L’invenzione della tradizione nel turismo responsabile

Chi è amante del viaggio lento avrà avuto occasione di notare che ultimamente in Italia è possibile trovare in vendita intere collane dedicate al turismo a piedi o in bicicletta: sono guide che forniscono una serie di consigli pratici su come affrontare il viaggio, organizzano le tappe secondo uno schema predefinito, contengono le relative carte con il tracciato del percorso da seguire e informazioni di natura storico-culturale.

Esistono guide per percorsi di fama mondiale come il cammino di Santiago de Compostela o la Via Francigena, ma anche per tratte meno conosciute e meno trafficate. Di recente ho avuto l’occasione di conoscere, usandola per organizzare un viaggio, una di queste ultime, una guida che a cominciare dal titolo si presenta con un nome molto retorico e poco convincente: Con le ali ai piedi, della camminatrice pellegrina Angela Maria Seracchioli, 2011, edizioni Terre di mezzo. Il percorso si propone di accompagnare il viaggiatore, come da sottotitolo «nei luoghi di San Francesco e dell’Arcangelo Michele», per circa 500 km dal Lazio fino in Puglia.

Prima di recensire e commentare il percorso, una premessa è fondamentale: il motivo per cui sono a favore del viaggio lento è che lo ritengo carico di un senso profondamente politico. Come mi è altre volte capitato di scrivere, chi viaggia lentamente a piedi abbandona l’eteronomia per trovare l’autonomia. Quando cammini non dipendi da nessuno se non dai tuoi piedi e dalla tua volontà: non devi sottostare a tempi, orari e percorsi e coincidenze imposte o stabilite più o meno esplicitamente da altri, lo spostamento da un punto all’altro non dipende dalla quantità di denaro che hai in tasca né da «un traffico alimentato da armi di distruzione di massa [che] tradisce l’esistenza di un più letale sistema plasmato dall’irrazionalità capitalistica» (citazione dalla chiamata ufficiale della Ciemmona 2016, visto che lo stesso discorso si può fare per la bicicletta). O ancora, parafrasando l’Ivan Illich di Elogio della bicicletta, solo a piedi (lui dice in bicicletta) c’è vera eguaglianza e giustizia sociale negli spostamenti. Insomma, in ogni momento, sei libero di fermarti, di fare una pausa o cambiare direzione. Ciascuno scopre un ritmo di vita proprio, non imposto dalla standardizzazione e potenzialmente scevro da scadenze e impegni, in cui è la libertà di scelta che misura concretamente il valore del tempo. Camminando fuori dal contesto urbano, anche nell’alimentazione si impara ad essere autonomi, almeno parzialmente, ed automaticamente rispettosi dell’ambiente e dei suoi cicli naturali. Si è anche a stretto contatto con il territorio, i suoi sentieri e le sue strade, le piccole località secondarie ignorate nei viaggi d’altro tipo, i loro prodotti tipici, le loro usanze e tradizioni e i loro abitanti spesso molto più gentili e disponibili di quanto ci si aspetti: così si crea e si espande una rete sociale nonché una rete di saperi condivisi dalla comunità, che fa apprezzare le altrimenti impercettibili differenze tra un paesino e quello successivo, o tra una valle e quella successiva, e che resiste alla paradossale coesistenza nel modello neoliberista tra omologazione sociale e individualismo corrosivo.

Purtroppo, non ho trovato tutto questo nella porzione del cammino che ho percorso seguendo Con le ali ai piedi, e non per sfortuna ma per il taglio che tale guida ha, per la struttura intrinseca del percorso e per l’impalcatura ideologica contraddittoria da cui tale struttura prende le mosse (e non sto parlando dello spirito religioso che anima il pellegrinaggio in luoghi legati alle agiografie di San Francesco o di Celestino V).

Andiamo con ordine. Prima di tutto, le indicazioni sulle carte del percorso (come in tutte le guide della stessa collana) sono troppo stringate: non sono indicati i nomi di molte strade e sentieri e soprattutto l’intera cartografia è incentrata sul percorso di interesse, con uno zoom selettivo che impedisce di spaziare oltre. Tale mancanza nasce probabilmente dalla fiducia che la guida ripone nel viaggiatore, presumendolo sempre dedito e attento a non uscire fuori dal tracciato suggerito dalla guida. Non occorre chiarire che si tratta di una mancanza che crea una dipendenza del viaggiatore dalla guida in questione, se questi non è sufficientemente attrezzato con altro (spesso costoso) materiale cartografico. Per fare un viaggio lento occorre tuttavia avere strumenti di orientamento per conoscere il territorio in cui ci si trova, e conoscere veramente la geografia del territorio significa averne una chiara idea del contesto, anche cartografico. La conoscenza del territorio garantisce autonomia di scelta e consapevolezza nell’organizzazione del viaggio, sia prima della partenza sia tra una tappa e l’altra: per questo, una cartografia completa e il più possibile ampia e dettagliata sarebbe necessaria per intraprendere un cammino che realmente garantisca a ciascuno il massimo dell’autonomia riducendo per quanto possibile le costrizioni organizzative.

In secondo luogo, un elemento di cui si accorge subito anche il camminatore meno esperto è la natura del tracciato: una lunga, troppo lunga, porzione del percorso è asfaltata. Nella premessa, l’autrice mette le mani avanti: «l’asfalto pare essere lo spauracchio dei camminatori ma può non esserlo se lo si affronta con spirito pellegrino, la cui qualità è anche l’accettazione e la trasformazione al positivo di tutto ciò che si incontra». Seguendolo, viene quasi da chiedersi se gli autori l’hanno percorso veramente (come sarebbe che l’asfalto pare essere lo spauracchio dei camminatori?) o soltanto progettato il tracciato a tavolino su una carta, perché la sovrabbondanza di asfalto rende tutto il percorso poco “vissuto”. Seguendolo, non ci si sente parte di una comunità di camminatori, non viene da pensare a quanti hanno percorso gli stessi passi prima di te; al contrario, ci si sente intrusi, perché su quelle strade le automobili magari saranno poche e dunque il traffico poco inquinante, ma l’asfalto è stato concepito per loro, e non certo per gli spostamenti a piedi. L’impressione che se ne ricava, per quanto il paesaggio circostante sia di inestimabile bellezza e permeato di un’estetica piacevolmente rurale o montana, è di essere non inclusi nel territorio, ma respinti da esso. Inoltre, ed è ciò che più di tutto porta a chiedersi se il percorso, come vorrebbe l’etimologia della parola, sia effettivamente stato percorso, camminare sull’asfalto fa male ai piedi, li affatica e aumenta notevolmente il rischio che si formino vesciche, cosa che ogni buon camminatore impara molto presto e che in questo caso rende meno piacevole il paradiso dei sensi dato dal bel paesaggio (perché la vista è solo uno dei sensi, ma c’è anche il tatto).

Che per alcuni spostamenti sia impossibile evitare strade asfaltate è un’amara verità che deriva dai fattori economici, sociali, politici e culturali che hanno storicamente determinato le modalità di circolazione di persone e merci, dunque che parte dei cammini abbiano finito per essere inglobati o sostituiti da colate di asfalto è del tutto comprensibile. L’assenza di sentieri alternativi potrebbe giustificare l’eccessiva presenza di strade asfaltate lungo il tracciato in questione, ma a questo punto si apre un’altra critica: i sentieri alternativi ci sono. Dai sentieri mantenuti dalla sezione CAI de L’Aquila (purtroppo piuttosto disastrata dal terremoto del 2009) ai cammini celestiniani passando per i tratturi usati per secoli nella pratica della transumanza, esistono innumerevoli percorsi alternativi. Di queste alternative la guida fa cenno come curiosità intellettuali più che come importante conoscenza per vivere il territorio, anche se solo di passaggio. Ovvero, non solo indirettamente nasconde conoscenze utili, ma anche si rivolge al lettore considerandolo più un turista che un viaggiatore (sottigliezza non irrilevante).

Ora, c’è da fare una precisazione per evitare fastidiosi fraintendimenti. Qualcuno potrebbe legittimamente osservare che se intendo fare un certo tipo di viaggio e invece mi sono andato a scegliere una guida che non mi consente di fare quel tipo di viaggio la colpa è solo mia e non mi posso lamentare: la prossima volta scelgo meglio, problema risolto. Resta però un fatto su cui riflettere. Non sono certo il primo a dare un significato politico al viaggio, anzi esiste una nutrita schiera di enti e associazioni che si occupano di “turismo responsabile” sotto l’ombrello dell’Associazione Italiana Turismo Responsabile (AITR), a cui tra l’altro aderisce anche Terre di mezzo Editore, la casa editrice della collana di Con le ali ai piedi. Così come accade in certi movimenti per il “cibo responsabile” analizzati dall’indagine del bolognese Wolf Bukowski (in La danza delle mozzarelle), anche nel movimento per il “turismo responsabile” la narrazione e la struttura nascondono una profonda contraddizione.

Secondo la definizione dell’AITR,

il turismo responsabile è il turismo attuato secondo principi di giustizia sociale ed economica e nel pieno rispetto dell’ambiente e delle culture. Il turismo responsabile riconosce la centralità della comunità locale ospitante e il suo diritto ad essere protagonista nello sviluppo turistico sostenibile e socialmente responsabile del proprio territorio. Opera favorendo la positiva interazione tra industria del turismo, comunità locali e viaggiatori.

Tale attenzione può essere declinata e intesa in parecchi modi, come si evince dal numero di denominazioni alternative e parziali, di significato qualitativamente differente usate per riferirvisi: “turismo consapevole”, “ecoturismo”, “turismo culturale”, “turismo comunitario”, “turismo sostenibile”, “turismo equo-solidale”. L’AITR stessa si premura di specificare che ciò che promuove è una somma di tutte queste accezioni parziali, qualcosa di potenzialmente radicale (pur non mettendo in discussione il concetto stesso di “turismo”).

Certamente le collane commerciali che propongono i viaggi a piedi rientrano nella categoria di turismo responsabile, per il basso impatto ambientale e per il tipo di viaggio che si discosta dalla consuetudine del turismo di massa, ma in base alle osservazioni formulate sopra si rischia di ritrovare riprodotti nel turismo responsabile gli stessi principi di alienazione, mercificazione e privatizzazione dei saperi che si osserva nel turismo di massa.

In particolare, è interessante pensare all’omissione di conoscenze relative ai secolari o millenari percorsi alternativi come esempio di «nuova accumulazione originaria», per usare un’espressione di Francesco Raparelli in Rivolta o barbarie, mutuata dal classico concetto marxista di «accumulazione originaria». Secondo Karl Marx,

«Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione tra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro… Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione» (Il Capitale, libro I)

Storicamente tale processo si è manifestato sotto forma di recinzioni che cominciarono a comparire in Inghilterra alla fine del XV secolo che separavano materialmente i lavoratori dai mezzi di produzione, espropriando i contadini, i produttori immediati. Soltanto con la privazione dei propri mezzi di produzione è stato possibile che i produttori diventassero dipendenti da un nuovo bisogno, quello cioè di vendere la propria forza-lavoro ai nuovi proprietari capitalisti in cambio di un salario. Ovvero, il rapporto di subordinazione e di sfruttamento, l’intera natura gerarchica dei rapporti di produzione nel capitalismo deriva dalla separazione tra i produttori e i mezzi di produzione, da un processo che rende impossibile per i produttori l’utilizzo immediato dei mezzi di produzione.

In analogia con questo concetto, in molti hanno esteso la nozione di «accumulazione originaria» ad altri aspetti della della vita economica e sociale che hanno interessato e interessano non soltanto il periodo di formazione del sistema capitalistico ma anche il presente, ipotizzando che l’«accumulazione originaria» non si limiti ad essere una condizione iniziale del capitalismo, ma anche una vera e propria condizione strutturale, per cui continuamente, per esistere e svilupparsi, il capitale produce “recinzioni” che separano i produttori dai mezzi instaurando rapporti gerarchici di sfruttamento. Per Raparelli, è la vita stessa il mezzo di produzione post-fordista su cui si esercita la nuova accumulazione «originaria», ma un discorso analogo può farsi riguardo alla privatizzazione delle conoscenze della comunità open source o alla valorizzazione capitalistica dei dati digitali da parte di grosse multinazionali come Facebook o Google. Più banalmente, si è di fronte allo stesso fenomeno ogniqualvolta si convincano individui di non possedere adeguate conoscenze, in modo da potergliele vendere ad hoc, come quando si convincono le mamme di non saper allattare per potergli rifilare fior di riviste sull’argomento.

Tornando al turismo responsabile, l’omissione di informazioni utili sui percorsi alternativi a quello principale può essere visto come una forma di “recinzione” che rende impossibile al camminatore l’utilizzo immediato dei percorsi e genera un rapporto di subordinazione, come già spiegato in precedenza. Questo rapporto è capace di generare un profitto, perché saperi e nozioni storicamente tramandate dalla comunità diventano una merce che può essere inserita in una guida e venduta sotto una forma poco riconoscibile.

La scarsa riconoscibilità dei saperi originari è legata ad un altro fatto interessante, che riguarda la presunta continuità con la storia del territorio: il percorso proposto dalla guida Con le ali ai piedi ricalca in parecchi punti alcuni dei percorsi alternativi, a cui dunque deve molto. A questi fa solo qualche cenno (o addirittura li ignora, a cominciare dal titolo, che per questo motivo all’inizio di questo articolo è stato definito “molto retorico e poco convincente”), nella premessa l’autrice scrive: «Questo […] è un Cammino nuovo, non particolarmente difficile. […] Il percorso è stato parzialmente segnato da me e da volontari. […] un nuovo Cammino su tracce antiche che ripercorre, in parte, i tratturi della transumanza». Eppure, a parte il rapido riferimento nella premessa e una pagina informativa sui tratturi qualche tappa dopo, sparisce dalla guida ogni riferimento pratico all’esistenza degli stessi, ogni reale legame con la storia del territorio che sia diverso da “i luoghi di San Francesco”.

Per spiegare questo fatto, può essere utile il concetto di “invenzione della tradizione”. Secondo Eric Hobsbawm, che introdusse il concetto in un omonimo saggio storico nel 1983,

per «tradizione inventata» s’intende un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato. Di fatto, laddove è possibile, tentano in genere di affermare la propria continuità con un passato storico opportunamente selezionato.

Inutile dire che il passato storico opportunamente selezionato è in questo caso costituito in primo luogo dalle porzioni dei percorsi alternativi sovrapposti al, e in parte rimossi dal, “nuovo” percorso; in secondo luogo dai luoghi di importanza religiosa che finiscono con l’apparire l’unica motivazione per incamminarsi in un territorio come quello dell’Abruzzo che, al contrario, di altre motivazioni sarebbe generoso. Tutto ciò cozza contro i principi del turismo responsabile, ma non c’è da stupirsi, perché stiamo parlando di un fenomeno contraddittorio. In Viaggiare, conoscere e rispettare l’ambiente, un saggio sul turismo pubblicato nel 2003, Osvaldo Pieroni al capitolo Le contraddizioni dell’ecoturismo scrive l’ovvia conclusione che

[…] il turismo rappresenta un fatto sociale totale, che porta con sé le contraddizioni e le ambiguità che sono caratteristiche di ogni società, né più e né meno di ciò che accade con ogni altro fenomeno caratteristico dell’organizzazione sociale in genere.

Ancora una volta, non esiste un aspetto della vita umana che non dipenda dalla natura sociale della vita umana stessa. Anche quando si cammina, da soli, in mezzo alle montagne.