fin da subito un ritratto dei gilet gialli che non corrispondeva alla descrizione data inizialmente dai giornali, compresi quelli francesi e specialmente quelli vicini a Macron, di un popolino piccolo borghese e conservatore formato da “Gaulois refractaires“. Fra i vari studi ne bastino due (da cui sono tratti anche i dati e le conclusioni dei paragrafi precedenti), dai risultati significativi e piuttosto rappresentativi, nonché testimoni di tendenze poi confermate da studi successivi.
Gli studi concordano su una sovrarappresentazione del lavoro dipendente (impiegati e operai) e della forza-lavoro inattiva (pensionati e disoccupati) e una sottorappresentazione dei dirigenti. A tal proposito, non mancano racconti di cordiali cene di lavoro in cui la discussione tra colleghi cade sul movimento e improvvisamente i padroni si chiudono in un silenzio impacciato. Insomma, come prevedibile, le classi popolari sono ampiamente sovrarappresentate, ed emerge che il reddito familiare dichiarato dai manifestanti corrisponde a due terzi del reddito mediano. Riassumendo quanto detto finora, si tratta di masse popolari povere, senza fiducia nella rappresentanza politica e nelle istituzioni. In un mondo in cui le istituzioni della rappresentanza sono sempre più svuotate e in cui i luoghi e i meccanismi del potere risiedono sempre più evidentemente altrove, per spiegare tale sfiducia non serve neanche chissà quale intuito, ma basti un elemento tra i tanti: la percezione che si ha dei sindacati.

All’inizio del movimento, circa la metà delle persone in piazza sta manifestando per la prima volta nella vita: in generale quindi i gilet gialli hanno poca esperienza in mobilitazioni precedenti. Questo, tuttavia, è vero solo se per mobilitazioni si intendono i movimenti, meno se si intendono i sommovimenti, l’inquietudine o l’agitazione sui posti di lavoro: i primi dati sulla composizione sociale relativi a chi ha preso parte alle prime settimane di protesta, rilevati da ricercatori in sociologia del CNRS con apprezzabilissima lungimiranza fin dall’inizio del fermento sulle rotonde, parlano di una gran parte di persone che hanno assistito o vissuto in prima persona una vertenza sindacale non andata a buon fine. Secondo queste analisi a partecipare alle proteste e organizzare i blocchi per un maggiore potere d’acquisto è dunque il lavoro dipendente che non ha possibilità di scioperare, perché non se lo può permettere a causa di una situazione economica critica, perché privo di risorse politiche in grado di portare delle rivendicazioni al padronato (forza-lavoro non sindacalizzata o non sindacalizzabile), oppure ancora che non ha volontà di scioperare, disilluso da trattative fallimentari. In questo senso, la forza propulsiva del movimento è un prodotto della disgregazione del sindacato, per mano dell’erosione neoliberista (con conseguente affermazione del precariato) o per collusione delle sigle sindacali con il padronato (con conseguente sfiducia). Resi inutili e inefficaci gli intermediari dello scontro sociale, resta solo lo scontro sociale pure e diretto, con uno spirito che richiama il sindacalismo rivoluzionario e che non ha mancato di manifestarsi con un’interminabile serie di azioni dirette ai danni di grandi aziende come Amazon, Vinci, Blackrock e altri giganti commerciali e finanziari. Insomma, da questa prospettiva il movimento dei gilet gialli risponde all’esigenza di mettere in pratica quello sciopero precario di cui si parla da molto tempo negli ambienti di movimento, ma senza risultati incisivi né decisivi, e sarebbe un’estensione su scala di massa di lotte autorganizzate come quelle del Mouvement national des chômeurs et précaires in Francia o delle Camere del lavoro autonomo e precario in Italia.

Tuttavia, un tale interpretazione sarebbe estremamente riduttiva, perché perderebbe di vista altri criteri, simboli e identità che hanno trovato espressione nel movimento e che eccedono ampiamente la categoria socioeconomica del lavoro. Infatti, come sottolineato già da altri, si tratta di una rivolta della periferia. Non una periferia necessariamente geografica, sebbene questo fattore conti, ma più in generale una periferia simbolica: le banlieues rispetto ai centri storici, i quartieri popolari rispetto ai quartieri borghesi, la provincia rispetto alla capitale parigina, ma anche l’invisibile rispetto al mediaticamente visibile, i luoghi di vita rispetto ai centri decisionali, in ultima analisi la periferia rispetto al centro come simbolo dell’oppressione materiale.

Per questo motivo, non deve stupire che una costante delle manifestazioni dei gilet gialli sia stata fin dall’inizio la volontà determinatissima di riprendersi il centro, rimettendosi al centro, che si tratti dell’Arc de Triomphe in Place de l’Etoile o di una rotonda al centro di un incrocio nella Francia rurale e periferica. Questa necessità di riprendersi il centro, pur essendo raramente formulata in questi termini, è stata di un’ovvietà spontanea e soprendente. Questo punto è forse difficile da comprendere guardando dall’Italia se non si ha una conoscenza diretta dei codici culturali francesi: in Italia la sacralità dei simboli e forse anche la loro forza è molto più limitata che in Francia, così per esempio il trinomio Liberté, Egalité, Fraternité non sarebbe mai messo in discussione da nessuno mentre in Italia qualunque principio potrebbe essere messo in discussione da tutti, e analogamente in Francia esistono figure capaci di mettere d’accordo (quasi) tutti, il che è un fenomeno rarissimo in Italia. A causa di tale sacralità e intoccabilità dei simboli in Francia, esistono dei luoghi molto più pregnanti di “potere centrale” e non è dunque un caso che per riprendersi il centro sia stato considerato semplicemente ovvio invadere gli Champs Elysées, che sono invece accuratamente evitati, come decine di altri “luoghi del potere”, dai percorsi tradizionali delle manifestazioni nella capitale francese.

carte_diplo

La carta dei “luoghi del potere” diffusa da Monde diplomatique. In rosa tratteggiato, i percorsi tradizionali delle manifestazioni sindacali e politiche. Click sull’immagine per ingrandire.

Come esempio del fatto che i luoghi del potere non necessariamente coincidano con il centro geografico, basti l’esempio di Lione: per diversi mesi, i cortei di Lione si spingevano verso i quartieri-cantiere, sventrati dalla valorizzazione capitalistica e soggetti ad una crescente speculazione immobiliare. Difficile non vedere il nesso con la gentrificazione, una scelta politica dalle conseguenze sociali devastanti che negli ultimi anni ha assunto proporzioni gigantesche per responsabilità di tutte le istituzioni del feudo del sindaco Gérard Collomb, il cui obiettivo politico dichiarato è trasformare Lione in «una città dallo skyline europeo» per «parlare agli investitori» e renderla una «ville de décideurs» . In On est là viene dato l’esempio di Bordeaux, molto simile: si parla di una «espulsione delle fasce più precarie» che rende ragione della grande importanza assunta dal movimento a Bordeaux, città che ha conosciuto negli ultimi dieci anni un fenomeno speculativo senza precedenti e la cui amministrazione punta a «superare il milione di abitanti».

Occorre adesso fare una considerazione cruciale sulle rivendicazioni del movimento dei gilet gialli e sul “riprendersi il centro”, perché è un punto che molti osservatori esterni sembrano non cogliere. C’è qualcosa di estremamente fisico nelle manifestazioni dei gilet gialli, è difficile trovare le parole per esprimere questa sensazione ma basta aver partecipato ad una qualsiasi manifestazione per capire di cosa si tratta. Forse anche a causa del livello di repressione che trasforma i manifestanti in bersagli mobili sotto il tiro delle armi della polizia, è la fisicità del corpo il terreno su cui si gioca il livello di conflittualità politica. Dai movimenti degli ultimi decenni, inoffensivi nella propria incapacità di minacciare l’integrità della classe dominante e nella loro accettazione più o meno remissiva dell’inevitabilità di essere respinti ai margini o neutralizzati, il movimento dei gilet gialli si è distinto in maniera netta.

Come accennato sopra, le zone di Parigi interessate dagli assembramenti spontanei già nelle prime due settimane dei gilet gialli sono zone in cui molti dei partecipanti non avevano mai messo piede e il fatto che a un certo punto abbiano deciso, collettivamente, di cominciare a mettercelo, ha comportato una serie di reazioni scomposte da parte dei normali frequentatori di quei quartieri: come racconta Le Monde (a chi capisce il francese, consiglio la lettura di tutto l’articolo), il panico si imposessa degli abitanti del centro, prende coloro che meno se lo sarebbero aspettato, si insinua nelle loro dimore e nei loro animi. «Per la prima volta nella loro vita, gli abitanti dell’8° e del 16° distretto di Parigi, i più esclusivi della capitale, hanno subito violenze alle porte dei loro appartamenti, temendo per le loro proprietà e talvolta per la loro vita […]. Danneggiamenti, macchine in fiamme, vetrine in frantumi, fino a quel momento li avevano sempre visti al telegiornale comodamente installati nei loro accoglienti salotti. Si sentivano al sicuro, così lontano dai cortei solitamente confinati nell’est della capitale […]. Non era forse per la pace e la tranquillità che avevano scelto di vivere qui, in questo ovest dagli ampli viali eleganti e dai parchi perfettamente curati? […] Il famoso primo dicembre, il proprietario di un palazzo privato con giardino con vista sull’Arc de Triomphe stava seguendo in televisione l’Atto III della mobilitazione dei gilet gialli, […] non avrebbe mai immaginato di trovarli sul proprio prato. Senza pensare, si è precipitato fuori urlando “Fuori di qui! Siete a casa mia!”. Il gruppetto di persone incollerite probabilmente non avevano pensato che un edificio del genere potesse appartenere a una famiglia – il quartier generale di una banca o una grande azienda, un’ambasciata, forse? -, e ha, così, indietreggiato, sorpreso e imbarazzato».
Ma questo, continua il racconto, era soltanto la scintilla: nei giorni successivi «il proprietario, il ricchissimo, l’altoborghese, decide di rinforzare il proprio recinto […]. Soprattutto, racconta molto della propria spiacevole disavventura nei banchetti della città bene, il terrore si diffonde come veleno, da un tavolo all’altro, di pranzo in cena, di telefonata in messaggio. Forte di una terribile constatazione evidente a tutti: erano loro ad esser presi di mira, e la testa che la folla inferocita chiedeva era quella dei ricchi, dei vincenti o presunti tali, di quelle persone privilegiate». Insomma, la borghesia francese comincia a perdere la calma e il sangue freddo: «vogliono farci salire sul patibolo», «è stata una guerra», «non ci sentivamo più sicuri in casa nostra», «vivevamo sotto il coprifuoco» , «un quartiere in stato d’assedio». A partire dall’8 dicembre, le famiglie bene della capitale prendono un’abitudine che continuerà nei mesi a venire: partire “in vacanza” ogni fine settimana, in case di campagna o in resort a cinque stelle fuori città, dove il movimento popolare non andrà a cercarli. Nel primo trimestre del 2018 si registra un boom di presenze sulla costa della Normandia, ma anche in Bretagna e Hauts-de-France, con indici di crescita delle prenotazioni alberghiere che in alcune località superano il 70%. Questa non è l’unica abitudine che gli abitanti dei quartieri più abbienti sono costretti ad adottare: nascondono le automobili più lussuose nei garage, fuori dalla vista, si rivolgono a società di sorveglianza e sicurezza privata, addirittura alcune case si dotano di safe room, stanze di emergenza con acqua, cibo e mezzi di comunicazione per ritirarsi con la famiglia in caso di necessità. Un anno dopo, un poliziotto racconterà: «la notte del primo dicembre 2018, l’Eliseo ha rischiato di cadere».

Questa paura non è vissuta soltanto dagli abitanti del 16° arrondissement di Parigi. Lo stesso Emmanuel Macron si assicura che un elicottero sia sempre a portata di mano all’Eliseo in caso di emergenza e dopo poco più di un mese dall’inizio di quella che viene ribattezzata “la crisi dei gilet gialli” fa addirittura perdere le proprie tracce, preso da paranoia e crisi di nervi, e per quasi due settimane nessuno sa dove si sia nascosto le Président de la République.

Perché soffermarsi su queste testimonianze? Perché restituiscono l’immagine di una paura che ha finalmente cambiato lato della barricata. Come si legge sui muri, «la peur a changé de camp». Dopo questa digressione, sarà forse più chiara la considerazione sul “qualcosa di estremamente fisico” cui si accennava sopra. Dopo decenni di relativa tranquillità, in cui anche le opposizioni più agguerrite non arrivavano a minacciare l’integrità fisica della classe dominante e delle sue proprietà, questa adesso si vede privata di spazi, e in particolare di spazi fisici, di cui non può più disporre come le aggrada o e convenga, ed è un’esperienza che aveva dimenticato potesse esistere. Terrorizzate, le élite proteggono questi spazi con le unghie e coi denti, l’obiettivo è impedire l’accesso a chiunque non appartenga alle classi sociali più alte, come in un film distopico o, più realisticamente, in una gated community cilena.

Apartheid sociale: i poveri da una parte, i ricchi dall'altra.

Apartheid sociale: i poveri da una parte, i ricchi dall’altra.

Ecco spiegata la ferocia delle forze dell’ordine (questione che sarà discussa più in dettaglio) nel difendere ogni centimetro quadrato dei luoghi ritenuti intoccabili, una ferocia mossa dalla paura, e soprattutto ecco spiegata la sensazione di fisicità che si avverte durante una manifestazione dei gilet gialli: si sa di essere fuori posto, si è pienamente consapevoli di stare sfidando dispositivi di segregazione sociale, e tali dispositivi si sfidano con tutta l’arroganza possibile. Ciò è intollerabile da parte del potere, e non come qualsiasi manifestazione non autorizzata – perché, figuriamoci, la libertà di espressione è garantita! – ma a causa della peculiare composizione sociale di questo movimento, che in fondo chiede l’accesso a spazi altrimenti inaccessibili. Molto significative sono state le scene della sommossa del 16 marzo quando è stato messo a fuoco Fouquet’s, ristorante esclusivo simbolo del lusso sfrenato, e la gente voleva sentire il sapore dello champagne, o quando è stata saccheggiata una gioielleria sugli Champs Elysées in quello che un tempo si sarebbe definito esproprio proletario, e qualcuno distribuiva diamanti alla folla lanciandoli come coriandoli. Queste scene parlano del desiderio di accedere ad una ricchezza da cui si viene socialmente esclusi, in un modo analogo a quanto avveniva nei riot inglesi del 2011.

In un certo senso è stato anche un momento di apertura nel processo di costruzione collettiva del possibile, un’espansione dell’immaginario: in una sorta di psicogeografia situazionista, si è dato lo spazio per la creazione spontanea di un modo differente di vivere lo spazio urbano: «si può provare qualcosa di nuovo, per andare un po’ più in là: una avenue da film, delle vetrine luccicanti, dei caffè a 8 euro… quella è l’unica realtà possibile per gli Champs Elysées? In molti stanno pensando che forse no! Si può provare a visitare diversamente questi bar, a entrare diversamente in questi negozi, a camminare diversamente questi marciapiedi».

arc

Tutto ciò è, a mio avviso, la più evidente dimostrazione di quali desideri abbiano mosso milioni di persone, e anche la più chiara espressione delle loro rivendicazioni. Spesso la valutazione del movimento è stata viziata, tanto in Francia quanto all’estero, da letture che ponevano domande troppo stranianti.
Lamentavano la poca chiarezza di un movimento che scende in strada contro una tassa spacciata per ecologica e che presto, dopo una rapidissima vittoria, in maniera scomposta esprime propositi apparentemente disomogenei. Il carattere che accomuna tutti quei propositi si disegna facilmente come nei giochini grafici in cui si devono unire i puntini nell’ordine giusto, e la figura disegnata parla di aumento del potere d’acquisto. Ma anche questa è una figura parziale e limitata, artificiosa e costruita se vogliamo. C’è qualcosa di molto più immediato e diretto nel movimento dei gilet gialli: molte letture chiedono con scetticismo delucidazioni sulle rivendicazioni, perché è vero che verbalmente e soprattutto all’inizio non ne veniva dichiarata nessuna. In un disperato tentativo di placare gli animi, già nella terza settimana di protesta il governo ritira l’odiosa tassa sulla benzina che ha scatenato il dissenso e promette aumenti del salario minimo, chiede il contributo delle imprese per soddisfare la generica richiesta di un maggiore potere d’acquisto, ma il fiume è ormai straripato, non si accontenta più delle briciole. Il potere stesso rimane allibito, sconvolto: “questi distruggono tutto e non si capisce che cosa vogliono! Se non riusciamo neanche ad immaginare un contentino per farli stare zitti e tranquilli, come facciamo a fermarli? Perché dopo un anno sono ancora lì, che diavoleria è mai questa?”

Quando si chiede: “sì, ma cosa rivendicano?” si sta ponendo una domanda più che legittima (che corrisponde alla logica politica a cui siamo abituati), ma ci si sta anche tappando gli occhi perché parte della risposta è incredibilmente chiara. I gilet gialli subiscono sistematicamente cariche e lacrimogeni, una repressione violenta come non si era mai vista dal maggio 1968, per il semplice e unico motivo che occupano uno spazio. Potrebbero non scandire nessuno slogan, non dichiarare niente, e sarebbero repressi ugualmente e con la stessa identica brutalità. La loro colpa è esistere con ostinazione in spazi che il potere ha deciso da decenni di rendere esclusivi per alcune categorie. Se poi si va a vedere che cosa fanno, le rivendicazioni appaiono ancora più facilmente inquadrabili. Non sono espresse con un linguaggio politico convenzionale, fatto di comunicati, trattative, organizzazioni strutturate, ma piuttosto attraverso l’identificazione di precisi simboli da attaccare: i gilet gialli occupano gli spazi pubblici privatizzati, bloccano i centri commerciali, resistono alla repressione, fanno paura al sistema neoliberale e alla classe dominante. Una questione di lucidità elementare.

In queste considerazioni sono stati proposti solo alcuni spunti di riflessione, tutt’altro che completi, sulla composizione sociale e sulle rivendicazioni del movimento, in risposta alle domande “chi sono?” e “cosa vogliono?”. Nelle prossime, la questione sarà: “che lingua parlano?”.