Chi cerca lo scontro
Ieri l’Anfp (Associazione nazionale funzionari di polizia) ha presentato una serie di istanze (qui) al governo, chiedendo un ammodernamento dei reparti mobili per meglio tenere sotto controllo eventuali manifestazioni di piazza che possano sfociare in atti violenti. Come fa notare Marco Bascetta sul Manifesto (leggi), stavolta non è di organico o di turni che si parla, bensì proprio di armi: le polizie sarebbero «disarmate» (e meno male, verrebbe da dire, alla luce di quanto diffusi e impuniti siano gli abusi di polizia anche senza che siano normalmente dati in dotazione arsenali di guerra, ma semplicemente come conseguenza del sistema di reclutamento e formazione e dell’ambiente lavorativo, qui descritti). Quello che l’Anfp chiede è un intero equipaggiamento di guerra. Non è necessario commentare, come è già stato fatto da Marco Bascetta, l’opportunità e l’uso che si farebbe di ciascuno di questi elementi se fossero utilizzati per mantenere l’ordine pubblico. Qui è sufficiente dire che, a fronte di quello che richiede, ovvero task force antisommossa, proiettili di gomma, fucili marcatori, tonfa, scudi in kevlar, nuove uniformi paracolpi, fondine antifurto, radio hi-tech, l’Anfp è contraria al codice identificativo sui caschi, motivando tale posizione con le seguenti parole: «il codice rappresenta un punto di arrivo, che si potrà concretizzare solo quando il livello degli strumenti legislativi e tecnici a disposizione potrà garantire un contesto di legalità non manipolabile». Ovvero: “finché non ci permettete di sparare, noi facciamo il cazzo che ci pare e ci prendiamo la libertà di insabbiare prove e depistare processi”.
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