Troppo facile dire terroristi
Nell’opinione pubblica e nel linguaggio giornalistico esiste un consenso trasversale nel definire “organizzazione terroristica” il gruppo jihadista salafita noto come Stato Islamico, Daesh o ISIS. Per come è definito il concetto di terrorismo, sarebbe più corretto affermare che l’ISIS, anche se adotta strategie e tattiche tradizionalmente associate al terrorismo (attentati indiscriminati alla vita umana, ricerca dell’attenzione mediatica tramite azioni a elevato valore simbolico, rivendicazione politica successiva), non si può semplicemente definire come organizzazione terroristica tout court, come si sarebbe potuto fare con il predecessore gruppo di Al-Qa’eda.
Il gruppo dell’ISIS nasce come costola di Al-Qa’eda e se ne rende autonomo con una scissione da quest’ultima. L’ISIS si sviluppa come ala destra di Al-Qa’eda, si fa promotrice di rivendicazioni di natura sociale e non solo politica. Le due organizzazioni sono profondamente diverse: Al-Qa’eda rappresentava il classico gruppo terroristico, suddiviso in cellule militanti, operava in clandestinità, isolato dal resto della società, non ambiva a diventare un soggetto politico in grado di porsi alla pari del potere statale; l’ISIS non agisce in clandestinità, ma come soggetto facilmente riconoscibile dalla popolazione e integrato nel tessuto sociale, da cui riceve appoggio e di cui ricerca il pieno consenso, controlla un territorio delimitato da confini in espansione ma definiti all’interno dei quali agisce come istituzione che amministra l’educazione, la propaganda, l’esercizio della legge, è dotato di un proprio esercito e di un servizio informativo tramite cui difendere quei territori da minacce interne ed esterne, si muove nello scacchiere internazionale come un’entità statale. In poche parole, l’ISIS è un gruppo di militanti che da anni è attivamente impegnato in un processo di state building: nei territori che occupa e per la gente che li abita, è un’istituzione, non un’organizzazione terroristica (si guardi The Islamic State finora l’unico documentario girato nei territori dell’ISIS). Bisogna distinguere tra l’ISIS nei territori occupati e le cellule clandestine che pianificano ed eventualmente attuano attentati in paesi tradizionalmente non islamici (come la Francia): secondo i servizi di intelligence, le ispira ma probabilmente non le coordina, così come i “terroristi rossi” occidentali negli anni Sessanta e Settanta non erano necessariamente a stretto contatto con l’URSS, sebbene in essa trovassero un riferimento ideologico e politico: questo fatto, ovviamente, non è sufficiente per tacciare l’URSS di essere terrorista né quei gruppi di essere al servizio del governo sovietico, e non si capisce perché lo stesso non dovrebbe valere per quanto riguarda i rapporti tra l’ISIS e il terrorismo jihadista (ugualmente chiamato “ISIS” dalla stampa e dall’opinione pubblica).
L’osservazione più comune contro la definizione dell’ISIS come istituzione è che nei territori da esso governati l’ordine è mantenuto attraverso la paura e questo fatto basterebbe a considerare l’ISIS un’organizzazione terroristica. Eppure, la paura quotidiana provata da un musulmano non “ortodosso” o da un non musulmano che vive nei territori dell’ISIS non deve essere molto differente da quella che un curdo prova in Turchia o da quella che un palestinese prova in Israele: sono tutte situazioni in cui un soggetto politico di natura statale o parastatale discriminano, attraverso la giurisdizione o nell’applicazione fattiva delle leggi, una minoranza su base etnica o religiosa. Se la discriminazione su base etnica o religiosa si considera come particolare caso di una discriminazione operata sulla base dell’appartenenza a un gruppo minoritario, allora quella paura non è neanche diversa da quella che un militante di sinistra poteva provare in Cile dopo il colpo di Stato del 1973 o in Italia durante la strategia della tensione. Lo Stato è violenza, sempre, semplicemente l’ISIS la esercita in una forma (del resto non così rara) diversa da quella che ci hanno insegnato a non vedere o a non riconoscere come tale.
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Questa volta non cncordo.
Distinguo e vedo bene la differenza fra “terrorimo” e “lotta armata”, la stessa che vedo fra chi metteva le bombe sui treni e chi combatteva per un progetto politico di società migliore, ma francamente non condivido una seppur velata forma di giustificazione nei confronti di chi vuole (per motivi ideologici tutti da discutere) imporre con la forza a chiunque un modello di società che gran parte dell’umanità si è lasciata alle spalle 4-5 secoli fa.
Non c’è nessuna forma di giustificazione nel descrivere una cosa per quello che è, e per le caratteristiche che l’ISIS presenta a mio avviso non si può parlare di terrorismo, o perlomeno non lo si può fare negli stessi termini con cui se ne parlava per Al-Qa’eda e gli altri gruppi jihadisti. Piuttosto, si dovrebbe parlare di fascismo (seppur con tutte le limitazioni che derivano dall’applicazione di una categoria politica europea ad una realtà non europea), quello stesso fascismo che in forme simili è esistito in Europa (ben meno di 4-5 secoli fa). In ogni caso, mettere tutto ciò che non piace nel calderone del terrorismo non aiuta a comprendere quello che sta avvenendo in Medio Oriente.
Non colgo comunque il riferimento alla lotta armata. Ovviamente c’è distinzione tra terrorismo e lotta armata, ma se c’è, come mai il PKK è nella lista delle organizzazioni terroristiche? Purtroppo sono in molti a non vedere la differenza.
A parer mio il PKK viene considerato organizzazione terroristica da parte di Turchia e compagnia cantante perchè commette il peccato mortale per quanto riguarda le istituzioni: come dici nell’articolo (e lo diceva anche Max Weber se non ricordo male) lo Stato è intrinsecamente violento, anzi, lo Stato deve detenere il monopolio della violenza, o è inutile.
Se un gruppo di persone decide (più o meno a ragione) che invece loro la violenza la esercitano secondo regole diverse, questo delegittima lo Stato come istituzione, al di là del perchè lo facciano.
Ne consegue che lo Stato farà tutto ciò che è in suo potere per distruggere la minaccia alla sua sopravvivenza, e definire il nemico come “terrorista” costa molto poco e, visto il clima degli ultimi 15 anni, garantisce risultati a livello di opinione pubblica sia domestica che mondiale.
A occhio si potrebbe dire che il Terrorista ha soppiantato il Comunista nella lista degli spauracchi del “mondo libero”. (E qui ci sarebbe da aprire una parentesi wuminghiana sulla Destra e il bisogno di identificare un nemico “infiltrato” cui addossare tutte le miserie della nostra società, che altrimenti -dicono- garantirebbe benessere a tutte le brave persone. Purtroppo non ne sono in grado.)
Quello che sta facendo l’ISIS nel territorio che ha rivendicato è quello che succede dopo ogni colpo di stato: i nemici del nuovo ordine, veri o presunti tali, vengono scannati in malo modo, per vari motivi che vanno dallo strategico al meschino.
Basta pensare alle squadracce che andavano così di moda da queste parti un po’di tempo fa…
O anche ai gulag post rivoluzione d’Ottobre, per non escludere nessuno.
Poi io personalmente trovo l’ISIS ripugnante, e sulle religioni in generale sai come la penso, ma ho la sgradevole sensazione che con la scusa della civiltà occidentale minacciata si stia preparando la solita guerra di pace, a maggiore profitto dei soliti noti e in culo a tutti gli altri.
Ciao Edoardo, il tuo intervento merita una duplice risposta.
Il primo punto è quello che riguarda il PKK e i motivi per cui è considerato organizzazione terroristica da molti Stati. Non sono sicuro che basti imbracciare le armi contro il potere statale per essere considerato terrorista sul piano della definizione giuridica: in diverse parti del mondo esistono gruppi armati non inclusi nella lista delle organizzazioni riconociute come terroristiche, com’è anche vero che, nel quadro da te evocato di una retorica che tende a neutralizzare il dissenso additando comodi capri espiatori, capita anche di essere accusati di terrorismo senza essere armati e addirittura senza commettere violenze che mettano in discussione il monopolio statale della violenza (penso al caso NoTAV, ma anche alle decine di associazioni controllate e messe sotto accusa dalla polizia francese grazie al vigente état d’urgence). Insomma, se il PKK è considerato organizzazione terroristica mentre, per esempio, i ribelli siriani anti-Assad o le milizie curde irachene non lo sono, la ragione è di opportunità politica, non di oggettività giuridica (e sull’imprescindibilità tra legge e rapporti di forza credo possiamo dirci più che concordi); e l’opportunità politica non può non tenere conto del fatto che, nei paesi NATO come in tutti i paesi che considerano il PKK un’organizzazione terroristica, è malvista la presenza di forze rivoluzionarie o anche solo socialiste (nel senso socialista del termine, si intende!) Intendo dire che il PKK, aldilà delle rivendicazioni autonomiste curde, è nella società turca proprio quell’infiltrato cui addossare tutte le miserie: il comunista. Dal “terrorista”, il “comunista” è stato soppiantato molto più come parole che come concetto scomodo e pericoloso.
Altro punto: lo scontro di civiltà. Dici che con il pretesto della società occidentale minacciata si sta preparando la solita guerra di pace. Perché preparare una guerra di pace in Medio Oriente quando la guerra (non di pace) esiste già e fa comodo? Il conflitto in Siria si è da tempo configurato come guerra per procura che coinvolge anche se non direttamente tutte le maggiori potenze sia a livello regionale che mondiale. Lo stesso vale per la guerra in Yemen. È un ottimo modo per ristabilire equilibri, accrescere sfere di influenza, cercare riconoscimento e legittimità internazionale senza rischiare la pelle (lo fanno Stati Uniti, Francia, Turchia, Russia, Arabia Saudita, Israele, Iran, addirittura la Cina). Tanto per cambiare, lo “scontro di civiltà” è uno scontro tutto interno alle forze in gioco. E spostando lo sguardo dal Medio Oriente, si vede che la Francia sta da diversi anni seguendo una politica di interventismo in Africa, con il pretesto della lotta al fondamentalismo islamico e dello “scontro di civiltà”, riportando sotto il proprio dominio neocoloniale aree che erano finite sotto il controllo dei mercati cinesi. Come la guerra tradizionale, anche la guerra di pace c’è già. Da indiscrezioni libiche pare che anche lì si aspettino un intervento europeo a guida italiana. Lo vedremo presto.