Caro Latouche, questo si chiama capitalismo!
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Si può scrivere un libro che parla sostanzialmente di economia, con contenuti fortemente critici nei confronti del capitalismo, senza mai scrivere la parola «capitalismo»?
Ne avevo il sentore, ma ora che ho letto Come sopravvivere allo sviluppo di Serge Latouche (2005, Bollati Boringhieri) posso confermarlo: è possibile e tale libro ne è un esempio. Il sottotitolo recita: Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa. L’opera si pone quindi tradizionalmente il duplice obiettivo di decostruzione dell’esistente e di costruzione dell’alternativa: la pars destruens deve cominciare da ciò che Latouche definisce una «sovversione cognitiva» (la radicale messa in discussione del concetto di sviluppo), «premessa e condizione di qualsiasi cambiamento politico, sociale, culturale».
La critica del concetto di sviluppo, come è noto per chi sa che Latouche è considerato il più influente sostenitore della teoria della decrescita, si basa sulla limitatzza delle risorse in un mondo finito e la conseguente impossibilità di crescita come dogma su cui imperniare un modello duraturo di società.
L’autore si spinge oltre la critica del semplice sviluppo, e mette in luce la fallacia e l’assurdità dei cosiddetti «sviluppi particolari»: sviluppo sostenibile, sviluppo umano, sviluppo sociale, sviluppo locale e così via, tutti in realtà riconducibili, in un modo o nell’altro, a criteri di natura economica e culturale esclusivi del mondo occidentale e industrializzato e dunque non universali, né di conseguenza esportabili senza distruggere ciò che non si adatta ai parametri occidentali.
Si parla della menzogna neoliberista del trickle down effect, che è il nuovo nome dato alla teoria della mano invisibile, secondo cui favorendo gli interessi dei ricchi si favoriscono gli interessi di tutti, la quale idea è sistematicamente smentita dai fatti. Se nel 1960 il 20% più ricco del mondo era 30 volte più ricco del 20% più povero, il divario è aumentato a un rapporto 60:1 nel 1990, crescendo ancora a 1:74 nel 1997, in piena realizzazione delle politiche neoliberiste del Fondo Monetario Internazionale. Oggi le tre persone più ricche del mondo guadagnano ogni anno più dei 48 paesi più poveri messi insieme, e allo sviluppo dei paesi poveri si ha rinunciato, preferendo piuttosto degli aggiustamenti strutturali ovvero «piani di austerità imposti dal FMI per ristabilire la solvibilità dei paesi indebitati proprio a causa di progetti di sviluppo illusori».
L’idea di Latouche è in linea con l’opinione di un suo collega e amico, Gilbert Rist, che paragona il concetto di sviluppo a una stella morta, «che si è già spenta ma di cui continuiamo a vedere la luce»: perché il sogno dello sviluppo è stato smentito dalla realtà, in cui la mano invisibile non esiste e il trickle down effect è solo un pretesto del FMI e del cosiddetto Nord del mondo per imporre politiche di austerità al cosiddetto Sud del mondo. Non solo lo svilluppo è fallito, ma anche lo sviluppo sostenibile è una menzogna (per motivi di cui ho già parlato, ma prima di aver letto Latouche), anzi l’espressione stessa è un ossimoro, in quanto lo sviluppo implica la crescita illimitata, laddove la sostenibilità implica l’adeguamento dei tempi di produzione alle capacità di carico degli ecosistemi e dunque una crescita nulla.
Del resto, fa notare Latouche, bisogna diffidare delle opinioni in materia economica che trovano approvazione unanime, perché probabilmente sono «parole plastiche» che ciascuno riempie con i contenuti che più gli sono consoni. Il socialista August Bebel, amico di Marx, si chiedeva quale idiozia avesse potuto dire ogni volta che al Reichstag la borghesia lo applaudiva. È partendo da questa considerazione che l’autore critica anche il movimento altermondialista (o almeno una sua componente), reo di continuare a proporre progetti di sviluppo sostenibile, sociale, umano, ecocompatibile noncurante del fatto che il problema è il concetto stesso di sviluppo, a prescindere dall’aggettivo qualificativo che lo segue: anche gli altermondialisti peccano di «sviluppismo», viene rivelato al lettore (ma va? e io che pensavo che il pensiero unico non fosse, appunto, unico) e ciò fa ovviamente comodo al FMI e alle multinazionali, che firmano appelli e manifesti per lo sviluppo sostenibile, e ai politici occidentali, che creano ministeri con quel nome: i più grandi sostenitori dello sviluppo sostenibile sono i più gandi inquinatori e i loro complici.
In tutto questo, circa un centinaio di pagine, Latouche non scrive mai la parola «capitalismo». Due volte ricorre l’aggettivo «capitalistico» e una sola volta si parla di «capitalisti», mentre le ripetizioni di «capitale» si possono contare sulle dita di una mano, e ciò è comprensibile considerato che il concetto può essere usato in un’accezione piuttosto ampia (capitale naturale, capitale umano) sebbene comunque riconducibile ad una visione capitalistica.
Vediamo però cosa intende dire quando parla di «sviluppo».
«…lo sviluppo economico, lanciato da Harry Truman nel 1949 per permettere agli Stati Uniti di impadronirsi degli ex-imperi coloniali europei a impedire ai nuovi Stati indipendenti di cadere nell’orbita sovietica.»
«…l’esperienza occidentale di decollo dell’economia, così come si è realizzato a partire dalla rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni 1750-1800…»
«il contenuto implicito o esplicito dello sviluppo è la crescita economica, l’accumulazione di capitale, concorrenza senza pietà, crescita senza limiti delle diseguaglianze, saccheggio sfrenato della natura»
«lo sviluppo può essere definito come un processo che porta a mercificare i rapporti tra gli uomini e tra gli uomini e la natura. Lo scopo è sfruttare, valorizzare, ricavare profitto»
«è lo sviluppo che domina il pianeta da tre secoli a provocare emarginazione, sovrappopolazione, povertà…»
«…lo sviluppo non può non produrre l’ingiustizia sociale…»
«lo sviluppo ha distrutto il locale concentrando sempre di più i poteri industriali e finanziari»
«…forme di redistribuzione sono la bestia nera degli sviluppisti»
«i sistemi di protezione contro la povertà, in particolare la “solidarietà comunitaria”, vengono considerati come ostacoli, freni, resistenze allo sviluppo…»
«con lo sviluppo, il prezzo che si paga sul piano sociale e umano è enorme. Negli anni settanta erano considerate cose “normali” la dittatura, il partito unico, il regime poliziesco, le detenzioni arbitrarie, la tortura o i desaparecidos, se servivano a realizzare il controllo sociale necessario per l’accumulazione “primitiva”»
«non esiste altro sviluppo che lo sviluppo: è inutile cercarne uno migliore, perché in teoria quello che abbiamo va già bene»
Insomma, con sviluppo ci si riferisce alla crescita economica, allo sfruttamento di risorse umane e naturali, alla mercificazione di cose, persone e relazioni, alla disuguaglianza sociale, al predominio dell’economia sulla politica, alla concentrazione dei capitali e dei poteri, a un sistema sociale nato in Inghilterra alla fine del Settecento e di cui gli Stati Uniti sono portabandiera… ma caro Latouche, questo si chiama capitalismo!
Perché questa opera di meticolosa autocensura? Personalmente ho come l’impressione che Latouche abbia paura di esplicitare il proprio anticapitalismo. Pur di non scrivere la parola, inventa delle perifrasi o dei neologismi, come «sviluppismo», «sistema tecnoeconomico», «egoismo dei possidenti», «ricerca del profitto», «corsa al profitto». Biasima chi usa lo sviluppo sostenibile per mascherare ideologicamente lo sviluppo, ma usa lo sviluppo per mascherare ideologicamente il capitalismo.
Insomma, mi sembra che l’opera demistificatoria di decolonizzazione dell’immaginario auspicata nel sottotitolo sia compiuta solo a metà: da un lato si smonta il dogma della crescita e si mostra la fallacia del concetto di sviluppo, dall’altro lo si fa attraverso un’operazione di mistificazione.
Sulle proposte di decrescita (in verità solo accennate negli ultimi due capitoli) mi riservo di scrivere la prossima volta. Nel frattempo, il dibattito è aperto.
Short Link:
Latouche non nomina il capitalismo e non vuole proporsi come anticapitalista, perché sostiene che il comunismo, ideologia anticapitalista per antonomasia, non sia altro che l’altra faccia della rivoluzione industriale. In pratica, mentre i cosiddetti padroni (i capitalisti) tendono ad accumulare ricchezza nelle proprie mani, sfruttando il lavoratore salariato, il comunismo parla di lotta di classe e si presenta come anticapitalismo (cioè contro i padroni, i capitalisti) cercando di riequilibrare e di redistribure la ricchezza ai lavoratori. Entrambi, però, si muovono nell’ambito dello stesso paradigma della crescita e dello sviluppo. Infatti, mentre i liberisti (capitalisti) sostengono la tesi del meno stato più mercato, i comunisti (anticapitalisti) sostengono la tesi del più stato meno mercato, ma entrambi sono solo le due facce della stessa medaglia. La decrescita serena propone un concetto nuovo e antimodernista, cioè meno stato e meno mercato.
Alessandro, ma queste cose le ho capite benissimo. Ciò che contesto è il rifiuto di accettare ciò che si è: per quanto Latouche possa dissociarsi dall’anticapitalismo (ma non lo fa chiaramente), nei fatti condanna il capitalismo (ma non lo fa chiaramente). Penso che il professore sia intellignte a sufficienza e non così infantile da temere di esplicitare il proprio anticapitalismo semplicemente perché rifiuta il comunismo: personalmente lo troverei assurdo!
Insomma, vorrei capire come si può pretendere di “decolonizzare l’immaginario” se si evita in tutti i modi possibili di chiamare le cose col proprio nome, per quanto riguarda sia ciò che si critica (il capitalismo) sia ciò che si è (anticapitalisti).
Credo che il dilemma tanto tuo quanto mio sia se può esistere uno «sviluppo» che non si configuri come “capitalistico”. (La mia opinione temporanea, in poche parole: sì, laddove non esista il denaro…)
Purtroppo studiando Sviluppo Economico devo farti delle precisazioni 🙂
Il concetto di sviluppo, da anni usato dagli economisti come sinonimo di crescita economica, è diventato ormai negli ultimi 30 anni un concetto a sé stante. Il concetto va scisso in: development, growth ed empowerment, innanzitutto.
I progetti di sviluppo hanno abbandonato già da anni l’identificazione tra sviluppo e crescita, dedicandosi solo a progetti di empowerment. Latouche intende criticare lo sviluppo in senso più ampio della teoria economica, e per certi versi alcune conclusioni riconducono alla teoria primitivista, accusando indirettamente il lettore di essere desideroso della modernità(uso il concetto in maniera arbitraria) e del progresso tecnico-scientifico.
Il concetto di capitalismo non viene utilizzato perché è il concetto più problematico che esiste in ambito accademico. Come già avevamo discusso dare una definizione di capitalismo che metta d’accordo tutti è un’utopia.
P.S.:con progetti di sviluppo non intendo la politica del FMI, ma delle altre agenzie internazionali e ONG.
@Davide
Temo di non aver colto il senso. I puntini di sospensione sono sempre stati per me un ostacolo insormontabile 😀
@jim goldman
Carissimo, sembra quasi che tu abbia letto il libro in questione! Infatti per sviluppo Latouche intende riferirsi anche ai “progetto di sviluppo” delle Ong e alla cosiddetta solidarietà internazionale che passa per il versamento di una percentuale del Pil dei paesi ricchi a favore di tali progetti per i paesi poveri. Tuttavia, questi progetti sono miseramente sempre falliti, tanto che da anni si rinuncia ad auspicare lo sviluppo e ci si limita a proporre delle riforme neoliberiste di privatizzazione di istruzione e sanità e smantellamento dei meccanismi di protezione sociale (insomma ciò che è successo spettacolarmente prima in Argentina e ora in Grecia e Spagna, passando per l’Italia). Ecco perché Latouche critica qualunque concezione di sviluppo, sia anche prodotta da progetti di solidarietà e cooperazione, in quanto lo ritiene un sogno ideologico senza possibilità di realizzazione.
Comunque, capisco ciò che scrivi riguardo al capitalismo e all’utilizzo del concetto. Ma mettendo insieme tutte le definizioni di sviluppo date da Latouche che ho riportato a me sembra proprio che si delinei il né più né meno che il capitalismo, per quanto difficile possa essere definirlo in ambito academico. In ambito accademico si hanno difficoltà a definire la vita, la morte e tante altre cose, ma non ho dubbi che se sparo alla testa di un uomo gli tolgo la vita e gli dò la morte.
A parte questo, cosa ne pensi della decrescita? E ti dico un’altra cosa: sto leggendo un libro di Graeber, mi fa sorridere il suo ottimismo sfegatato 🙂
Intendevo dire che dove non c’è denaro, l’accumulo – “capitalistico” – è pressoché impossibile.
Comunque è verosimile che la “decolonizzazione dell’immaginario” debba passare anche da un mutamento linguistico (per tornare al mancato uso della parolaccia).
@Davide
«è verosimile che la “decolonizzazione dell’immaginario” debba passare anche da un mutamento linguistico»
Un momento. Il linguaggio è un’arma e su questo siamo d’accordo (a proposito, mi piacerebbe leggere qualcosa di Lakoff). Ma non è stato Latouche a rimuovere dall’immaginario collettivo la percezione che il capitalismo è solo uno dei tanti sistemi possibili e che ad esso lo sfruttamento è invariabilmente connaturato: l’opera di rimozione è stata sapientemente condotta prima di tutto dalle classi dirigenti. Latouche non fa altro che accodarsi. Per decolonizzare l’immaginario si dovrebbe ridare alle parole il significato che hanno piuttosto che rimanere succubi della stessa retorica ideologica e mistificante. Certo che bisogna essere artefici di un mutamento linguistico: ma deve consistere nel dare pane al pane e vino al vino.
Quando si impone la neolingua del pensiero unico, chiamare le cose con il proprio nome è rivoluzionario.
Mah. Non saprei. So di gente che non pronuncerebbe il nome “Berlusconi” nemmeno sotto tortura – anche a me fa parecchio senso pronunciarlo, del resto. Ma non è che se lo chiami Psiconano, Papi o in altro modo cambia la sostanza…
Penso, insomma, che i lettori di Latouche siano abbastanza scaltri per capire che quando egli parla di sviluppo e profitto si riferisce all’economia capitalistica (potrebbe essere altrimenti?). Per te, mi sembra di capire, la sua operazione è una sorta di censura funzionale, in fin dei conti, al capitalismo stesso; per me è solo una questione di stile.
Non sono d’accordo. Il linguaggio non si limita a veicolare messaggi, ha la capacità di manipolare la mente (non dico le scelte perché il problema sta ancora più a monte, sta in ciò che determina le scelte, ovvero i meccanismi psicologici alla loro base). Le parole veicolano frames (“cornici”, schemi di interpretazione del mondo), generano associazioni e comportamenti, fissano credenze e preferenze. Ecco perché mi interessa Lakoff.
Tu dici che se chiamo Berlusconi “Psiconano” o “Papi” non c’è nessuna differenza perché la realtà fattuale conserva una sua esistenza indipendente dalla descrizione linguistica che se ne dà. Non è esattamente così. Le parole possono distorcere (anzi, non possono non farlo, kantianamente) il nostro modo di percepire la realtà. Banalmente, se un giornale parla di “Berlusconi” nel titolo di un articolo, io me lo figuro in giacca e cravatta, i capelli finti e un sorriso smagliante, a parlare dall’alto del palco di qualche evento politico; se il giornale parla di “Papi” automaticamente mi riporta alla mente i suoi trascorsi burrascosi, il suo rapporto con il sesso femminile, le sue orge e l’ostentazione petroniana di lusso e lussuria, anche se l’articolo parla di tutt’altro; se parla di “Psiconano” mi viene in mente prima di tutto Grillo. Ovviamente stiamo parlando sempre dello stesso Silvio Berlusconi, ma il modo in cui il soggetto viene descritto ha la potenzialità di indurre il lettore del giornale a stabilire alcune associazioni mentali piuttosto che altre, influenzando inevitabilmente la percezione del fatto e la sua collocazione in un contesto. Sono solo pippe? Eppure sono esattamente gli stratagemmi utilizzati dalla P2 per manipolare l’informazione giornalistica negli anni Settanta-Ottanta: dire la verità, ma modificarla contestualmente alla sua comunicazione. Come ulteriore esempio riporto qualche rigo tratto da un saggio di Graeber, La rivoluzione che viene, che sto attualmente leggendo:
«In America lo stesso gruppo di persone cui in uno specifico contesto ci si riferisce come “il pubblico”, in un altro viene definito come “la forza lavoro”. Diventa “forza lavoro”, naturalmente, quando è occupato in attività di tipo diverso. Il “pubblico” non lavora (o comunque un’affermazione come “la gran parte del pubblico americano lavora nell’industria dei servizi” non comparirebbe mai su una rivista o su un giornale; se un giornalista si azzardasse a scrivere una frase del genere, l’editore la cambierebbe di sicuro). Questo è particolarmente singolare dato che il pubblico evidentemente deve andare al lavoro: per questo motivo i media parlano sempre di come uno sciopero dei trasporti può risultare inconveniente per il pubblico, nella misura in cui vi sono pendolari, ma non verrà mai messo in luce che i lavoratori in sciopero sono essi stessi pubblico, e che se riescono ad ottenere un aumento del livello dei salari ne deriverà un pubblico beneficio. E sicuramente il “pubblico” non scende nelle strade. Il suo ruolo è di spettatore di pubblici spettacoli e utente di pubblici servizi. Quando compra o utilizza beni e servizi forniti da privati, lo stesso gruppo di individui diviene qualcos’altro (“consumatori”), così come in altri contesti di attività lo stesso gruppo è etichettato come “nazione”, “elettorato” o “popolazione”.»
Bene, questo era solo uno degli innumerevoli esempi di come attraverso il linguaggio si possono nascondere delle realtà che sono sotto gli occhi di tutti. Mi verrebbe quasi da dire, con Lacan, che l’inconscio stesso ha struttura di linguaggio che precede il livello cosciente e dunque questo tipo di manipolazione si traduce all’atto pratico con i fenomeni che Orwell definisce “stopreato” e “bispensiero”.
La mia opinione è che, parlando di “sviluppismo” anziché di capitalismo, Latouche conduca un’opera esattamente assimilabile a questo processo: nasconde alla vista dei lettori una realtà evidente, semplicemente usando le parole.
Spero di essere stato sufficientemente chiaro; in caso contrario, chiedo umilmente perdono.
Sei stato chiarissimo e convincente. Forse allora il problema è mio, che dietro le diverse parole con cui designiamo Berlusconi o il capitalismo vedo esattamente la stessa merda.
Che cosa è il capitalismo?
Andiamo, su, non esiste concetto sulla definizione del quale siano tutti unanimemente d’accordo: ogni cosa è stata sviscerata da generazioni di storici, linguisti, antropologi, sociologi, scienziati, filosofi, ma questo non ci impedisce di usare quei concetti. Insomma, se decidessimo di utilizzare solo concetti su cui nessuno ha dubbi, probabilmente non potremmo dire nulla.
Penso che per potersi capire e per poterne discutere a qusto livello sia sufficiente intendere per capitalismo un sistema sociale basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sull’accumulazione di capitale. Queste due cose messe insieme lo definiscono e sono caratterizzanti, perché non mi pare esistano altri sistemi sociali che le presentano contemporaneamente. Poi si possono fare tutte le discussioni accademiche che vogliamo, ma non è questo lo scopo di questo articolo.
@Davide
Un esempio più concreto lo trovi nelle affermazioni della Camusso sulle contestazioni subite a Taranto per la questione Ilva. «Non è ammissibile che in una vicenda così complicata si faccia del sindacato e dei lavoratori il capro espiatorio. Così loro (riferito ai contestatori, ndr) hanno ottenuto una visibilità che altrimenti non avrebbero avuto»; «i contestatori rubano la piazza ai lavoratori». Come nell’esempio generico di Graeber, si contrappongono i “contestatori” ai “lavoratori”, come se i primi non fossero lavoratori. Semplice no? Eppure prima che Graeber me lo facesse notare non me ne sarei mai accorto!
Ma prima che leggessi Graeber, avresti forse visto di cattivo occhio i “contestatori”? 😉
E’ una questione di onestà intellettuale prima di tutto: leggere il concetto di “capitalismo” come “proprietà privata+accumulazione di capitale”, vuol dire tutto e non vuol dire niente.
Pensa solo che la proprietà “privata” (altro concetto dalle mille sfumature) potrebbe essere nata milioni di anni fa contemporaneamente in migliaia di sistemi culturali in giro per il mondo.
Inoltre, con “accumulazione di capitale” si intende molto genericamente qualsiasi forma di risparmio/investimento fruttifero.
Quindi, sarebbe onesto da parte tua dire esplicitamente che stai difendendo il concetto di “capitalismo” di stampo marxista, in modo tale che i tuoi lettori siano in grado di misurare e apprezzare meglio i tuoi articoli.
Se il problema era questo bastava dirlo subito! Va bene, lo metto nero su bianco:
Attenzione, il concetto di capitalismo che sto “difendendo” (?) è di stampo marxista.
Se non fosse che io non sto difendendo alcunché, ma semplicemente utilizzando una parola per descrivere un fenomeno, e la corrispondenza tra una parola e il fenomeno che questa si propone di descrivere è sempre frutto di una convenzione e in qualche modo arbitraria. Ciò non ci impedisce di utilizzare quotidianamente le parole, per descrivere le cose più disparate nelle situazioni più disparate. Probabilmente esistono migliaia di sfaccettature e di discussioni accademiche anche sul concetto di onestà, ma quando mi chiedi onestà nello scrivere i miei articoli non vengo certo a chiederti a quale concezione ti riferisci.
Del resto non vedo in che modo esplicitare che per capitalismo intendo ciò che intendo possa aiutare ad apprezzare meglio il contenuto del testo: infatti ciò che si deve intendere per “capitalismo” in questo articolo è già stato scritto nell’articolo stesso, e così definito il capitalismo è lecito domandarsi se ciò che Latouche chiama sviluppo non sia in effetti altro che capitalismo. Ora, più che accuse di usar male una parola, vorrei ricevere spiegazioni su cosa sarebbe sbagliato nell’uso che ne faccio.
P.S. Sono sinceramente curioso di conoscere qual è questo altro sistema sociale basato su proprietà privata dei mezzi di produzione e sull’accumulazione di capitale. Io ho studiato troppo poco (sul serio!) e non riesco a trovarne.
Apprezzo particolarmente, oltre che l’ articolo, la discussione qui sorta tra Piero e Davide riguardo la questione del linguaggio.
Oltre agli appunti ben forniti e documentati da Monsieur (a proposito, complimenti per i tanti riferimenti 😉 la questione “linguaggistica” del capitalismo mostra altri aspetti fondamentali.
Perchè in nessun telegiornale, in nessun programma televisivo, viene menzionato il diabolico nome del “capitalismo”?
Perchè dire “capitalismo” rende la coscienza consapevole che il capitalismo esiste, è un sistema definito e limitato, e fuori di sè vi è qualcosa d’ altro.
Dire “capitalismo” rende consapevoli che il capitalismo non è il naturale status quo, ma un sistema a cui esistono alternative.
Credo sia fondamentale, al giorno d’ oggi, dire continuamente, assiduamente, la parola “capitalismo”.
Dovremmo dirla e scriverla ogni giorno, appiccicarla di nostra iniziativa ogni volta che si parla di crisi, di debito, di “datori di lavoro” e soprattutto, di tempo.
Diciamolo dovunque, scriviamolo su tutti i muri che viviamo nel “capitalismo”, non si sa mai che qualcuno pensi che doversi guadagnare una casa e una salute con la schiavitù sia lo stato normale delle cose.
@Florian, io mi chiedo anche se il fatto che lo stesso concetto di capitalismo sia «il più problematico che esiste in ambito accademico» (come ci assicura @jimgoldman che queste cose le studia a quel livello) non sia dovuto proprio a questo: la tendenza a rendere liquido, scivoloso, arduo il terreno a chiunque voglia affrontare la questione. Cerchi feudalesimo e trovi la definizione generale e le diverse accezioni o concezioni, cerchi comunismo e trovi la definizione generale e le diverse accezioni o concezioni, cerchi fascismo e trovi la definizione generale e le diverse accezioni o concezioni. Ma se cerchi capitalismo trovi solo accezioni e concezioni. A me sembra un modo per evitare di discuterne. E quindi di metterlo in discussione.
Io invece non credo che ci sia un complotto internazionale per convincerci a non utilizzare il concetto di “capitalismo”. Il concetto è stato spesso usato come sinonimo di “economia di mercato”, che invece è una cosa ben diversa.
Studiando la storia economica si ci rende conto che il concetto viene utilizzato prima per definire il “bene” nel mondo e poi il “male” nel mondo. Difatti il concetto (a mio avviso) nasce e rimane saldamente ancorato ad una sua prima definizione ideologica di tipo marxista.
Sapresti dire cosa è il “bene” o il “male”?
Forse si, ma rimane comunque la tua idea culturalmente/socialmente/temporalmente data.
Non sto dicendo che tua abbia sbagliato ad usare quel concetto, ma prova a smontarlo e definirlo tu (o perlomeno contestualizzare il tuo discorso in un quadro ideologico preciso). Ricrea il tuo linguaggio, non fermarti a sponsorizzare quello di qualcun’altro.
Anche perché quel qualcun’altro era un uomo come tutti noi, con i suoi limiti e le sue virtù (tra l’altro vissuto più di un secolo fa).
No, effettivamente mi sono espresso male: neanche io credo che si tratti di un complotto internazionale. Quando ho scritto che l’estrema difficoltà a trovare una definizione generale di capitalismo, al netto delle particolari opinioni in merito, sia un modo per evitare di discuterne e di discuterlo, ho erroneamente utilizzato un’espressione che implica dei fini e degli attori ben precisi. In effetti questo modo di porre la questione, da parte mia, è stato fuorviante e ammetto che rischia di dar spazio a una buona dose di complottismo, che piuttosto rifuggo come la peste (e chi mi conosce lo sa).
Tuttavia, rimane un fatto oggettivo e cioè che questo modo di impostare il discorso (del tipo “non possiamo parlare di capitalismo perché non sappiamo cos’è”) ha come effetto diretto la difficoltà di cui sopra: discutere del capitalismo e poterlo mettere in discussione si rivela un compito impossibile fin dal primo momento.
È interessante la proposta di smontare e rimontare ciascun concetto prima di utilizzarlo. Purtroppo però io non ne ho le competenze e comunque temo che si finirebbe col non capirsi più: se ciascuno attribuisce a ogni concetto una propria personale e opinabile definizione, le parole perdono rapidamente il proprio significato e la propria funzione di simbolo.
Ma che parola dovrei usare per descrivere il sistema socio-economico nel quale viviamo? Quali sono le sue caratteristiche peculiari? Ragazzi, io non posso farci niente, ne vedo due principali e sono l’accumulazione di capitale e la proprietà privata dei mezzi di produzione. Marx o non Marx, questi due dati sono oggettivi. Insomma, le mele cadono verso il basso, continuerebbero a farlo anche se bruciassimo tutti i libri di fisica e lo avrebbero fatto anche se Newton non avesse mai formulato la legge di gravità.
Sul discorso bene-male, ideologie e contesto storico penso che in fondo siamo d’accordo, anche se probabilmente mi dirai che non è così. Naturalmente ogni cosa va contestualizzata e storicizzata: dal mio punto di vista è ovvio che ogni concetto ha senso solo nell’ambiente sociale, culturale, economico, politico, insomma storico, in cui si sviluppa ed è in quell’ambiente che si deve cercare di inserirlo e comprenderlo. E infatti non ho nessuna pretesa di universalità o assolutezza, come non intendo attribuirla al pensiero di Marx, Gesù, Jim Morrison o Diabolik.
«Nulla ha senso in biologia se non alla luce dell’evoluzione» (Theodosius Dobzhansky)
«Storicizzare sempre!» (Fredric Jameson)
Ok, comprendo. Scusa se a volte sembra che io voglia “allungare” la discussione, ma credimi se ti dico che lo faccio coi migliori intenti. D’altronde in certe discussioni reputo giusto e doveroso “sbanalizzare” il banale.
Tuttavia mi piacerebbe continuare a discutere sui concetti di “proprietà privata dei mezzi di produzione” e “accumulazione di capitale”, visto che sono le radici del male, secondo quanto da te detto; però non credo sia il luogo più adatto, e forse entrambi non abbiamo ancora le conoscenze adeguate a dare una conclusione sensata al discorso.
Ma figurati, allungare la discussione, se non si inizia a ripetere cose già dette, è un bene. Finché cerchiamo di capirci, non impermeabili al confronto, e non facciamo i nostri discorsi come monologhi, allungare la discussione non fa altro che arricchirci (spero che lo stesso valga per te).
Ah, Fredric Jameson era marxista, dovevo specificarlo? 😉 alla prossima!