Alice’s adventures in Wonderland
Ho appena finito di leggere quello che è considerato il capolavoro di Lewis Carrol, l’opera che meglio riflette la sua personalità ambigua e controversa.
La prima cosa che salta all’occhio e alla mente leggendo il primo libro, il cui seguito sarà Attraverso lo Specchio, è la necessità di leggerlo in lingua originale; tale dovrebbe essere la scelta da preferirsi ogni volta che si decide di avventurarsi nella lettura di un romanzo scritto in una lingua che si conosce sufficientemente bene da poter considerare l’attività come un affinamento delle proprie capacità linguistiche; ma ovviamente tale scelta non sarebbe opportuna per meri scopi didattici, bensì per un vantaggio letterario e artistico nell’apprezzamento dell’opera.
È un’ipotesi ormai accreditata quella secondo cui la visione del mondo di ciascuno si forma sulla base di classificazioni e categorizzazioni mentali che non possono prescindere dall’aspetto linguistico; ognuno coglie il mondo e percepisce i fenomeni secondo dei modelli di pensiero che solo la lingua può esprimere. Non a caso studi su individui bilingue per nascita hanno mostrato come, a seconda della lingua utilizzata in un certo momento, essi hanno una diversa percezione del mondo e un diverso modo di comportarsi di fronte agli oggetti e agli eventi, che vengono classificati mentalmente secondo dei “cassetti” che hanno l’aria di avere una natura del tutto kantiana (ipotesi di Sapir-Whorf).
E sulla base di questo dato si potrebbero costruire tante teorie per spiegare fenomeni culturali come la tendenza a confondere certi concetti astratti, a stabilire certi tabù e non altri, ad elaborare un sistema valoriale che apprezzi qualcosa come virtù condannando qualcos’altro come vizio, a dividere dualisticamente in un modo preciso o impreciso il mondo materiale e la sua natura spirituale eccetera. Per esempio molte considerazioni interessanti sul rapporto di legame tra lingua e cultura potrebbero derivare dal fatto insolito che in arabo classico la stessa parola significa una coppia di concetti opposti (giusto-ingiusto, buono-cattivo), con la conseguenza che l’idea di guerra santa ha delle basi linguistiche.
Ma prima viene l’uovo o la gallina? Insomma, per come la vedo io, «il linguaggio precede e nutre il pensiero» (Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, R. Lewis). Lo scopo di questi pensieri (se i pensieri possono avere uno scopo) non è tuttavia stilare una raccolta di considerazioni già fatte da tanti studiosi (N. Chomsky, U. Eco, U. Galimberti, G. Lakoff, R. Barthes…) dei quali, con la mia scarsa esperienza, non mi permetto di prevaricare il ruolo, sputando sentenze a destra e a manca sulla reciproca influenza che la cultura come sistema e il linguaggio come struttura esercitano.
Invece volevo cogliere spunto dalla lettura di Carroll per fare delle riflessioni sull’importanza delle parole. Tralasciando quindi la necessità di leggerlo in inglese, per via dei continui giochi di parole, delle assonanze, delle filastrocche e dei fraintendimenti che rendono qualsiasi traduzione in una lingua diversa dall’originale un’opera a sé stante, c’è anche un’altra questione da affrontare: che, come scrive Pietro Citati in una prefazione ad Alice, «Lewis Carrol aveva compreso che la lingua non combacia con la realtà. La lingua è arbitraria. Da un lato sta la cosa […] dall’altra il nome, e fra loro si apre un abisso incolmabile» e che «i nomi non sono consequentia rerum, ma, al contrario, le cose sono le conseguenze dei loro nomi».
Ora, se questo è vero per tutti e non solo per i bambini, per quanto forse Carroll non se ne rendesse conto, allora è vero che siamo tutti un po’ matti, né più né meno del Cappellaio.
Short Link:
Non entro nel merito degli aspetti scientifici di questa teoria, ma dal punto di vista filosofico ritengo pericoloso il nominalismo (e il relativismo), e nettamente preferibile il realismo (e l’oggettivismo).
Tuttavia, ciò che è preferibile non è necessariamente vero. Certo, anche dal punto di vista scientifico, sarebbe ottima cosa conoscere una realtà che sia assoluta, slegata da chi la osserva e indipendente dalla sua fenomenicità; però ciò non può accadere. E la filosofia moderna ha mostrato come ciò non può accadere neanche in filosofia, giacché forse non ha neppure senso parlare dell’essere in quanto tale e della cosa in sé.
Molto interessante. Sai, quasi ognuna delle cose che sono scritte in questo post mi è stata ripetuta l’anno scorso (e continua ad esserlo quest’anno) ogni giorno e ogni ora che passavo dentro le aule della facoltà seguendo le lezioni.
Grazie per il contributo; ti segnalo però che in arabo classico è ben difficile trovare un vocabolo che significhi “giusto” e “ingiusto” o “buono” e “cattivo” allo stesso tempo! Del pari è arduo sostenere che “l’idea di guerra santa ha delle basi linguistiche”, per la semplice ragione che è il concetto stesso di “guerra santa” ad essere estraneo all’Islam, malgrado vi si faccia sovente ricorso per tradurre (in modo improprio) il vocabolo “jihad”, il quale significa invece “lotta” o “sforzo”, intese non solo come esercizio fisico, ma anche -e soprattutto- come pratica spirituale: cfr. ad esempio il lemma etimologicamente affine “ijtihad”, riferito allo sforzo dei giuristi chiamati a pronunciare sentenze eque. In generale, il programma di ricerca più fecondo in linguistica sino ad oggi sviluppato (la grammatica generativo-trasformazionale) tende a mostrare la presenza di strutture nascoste (o finanche innate nei parlanti) comuni a moltissimi idiomi diversi tra loro in grado di orientare la costruzione di una serie infinita di enunciati, potenzialmente compatibili con qualsiasi sistema di valori e opinioni. La nascita di questi ultimi segue invece di consueto da una serie finita di esperienze individuali o collettive, in grado tutt’al più di modificare il lessico di una comunità umana di ampiezza variabile -mentre l’ipotesi di Sapir-Whorf postula esattamente il processo opposto, come documenta il celebre articolo del secondo sui termini associati alla neve nel linguaggio degli Inuit, confutato da G. Pullum in “The great Eskimo vocabulary hoax” (sebbene la nozione centrale della teoria di Whorf sia la supposta presenza di categorie grammaticali peculiari ad ogni lingua).
Grazie a te per le precisazioni; non conosco l’arabo classico e ho commesso l’errore di fidarmi ciecamente di un amico che lo sta studiando da qualche mese.
Per quanto riguarda la presenza di strutture nascoste, non penso che l’affermazione che il cervello umano sia dotato di categorie innate (non necessariamente universali, tuttavia) connaturate alla sua stessa struttura fisica sia in contrasto con l’idea che “il linguaggio preceda e nutra il pensiero”.
Infatti, se tali struttute innate esistessero, sarebbe vero che precederebbero il linguaggio, ma sarebbe ancora vero che il linguaggio precede il pensiero, perchè il possesso di forme a priori (per continuare a dirla con Kant) non implica già di per sé il pensiero, che è piuttosto l’utilizzo che delle forme a priori si fa.
Post che rende bene l’idea di fondo!
Ad ogni modo il cliché è una convenzione che potrebbe trasfornarsi in costrizione, con tanti belli slauti per la nostra libertà di scelta, come abbiamo evidenziato nel nostro blog Vongole & Merluzzi, dove spero avrai modo di ricambiare la visita :
http://vongolemerluzzi.wordpress.com/2011/03/18/vita-ikea/
Grazie 🙂