Capitale umano

Qualche tempo fa chiedevo: «Anche voi a pelle provate una sorta di odio primordiale per e non riuscite a fidarvi di chi utilizza l’espressione capitale umano?». E la pronta risposta che ricevevo era: «Si può forse provare altro verso chi riduce lo spirito umano ad elemento di produzione?»

Per restare in tema, il 18 febbraio l’Istat ha pubblicato un lavoro dal titolo Il valore monetario dello stock di capitale umano in Italia – anni 1998-2008 (scaricabile qui), risultato delle attività di ricerca sul tema della misurazione del capitale umano. «La specificità del lavoro» si legge nella presentazione del rapporto «è di combinare la stima del capitale umano impiegato in attività market (quelle vendute sul mercato) con quella in attività non market (ovvero la produzione di beni e servizi fruiti e ceduti gratuitamente) riferibili alla produzione domestica e al tempo libero».

Un approccio del genere (che è intrinseco al sistema capitalistico, in cui tutto è ridotto a valore di scambio) è implicitamente portatore di discriminazione e pone le basi per i razzismi, i sessismi e le altre forme di esclusione, razzializzazione e marginalizzazione. Perché?

Perché «una società che misura tutto attraverso il valore tende inevitabilmente a gerarchizzare le persone in base al valore» (come scrive Mario Grasso in Razzismi, discriminazioni e confinamenti).

E così, l’ANSA può titolare che «le donne valgono la metà degli uomini» perché è vero che dal punto di vista della produzione di reddito e del valore di mercato, questo è il valore mediamente attribuito loro. E lo stesso si potrà fare in base all’età. O in base alla provenienza. O in base alla religione. Insomma, è proprio vero: Il razzismo è funzionale allo sfruttamento.