Un marchio a 5 stelle [1]
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Una decina di giorni fa, sul blog di Beppe Grillo, per fare il punto della situazione e reagire pubblicamente alle questioni e accuse sollevate da dissidenti e giornalisti, uscendo dal consueto mutismo indice di una visione di rete contraria al tanto millantato principio di orizzontalità e di una strategia comunicativa esclusivamente unidirezionale, è comparso finalmente un comunicato (vedi) sulla democrazia interna al Movimento Cinque Stelle (in verità, il problema è affrontato da una prospettiva che lo subordina alle elezioni, come anche il titolo Obiettivo elezioni 2013 lascia trasparire: il comunicato serve a rilanciare la corsa elettorale e il sommesso dissenso nel movimento è considerato una malattia da debellare per potersi presentare alle elezioni come una «forza unita»).
La cosa interessante (e quasi comica) è che Grillo pensa di potersi smarcare dalle accuse di scarsa democraticità… mettendo a tacere chi non è d’accordo con lui.
Se c’è qualcuno che reputa che io non sia democratico […] allora prende e va fuori dalle palle. Se ne va. Se ne va dal MoVimento.
Come dire: per dimostrarti di non essere violento, ti picchio. Ora, a parte l’assurdità di un’uscita del genere, che tuttavia a quanto pare dalla base non è stata avvertita come tale, c’è una cosa che questa vicenda esprime molto chiaramente. Me ne sono reso conto mentre discutevo con alcuni sostenitori del M5S che farfugliavano sulla democrazia e sul rispetto delle «regole non dette», in difesa dell’opera di censura e messa al bando del dissenso, anche del più lieve, da parte del guru carismatico (su Twitter, per chi vuole, c’è uno scambio di battute), argomentando che una dichiarazione va contestualizzata, che altrimenti uno fa «come i giornalisti», attaccandosi al fatto che non avessi citato il resto del comunicato. Allora, nonostante l’avessi già letto per intero, sono andato a rileggerlo più volte, per capire se fossi veramente io ad essermi perso qualche passaggio. Tutte queste riletture mi hanno annoiato, il mio sguardo ha vagato per la pagina, ho guardato più in alto e mi sono trovato a fissare una frase sotto il titolo del blog.
Il blog di Beppe Grillo. Il primo magazine solo online.
Quella scritta campeggiava ora sotto i miei occhi. E tutto mi appariva molto più chiaro.
Michael Jordan e la Nike. C’è stato un momento, all’inizio degli anni Novanta, in cui i manager aziendali e gli amministratori delegati delle maggiori multinazionali americane hanno fatto del branding la loro principale attività, trasformando le proprie industrie in luoghi di produzione di marchi, e non più di merci. Tutte le attività di produzione delle merci, dal prelievo delle materie prime alla distribuzione del prodotto finale, sono state esternalizzate, date in appalto o in subappalto ad aziende altre. Il prodotto diventava mezzo di diffusione del marchio, e non più viceversa: per esempio la Nike non produceva più scarpe, bensì il famoso “swoosh”. Ciò non è da intendersi in senso figurato, ma proprio in senso letterale: il consiglio di amministrazione della Nike non amministra la produzione di scarpe, ma gestisce la diffusione, lo spirito e l’identità del suo logo.
Un logo dalla forte personalità conferisce alla merce che lo porta un valore aggiuntivo: il mercato del consumo è disposto a pagare una scarpa marchiata Nike anche a prezzi tre o quattro volte maggiori di una scarpa senza simbolo (o addirittura di un altro simbolo, perché il consumatore “si fida” di un marchio particolare). Ovvero: il marchio è un valore aggiunto del prodotto, spesso determina la maggior parte del suo prezzo.
Come si crea questo plusvalore? Come si crea un logo? Esiste un’ampia letteratura sull’argomento, che spazia da André Gorz a Toni Negri come teorici della “produzione immateriale”, passando per il saggio No logo di Naomi Klein, pietra miliare del movimento dei movimenti nato a Seattle nel 1999 e dilaniato nel 2001 a Genova. Secondo quest’ultima opera, il caso della Nike (cap. 2) è rappresentativo, perché quest’azienda è stata la prima a cogliere l’essenza del branding e a porsi come produttrice di un simbolo più che di una merce. Questo processo è stato avviato con la sponsorizzazione di atleti per avvicinare il marchio Nike all’idea di sport e promuovere tale associazione nell’immaginario collettivo dell’opinione pubblica.
«È stata la straordinaria bravura di Michael Jordan a catapultare la Nike nell’olimpo dei marchi, ma sono stati gli spot pubblicitari che hanno fatto di Jordan una superstar a livello mondiale». L’incredibile notorietà di Michael Jordan rese lui stesso un marchio: il film Space Jam fu un’enorme piattaforma di lancio per il nuovo ruolo, contenendo pubblicità più o meno occulta per ciascuno degli sponsor di Jordan e fornendo ispirazione per una linea di giocattoli che la McDonald’s distribuì con gli Happy Meals.
Per la Nike, c’era tuttavia un lato negativo nel potere e nella fama di coloro che avevano reso possibile la creazione di un marchio di successo, ovvero che l’azienda si trovò a competere con un altro marchio, che acquista sempre più forza: Michael Jordan. Questi cominciò a pretendere di essere risarcito dalla multinazionale per milioni di mancato guadagno, cercò autonomamente vari altri sponsor con l’intenzione di trovare una sinergia incentrata sulla commercializzazione della sua persona, insomma si rese un marchio indipendente.
La reazione della Nike fu un vero e proprio boicottaggio aziendale del film Space Jam, per la realizzazione del quale «aveva delle riserve» e non mise a disposizione i propri prodotti, come invece fecero tutti gli altri marchi che co-produssero il film. Infine la Nike dovette arrendersi, cedendo nel suo impero sempre maggiore indipendenza a Jordan, permettendogli di sfruttarla per lanciare una propria linea di abbigliamento con tanto di atleti, scelti da Jordan, che la pubblicizzassero. Ma la Nike cominciò a odiare Michael Jordan.
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