Sviluppo sostenibile: un ossimoro
In questo articolo dal titolo volutamente provocatorio intendo raccogliere alcuni appunti sparsi sul concetto di sviluppo sostenibile, sempre più in voga con la diffusione delle idee ambientaliste, altermondialiste e infine decrescitiste. In breve, secondo le correnti maggioritarie di questo tipo di movimenti e scuole di pensiero, è possibile conciliare lo sviluppo economico con il rispetto dell’ambiente.
Innanzitutto, mi sembra che si faccia molta confusione. Io non sono un esperto di economia, ma noto che affermazioni simili non si curano di distinguere tra sviluppo e progresso: per dirla con Pasolini, che tanti amano citare per le sue considerazioni sui «proletari in divisa» ma in pochi ricordano per quelle sul consumismo, «questo sviluppo è la produzione intensa, disperata, ansiosa, smaniosa di beni superflui mentre il progresso è la produzione di beni necessari». Parlare di “sviluppo sostenibile”, senza specificare che cosa si intende per “sviluppo”, specialmente in un’epoca in cui la classe dirigente giustifica le proprie scelte attraverso un’imposizione violenta del pensiero unico mediata soprattutto dal linguaggio, può essere fuorviante e rischioso, perché in tali condizioni non specificare significa accettare la posizione dominante (in questo post scrivevo che «è più facile che un contenitore vuoto sia riempito da ciò che è abbondante»).
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=pg8cdmTusHk]E la posizione dominante ovviamente è quella che predilige l’aspetto economico dello sviluppo e lo identifica con la crescita economica. Crescita dei profitti prima di tutto: diritti, benessere, socialità, insomma qualità della vita sono accessori compresi solo se il loro incremento è possibile senza compromettere la crescita economica.
Iniziamo quindi a mettere i puntini sulle “i” e chiamiamo lo sviluppo sostenibile con più chiarezza: “sviluppo economico sostenibile”.
Ora, il concetto della sostenibilità ambientale risale agli inizi degli anni Settanta, quando il Club di Roma, circolo di scienziati, economisti, attivisti e politici, pubblicò il famoso Rapporto sui limiti dello sviluppo, ovvero uno studio scientifico in cui per la prima volta si riconosceva che, se i tassi di sfruttamento delle risorse, crescita demografica, inquinamento si fossero mantenuti costanti, entro un secolo al massimo si sarebbero verificate (non necessariamente in contemporanea) una serie di crisi dovute alla finitezza delle risorse.
Non serve studiare troppa chimica per sapere cos’è lo stato stazionario: una condizione in cui le grandezze di un sistema si mantengono a valori costanti nonostante la presenza di processi che, considerati singolarmente, provocano variazioni di tali grandezze. Per i profani, l’esempio più semplice è quello di un tubo attraversato da un liquido a velocità costante: il processo di ingresso a un capo del tubo tende ad aumentare il volume del liquido al suo interno, ma in ogni istante il tubo contiene lo stesso volume perché il processo di uscita all’altro capo coinvolge lo stesso volume di liquido che entra. Lo stesso vale per un organismo vivente, che nel corso della propria vita consuma una quantità di risorse pari anche a centinaia di volte il proprio peso.
Ora, è evidente che per evitare crisi come quelle prospettate dal Rapporto sui limiti dello sviluppo occorre raggiungere lo stato stazionario nel consumo delle risorse ambientali, ovvero, per quanto riguarda le rinnovabili, che hanno un tasso di rigenerazione, sfruttarle con una velocità di sfruttamento uguale o minore di tale tasso: tagliare meno alberi di quanti ne ricrescono, pescare meno pesci di quanti ne nascono, e così via.
Ciò implica (e in proposito raccomando Collasso di Jared Diamond) l’adattamento dei ritmi di produzione ai tempi richiesti dalla natura per il rinnovo delle risorse (nel caso delle risorse rinnovabili) oppure la sperimentazione di tecnologie che possano sostituire le risorse non rinnovabili con risorse rinnovabili. Questo significa che, raggiunto l’equilibrio tra ritmi di produzione e tempi naturali, si deve avere “crescita zero”.
Alla luce di queste considerazioni, appare evidente che l’espressione “sviluppo sostenibile” è un non-senso, se non si respinge l’idea che lo sviluppo si misuri in termini di crescita economica: perché si abbia sviluppo economico deve esserci crescita, perché si abbia sostenibilità deve esserci almeno lo stato stazionario ossia crescita zero o decrescita. Le due cose quindi sono inconciliabili.
Sia chiaro che con questo non intendo dire che gli sforzi compiuti da associazioni ambientaliste o istituzioni politiche siano del tutto futili; piuttosto, ci si deve rendere conto che a lungo andare il capitalismo (basato sulla crescita e l’accumulo) e la sostenibilità non possono coesistere in quanto si escludono reciprocamente. Prima o poi arriverà sempre il momento in cui l’accettazione della crescita come principio indiscutibile dovrà fare i conti con la realtà, in cui le risorse sono limitate e quelle rinnovabili si rigenerano in tempi non nulli. L’unico progetto reale di sviluppo sostenibile è quindi quello che passa per la messa in discussione del capitalismo.
Short Link:
non fa una piega…purtroppo il concetto di rifiuto del capitalismo è ancora molto lontano dalle società umane, e credo lo sarà ancora per parecchio perchè il capitalismo è funzionale alla natura umana
Alla pagina 1 di molti libri decrescitisti c’é scritto “la decrescita e’ il contrario dello sviluppo sostenibile”, per queste ragioni. E’ un distinguo che va fatto, la decrescita non e’ generico ambientalismo.
@Nello
«il capitalismo è funzionale alla natura umana»
Il capitalismo esiste da qualche secolo, e in senso stretto da poco più di due secoli. Prima del capitalismo si sono susseguite per decine di migliaia di anni decine di modi di produzione e di modeli sociali. Quindi la specie umana ha trascorso la maggior parte della propria esistenza contro la sua natura?
@Stefano
Mi fa piacere vedere che siamo d’accordo, ma visto che è così, non credi che i decrescitisti dovrebbero essere un po’ più espliciti nel linguaggio e dire una volta per tutte che non è la generica “crescita” che mettono in discussione ma il capitalismo stesso? Perché non sempre viene detto e qualche dubbio ho il diritto di farmelo venire…
sono stato troppo sintetico lo so, comunque la sopraffazione, l’accumulo, il potere del forte sul debole, sono connaturati e il capitalismo è fuso con tali elementi di cui prende parti essenziali per il proprio funzionamento; il superamento del capitalismo dovrebbe abolire tali caratteristiche, infatti i regimi anticapitalisti hanno fallito perchè sono andati a contrastare ciò che è naturale, così come dovrebbe fallire un’ideologia che predica di non trombare, ma questo è tutto un altro discorso nel quale esntrano in gioco fattori psicologici in maniera ancor più pesante che per l’assetto socioeconomico
Penso che questo discorso sia già stato affrontato in questa discussione. Non esiste una “natura umana” che prescinde dalle condizioni sociali. Ma temo che tornare di nuovo sulla questione possa distogliere l’attenzione dal contenuto di questo articolo, insomma andremmo off-topic.
Bella riflessione, troppi si lavano la coscienza parlando di sviluppo sostenibile invece di andare al nocciolo della questione: il capitalismo.
Buoni spunti per ragionare ragioni non dette della crisi globale. noi stiamo producendo un documentario (pronto per la primavera 2013) sul tema. E’il nostro modo di contribuire alla diffusione del messaggio di allarme lanciato 40 anni dagli autori di I limiti dello sviluppo).
Guardare in faccia ai limiti è complesso e spaventa l’uomo da sempre e vorremmo MOLTIPLICARE L’ATTENZIONE GLOBALE SUI LIMITI DELLA CRESCITA. Per maggiori dettagli http://www.lastcallthefilm.org. a ottobre avremo materiale girato da condividere. bene accetti commentii, suggerimenti, riflessioni e un grazie sin se ci seguirete via newsletter o Fb.
il team di ULTIMA CHIAMATA le ragioni non dette della crisi globale @lastcallthefilm