Quel che finisce

-Dici che ce la facciamo? Secondo me troviamo qualcuno alla frontiera.
-Speriamo… in effetti è strano non aver trovato nessun controllo finora.
-Sai perché, secondo me? Sono controllati soprattutto gli spostamenti da un comune all’altro, ma l’autostrada in genere serve per spostamenti più lunghi, adesso chi la prende?
Già, chi la prende? L’autostrada. Mai vista un’autostrada così: vuota. Da quando i due erano partiti, la loro era letteralmente l’unica automobile a viaggiare, e viaggiavano da centinaia di chilometri. Avevano incontrato giusto qualche camion, una ventina al massimo. Erano praticamente i soli a spostarsi in quel momento. I camion si spostavano per garantire l’approvvigionamento di beni di prima necessità o il funzionamento di servizi essenziali, ma la maggior parte di tali spostamenti avveniva di giorno.

Lei, che guidava, guardava la carreggiata con la stessa attenzione che avrebbe avuto se la strada fosse stata trafficatissima. Il suo sguardo cercava di andar oltre i fari dell’automobile che fendevano il buio. Quell’asfalto piatto delimitato dal guard rail, sapendolo deserto non per l’ora tarda o per caso ma per disposizioni di emergenza, trasmetteva una sensazione di inquietudine. I due conversavano, ma evitando di parlare nella direzione dell’altro, e anche questo non era semplicemente perché fossero seduti in macchina a osservare l’asfalto correre sotto le ruote. Non dovevano avere contatti. Un sacchetto ai piedi del sedile del passeggero conteneva salviette disinfettanti, alcool, mascherine. Un altro sacco era dietro il sedile di guida, con panini e due bottiglie d’acqua e due thermos di caffè, rigorosamente distinti e separati l’uno dall’altro perché ciascuno avesse il proprio. Ciascuno il proprio panino, ciascuno il proprio sacchettino di patatine.
-Questa situazione mette una tensione fortissima… sai che prima, quando ho preso l’autobus, mi veniva da piangere? Qualunque cosa, anche la più normale, adesso la si fa con ansia.
Sul bus, che di solito era pieno, stavolta erano in cinque. Quello era l’unico autobus sopravvissuto alla riduzione delle corse dopo la chiusura delle scuole e il rafforzamento delle misure di controllo e sicurezza messe in atto dal governo appena tre giorni prima. Ad ogni colpo di tosse ci si sentiva osservati, ogni soffiata di naso faceva alzare gli sguardi alla ricerca del sintomo sospetto. Per questo lui era partito da casa con una scatoletta di caramelle, nel caso in cui gli fosse venuto da tossire più delle poche volte tollerate prima di suscitare sospetti. Sospetti, poi, ingiustificati: qualche colpo di tosse può capitare a chiunque, così come liberarsi il naso chiuso, ma questi gesti erano improvvisamente divenuti motivo di ansia, quasi di condanna. Quando un’altra ragazza, tre posti dietro di lui sul bus, si era soffiata il naso, lui era stato sicuro che questi stessi pensieri le avevano attraversato la mente, mentre l’autista guardava dal retrovisore, aggiustandosi sull’orecchio l’elastico della mascherina.
-Eh sì, è una sensazione bruttissima. Tra l’altro si finisce per avere paura degli altri! Invece, in un certo senso, è proprio per responsabilità verso gli altri che si evita di star loro troppo vicini… che non si sa mai…
-Già, praticamente adesso se vuoi bene a qualcuno non lo abbracci. Prima, mio nonno mi ha mandato un messaggio per ringraziarmi di non essere passato a salutarlo: in qualunque altro contesto, sarebbe stata una frase ironica. Si stanno capovolgendo molte cose…
-Molte altre, invece, si stanno rafforzando. In certi casi, come l’attenzione per gli altri, lo trovo un buon segno. In altri, la mia impressione non è così positiva… questa cultura del sospetto rischia di diventare pesantissima!
-Ah, lo so, è orribile. Tu hai la fortuna di non stare sui social, per questo dici che la cultura del sospetto rischia di diventare pesante, ma basta leggere quello che si sta scrivendo su internet per capire che pesante già lo è. Non puoi immaginare in quanti si sentano moralmente superiori e si stiano permettendo di sputare sentenze su persone che non conoscono, con presupponenza e arroganza… capisco il nervosismo ma è veramente preoccupante.
-Insomma, mi stai dicendo che cresce il senso di responsabilità per il prossimo ma allo stesso tempo cresce anche l’arroganza.
-Sì, guarda un po’ quel Burioni. Non che sia mai stato un campione di umiltà!
Lei rise e riprese il filo.
-Dobbiamo sperare che i segni positivi prevalgano su quelli negativi, per far sì che resti un solco…
-Sì, credo proprio che resterà un solco. Questa situazione sarà difficile da dimenticare, è come un trauma collettivo… penso che tra venti, trent’anni, noi diremo “io ero lì”. A me sembra che potrebbe diventare anche uno spartiacque: tra il nostro stile di vita prima e il nostro stile di vita dopo.
-I traumi sono sempre degli spartiacque- precisò lei, che era psicologa.
Ci fu qualche secondo di silenzio, in cui entrambi soppesarono le implicazioni di quanto appena detto. Come sarebbe stato il nostro stile di vita dopo? Di certo quello attuale, adottato in via del tutto eccezionale e in una situazione di emergenza, non poteva essere prolungato più di tanto, non poteva diventare una condizione di normalità. Ma le crisi aprono sempre delle possibilità non immaginabili nel paradigma precedente e in questo spazio di possibilità si possono produrre nuove regole che poi restano anche a crisi finita…
-Cosa pensi che resterà?
-Difficile dirlo, dipende da come andranno le cose. Spero rimangano le cose belle come l’attenzione al prossimo.
-Però secondo me rimarranno anche molte cose brutte. Credi che ci libereremo facilmente dalla paranoia che ci prende ad ogni gesto quotidiano? Io sto notando che la gente è molto obbediente e spesso lo fa per onorare la legge, qualunque essa sia, più che per questioni di salute. Certo, in questo caso è complicato separare i due aspetti, perché la legge è giustificata dalla tutela della salute… ma non tutte le misure di controllo sono misure di sicurezza, e non tutte le misure di sicurezza sono misure di controllo. La facilità con cui la gente sta confondendo le due cose è allarmante: immagina cosa succederebbe se, una volta visto che tali misure sono possibili e che sono tollerate, si decidesse di attuarle per altri motivi!
-Non penso che per altri motivi sarebbero accettate con lo stesso spirito…
-Dipende da come racconti questi altri motivi: se racconti che le due cose sono collegate, per esempio, oppure per raccontarle usi lo stesso linguaggio, la stessa narrazione, diventa molto difficile vederci chiaro. Già adesso ci sono cose che vengono vietate o anche solo malviste ma che non hanno necessariamente una giustificazione in termini di salute… ma si accettano perché si crede. E qualcos’altro si può raccontare in modo da far credere allo stesso modo.
Lei non rispose, rimasero a rifletterci mentre il manto stradale continuava a scorrere, vuoto ed imperterrito come il letto di un fiume. Un’ambulanza col lampeggiante acceso squarciò la desolazione nella direzione opposta, senza neanche le sirene, inutili su una strada tanto sgombera.
-Non saprei- riprese lui -non voglio dipingere scenari apocalittici, forse sono un po’ troppo paranoico.
-Forse è ancora troppo presto per parlare.
-Preoccupatissimi all’idea di un controllo senza aver fatto niente di male, però, lo siamo adesso!
Come in risposta a questa osservazione, una vibrazione notificò la ricezione di un messaggio sul cellulare di lui, che lesse prima in silenzio, poi spiegando ad alta voce.
-Dice che un avvocato sta facendo circolare informazioni importanti su come gestire eventuali rifiuti da parte della polizia. Me l’ha procurato il cugino di mio papà, parla degli spostamenti nella zona rossa e come difendersi da eventuali abusi. Adesso ci ascoltiamo l’audio che c’è in allegato, parla di cosa fare in caso di rifiuto dell’autocertificazione.

L’autocertificazione era un modulo che da qualche giorno veniva richiesto dalle forze dell’ordine a chiunque fosse trovato in giro. Con l’autocertificazione il cittadino dichiarava che il proprio spostamento fosse dovuto a comprovati motivi di lavoro, salute o necessità, le uniche scuse valide per uscire di casa e spostarsi rischiando il contatto con altre persone. Tra le condizioni riconosciute come necessità, vi era quella dei due viaggiatori: rientro al luogo di residenza, domicilio o abitazione. Lei era partita da casa, in macchina, con il modulo già precompilato, ma non aveva incontrato nessun posto di blocco. Lui lo aveva già usato qualche ora prima, all’aeroporto, e ne conservava una copia in tasca.
Quando era arrivato all’aeroporto, con largo anticipo vista l’incertezza di qualunque volo in quel momento, aveva visto una lunga fila di persone, tutte a distanza di un metro l’una dall’altra e la maggior parte con protezioni su bocca e naso, in attesa fino a fuori dall’area solitamente utilizzata per i controlli. “Strano”, aveva pensato, “quasi tutti i voli sono stati cancellati, perché così tanta gente?”. Poi aveva notato che prima dei soliti controlli precedenti all’imbarco, un’altra fila era presente: quella per le autocertificazioni, gestita dalle forze dell’ordine. Un agente svogliatissimo, con guanti e mascherina, stava seduto davanti ad un banchetto, e timbrava febbrilmente i moduli dei passeggeri, in duplice copia e previa verifica del documento di identità fornito e della validità dei motivi dichiarati rendere necessario lo spostamento in aereo. Quando il modulo di autocertificazione con la scritta “sto rientrando al mio luogo di residenza” era stato accettato e timbrato, nonostante il luogo di residenza si trovasse all’estero e a diverse centinaia di chilometri dall’aeroporto di arrivo, fu un brevissimo momento di sollievo: la prima tappa era andata.
La tensione in lui, però, non era dovuta solo a quello: in aggiunta, l’aeroporto di destinazione era esattamente nell’epicentro del contagio, nell’occhio del ciclone, nella parte più rossa di tutta la zona rossa in cui si era trasformata la nazione. Si aspettava tantissimi controlli, prima di raggiungere la frontiera, e durante ciascuno di quei controlli c’era la possibilità che le dichiarazioni fornite non fossero accettate come valide. Per esempio, se le compagnie aeree avevano garantito dei voli per il rientro alla propria destinazione originaria, cioè quella corrispondente alla prenotazione prima delle misure di emergenza, perché non aveva seguito le consegne? Se era residente all’estero, perché aveva preso un volo nazionale? Se erano vietati gli spostamenti non essenziali, perché non aveva aspettato per rientrare? Come avrebbe provato che tra due settimane era atteso per un lavoro non avendo ancora firmato il contratto? E a questa storia complicata, in cui ogni elemento aumentava la probabilità di intoppi nell’eventualità di un controllo dell’autorità, si aggiungeva anche la storia che avrebbe dovuto raccontare lei. Per esempio, cosa avrebbe detto se l’avessero fermata prima di raggiungere l’aeroporto per venirlo a prendere? Era anche lei residente all’estero, ma come giustificare il passaggio in aeroporto se “andare a prendere un amico” non faceva parte della stringata lista dei motivi consentiti per gli spostamenti? E se non avessero ammesso l’altro motivo che lei intendeva usare per rafforzare la sua posizione, cioè l’udienza in tribunale dove era convocata come testimone? D’altronde, coi tribunali chiusi non ci sarebbe comunque potuta andare. E il suo motivo di lavoro? Nullo anch’esso, una psicologa non può lavorare se deve mettersi in isolamento. Inoltre, perché viaggiava con qualcun altro in macchina? Non sapeva forse che questo aumentava la probabilità di contagio? E così via, in una lunga serie di dubbi che gli martellavano la testa da tre giorni e che avevano impedito a lei di dormire serenamente.

Ascoltato l’audio e presa nota di alcuni importanti elementi di autodifesa giuridica, i due continuarono a parlare.
-Che sensazione assurda, comunque. Ti rendi conto che sappiamo di avere il diritto di rientrare ciascuno a casa propria, ma siamo lo stesso così in ansia? La vaghezza o la difficoltà di certe norme stanno dando margini di discrezione larghissimi alle forze dell’ordine. Che sensazione…
-Sì… una sensazione di merda. Ma tanto ormai coi gilet gialli ci eravamo un po’ abituati, no?
Risata amarissima di entrambi.
-Piuttosto dimmi, ci fermiamo a mangiare? Non mi ero mica accorto che fosse già così tardi!
-Certo, anch’io ho fame! Sta tutto dentro quel sacco là dietro.
-Perfetto, alla prossima area di servizio ci fermiamo.
All’area successiva, presero l’uscita, poi oltrepassarono il distributore credendo che avrebbero trovato uno spazio per sostare dopo, ma non era così e si ritrovarono quasi all’imboccatura della rampa per rientrare in autostrada.
-Mi sa che abbiamo sbagliato.
-Che facciamo? Qua ovviamente è a senso unico.
-Senti… io vado in retromarcia, tanto è per qualche metro e poi su questa strada non c’era veramente nessuno.
Una volta accostato nei pressi del distributore, i due aprirono gli sportelli ma ancora prima di poter metter piede a terra videro che un uomo con la tuta da benzinaio, perplesso dalla loro presenza, si stava avvicinando. Tenendosi a tre metri di distanza, annunciò:
-Tra poco arriva la stradale.
All’inizio i due non colsero il sottinteso, e fraintesero che l’annuncio fosse una raccomandazione a stare attenti e raddrizzare la macchina nel senso opportuno, quello di marcia, che certe cose davanti alla polizia stradale di certo non si fanno. La frase successiva fugò questa interpretazione:
-Ieri hanno fatto multe a tutti.
Quindi il problema era proprio il fatto di trovarsi lì, ad un distributore di benzina lungo un’autostrada nella zona rossa di un paese in quarantena. Effettivamente sì, era un problema…
-Ma noi abbiamo l’autocertificazione: torniamo a casa!
-Questo a me non interessa, se avete l’autocertificazione meglio, ma intanto io ve lo dico. Tra poco arriva la stradale.
Di fronte all’eventualità di un controllo certosino, di un agente eccessivamente zelante che non avesse voglia di ascoltare le loro storie troppo lunghe e con il rischio che non accettasse come comprovati motivi le spiegazioni da loro fornite, i due si guardarono, ringraziarono il benzinaio per la cortesia e, senza ancora aver messo piede a terra, richiusero gli sportelli e ripartirono, con un anticipo imprecisato sulla polizia stradale. Magari avrebbero mangiato aldilà della frontiera, dove non ci sarebbero stati blocchi.

Avvicinandosi alla frontiera, l’autostrada continuava a disegnare un paesaggio spettrale sconosciuto, mai visto prima. Le montagne comparvero silenziose, con le cime innevate a incorniciare il serpentone di asfalto deserto. Nell’altro senso di marcia, si intravidero un paio di volte luci lampeggianti blu. Ogni volta era un sollievo constatare che fossero dall’altro lato: nelle situazioni di incertezza, ci si sente colpevoli anche quando non lo si è. Era dunque un sollievo, ma momentaneo in quanto accompagnato dalla certezza dei controlli inevitabili alla frontiera. Lui aveva una scorta di tachipirina: non era malato, non aveva febbre e non l’avrebbe usata, ma suo padre gli aveva detto: “e se poi per qualche motivo ti viene la febbre proprio il giorno della partenza o proprio qualche ora prima di passare la frontiera?”. Arrivato in aeroporto, in effetti, gli era stata misurata la febbre con un termometro a pistola.
-Ecco, quella è l’ultima area di servizio, la riconosco. Speriamo che fili tutto liscio.
Nei giorni immediatamente precedenti, i giornali avevano parlato di code chilometriche. Perciò, quando i due raggiunsero l’ingresso del tunnel che passava sotto lo spartiacque, furono sorpresi trovando solamente qualche camion, appena una decina. Un uomo col giubbotto di lavoro, a strisce argentate, vedendoli in fila dietro i camion fece cenno di avanzare e disporsi in corrispondenza di un altro ingresso.
-Ma questo è un poliziotto?
-No, guarda come ha il giubbotto.
-Ci dice di andare lì.
-E lì sicuramente troviamo i controlli, dietro quel casottino…
Invece, anche stavolta, non c’era traccia di controlli. C’erano solo camion in attesa che il tunnel riaprisse, circa mezz’ora più tardi.
-A me però non va di aspettare così, siamo troppo visibili.
-E dove possiamo andare?
-Non lo so, parcheggiamo, magari riusciamo pure a dormicchiare un po’.
-Non ci sono parcheggi… mi fermo qui?
-Veramente c’è scritto “Riservato polizia”… ti immagini, dover pure spiegare che non sapevamo dove mettere la macchina?
-Provo ad accostare?
-Aspetta, guarda laggiù! “Parcheggio riservato”.
-Ma riservato a chi? Spero non alla polizia!
-No, dai, è per chi lavora qui.
-Sono le tre di notte e ci sono diversi posti liberi… andata.
E così, in una manovra timida ma scomposta, la macchina fu allineata alle poche altre parcheggiate.
-Dormiamo un po’?
-Non saprei, forse al contrario io tracanno caffè.
-Poi ti esplode il cuore con tutta la tensione che già abbiamo…
Meno di cinque minuti dopo, una volante della polizia col lampeggiante acceso passava per lo spiazzo antistante l’ingresso del tunnel, esattamente nel primo punto che i due avevano adocchiato per parcheggiare la macchina. La volante rallentò…
-Propongo di fingerci morti!
-No, infetti!
-Infetti non va bene, per quello c’è l’arresto.
Scoppiarono a ridere, e alla fine non si finsero né morti né infetti, ma per non dare nell’occhio restarono immobili, muscoli tesi, finché la volante non passò oltre e riprese l’autostrada nell’altro senso di marcia, il che permise ai muscoli di rilassarsi.
Quando il tunnel riaprì, la loro macchina fu la prima e forse l’unica della nottata a varcarne l’ingresso.

-Incredibile! Noi eravamo talmente stressati per questi controlli e invece alla fine neanche uno.
-Pensa che io prima di partire mi ero detto che avrei conservato tutte le varie autocertificazioni firmate per arrivare a destinazione… mi immaginavo una cospicua produzione cartacea!
-Dai, festeggiamo, mettiamo un po’ di musica! Prima, con l’ansia, non ci è venuto neanche in mente di viaggiare con della musica! Ti faccio conoscere un cantautore di quando ero all’università.
Mentre il disco cominciava, i due amici sentivano la tensione abbassarsi progressivamente.
-Insomma, tutto è bene quel che finisce bene- disse lui.
-Aspetta, non finisce ancora!
-E va bene, tutto è bene quel che quasi finisce bene.
I due ridevano, erano visibilmente sollevati. Passata la frontiera, cominciarono a parlare d’altro oltre che dell’emergenza, a scherzare molto di più, a raccontarsi frammenti delle loro vite. Si fermarono a mangiare qualcosa e a bere caffè, mantenendo per entrambe le attività una rigorosa separazione, perché il rischio certo non diminuiva aldilà della frontiera, ma il loro spirito era improvvisamente cambiato. Parlarono anche di questo, e di quanto sia potente lo strumento della legge.
Quando, alle quattro e mezzo di notte, passarono in uno dei tanti paesini trovandolo deserto, lei disse che sembrava di stare dall’altro lato della frontiera ma a mezzogiorno, e quando all’alba cominciarono a incrociare chi andava a lavorare presto fecero battute su quanto fossero sfortunati a non essere ancora rinchiusi in casa e con obblighi di autocertificazione.

Arrivarono in città prima delle sette, mentre i venditori stavano montando i banchetti per il mercato del sabato. Quando erano a un chilometro da casa, all’angolo della piazza del mercato e sotto gli occhi dei venditori ancora assonnati, una signora che stava andando a lavorare in ospedale con la propria macchina ignorò il rosso e tirò dritto al semaforo, colpendoli in pieno mentre lui imprecava come un ossesso.
-Constatazione amichevole?
-Constatazione amichevole. Ma sentiamoci più tardi, adesso faccio tardi all’ospedale… scambiamoci i contatti- rispose la signora curvandosi sul cofano per scrivere, borbottando di essere passata col verde mentre lui si sporgeva per prendere la targa. Concluse le procedure necessarie per attivare l’assicurazione, i due si rimisero in macchina per l’ultimo chilometro di viaggio. Lui, però, entrò dal lato della guida, perché l’altro sportello non si poteva più aprire.
-Almeno- osservò lei con magra consolazione -ho il carrozziere a due passi da casa…
Al ché, lui per consolarla:
-Sai che facciamo adesso? Sono le sette, ora che mi accompagni ti offro un caffè davanti casa mia.
-Ho bevuto anche troppo caffè, ma qualcos’altro lo mangerei volentieri.
-Certamente! Fanno cose buone.
Parcheggiata l’automobile infortunata, i due amici si avviarono verso caffè e cornetto.
-Aspetta! Prima le salviette. Cosa credi, che qui sia più sicuro?
-No, anzi, tra una settimana è possibile diventi anche qui un casino…
-Però… hai notato che con la signora dopo l’incidente parlavamo normalmente?
-Sì, è vero. E anche tra di noi, facciamo attenzione ma abbiamo proprio meno paranoia, mentre invece il rischio reale è esattamente lo stesso. Quanto conta il contesto, eh?
-Già.
Qualche minuto dopo, lei mangiava il cornetto e lui sorseggiava caffè.
-Eccoci tornati a questi ottimi caffè- commentò lui con ironia, -e gliel’ho chiesto pure stretto!
-Almeno qui si può uscire di casa…
-Aspetta qualche giorno, poi ne riparliamo.
-Comunque incredibile che alla fine ce l’abbiamo fatta.
-Non sembra vero, eh?
-Assurdo esserci fatti tutte quelle paranoie prima del viaggio, ma è normale, era la prima e spero l’ultima volta che ci capita una situazione simile.
-Sì, speriamo.
-Poi che ridere! Tanta paura per i controlli, le autocertificazioni, il contagio, i divieti, i blocchi e poi… ci facciamo fregare all’ultimo, da un incidente al semaforo!
-L’avevi detto prima: tutto è bene quel che finisce quasi bene.