Il razzismo è strutturale
Il razzismo non è figlio dell’ignoranza. Finalmente qualcuno lo fa presente (qui), interrompendo il flusso di frasi fatte, condanne unanimi e luoghi comuni che ha invaso il dibattito pubblico in seguito all’uscita razzista di Calderoli sul ministro Kyenge, paragonandola ad un orango.
Come ben dice Iside Gjergji, il razzismo non è figlio dell’ignoranza, perché altrimenti sarebbe un problema risolvibile con la scolarizzazione; non è causato dalla scarsa informazione su tradizioni, culture e religioni delle popolazioni immigrate, perché altrimenti basterebbe seguire un corso di formazione, guardare un documentario, leggere una rivista sull’argomento; non è un prodotto della paura xenofoba, che piuttosto ne è una conseguenza. Aggiungo che non è neanche un problema intimamente legato all’esistenza di confini che «esisterà finché questi esisteranno», come mi è capitato di sentire affermare, perché molti gruppi etnici soggetti a discriminazione i confini non li hanno mai attraversati.
«Il razzismo nasce dall’ignoranza» è il commento più quotato, e non è che una versione modificata di «il fascismo nasce dall’ignoranza», con cui in passato mi sono imbattuto (per esempio qui nei commenti): a entrambe queste affermazioni è sottesa la convinzione che la conoscenza sia di per sé capace di influire sul reale e di incidere sui rapporti di forza esistenti nella società, ma tale convinzione non considera la natura dei processi che producono i fenomeni sociali, riducendola ad una dimensione individuale per la quale il razzismo smetterebbe di esistere se tutti andassero in vacanza dall’altra parte del mondo. In altre parole, è completamente assente una visione organica del fenomeno, sostituita invece da presupposti individualistici e atomizzanti. Ciò si riflette sulla capacità di definire il concetto di razzismo in relazione al contesto storico, in quanto le due visioni sono dotate di differente “potenza di analisi”: evidentemente, per l’individualista la tratta atlantica degli schiavi e le leggi razziali sono esistite perché gli schiavisti e i nazifascisti erano «ignoranti».
Veicolare l’idea che il razzismo sia fondamentalmente un problema di coscienza individuale contribuisce, direttamente o indirettamente, all’affermazione di una linea di pensiero ormai diffusa, che è stata normalizzata e naturalizzata (percepita come accettabile nel dibattito pubblico e naturale nell’immaginario collettivo), per cui il problema del razzismo è una questione, puramente formale, di etica e di decoro borghese: è sufficiente dichiararsi contro e deprecare queste entità astratte che sono i razzisti, basta che nessuno si definisca razzista apertamente (pur continuando ad agire secondo le proprie posizioni) ed ecco eliminato il problema. In questo modo, si legittima il classico incipit «non sono razzista, però» che non lascia presagire mai nulla di buono, ma anche si legittimano le contraddizioni, per esempio, di un Partito Democratico che si indigna per l’insulto di Calderoli ma promuove il razzismo in altre forme (vedi).
Lo sdoganamento del razzismo ha permesso la normalizzazione di questo tipo di atteggiamenti e posizioni a tal punto che troppe persone non riescono più a distinguere le argomentazioni razziste all’interno di un discorso né addirittura si rendono conto di adottarle e farle proprie, offendendosi e indignandosi se ciò viene fatto notare. Tale sdoganamento ha una serie di responsabili, dalle testate giornalistiche e i mezzi d’informazione televisivi con il loro linguaggio sempre attento a sottolineare l’etnia di una persona anche quando del tutto irrilevante, alle pulsioni legalitarie per cui «le regole vanno rispettate», passando per la condanna degli antirazzisti bollati come “razzisti al contrario”: alle accuse di xenofobia si sono sostituite quelle di xenofilia, mostrando un cambiamento nella percezione di cosa sia socialmente accettabile e cosa non lo sia.
Tutto questo mostra che nelle questioni dell’immigrazione e delle minoranze etniche si siano imposte, in una situazione di egemonia culturale, la retorica nazionalista e la narrazione identitaria care all’estrema destra, che ha puntualmente sfruttato politicamente il fenomeno, alimentandolo per costruire le basi della propria affermazione: come descritto da Guido Caldiron (intervistato qui), «una delle caratteristiche della “nuova estrema destra” è l’aver saputo imporre nel dibattito pubblico varie proposte radicali senza ricorrere ad argomenti apertamente razzisti o nostalgici del passato». Il risultato è che le destre populiste xenofobe stanno trovando margini di azione politica in tutta Europa.
Torniamo ora alla questione iniziale. Se il razzismo non è più narrato ricorrendo apertamente al concetto di “razza”, ormai scientificamente smontato e politicamente obsoleto, occorre ridefinirlo per poterlo comprendere. Banalmente (ma forse no), è innanzitutto discriminazione: trattare le persone in maniera diversa in virtù della loro identità, classificare le persone in base al loro essere. Questa definizione permette di riconoscere il razzismo anche in affermazioni che non si richiamano al concetto di razza, come «lo stato italiano deve pensare prima agli italiani».
L’obiettivo di questo articolo non è tracciare una genesi e risalire alle origini storiche del fenomeno: certamente l’odio per lo straniero, le proclamazioni di superiorità, la discriminzione basata sulla diversità razziale, etnica o culturale non sono recenti e nel corso della storia hanno assunto diversi significati e sono stati declinati in varia maniera, essendo di volta in volta espressioni del contesto storico funzionali ai sistemi sociali ed economici entro cui si sviluppavano.
Qual è il significato del razzismo nel contesto attuale?
Prima di tutto è parte di una tendenza più ampia, che consiste nella discriminazione su base identitaria. La discriminazione implica il riconoscimento di disuguaglianze che fungono da elementi intorno a cui si articola la sua legittimazione. Il razzismo dunque richiede, per poter esistere e diffondersi, che le persone siano educate alla disuguaglianza, considerandola naturale, e che siano disposte a discriminare, ovvero ad attribuire diritti diversi a persone diverse, a conferma della stessa disugualianza.
A ben vedere, questo è esattamente una breve descrizione di ciò che accade nel sistema economico capitalistico, in cui esiste una disuguaglianza economica, ritenuta naturale, che si traduce in una disuguaglianza di diritti per cui chi produce è escluso dalle scelte connesse alla produzione, e tale esclusione è ritenuta anch’essa naturale.
Allora non è una tendenza, ma una componente strutturale del sistema economico, che è intrinsecamente gerarchico, autoritario ed escludente. E in un sistema escludente l’esclusione appare normale, è un boccone facile da digerire: se il modo di produzione esclude quotidianamente e sistematicamente, ci si abitua all’idea, e allora perché non escludere su base razziale? Perché non su base di genere? Perché non su base religiosa?
A questo “dispositivo psicologico” della discriminazione si aggiunga il vantaggio economico del razzismo: esso è funzionale al sistema di sfruttamento. Permette di formare e mantenere un sottoinsieme della classe lavoratrice in condizioni di ricattabilità e a bassissimo costo, con la comodità che tale suddivisione interna agli sfruttati può essere perpetuata senza l’uso di forza militare, ma semplicemente costruendo una narrazione razzista che assecondi una preesistente assuefazione alla marginalizzazione.
«Le razze non esistono, ma l’organizzazione del lavoro finisce per riprodurle e per imporre gerarchie lungo la linea del colore» (da qui). In altre parole, la questione di razza facilmente si tramuta in questione di classe: le politiche italiane sull’immigrazione mostrano un chiaro esempio di questa possibilità, favorendo indirettamente lo sfruttamento dei migranti in agricoltura (qui il rapporto di Amnesty).
Secondo questa stessa direzione, la discriminazione di razza spesso si rivela una forma di discriminazione di classe, che più che essere basata su caratteri etnici o razziali, trova in queste una legittimazione di facciata, mentre i criteri profondi di pregiudizio sono di carattere sociale (per esempio nel sempreverde «rubano»). In una società intrinsecamente gerarchica e discriminatoria, è prevedibile che chiunque discrimini chi nella gerarchia sta più in basso, e puntualmente ciò accade, ad esempio quando i poveri discriminano i poverissimi perché «loro sono sempre i primi della lista per l’assegnazione delle case popolari».
In definitiva, il razzismo implica la discriminazione, che implica la disuguaglianza.
Il razzismo e il capitalismo si rafforzano e si compenetrano, si nutrono l’uno dell’altro: il primo è funzionale al secondo, il secondo legittima il primo.
Condannare il razzismo ma non il sistema di sfruttamento è un po’ come condannare le violenze poliziesche della Diaz ma non l’intero apparato militare che, dispiegato durante quel G8, le ha generate.
Short Link:
Divide et impera, a quanto pare funziona ancora.
Bel post.
Ottimo post. Non sono molto convinto però della relazione tra razzismo e capitalismo: sicuramente c’è relazione ma non così stretta come mi sembra di aver capito leggendo questo post.
Bentrovati tutti quanti. Scusate se rispondo soltanto adesso ma non ho avuto accesso a internet per diversi giorni.
@marcolore
Siamo d’accordo quindi sul fatto che una relazione tra capitalismo e razzismo esista. Tuttavia mi risulta difficile risponderti, dal momento che non so cosa ti «sembra di aver capito leggendo questo post».
Prima che tu ti spieghi, comunque, potrebbe essere utile da parte mia prevenire alcune possibili obiezioni alla tesi che sostengo riguardo al rapporto tra i due fenomeni.
Quando io parlo di razzismo, mi riferisco alla sua declinazione storica attuale («certamente l’odio per lo straniero, le proclamazioni di superiorità, la discriminzione basata sulla diversità razziale, etnica o culturale non sono recenti e nel corso della storia hanno assunto diversi significati e sono stati declinati in varia maniera, essendo di volta in volta espressioni del contesto storico funzionali ai sistemi sociali ed economici entro cui si sviluppavano») ed è in questa prospettiva che muovo il mio discorso, cercando di individuare quale sia il significato del razzismo non in generale, ma in un contesto preciso.
Ho l’impressione (correggimi se sbaglio) che il tuo vedere in quella descrizione un legame eccessivamente stretto, e magari definito tramite una forzatura, sia dovuto ad un equivoco di fondo assecondando il quale si finirebbe col sostenere che il capitalismo sia causa e il razzismo effetto, essendo il legame causale. Così però non è, e su questo siamo certamente d’accordo.
Salve Monsieur. Avevo già colto il tuo tentativo di contestualizzare il fenomeno del razzismo riguardo al nostro sistema sociale attuale. Anche il nesso causale esistente è chiaro e ben argomentato. Ho come l’impressione però che leggendo questo post ci sia il rischio di arrivare a generalizzare quella che è una tendenza storica attuale. Voglio dire il capitalismo a cui fai riferimento è quello in piena crisi che stiamo sperimentando negli ultimi anni, magari con riferimento a quello osservabile nei paesi mediterranei. Ma è sempre così stabile la relazione tra capitalismo e razzismo? il capitalismo è sempre un gioco al ribasso? Mi rendo conto che la mia osservazione può anche essere fuorviante e implicare ben altre considerazioni. infatti, come tu stesso giustamente osservi, il focus è rivolto ad un contesto specifico. Quindi non posso far altro che condividere la tua critica alla semplice questione di coscienza.
Saluti.
Marco
«il capitalismo a cui fai riferimento è quello in piena crisi che stiamo sperimentando negli ultimi anni»
No. Faccio riferimento al capitalismo come sistema economico basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sull’accumulazione di capitale. Il mio discorso sull’abituazione alla marginalizzazione come meccanismo di “biopotere” vale per il capitalismo in generale: forse non valeva quando il capitalismo è stato al suo massimo splendore? Che poi, diciamocela tutta: tale massimo splendore non esiste e non è mai esistito, perché nel capitalismo la crisi è strutturale e fare riferimento al “capitalismo in crisi” non significa altro che fare riferimento al “capitalismo”.
Il razzismo come espressione di una tendenza discriminatoria insita nella natura del sistema economico e sociale, e dunque in tutto il sistema di idee e credenze che ne consegue, assume lo stesso significato oggi come cento anni fa.
Chiarito il punto. Saluti. Marco.
Si parla di Razzismo. Bene. Alzi la mano chi non lo e’. Ma io non parlo del razzismo nei confronti degli stranieri che vivono onestamente in Italia , ma di quello nei confronti di coloro che , ben conoscendo in che modo e da chi e’ gestita la Giustizia nel nostro Paese , cioe’ maldestramente e da gente senza attibuti , approfitta dell’italiano buono e caritatevole , per scopi personali poco edificanti. E nel calderone ci metterei anche i delinquenti di casa nostra non meno animali dei primi. Diciamo la verita’, nessuno e’ disposto ad essere comandato in casa propria. Ci si impietosisce per le condizioni miserevoli di certi immigrati , per cui qualche politico ha anche proposto case per tutti , e poi ci si dimentica delle condizioni altrettanto critiche in cui versano famiglie italiane , dimenticate perche’, forse , non portano VOTI pesanti a quei politici che fanno , della lotta al razzismo , una loro bandiera di civilita’. Allora io dico SI agli stranieri ben integrati nel nostro sistema , ponti d’oro e calorose strette di mano per costoro e un CALCIO NEL CULO a quelli che , invece , credono di essere i padroni delle nostre vite che spavaldamente gestiscono e condizionano. Mi auguro al piu’ presto una societa’ multirazziale , ma formata da gente onesta e lavoratrice che mandi avanti nel miglior modo possibile questa Nazione. In egual modo spero che tutta la feccia umana straniera e non , che vive da parassita , vada a rompere le palle altrove. Magari , cosa ne pensate se , con una fantascientifica Macchina del Tempo li mandassimo , con un salto indietro nel tempo di 60 anni a villeggiare ad Auschwits ?
Il commento qui sopra, firmato Houston Erickson, era incappato nel filtro anti-spam e molto probabilmente, a giudicare dal contatto associato (che ho rimosso), lo è veramente ed è presente proprio in calce a questo post come mera conseguenza di un algoritmo.
Ci si potrebbe chiedere perché, allora, l’ho sbloccato. Per far riflettere sul fatto che posizioni come quelle sopra siano generate appositamente per generare traffico, attraverso l’utilizzo di algoritmi che associano il commento automatico a pagine contenenti determinate parole-chiave. Ora, è chiaro che questo commento è automatico ma non è stato generato casualmente: le frasi, qualcuno, deve averle formulate. Ciò significa che qualcuno, consapevolmente, considera socialmente accettabile a scopo di profitto proporre la reintroduzione di campi di sterminio (non parlo di concentramento ché quelli già esistono).
(Questo qualcuno hanome e cognome. Non Houston Erickson, ma SK Design) Complimenti a quest’azienda (e chissà quante altre) che usano queste strategie pubblicitarie. Certo che la concorrenza è proprio merda.
Bell’articolo!:)
Ps. Alla fine hai scelto un esempio a caso!