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  • Come la stampa italiana parla di Deniz Resit Pinaroglu

    Che io sappia, nessun quotidiano italiano sta riportando la lettera di Deniz Pinaroglu, giornalista turco arrestato a Piacenza e rinchiuso nel CPR di Torino perché senza documenti, dopo aver fatto richiesta di asilo politico, e attualmente in sciopero della fame per denunciare le condizioni di una detenzione ingiusta.

    Molti giornali, specie nell’area liberale e progressista, stanno riportando la notizia con indignazione per il fatto che, come spiegato dal suo legale Federico Milano e riportato in una comunicazione della responsabile del comune di Torino Monica Gallo, garante dei diritti delle persone recluse, Deniz è un rifugiato politico (in Turchia, essendo attivista di sinistra, rischia di essere arrestato per motivi politici) e «non ha fatto niente». Dopo aver sottolineato nei titoli a caratteri cubitali che il giornalista non ha fatto niente facendo passare l’idea che la detenzione in un CPR sia solitamente riservata a persone che invece hanno fatto qualcosa in particolare, negli articoli in questione il passato e il presente di Deniz vengono raccontati brevemente, tralasciandone l’importante attività di documentazione che ha svolto negli ultimi anni alle frontiere europee e soprattutto nel presente, in questi giorni di detenzione a Torino, proprio a proposito delle condizioni inaccettabili all’interno del CPR e del meccanismo giuridico-amministrativo infernale del sistema della cosiddetta accoglienza. La Repubblica riporta a fine articolo le parole di Alda Re, dell’associazione Lasciateci entrare: «vuole essere trattato come rifugiato politico. Invece si ritrova in un inferno in terra». Non si aggiunge niente, nessun elemento che potrebbe stimolare la riflessione sul contesto degli eventi narrati. Forse che tutte le altre persone rinchiuse ingiustamente nel centro per l’unico motivo di non avere documenti in regola non vivono lo stesso inferno in terra? Forse che tutti gli altri e le altre non sono come Deniz rinchiuse “senza aver fatto niente”? Forse che l’«ingarbuglio giuridico» di cui parla La Stampa, in cui sarebbe intrappolato Deniz, è diverso dalla corsa a ostacoli dell’odissea amministrativa vissuta dagli stranieri indesiderati dalle politiche europee?

    Se i giornalisti che scrivono questi articoli avessero un minimo di etica professionale e di reale spessore morale, se provassero un qualche moto di solidarietà per un collega ingiustamente imprigionato insieme a decine di migliaia di altre persone che non hanno fatto nulla, se fossero veramente scandalizzati per le sue condizioni, se avessero davvero a cuore la sua causa e l’importanza del suo lavoro, pubblicherebbero la sua lettera e la diffonderebbero per aiutarlo a documentare questa situazione di cui le istituzioni sono responsabili, nel silenzio della stampa di sistema. Invece no: la lettera è del tutto ignorata, al giornalista imprigionato non viene data alcuna voce, e diventa soltanto il simbolo di quanto sia cattivo il regime di Erdogan.

    La lettera invece descrive piuttosto chiaramente la vita quotidiana all’interno di un CPR: parla di pressioni psicologiche, di ricatti, di ingiustizie e condizioni terribili e disumane, di atti di violenza e intimidazione, maltrattamenti sistematici, problemi di salute, attacchi di panico. Forse se questa lettera non è stata pubblicata è perché mette chiaramente in luce che la situazione assurda in cui si trova Deniz e le condizioni inaccettabili in cui sta vivendo non sono un caso isolato, ma la normalità del sistema di accoglienza e di detenzione europeo, che non ha colore politico distinguibile all’interno dello spettro delle posizioni attualmente rappresentate istituzionalmente, in una società sempre più xenofoba che accetta con sempre meno problemi una qualsiasi violazione dei diritti fondamentali. L’esilio di Deniz diventa sui giornali italiani simbolo di quanto sia cattivo il regime di Erdogan; su quanto sia cattivo anche il regime dell’altro lato del Bosforo e dei Dardanelli, sui giornali italiani non è ovviamente fatto cenno, ma di questo diventa simbolo il disinteresse l’indifferenza per le parole di Deniz mostrati da tali atteggiamenti.

    La lettera di Deniz Resit Pinaroglu (grazie a Blackpost per la traduzione in italiano)

    Alla stampa e alla pubblica opinione,

    Sono Deniz Resit Pinaroglu, un richiedente asilo dalla Turchia. Sono detenuto da un mese in un campo chiamato CPR a Torino. Sono stato soggetto di una serie di abusi e di pratiche contro la legge. Un poliziotto di Piacenza mi ha fermato e portato qui, in questo campo, ormai due mesi fa. Mi disse che sarei dovuto stare qui solo per 2 giorni. Senza fornirmi un avvocato ed avermi messo a disposizione un traduttore, mi hanno fatto firmare dei documenti in italiano, e mi hanno portato al CPR.

    Nella mia prima apparizione davanti a un giudice, è stata decisa la mia permanenza nel campo, senza neanche dare un’occhiata al mio caso.

    Ero in cerca di asilo, ma non in Italia. Una volta fermato mi dissero che nel caso in cui non avessi fatto la richiesta di asilo, sarei stato rimpatriato in Turchia, dove sono stato accusato di alcuni crimini, che qui non sono considerati tali. Mi hanno costretto dunque a firmare una richiesta di asilo. Sebbene io abbia comunicato anche il mio indirizzo di residenza, in seguito alla richiesta di asilo, il giudice ha deciso di continuare a tenermi recluso nel campo. I poliziotti e gli altri rifugiati, che sono attualmente prigionieri, mi dicono che il mio periodo di detenzione potrebbe andare da i 6 ai 12 mesi, e nessuno mi ha ancora comunicato quando potrò lasciare il campo. Ho dovuto lasciare il mio paese date le ingiustizie compiute dal mio governo, e per le assurde accuse mosse contro di me. Ora sono detenuto senza alcun titolo dalle autorità italiane. Per protestare contro questa situazione illegale, ho iniziato uno sciopero della fame dal 1 settembre alle ore 21:00. Le condizioni e il cibo qui sono terribili: il bagno, il luogo dove mangiamo e dormiamo, sono un unico ambiente non distinto. Per impedirci di documentare queste condizioni disumane, hanno rotto le fotocamere esterne dei nostri telefoni non appena siamo arrivati. Per un mese ci hanno fatto mangiare pollo secco e pasta fredda. Molte persone soffrono di attacchi di panico e si fanno male tra di loro, o a loro stessi. Le persone sono sottoposte sistematicamente a pressioni psicologiche. Coloro che arrivano sani, lasciano il campo con problemi di salute e mentali.

    La richiesta da parte mia, e dalle persone qui, è che chiunque sia in contatto con le istituzioni o con organizzazioni, e si trovi di fronte a questo testo, possa informarle al più presto, invece di rimanere in silenzio ed essere complice in questo crimine contro l’umanità, aiutateci.

    Dichiaro di essere in sciopero della fame, fino a quando qualcuno sentirà la mia voce, e sarò libero.

    Coloro che hanno deciso di detenermi qui sono responsabili di tutti i problemi di salute che avrò in seguito allo sciopero.

    deniz pinaroglu

    Qui qualche informazione in più sulla storia di Deniz, per chi vuole farsi un’idea del contesto della sua attività di giornalista e attivista.

  • Ripulirsi la coscienza con l’accoglienza

    «Chi non vuol parlare di capitalismo, dovrebbe tacere anche sul fascismo»
    Max Horkheimer

    Le lacrime non basterebbero per piangere o ridere di fronte all’ipocrisia con cui i governi europei stanno affrontando la crisi umanitaria sul confine orientale della Fortezza Europa. Dopo il greenwashing e il pinkwashing, oggi secondo la moda del momento all’ordine del giorno nell’opinione pubblica stiamo assistendo adlla comparsa di un’altra forma di lavaggio della coscienza (e del cervello): quello della millantata solidarietà per i profughi, che rende chiunque la decanti e la condivida innocente e nobile d’animo e di cuore. Basta dire che quelle vite hanno un valore per essere circondati di un’aura da benefattore, a prescindere dalle ricadute che poi le strategie di contenimento, respingimento ed espulsione realmente hanno sulle vite dei migranti.

    Così, Renzi, dai microfoni dell’Expo, evento sostenuto dalle peggiori multinazionali del pianeta che cementificano, desertificano, inquinano, sfruttano e devastano risorse e popolazioni in ogni angolo del mondo, ai suoi fan (come altro chiamarli?) può dire che «questa è l’Italia vera solida e solidale», può schierarsi contro la costruzione di muri come quello ungherese voluto da Orban al confine con la Serbia e definire «bestie, non umani» quelli che sono contro l’accoglienza dei profughi, poco dopo aver stretto la mano a Netanyahu, che intende estendere le recinzioni anti-immigrazione su tutto il confine tra Israele e la Giordania, apparentemente senza in questo vedere nessuna contraddizione. Del resto, anche Netanyahu dichiara che «Israele non è indifferente alla tragedia umana dei rifugiati siriani e africani».

    Così l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, già qualche mese fa dopo l’ennesima tragedia di un naufragio nel Mar Mediterraneo, annunciava che «per l’Europa è impe­ra­tivo sal­vare tutti insieme delle vite umane, così come tutti insieme dob­biamo pro­teg­gere i nostri con­fini e com­bat­tere il traf­fico di esseri umani», sorvolando sul fatto che gli scafisti e il traffico di esseri umani esistono proprio perché “noi” proteggiamo i “nostri” confini, apparentemente senza in questo vedere contraddizioni. Chiudere le frontiere, qualunque sia il modo in cui lo si fa, significa favorire il traffico di esseri umani; far finta di non capire questo è essere complici.

    Per non parlare di come si ripuliscono la coscienza la Germania e l’Austria, che improvvisamente diventano “buone” anche agli occhi degli attivisti per i diritti dei migranti in quanto hanno aperto le frontiere per fronteggiare l’ondata di rifugiati giunta dai vicini Balcani, dopo ripetuti episodi di violenza e repressione. Come se Austria e Germania non avessero sistemi di “identificazione ed espulsione” tanto lesivi dei diritti dei migranti quanto lo è la violenza delle forze di confine. E infatti ci sarebbe da chiedere una cosa: un mese o un anno fa migranti non ce n’erano? Le frontiere si aprono, momentaneamente, solo quando ci sono migliaia di persone intrappolate nella stazione di Budapest, con gli occhi del mondo puntati, giusto per fare bella figura rispetto all’Ungheria xenofoba che ha eretto il muro?

    Ma, a proposito di muri, vogliamo parlare di quegli occidentali che nel 1989 esultarono per la caduta del muro di Berlino, in nome della libertà di circolazione, ma oggi sono a favore dei muri attuali? E se non a favore, perlomeno non contrari, e se contrari perlomeno molto timidamente. Forse perché all’epoca la libertà di circolazione era limitata in nome del “comunismo” sovietico mentre oggi lo è dalle frontiere fantoccio del mondo neoliberista? Frontiere, tra l’altro, difese formalmente da organi e istituzioni di fatto esautorati dei propri poteri politici, e  le cui decisioni non sono che ratifiche di decisioni prese altrove: nelle stanze segrete in cui viene stipulato il TTIP, nelle sedi della finanza mondiale, nelle banche  in congressi di figure del tutto estranee al controllo democratico. I confini, di fatto, non esistono più per la finanza e il mercato; continuano ad esistere, invece, per gli esseri umani, in quanto portatori di una particolare merce, la forza-lavoro, la quale, se segregata e resa ricattabile, diventa più facilmente assoggettabile a crescenti forme di sfruttamento.

    Ecco perché chi non vuol parlare di abolizione delle frontiere come strumento di sfruttamento e di limitazione della libertà di circolazione, dovrebbe tacere anche sull’accoglienza.

  • Decostruire la “razionalità” del razzismo

    La Conversazione tra un razzista e un non so (qui) che Grillo ha pubblicato e diffuso il 19 giugno, è un concentrato di luoghi comuni e pregiudizi che intenderebbe mostrare la razionalità del discorso razzista e l’irrazionalità di chi, invece, al razzismo in tutte le sue forme si oppone (figura a cui Grillo attribuisce l’epiteto di “non so”, a riprova della sua convinzione che chi si oppone al razzismo non abbia le idee chiare, sia confuso e indeciso, addirittura ignavo e incapace di prendere posizione, nonché poco razionale). Tale conversazione fornisce una serie di argomentazioni tipicamente attribuite all’una o all’altra parte, con l’obiettivo di sostenere, con autoironia da parte di Grillo, la parte del razzista. Lo scopo dell’analisi di tali argomentazioni, condotta qui di seguito, è mostrare che non si tratta affatto di autoironia.

    Razzista: Io sono un razzista
    Non so: Io invece non so, anzi no.

    Come già accennato, è chiara la netta distinzione tra il primo personaggio, sicuro delle proprie posizioni (quelle che i “buonisti” certamente pagati dal PD, corrotti e collusi con il sistema, definirebbero “razziste”) e il secondo, che fin da subito appare come la parte debole della conversazione, incapace di addurre argomentazioni forti e convincenti, suggerendo di non essere lui stesso debole e poco convinto delle ragioni che fornisce.

    Razzista: Chi entra nel mio Paese deve essere identificato

    Perché? Il motivo non viene enunciato né suggerito. Anzi, né ora né nel seguito della conversazione verrà mai spiegato per quale motivo chiunque entri in un paese debba essere sottoposto a identificazione. Si sappia che la motivazione legalitaria autoassolutoria “perché così vuole la legge” non è sufficiente, perché dimentica che la legge è un prodotto sociale e non un principio assoluto, e si sappia che in certi paesi tali richieste sono considerate vessazioni se non violazioni dei diritti civili. In ogni caso, il motivo non è spiegato, perché il “non so”, invece di chiedere delucidazioni in merito, decide ingenuamente (perché così è appositamente costruito il personaggio) di cambiare discorso e di etichettare l’interlocutore subito come razzista.

    Non so: Perché sei un razzista. Io accoglierei tutti. Sono tutti esseri umani
    Razzista: E chi paga 1050 euro al mese cadauno? Mia madre prende la metà, la pensione minima, dopo aver lavorato e pagato tasse dirette e indirette per 30 anni.
    Non so: Ne fai una questione di soldi, ma quanto abbiamo rubato noi a questi popoli? Li abbiamo depredati delle loro risorse come potenze coloniali e ancora oggi. Non si possono mischiare diritti umani e denaro. A chi ti chiede aiuto devi tendere la mano.

    Pur senza opportune verifiche e ulteriori analisi che comunque altrove andrebbero condotte, accettiamo per buona la cifra riportata. Il motivo per cui si spende denaro per ciascun migrante è intrinsecamente legata a come è gestito il fenomeno dell’immigrazione: i centri di identificazione ed espulsione, gli apparati repressivi, lo smistamento e il trasporto coatto di migranti da un centro all’altro, la gestione militare dei fenomeni migratori, il sistema carcerario e l’amministrazione di una giustizia discriminatoria costano. Se queste cose non esistessero, non esisterebbero i costi aggiuntivi di cui la collettività si sobbarca per l’accoglienza di ciascun migrante (aggiuntivi rispetto a quelli che sono naturalmente dovuti, per costituzione e per banale applicazione delle convenzioni internazionali sui diritti umani, nei confronti di qualunque persona). Ma il “non so” non spiega che se l’immigrazione costa è proprio perché è gestita di proposito come un affare da cui trarre il massimo del profitto economico (che non si ferma a questi meccanismi, ma continua nelle condizioni di sfruttamento estremo in cui i migranti, essendo ricattabili, sono costretti a lavorare una volta arrivati). Invece, il “non so” prende per buono il fatto che l’immigrazione sia un costo, e parla, non a torto, delle responsabilità coloniali che “noi” (vedi qui sull’uso del noi in questi casi) abbiamo nei confronti dei popoli depredati. Questo discorso è sviluppato in una catena di frasi fatte (“non si possono mischiare diritti umani e denaro”; “a chi ti chiede aiuto devi tendere la mano”) che si risolve in un ingenuo richiamarsi a principi di carità cristiana (quella carità cristiana in nome dei quali quegli stessi popoli sono stati soggiogati, ma lasciamo perdere: dopo tutto lui è un “non so”, non ci si devono certo aspettare analisi acute e puntuali).

    Razzista: L’Africa ha 1,1 miliardi di persone, in Italia non ci starebbero neppure se messe in piedi una contro l’altra. L’Italia è già oggi una delle Nazioni con la più alta densità di popolazione del mondo. Chi dovrebbe decidere chi può rimanere visto che non possiamo accogliere tutti?

    L’Africa (ma perché proprio l’Africa?) ha 1,1 miliardi di persone. Ovviamente non potrebbero mai stare tutte in Italia. Ma chi ha mai detto che 1,1 miliardi di persone dovrebbero stare tutte in Italia? Quest’affermazione, neanche pienamente sottintesa: 1) agita lo spauracchio di un’invasione che non c’è (qui qualche dato), uno spauracchio che può far paura solo ad un elettorato xenofobo, consapevolmente o meno; 2) ingigantisce le proporzioni dei flussi migratori, che interessano esigue percentuali delle popolazioni di origine dei migranti: immaginare che tutti gli africani si stiano attualmente muovendo verso l’Italia o che siano intenzionati a farlo è pura falsità; 3) insinua che essere a favore dell’accoglienza significhi essere a favore dello spostamento di 1,1 miliardi di africani in Italia, cioè di una cosa che non succederà mai, a prescindere dalle scelte politiche nella gestione dei flussi migratori, per il semplice motivo che non è così che funzionano i flussi migratori.

    Non so: Basta identificare i profughi che hanno diritto di asilo dai clandestini che sono molti di più.

    Questa frase del “non so” è un capolavoro, sia per la natura del personaggio che la pronuncia sia per i contenuti. Infatti, non soltanto il “non so”, cioè colui che dovrebbe almeno provare a opporsi razionalmente e lucidamente alle argomentazioni dell’altro, accetta senza battere ciglio l’improbabile teoria dell’interlocutore secondo cui in assenza di controllo dei flussi 1,1 miliardi di africani si riverserebbero in Italia (non in Europa, proprio in Italia), ma anche spiega che c’è un modo per evitare questo: identificare i profughi, consentendo loro l’ingresso in Italia in virtù del rispetto del diritto d’asilo, distinguendoli dai clandestini, che resterebbero fuori. Poco importa il fatto che, per definizione, profugo è «colui che è costretto ad abbandonare la sua terra, il suo paese, la sua patria in seguito a eventi bellici, a persecuzioni politiche o razziali, oppure a cataclismi» (cito il dizionario) e clandestino è chi, «straniero, per varie ragioni non sono in regola, in tutto o in parte, con le norme nazionali sui permessi di soggiorno» e che dunque una netta distinzione tra le due condizioni può non essere possibile, perché niente esclude che le due figure si sovrappongano nella stessa persona.

    Razzista: In Italia per il riconoscimento ci vuole più di un anno contro il limite di un mese posto come regola a livello internazionale, nel frattempo il clandestino rimane in assoluta libertà senza identità. Si preoccupano dell’Isis quando potremmo avere decine di affiliati all’Isis al giorno in più dovuti agli sbarchi di cui nessuno sa nulla. Nessuno controlla.

    Ammiccamenti continui alla retorica e ai contenuti razzisti qui sono evidenti. Secondo il razzista, “il clandestino rimane in assoluta libertà senza identità”, ma davvero si può parlare di libertà, per di più assoluta, in una condizione di estrema ricattabilità, visto che mancano i documenti e dunque si rischia in ogni momento l’espulsione? Il razzista poi passa alle insinuazioni, formulate su basi nulle ma anche qui avallando teorie del tutto campate per aria, che tra i migranti che sbarcano disperati dopo una traversata in cui rischiano la vita si annidino pericolosi membri del terrorismo internazionale targato ISIS. Perché si sa, i terroristi sono degli sprovveduti che per arrivare in Europa son costretti a salire clandestinamente sui barconi. Poco importa il fatto che gli attentati terroristici verificatisi in Europa sono sempre (non saprei trovare neanche un’eccezione) stati organizzati e messi in atto non da stranieri, ma da persone di nazionalità europee. Agitare ancora questo spauracchio significa associare arbitrariamente l’immagine del migrante a quella del terrorista. Il passaggio tra questa frase e la precedente indica una cosa: che per il razzista è del tutto inutile la distinzione tra profugo e clandestino, perché anche volendo accogliere solo i profughi, ci saranno sempre clandestini tra i piedi, visto che l’identificazione richiede più di un anno.

    Non so: E allora cosa dovremmo fare? Lasciarli morire in mare? Sei disumano.
    Razzista: Bisogna avere una vera organizzazione di accoglienza, non lasciarli prostituire, in particolare i minorenni come succede alla stazione Termini, o consegnarli alle mafie che li usano come schiavi o lasciarli senza strutture igieniche a bivaccare nei parchi e nelle stazioni. O appollaiati sugli scogli come quelli davanti a noi?

    Degno di nota è qui il fatto che il razzista non risponde alla domanda del “non so”: dovremmo lasciarli morire in mare? Ma poi chi, tutti i migranti o solo i clandestini? Non è chiaro. In ogni caso, il razzista che intende identificare ed espellere i clandestini accettando, forse, i profughi, parla della necessità di costruire una vera organizzazione di accoglienza (non si capisce bene a chi dovrebbe essere destinata) per evitare che questi stranieri fastidiosi bivacchino nei parchi, giacché arrecano danno al decoro urbano e a volte si spingono a livelli di disturbo tali da permettersi (addirittura!) di appollaiarsi sugli scogli perché schiacciati da forze dell’ordine italiane da un lato e francesi dall’altra, dal momento che ogni Stato li respinge.

    Non so: Per accogliere in modo degno queste persone dobbiamo avere strutture che funzionano e dare loro la possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro. E’ elementare.
    Razzista: Le strutture sono nelle mani delle mafie e dei partiti come è avvenuto a Roma con Mafia Capitale e per inserirli nel mondo del lavoro ci vogliono due requisiti: una professionalità e la conoscenza della lingua italiane. A me sembra che di solito chi entra in Italia non possieda nessuno di questi due requisiti. E soprattutto in Italia il lavoro non c’è, le giovani generazioni di italiani dopo il diploma o la laurea emigrano all’estero.

    Finalmente il razzista si è accorto, cosa che invece aveva mancato di fare all’inizio della conversazione, che se si pagano “1050 euro al mese” per ogni migrante la causa è da ricercarsi nelle strutture mafiose che gestiscono il fenomeno dell’immigrazione. Non contento di aver svelato l’origine dei costi dell’immigrazione, si lancia a capofitto in una serie di considerazioni sull’inserimento dei migranti nel mondo del lavoro, affermando che i migranti che entrano in Italia di solito non posseggono una professionalità. Ovvero? Ma poi, stiamo parlando dei migranti in generale, dei cosiddetti clandestini o dei profughi? Perché, per esempio, se stiamo parlando dei profughi, davvero si vuole subordinare l’accoglienza ad una non meglio precisata “professionalità”? O, ancora più insensatamente, alla conoscenza della lingua italiana? “Mi dispiace, lei è un profugo siriano, ha rischiato la vita per venire fin qui, sta scappando da una guerra civile con centinaia di migliaia di vittime e che ha smembrato città e famiglie, ma non parla l’italiano e quindi prego da questa parte, la riaccompagno alla frontiera e non faccia troppe storie”. Per non parlare dell’ormai ridicola idea che la presenza dei migranti diminuisca le opportunità di lavoro per gli italiani (perché sì, in un mondo razzista esistono lavori “per gli italiani”).

    Non so: Oltre a razzista sei anche nazionalista. Perché uno dovrebbe essere costretto a parlare la nostra lingua? Forse tu parli lo swahili?
    Razzista: E’ un discorso di integrazione. Se non comunicano non possono relazionarsi. Si creano delle isole sociali, dei ghetti. Per chi entra in Italia senza conoscere l’italiano e vuole ottenere la residenza deve essere obbligatorio l’insegnamento della nostra lingua con un esame finale.

    Le isole sociali, i ghetti e l’emarginazione non hanno nulla a che vedere con la padronanza della lingua italiana, ma a questo punto spiegare questo sarebbe un buco nell’acqua. Il razzista invoca la necessità di un esame di lingua italiana per chi vuole ottenere la residenza. Ma cosa c’entra la residenza non è dato sapere, dato che una minuscola parte dei migranti che giungono in Italia sono intenzionati a restarci.

    Razzista: Vorrei aggiungere che prima di entrare in Italia, e non dopo, per ognuna di queste persone dovrebbe essere prevista una visita medica accurata per verificare se sono portatori di malattie e, in questo caso, curarli, sia per loro che per evitare che malattie scomparse da decenni ricompaiano, come la scabbia, la malaria o la tbc.

    Ormai il razzista ci ha preso gusto e non gli basta più lo spauracchio del terrorismo internazionale e dell’invasione di africani: soffiando sul fuoco della propaganda razzista, comincia con la paranoia delle malattie che verrebbero portate nella civile e cristiana Europa da rozzi barbari infetti. I cui rispettivi paesi d’origine, magari, non sono ancora riusciti a debellare certe malattie perché le case farmaceutiche dei “paesi civilizzati” in questo non trovano sufficiente interesse economico o possibilità di profitto, ma ciò non riguarda i migranti che riescono ad arrivare vivi in Italia, dal momento che le malattie veramente gravi uccidono chi è ammalato ben prima che questi metta piede sul suolo italiano e che tutti i casi di allarmismo sono stati poi sistematicamente smentiti dai fatti (dalla fantomatica emergenza tubercolosi al caso di vaiolo e all’ebola): come spiegato brevemente qui, «che gli immigrati portino malattie a rischio per l’Italia è una realtà infondata. In realtà molte malattie riemergono dal passato e sono globali». E, soprattutto, «viaggiano in aereo» e non sui barconi. E c’è anche da aggiungere che questa paranoia sarebbe molto più sensata rispetto alla circolazione delle merci, che possono veicolare topi, insetti o altri animali portatori di malattie esotiche, ma è risaputo che la circolazione delle merci non si tocca, in nome delle intoccabili sacre leggi di mercato.

    Non so: – allontanandosi gesticolando – Razzista. fascista, nazista, negriero, egoista, bastardo, figlio di puttana, pezzo di m…a
    Razzista: Ma cosa ho detto di così irragionevole?

    E così, con le imprecazioni a casaccio del “non so” sotto lo sguardo divertito del razzista, si conclude la conversazione. Il razzista, con sorriso beffardo, sa di aver vinto la partita e si chiede cosa possa mai aver detto di tanto irragionevole da suscitare una tale reazione da parte dell’interlocutore che fino a quel momento si era mostrato tranquillo (ma anche un po’ scemo, detto tra noi). I ruoli dunque si riconfermano: la reazione finale del “non so” lo contraddistingue come irrazionale, mentre il razzista è dotato di capacità argomentative che lo fanno campione di razionalità.

    A dire la verità, Grillo parla non di razionalità o irrazionalità, ma di ragionevolezza e irragionevolezza: il primo binomio pertiene alla logica, il secondo al buon senso (o al senso comune, che spesso razionale non è affatto). Razionale è chi, conforme alla ragione, conduce un discorso o attua un comportamento secondo un rigore logico; ragionevole è che si lascia guidare dalla ragione ed è pertanto equilibrato, coscienzioso, discreto, equo. Il razzista della conversazione si chiede, perplesso, cosa abbia detto di tanto irragionevole. Dunque ha la pretesa che le sue argomentazioni siano considerate non tanto razionali, quanto ragionevoli. Ovvero equilibrate, discrete, giudiziose ed equidistanti. A Ventimiglia equidistante dalle forze di polizia che schiacciano i profughi in una morsa di disperazione e chi vuole semplicemente attraversare il confine tra un paese e l’altro; nei centri di detenzione equidistante dai carcerieri e i carcerati; nel dibattito pubblico equidistante tra chi dice che i migranti sono da annegare tutti e chi dice che sono persone da salvare. Insomma, di fronte a maltrattamenti, violazioni, sfruttamento e discriminazione, il ragionevole razzista della conversazione ci dice che si deve essere equilibrati e discreti, non alzare la voce, non indignarsi, non odiare con tutto il cuore istituzioni, persone e atti che seminano odio, segregano e discriminano, si ergono a difesa dei confini lasciando morire migliaia di persone. Se qualcuno pensa di poter argomentare in buona fede che Grillo non è un cazzo di razzista di merda dopo questa volta è veramente solo un coglione.

  • Al contrario – [2] Divise

    Con molto ritardo rispetto alla prima parte, ecco la seconda puntata.


    Annarosa, detta Anna, era appena scesa a terra. Finalmente. Aveva perso il conto delle volte in cui aveva vomitato durante la traversata. O meglio, le traversate. Perché Anna era partita dalla Sardegna. Da Casteddu, che gli occupanti chiamavano Cagliari, città dalle piazze sventrate dagli attentati, in nave verso Palermo. Il permesso era stato difficile ottenerlo: su una nave turistica, la presenza dei sardi era malvista. Era riuscita ad ottenere la possibilità di viaggiare su quella nave solo corrompendo un responsabile delle cucine, e visto che i soldi non bastavano perché intendeva conservarne una parte per la traversata successiva non aveva trovato altro modo se non cedere alle richieste sessuali del responsabile. Non un rapporto completo, solo orale. «Ma non farti vedere in giro», le aveva raccomandato, «sta’ ferma qui e non rompere i coglioni» aveva poi intimato chiudendo la porta metallica di quel ripostiglio umido e puzzolente. Aveva provato nausea e disgusto, ma non vedeva altra via. Giunta a Palermo, aveva incontrato alcuni membri della comunità sarda in Sicilia, che le erano stati raccomandati da alcuni amici prima della partenza. Era stata aiutata fino a Porto Empedocle, dove aveva speso i soldi rimanenti per potersi imbarcare nottetempo con gli altri trecentocinquanta.

    Ora, con gli stessi trecentocinquanta, Anna stava sbarcando ed erano tutti vivi per miracolo: aveva visto diverse persone svenire nel corso del viaggio per insolazione e disidratazione. Un ragazzo norvegese era rimasto in stato di incoscienza per più di un’ora prima di riprendersi. Un suo compagno di viaggio, partito con lui e altri due, era stato esposto per troppo tempo al sole e ora riportava gravi segni di ustione in diversi punti del corpo.

    Christen aveva cercato più volte di immaginare come sarebbe stato quel momento, l’arrivo. Lo aveva pensato come una meritata pausa dall’ingiustizia eterna di chi subisce non solo una guerra civile e un intervento di guerra umanitaria, ma anche la mancanza della libertà di allontanarsene il più lontano possibile. Nelle poche ore di sonno lo aveva sognato, nei pochi attimi in cui poteva concedersi una pausa dalla paura della realtà circostante se lo era figurato, ne aveva fatto una meta almeno provvisoria della sua esistenza, uno spiraglio di salvezza. Ora si rendeva conto che quel momento non era ancora giunto. Lo sbarco non era come lo aveva immaginato, approdo gioioso e liberatorio ad un mondo sicuro. Era piuttosto un salto nelle fauci di un mondo ostile. Sul molo lo attendevano parecchi uomini in divisa, armati. No, questo non era un arrivo, non era la fine del suo viaggio della speranza: era la continuazione della mancanza di libertà. Li facevano scendere a terra e li smistavano secondo criteri che da solo non sarebbe mai stato capace di comprendere, perché non conosceva affatto l’arabo parlato dagli uomini in divisa né l’italiano parlato da chi aveva condiviso con lui la navigazione. Invece, qualcun altro tra gli ospiti provvisori di quell’imbarcazione conosceva sia l’arabo che l’italiano e sapevano tutti che li stavano smistando secondo la provenienza. Per motivi pratici, distinguere secondo la provenienza era comodo: le statistiche dicevano che, per esempio, i norvegesi erano quasi tutti profughi. Gli italiani teste calde. I sardi poveracci, ma vigevano controlli particolari per questioni di terrorismo internazionale. I francesi quasi tutti migranti economici, tranne i baschi che si dichiaravano rifugiati politici. E quindi, norvegesi da una parte, baschi e sardi dall’altra; francesi e italiani da questo lato, tenendo d’occhio gli italiani. E così via. Statisticamente, la provenienza tendeva ad essere legata alla condizione giuridica che i migranti si sarebbero visti riconosciuta.

    La guerra civile in Norvegia era cominciata con il bombardamento di Sandnes da parte dell’esercito inviato dal governo, in risposta ad una serie di attentati terroristici organizzati dal Christelig Folke che in quella cittadina, secondo i servizi segreti, aveva il suo quartier generale ad una distanza pericolosamente vicina a Stavanger, seconda città della Norvegia nonché di gran lunga il suo più importante centro per l’industria petrolifera. Il Christelig Folke era un’organizzazione terroristica di stampo militare che rifiutava ogni tipo di integrazione culturale; contraria alla presenza di minoranze etniche e religiose sul territorio norvegese, prendeva di mira in particolar modo le popolazioni sami e kven e le comunità cristiane non ortodosse, piuttosto numerose; gli attentati erano rivolti contro chiese, sedi di partiti, uffici del governo e ambasciate straniere; i suoi aderenti usavano il Høgnorsk, la forma purista e tradizionalista della lingua scritta, prediligendolo al Bokmål, considerato una corruzione del norvegese originario. Sebbene fosse clandestino e considerato organizzazione terroristica dalla comunità internazionale, in alcune zone il Christelig Folke godeva della simpatia di una parte, minoritaria ma non trascurabile, della popolazione. Quando il governo aveva approvato l’ennesimo “Programma nazionale di gestione delle risorse petrolifere” in cui si agevolava ulteriormente lo sfruttamento del territorio da parte di aziende multinazionali straniere, era dilagato il malcontento popolare. La scintilla decisiva, quella che avrebbe aperto le danze e portato al bombardamento di Sandnes, fu la repressione brutale di una sommossa. Al malcontento per i contenuti del nuovo “Programma nazionale” si affiancò una protesta correlata: quella dei pescatori di Stavanger contro l’inquinamento delle acque costiere ad opera dell’industria petrolifera, dovuto alla mancanza di controlli adeguati e alla connivenza tra funzionari governativi e aziende multinazionali che aveva portato alla distruzione dell’ambiente costiero con conseguente decimazione del pescato. La protesta si fece accesa e violenta e fu repressa nel sangue. La repressione aggravò la situazione e la sommossa assunse in pochi giorni i toni di una rivolta in diverse città e in poche settimane quelli di una guerriglia organizzata in intere regioni. Molti obiettivi furono oggetto di attentati terroristici da parte di Christelig Folke. In alcune aree, tra cui Sandnes, Christelig Folke riuscì a ottenere il monopolio della protesta sfruttando la destabilizzazione degli equilibri politici e prese il controllo del territorio.
    Qualche mese dopo erano intervenuti militarmente Senegal, Guinea e Tunisia al fianco del legittimo governo norvegese, messo in ginocchio dalla violenza terrorista. Poche settimane più tardi si erano uniti all’intervento anche Mali e Niger, che avevano inviato truppe e armi.

    La chiamavano “guerra umanitaria” ma Christen aveva visto solo bombe. Che cosa le rendesse più umanitarie delle bombe del governo o di quelle dei terroristi cristiani ortodossi rimaneva per lui un mistero. C’era invece un interrogativo su cui Christen sapeva darsi una risposta: seppur non capiva la natura di quelle bombe, di certo ne comprendeva il motivo. Quasi tutti i paesi intervenuti nel conflitto norvegese erano privi di giacimenti petroliferi e dipendevano fortemente dalle risorse norvegesi, opportunamente fornite loro grazie alle politiche concilianti condotte dal governo. Quei militari stranieri difendevano l’interesse economico dei rispettivi paesi. Non erano di certo volati fino in Norvegia per difendere i diritti delle minoranze etniche e religiose, altrimenti sarebbero volati anche in Sardegna o in Catalogna, dove i diritti violati da difendere non scarseggiavano.

    Christen scappava da una guerra civile, ma non faceva parte di una minoranza in pericolo. Anna era sarda: faceva parte di una minoranza, per quanto fosse assurdo sentirsi parte di una minoranza in una terra popolata in maggioranza da sardi. In effetti, la minoranza in Sardegna era costituita dai militari italiani. Anna non scappava da una guerra civile, che vede due parti contrapporsi, bensì da una guerra coloniale, che vede una parte opprimere e l’altra subire o resistere. In Sardegna non si era mai verificato un evento bellico destabilizzante: gli equilibri erano stabilmente sbilanciati.
    Formalmente la Sardegna era una regione normale, una divisione amministrativa italiana come tutte le altre. Eppure le istituzioni locali erano sistematicamente scavalcate, nell’esercizio dei propri poteri, dal governo centrale in maniera più o meno diretta. Per esempio, nel consiglio regionale di Casteddu era rappresentata una costellazione di partiti indipendentisti, tra cui i maggioritari Sardigna Natzione e il Partidu Sardu Indipendentista, nonché altri partiti minori come Indipendentzia e il Partidu de sos Traballadores Sardos, di area più radicale. Le regole di assegnazione dei seggi alle elezioni che democraticamente si svolgevano come in ogni altra regione italiana attribuivano ai partiti indipendentisti una larghissima maggioranza. Tuttavia, gli organismi democraticamente eletti erano, nei fatti, esautorati del proprio potere decisionale: spesso, questioni di cruciale importanza venivano discusse e approvate in altre sedi in cui i rapporti di forza erano del tutto a sfavore dei sardi. Per esempio, la politica energetica sarda non era gestita, come formalmente previsto, dalle istituzioni sarde, perché la linea generale in materia era imposta da leggi nazionali italiane, discusse e approvate a Roma, dove i sardi erano scarsamente rappresentati, anche per effetto del rifiuto del collaborazionismo con le istituzioni italiane (detto “ascarismo”) da parte delle forze indipendentiste.
    La disparità era tale che allo Stato italiano, per mantenere la propria posizione di autorità e il controllo della regione, era sufficiente minacciare l’uso della forza militare, servendosene raramente. Nonostante esistessero organizzazioni paramilitari, come l’ala armata del Partidu de sos Traballadores Sardos, che oscillava tra la legalità e la clandestinità, l’isola non viveva in uno stato di guerra. Spesso, esplosioni laceravano il centro della capitale sarda, ma si trattava di attentati simbolici ai danni di sedi istituzionali più che di strumenti di conflitto militare. Più che di uno stato di guerra si trattava di uno stato di occupazione militare.

    Anna non amava gli uomini in divisa. I soprusi che quotidianamente si verificavano ai danni di persone che erano giuridicamente normali cittadini, come qualunque altro italiano, ma che avevano la sfortuna di appartenere all’etnia sarda, erano commessi dagli occupanti in divisa: insulti, maltrattamenti e discriminazioni ad opera di chi rappresentava lo Stato sovrano. Per questo motivo, Anna tollerava male la presenza di qualunque divisa: suo malgrado, la associava ad una serie di ricordi ed esperienze negative. I sardi erano discriminati ovunque, anche fuori dall’Italia. Osservando le forze schierate intorno alla barca, Anna si chiedeva se in arabo esistesse, come in italiano, una parola per riferirsi ai sardi con accezione dispregiativa e se mai si sarebbe sentita chiamare “gnomo” o con altri epiteti razzisti anche qui, dopo aver imparato almeno un po’ di arabo.
    Anche Christen non trovava rassicurante la presenza di tutte quelle divise in quello che avrebbe dovuto essere un comitato di accoglienza: di certo tutte quelle armi e quei caschi, tutte quelle divise e tutti quegli uomini organizzati come se li stessero facendo uscire da un carcere di massima sicurezza piuttosto che da una barca lasciavano intuire un’idea parecchio insolita del concetto di “accoglienza”. Comunque, Christen aveva almeno un altro buon motivo per non nutrire simpatia per gli uomini in divisa: Christen fuggiva da una guerra. Le bombe che avevano distrutto la sua città erano state sganciate da forze armate africane in un attacco a sostegno del governo norvegese, da uomini che portavano la stessa divisa indossata ora dai militari che pattugliavano il porto. Non riusciva a sentirsi al sicuro, circondato da uomini armati. Non riusciva a nutrire rispetto per chi lo aveva reso prima uno sfollato, poi un emigrato.

  • La retorica autoassolutoria sulle stragi in mare

    Di chi è la responsabilità delle innumerevoli vite umane stroncate da naufragi su barchette instabili e sovraffollate nella pericolosa traversata del Mar Mediterraneo, ormai diventato tomba di migliaia e migliaia di esseri umani?

    La Repubblica, nel suo importante ruolo di faro nell’orientamento dell’opinione pubblica nazionale, si fa carico delle necessità di esprimere il punto di vista della borghesia illuminata, ovvero tutta l’area della sinistra progressista e riformista (se ancora esiste qualcosa che così si possa definire), e alla domanda risponde senza dubbio alcuno, attraverso le parole di un Roberto Saviano secondo cui «quei morti di nessuno pesano sulle nostre coscienze», o attraverso non tanto i contenuti quanto il titolo scelto per le riflessioni di un Ilvo Diamanti, ovvero «dobbiamo avere pietà di noi». Si tratta di due esempi, ma si potrebbe continuare a lungo, citando i commenti indignati giornalisti, politici, semplici cittadini che si esprimono in rete per dire all’unisono, in un moto di indignazione, che noi dobbiamo vergognarci.

    Come per le reazioni alla recente condanna dell’Italia per i fatti della Diaz, è opportuno analizzare di quale retorica sono sintomi queste manifestazioni di indignazione e di quali valori tale retorica è veicolo nella costruzione del dibattito pubblico.

    Il leitmotiv delle reazioni di area progressista è la condivisione della colpa: «siamo tutti responsabili», «dobbiamo vergognarci», «questi morti pesano sulle nostre coscienze». Non si può notare una certa insistenza di un «noi» che, in mancanza di ulteriori specificazioni, comprende l’intera società italiana, europea o addirittura “occidentale”. Secondo questa retorica, ogni italiano deve sentirsi colpevole e responsabile per le morti che riempiono di cadaveri il Mar Mediterraneo. Un pensiero del genere non solo è non corrispondente a verità, ma è anche politicamente dannoso in quanto assume la funzione di strumento autoassolutorio: in conformità con la tradizione morale cattolica, si intende imporre un senso di colpa pervasivo che, in fondo, assolve tutti. Dal momento che, si sa, se «siamo tutti responsabili», se è colpa di tutti, non è più colpa di nessuno.

    Ma davvero questo è soltanto un prodotto della morale cattolica? La redistribuzione della colpa non ha anche una funzione politica, più o meno consapevolmente contemplata da chi si unisce al coro degli autoflagellanti? L’impressione è che i giornalisti scrivano «siamo tutti responsabili» per non dover fare i nomi dei responsabili, perché attribuendo la colpa «agli italiani» si può evitare di attribuirla a quegli italiani che responsabili sono davvero, forse per paura di inimicarsi quei lettori che hanno votato la Lega Nord perché inventasse il reato di clandestinità e la legge Bossi-Fini, o quei lettori che hanno sostenuto ciecamente forze politiche favorevoli alle espulsioni, o quei lettori (e quei partiti) che dietro le mani tese e il sorriso affabile sul volto nascondono le chiavi delle prigioni note come CIE. Invece è più facile dire che la responsabilità è di tutti, senza indagare troppo.

    La retorica autoassolutoria del «siamo tutti responsabili» funziona e bene, tanto che la usa pure Federica Mogherini, quale Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (ovvero il Ministro degli Esteri europeo) in occasione della riunione straordinaria tenutasi per discutere sulla gestione dei flussi migratori. Mogherini dice, infatti, che «la priorità è costruire un senso comune di responsabilità europea per quanto succede nel Mediterraneo». Che è un modo per dire “non è colpa mia”. Ovviamente, in quanto esponente di un partito che si erge a difesa del grande capitale, Mogherini non può certo attribuire le responsabilità a chi andrebbero attribuite. Per esempio, a quella classe dirigente americana che «è impegnata in una guerra continua nel tentativo di dominare le regioni ricche di petrolio del Medio Oriente, dell’Asia Centrale e del Nord Africa. Queste guerre hanno distrutto stati e intere comunità, con sofferenze umane indicibili, fomentato un abisso di odio e di terrore. Le classi dirigenti, i partiti politici e tutte le istituzioni ufficiali del capitalismo americano e europeo sono implicati in questo crimine storico, o perché difendono gli interessi imperialisti delle multinazionali e delle banche o per sostanziale acquiescenza» (da qui).

    Di tanto in tanto, ma ormai sempre più insistentemente, la responsabilità è attribuita agli scafisti, questi traghettatori di anime, definiti «nuovi schiavisti» «trafficanti di schiavi» secondo il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che vengono arrestati e i cui identikit finiscono in prima pagina sui maggiori quotidiani nazionali, perché è comodo trovare il capro espiatorio su cui far ricadere ogni disprezzo per ciò che avviene tra l’Africa e l’Europa. Come la precedente retorica autoassolutoria, anche questa è una strategia diversiva. Anche senza spingerci troppo lontano, è possibile rintracciare le reali cause delle stragi in mare già nella continuazione del discorso di Mogherini: «per l’Europa è impe­ra­tivo sal­vare tutti insieme delle vite umane, così come tutti insieme dob­biamo pro­teg­gere i nostri con­fini e com­bat­tere il traf­fico di esseri umani». Qualcuno dovrebbe spiegare a Mogherini (o forse lo sa già fin troppo bene) che le stragi avvengono a causa dei confini, che gli scafisti e il traffico di esseri umani non esisterebbe se “noi” non proteggessimo i “nostri” confini e che dunque non si può allo stesso tempo invocare la difesa dei confini e la necessità di prevenire le stragi. Le stragi si prevengono smettendo di “proteggere” le frontiere, abbandonando l’idea della sacralità dei confini, peraltro già sconsacrati dall’ordine neoliberista.

    In effetti, questo è chiedere troppo. Stiamo parlando di gente che scrive “noi” per riferirsi agli italiani e “nostri” per riferirsi ai confini. E quel pronome e quell’aggettivo, tanto cari ai nazionalismi, agli identitarismi e ai fascismi novecenteschi, già da soli bastano a rafforzare, piuttosto che abbandonare, la sacralità dei confini.

  • Al contrario – [1] Lo sbarco

    Questo è la prima parte di un breve racconto che sarà pubblicato a puntate su questo blog. Si tratta di un tentativo, modesto e parziale, di raccontare l’immigrazione. Di volta in volta, sono ben accetti, anzi caldeggiati, commenti e suggerimenti per la parte successiva.


    Ahmed osservò il traffico del porto scrutando fuori dalla finestra.
    Il porto di Qarqarish non era imponente. Una volta, lo era ancora meno. I lavori di ampliamento risalivano ad una trentina di anni prima, quando la crescita dei flussi e delle rotte commerciali aveva reso necessaria la realizzazione di una serie di nuovi moli e la creazione di uno spazio di smistamento retrostante che nulla aveva da invidiare al porto principale se non la sconfinatezza.
    ‎Ṭarābulus era uno dei maggiori porti del commercio mediterraneo, e lui, Ahmed Maghur, era in quel momento il funzionario responsabile dell’area portuale. Gli sbarchi li facevano avvenire in un piccolo porto, Qarqarish, a qualche chilometro dal porto principale ma facente parte dello stesso settore, seppur lontano da sguardi indiscreti. Meglio non mischiare merci e migranti. Qualcuno potrebbe avere malattie ormai qui debellate da tempo e il contagio si diffonderebbe rapidamente. Spesso li facevano sbarcare a Misrata, ma questa volta si trattava di uno sbarco consistente e al momento i centri di prima accoglienza contenevano una tale quantità di persone da scoppiare. Per questo avevano dirottato l’imbarcazione verso la capitale, al porto di Qarqarish. Il porto principale non era lontano: neanche tre chilometri a est, proseguendo lungo corso Al-Shat. Ma appunto, meglio non turbare le normali attività con sbarchi anomali e magari qualche complicazione legata al mantenimento dell’ordine pubblico. La banchina in corrispondenza di uno dei moli era stata circondata da transenne. Alcuni fotografi e qualche curioso si affacciavano da dietro le reti di protezione installate dal personale portuale intorno all’area di sbarco, su disposizione delle forze dell’ordine.

    Ayman Jibril attendeva da un paio d’ore, insieme a qualche decina di persone, tutte in disponibilità dalla notte precedente. La chiamata li aveva allertati verso le cinque del mattino, richiedendo la loro presenza per le operazioni di sbarco previste per le ore nove. Ayman era infermiere all’ospedale di ‎ Ṭarābulus. Per tre giorni alla settimana si metteva in disponibilità durante la notte per eventuali sbarchi, per spirito umanitario ma anche per racimolare qualche soldo. Ora attendeva accanto all’ambulanza, appoggiato alla grossa scritta “Isaaf”.
    Alla fine, probabilmente, lo sbarco effettivo sarebbe avvenuto quasi due ore dopo. Come al solito. Ti allertano prima non tanto perché sia necessaria la tua competenza né il tuo aiuto, quanto per mostrare che se vogliono farti svegliare alle cinque del mattino possono farlo. Lo fanno per confermare e mantenere una gerarchia già stabilita. È una questione di autorità.
    Da quando il Dipartimento per il Controllo dell’Immigrazione (Idāra Murāqaba al-Istīṭān) era passato sotto il Ministero degli Interni la vita era cambiata. Fino al governo precedente, esisteva un ministero indipendente dedicato interamente ai fenomeni migratori. Il governo attuale, per motivi elettorali e di “razionalizzazione della spesa pubblica” aveva smantellato tale ministero trasformandolo in un dipartimento accorpato al Ministero degli Interni, sotto la responsabilità e il controllo diretto delle forze di polizia. Ora, a quanto pareva, la questione era divenuta improvvisamente di competenza del Ministero degli Interni. E per fortuna non era del Ministero della Difesa, altrimenti sì che se ne sarebbero viste delle belle! Certo, a dirla tutta non è che le cose andassero sempre per il verso giusto. Ayman già storceva il naso per la subordinazione alle forze di polizia che faceva passare per problema di sicurezza pubblica una questione umanitaria, a questo si aggiungeva l’accordo con il Ministero della Difesa. L’immigrazione non era affare della Difesa, ma quelli erano riusciti lo stesso a metterci il naso.
    Per farla breve, la vita era cambiata perché si usavano militari in situazioni non militari, perché in alto avevano deciso che era meglio dichiarare lo stato d’emergenza. Appunto, una questione di autorità.

    Vito, anni 26, mediatore culturale, attendeva lo sbarco affiancato dalle forze di polizia. Era uno dei pochissimi civili a cui era consentito l’accesso all’area destinata alle operazioni di attracco e di sbarco. Fino a qualche anno prima, sarebbe stato attorniato da giornalisti e volontari delle associazioni non governative. Adesso percepiva i loro sguardi e i loro obiettivi fotografici confinati dietro la rete di protezione. Con la riforma del nuovo governo, erano le forze di polizia a decidere. I migranti venivano accolti da uno schieramento di forze dell’ordine dispiegato sulla banchina del porto e un primo smistamento era effettuato sulla base della provenienza. Il mediatore culturale serviva a questo: per confermare che la provenienza dichiarata da ciascun migrante fosse reale. In molti, infatti, mentivano sulla nazionalità, spacciandosi per baschi, catalani o sardi, sperando di ottenere più facilmente un riconoscimento dello stato di rifugiato politico. Nonostante tentassero di imitare l’accento della presunta comunità di provenienza, spesso la parlata li tradiva all’orecchio di un esperto o di un madrelingua. Vito era un madrelingua, la sua lingua era l’italiano. Era nato in un piccolo paese della Sicilia, aveva studiato a Palermo ed era emigrato. Per tre anni era stato attivista in un’associazione che si occupava dei diritti dei migranti, prestando soccorso durante gli sbarchi e nei primi momenti dell’accoglienza; a volte si era occupato anche delle condizioni di vita nei centri di detenzione temporanea, in cui avevano luogo le identificazioni per eventuali espulsioni. Poi, in virtù dei poteri conferiti dal nuovo governo, la polizia aveva deciso di allontanare le associazioni e gli attivisti dei movimenti, sostenendo che tra questi si nascondevano “elementi intenzionati a favorire la fuga degli immigrati irregolari durante le operazioni di sbarco”, potenzialmente “atti a turbare l’ordine pubblico e mettere a rischio la sicurezza dei cittadini”. Vito sapeva che erano tutte cazzate. Non la storia delle fughe, quelle avvenivano e per quanto lo riguardava potevano anche continuare ad avvenire. La cazzata era la motivazione addotta dal governo per legittimare l’allontanamento dei civili: le fughe erano minima cosa rispetto agli occhi dell’opinione pubblica. Vito sapeva per esperienza diretta che i migranti preferivano di gran lunga essere accolti da civili volontari piuttosto che da uomini in divisa, armati dalla testa ai piedi e bardati di casco e scudo. Aveva deciso di restare a contatto diretto coi migranti al momento dello sbarco, anche se questo ormai significava necessariamente lavorare al servizio delle forze dell’ordine, aveva ottenuto il posto e adesso stava sulla banchina a smentire i sedicenti sardi. Si chiedeva se fosse stata una scelta giusta e si diceva che almeno così poteva aiutarne qualcuno, che se un romano si fingeva sardo e poi lo scoprivano troppo tardi magari gli annullavano non solo lo stato di rifugiato politico ma anche tutto il resto e il poveretto doveva tornarsene al suo paese a fare la fame.

    Lo sbarco cominciò circa mezz’ora dopo le operazioni di trasbordo. Erano in trecentocinquantuno: duecentosettantasette uomini, sessantaquattro donne, dieci bambini. Venivano dalle coste siciliane, ma non erano tutti italiani. A bordo dell’imbarcazione si annoveravano diverse nazionalità: una maggioranza di italiani compreso un cospicuo gruppo di profughi sardi, un nutrito gruppo di norvegesi, molti francesi e svedesi, pochi olandesi e inglesi. Molti di loro avevano sopportato un lungo e tortuoso viaggio, spesso in clandestinità e in condizioni poco invidiabili, prima di raggiungere le coste siciliane da cui era partita la piccola imbarcazione che li avrebbe portati in prossimità delle coste africane.
    Le forze di polizia sul molo inaugurarono l’inizio delle operazioni di sbarco e accoglienza disponendosi a quadrato e formando un cordone schierato lungo tre lati del perimetro in modo da prevenire eventuali fughe via terra. Quattro agenti armati sorvegliavano le possibili vie di fuga attraverso il mare chiuso del porto.

    Ayman Jibril attendeva al suo posto, a debita distanza ma pronto a intervenire in caso di bisogno, secondo le disposizioni ricevute. Tale evenienza si verificava spesso, perché le condizioni del viaggio intrapreso dai migranti erano pessime sotto ogni punto di vista: stipati a centinaia nella stiva di barchette o su gommoni scoperti, anche per giorni sotto il sole cocente e l’azione continua dell’acqua salata, i passeggeri non di rado erano colpiti da malanni di ogni tipo, che in quella situazione potevano risultare letali. Frequenti erano morti per annegamento o per asfissia. Molte persone, specialmente di origine nordeuropea, al momento dello sbarco erano gravemente ustionate dal sole.
    All’azione distruttiva dei quattro elementi spesso si aggiungeva quella dovuta all’essere umano. Durante la traversata si generavano facilmente situazioni di tensione, che altrettanto facilmente sfociavano in risse, in un pericoloso groviglio di corpi sospesi sull’acqua a bordo di un’imbarcazione precaria e sovraffollata. Le conseguenze potevano essere devastanti. Una volta soccorsi da navi militari o, più raramente, mercantili, i migranti erano spesso oggetto di maltrattamenti da parte dei militari, che li ammassavano in stive di dimensioni di poco superiori a quelle in cui erano ammassati poche ore prima. Non mancavano episodi di violenza razzista di cui ufficiali e sottufficiali si facevano protagonisti o silenti complici. Al momento dello sbarco al porto, poteva essere necessario l’intervento del pronto soccorso e il trasporto in ambulanza, per guarire lesioni di entità più o meno grave che nella cartella clinica erano attribuite a “causa ignota”.

    Le donne sbarcavano per prime. Ayman notò due donne incinte mettere piede a terra. Erano entrambe giovanissime, di bassa statura, scure di capelli e di carnagione, dall’aspetto tipicamente mediterraneo. Lo stato di gravidanza era evidentemente avanzato, forse al penultimo o addirittura ultimo mese. Ayman cominciò a preparare la barella, sicuro che ce ne sarebbe stato bisogno, in attesa del permesso dell’autorità militare. Osservò il mediatore culturale, il siciliano, raggiungere le due donne appena sbarcate, con il consueto intento di porre qualche domanda. Prima che quello potesse presentarsi, una delle due perse l’equilibrio spossata dal viaggio e cadde per terra. Il mediatore volse automaticamente lo sguardo verso l’ambulanza. Ayman fece un passo accompagnando la barella in direzione della donna, ma dovette fermarsi. Un poliziotto aveva fatto cenno di fermarsi. Un medico militare in compagnia di un ufficiale di polizia si avvicinò alla donna ancora per terra e si chinò. Disse qualcosa al mediatore culturale, che tradusse prontamente. Dopo qualche minuto, ad Ayman e i suoi colleghi fu permesso di entrare nel perimetro definito dallo schieramento di forze dell’ordine, per prelevare la donna. Mentre la barella attraversava il cordone di polizia, alcuni sguardi tradirono disprezzo. Una voce anonima si alzò abbastanza da essere udita da Ayman: «questi sardi sembrano proprio degli gnomi». Era il tipico insulto razzista riservato ai sardi.
    Dunque le due donne incinte erano sarde. I poliziotti dovevano averlo intuito dal loro aspetto e la conferma era arrivata dal mediatore culturale, il cui unico ruolo, dal punto di vista delle forze dell’ordine, era confermare o smentire la provenienza dichiarata dai migranti. La provenienza doveva subito aver fatto insospettire l’ufficiale, perché il popolo sardo era oggetto di una nutrita serie di pregiudizi, tra cui l’idea che fossero bugiardi e inaffidabili. L’ufficiale doveva aver pensato che la caduta fosse una messinscena per poter andare in ospedale, luogo soggetto a minor controllo rispetto ad un campo di detenzione temporanea e dunque luogo da cui evadere più facilmente. Si era consultato con il medico militare che, con l’aiuto del mediatore culturale, aveva valutato che le condizioni di salute manifestate dalla donna erano da considerarsi reali e non il frutto di una buona capacità di recitazione.

    L’operazione di sbarco continuava, i migranti erano smistati in numero sempre maggiore, lungo il molo, in attesa di essere caricati sugli autobus della polizia. Un giovane italiano si inginocchiò al suolo a mani giunte, pronunciando tra le lacrime una parola: «Tripoli! Tripoli!». Così gli italiani chiamavano la città di Ṭarābulus.

  • I CIE e la sagra del legalitarismo violento

    Il 17 febbraio il consiglio comunale di Torino ha approvato a maggioranza (vedi) una mozione con cui, per la prima volta, il comune di una grande città italiana si impegna a chiedere alle istituzioni nazionali la chiusura di un Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE) nel più breve tempo possibile. La mozione riguarda un impegno relativo in particolar modo al CIE di Corso Brunelleschi, ma invita ad una riflessione più generale sui sistemi di gestione dell’immigrazione nell’intero paese: contiene riferimenti alla «inqualificabile violazione dei diritti umani» e alla «restrizione delle libertà fondamentali» e chiede che sia messa in discussione la legislazione in materia di immigrazione e abrogata quella attuale, comunemente nota come Bossi-Fini.

    I voti contrari alla mozione sono venuti da Forza Italia, Nuovo Centro Destra, Lega Nord, Movimento Cinque Stelle.

    Sia chiaro che non c’è nulla di cui stupirsi per la presenza dell’ultimo, specie se l’argomento in questione è costituito dalle politiche migratorie. È nota a tutti la controversia nata in seno al M5S quando due deputati in Parlamento si schierarono per la depenalizzazione del reato di clandestinità, così come è noto il successivo sviluppo della vicenda, che portò ad un referendum tra una porzione degli iscritti per decidere che posizione prendere riguardo alla votazione in Senato. Come tutti i giornali non mancarono di far sapere, in quell’occasione il M5S adottò la posizione contraria a quella “caldamente suggerita” dal bivertice, votando a favore della depenalizzazione. Tuttavia, in pochi notarono che gli elementi a disposizione non lasciavano presagire nulla di buono: lo spirito generale di quella votazione, che traspariva dal comunicato ufficiale, vedeva la depenalizzazione del reato di clandestinità come non intesa ad intaccare l’impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni e inoltre non in un’ottica di rispetto dei diritti, ma di convenienza economica e logistica (qui l’analisi). A dimostrazione di ciò, al momento della discussione in Senato i deputati del M5S applaudirono in blocco il discorso del collega Enrico Cappelletti secondo cui il reato di clandestinità è un fallimento perché «dalla sua introduzione i flussi migratori sono aumentati costantemente» e perché «non dà la certezza di un allontanamento effettivo» (leggi).

    Meno nota al pubblico nazionale è la lunga serie di dichiarazioni dell’esponente più in vista del M5S torinese, Vittorio Bertola, che in passato gli hanno procurato più volte accuse di essere razzista, come quando diffondeva bufale propagandate in rete sui “privilegi” dei Rom e degli immigrati o quando sosteneva, nei giorni successivi al pogrom contro il campo nomadi di Torino, che la violenza è certo sbagliata ma c’è da dire che se la sono cercata (riassumendo all’osso).

    Insomma, che sul tema degli immigrati il M5S sia controverso e che lo sia a Torino non è cosa nuova.

    Ora, per quale motivo il Movimento Cinque Stelle si trova a votare insieme a nazionalisti, razzisti e fascisti contro la chiusura dei CIE? Per rispondere a questa domanda, ci viene incontro lo stesso movimento, che in una pagina (questa) scritta da Bertola spiega dettagliatamente cosa non condivide della mozione approvata dal consiglio comunale di Torino.

    Bertola è d’accordo con la chiusura del CIE di corso Brunelleschi, a cui fa riferimento la mozione. In un’ottica di rispetto dei diritti basilari e di costruzione di una società fondata sui valori dell’antirazzismo e della solidarietà, i motivi da lui addotti sono discutibili, anche se il risultato, cioè la contrarietà al CIE, è condivisibile (esattamente come per la depenalizzazione del reato di clandestinità). Bertola, in linea con il sopracitato senatore Cappelletti, sostiene che «i CIE sostanzialmente non funzionino rispetto allo scopo per cui sono stati istituiti»: erano ideati per l’espulsione, ma l’espulsione tarda ad arrivare e spesso non avviene, il tutto sulle spalle dei contribuenti. Tra l’altro, le persone rinchiuse «diventano per forza di cose più furiose e antisociali di prima». Questa affermazione implica un’intrinseco accostamento della figura dell’immigrato con la figura dell’antisociale e una sua conseguente stigmatizzazione. L’immigrato è ricondotto ad uno stereotipo veicolato da una propaganda neanche troppo velatamente razzista: l’immigrato furioso, l’immigrato animale, l’immigrato antisociale che mina le basi della sicurezza e della convivenza civile. Non è scritto esplicitamente ma è logica conseguenza di un tale accostamento, forse neanche fatto di proposito ma frutto del linguaggio tossico cui siamo tutti stati abituati da mezzi di informazione e altri strumenti dell’egemonia culturale. Inoltre, continua Bertola, il CIE di corso Brunelleschi e il meccanismo dei CIE in generale costituiscono un problema di decoro urbano: non solo sono inefficaci e costosi, ma anche provocano «disturbo anche a chi ci abita attorno».

    Ciò con cui Bertola non è d’accordo è invece la parte a suo dire ricca di contenuti ideologici (come se non fosse ideologica la convinzione razzista che l’immigrato sia intrinsecamente antisociale e furioso, o la concezione di decoro borghese che intende sottrarre alla vista le evidenze della violenza oppressiva di classe, di razza o di genere). Ovvero, la parte della mozione secondo cui:

    • «i CIE sono inoltre eticamente ingiusti perché comportano una restrizione della libertà personale senza reato sanzionando la mera irregolarità amministrativa, oltre ad essere degradanti della dignità umana»;
    • «sono urgenti una modifica del sistema degli ingressi, delle procedure di identificazione, della disciplina del soggiorno e delle espulsioni, una corretta applicazione della normativa europea sull’accoglienza che innalzi gli standard attualmente praticati, una riforma della legge sulla cittadinanza, una legge per l’introduzione del diritto di voto amministrativo, una legge organica sul diritto di asilo»;
    • «ogni competenza in materia deve spettare al solo giudice togato».

    Secondo Bertola, non si può definire «inqualificabile violazione dei diritti umani» un sistema che priva gli immigrati della libertà di movimento, perché «la detenzione degli immigrati clandestini fino a 18 mesi, su provvedimento anche amministrativo, è semplicemente quanto previsto dalla direttiva europea sui rimpatri». È evidente che una motivazione del genere sia nel classico stile giustizialista e legalitario del M5S, che vede la legalità come valore assoluto e non come prodotto sociale. Per mostrare come l’Italia non costituisca un’eccezione, Bertola riporta dunque una carta dei centri di detenzione per migranti, che a mia volta riporto di seguito.

    map_18-1_L_Europe_des_camps_2011_v11_EN[clicca per ingrandire]

    Continua così la spiegazione: «in un Paese serio, che fa leggi non per dar fiato alla bocca e fare un titolo sul giornale ma per regolare la convivenza di tutti, una persona che non è autorizzata a stare lì deve venire espulsa; e poiché per forza di cose chi tenta di entrare non ha intenzione di farsi espellere, è quasi sempre necessario farlo con la forza.

    Si può benissimo discutere su quali sono le condizioni per espellere qualcuno […]; si può, anzi si deve garantire un trattamento migliore e più umano per le persone soggette alla procedura di espulsione, che non può essere trascinata per mesi e mesi. Ma non si può prescindere da un sistema di trattenimento e accompagnamento forzato alla frontiera di chi va espulso, e dunque non si può fare a meno di qualcosa che funzioni come un CIE».

    “Non si può fare a meno” è un’affermazione che ricorda il motto di Margaret Thatcher in nome del quale vennero imposte le misure di ristrutturazione economica più violente dal secondo dopoguerra, furono poste le basi per la globalizzazione neoliberista e la restaurazione del dominio di classe. Se non si può fare a meno delle espulsioni, perché si può fare a meno dell’austerità, delle privatizzazioni, dei tagli allo stato sociale? Perché, almeno a parole, è questo che dicono molti esponenti del M5S. Evidentemente nel discorso politico del M5S i diritti dei migranti non sono degni della stessa attenzione che si riserva ai diritti di tutti gli altri (e questo è esemplificato limpidamente dall’apertura del comunicato di Bertola: «Bene, direte voi, allora di cosa si parla? Lavoro? Casa? Inquinamento? Traffico? Beh, non proprio: questa settimana l’urgenza individuata da PD e SEL è la chiusura dei CIE»).

    Non mancano, ovviamente, accuse alla “sinistra” (che Bertola identifica con PD e SEL): esattamente come quando si rivendica l’antifascismo contestando il fascismo si ricevono accuse di essere fascisti (il classico “fascismo degli antifascisti”), in questo caso la rivendicazione di pari diritti fondamentali a dispetto di nazionalità e provenienza, ovvero una rivendicazione antirazzista, viene tacciata di razzismo. Bertola spiega così il perché: «Se non si vogliono i CIE di fatto si sta dicendo che non si vuole espellere mai nessuno, e che si vuole una immigrazione incontrollata e senza limiti. Ma una immigrazione di questo tipo serve solo a qualcuno: a chi detiene il potere economico, a cui fanno comodo grandi masse di immigrati tenuti ai margini della società e disposti a lavorare a condizioni inaccettabili per gli italiani, creando una guerra tra poveri che permette di distruggere tutti i diritti sociali conquistati in cent’anni di lotte, e che offre facili capri espiatori della crisi economica alla gente comune, evitando che essa se la prenda con chi veramente la sfrutta».

    Per quanto Bertola non lo ammetterebbe mai, tale visione è ideologica. Innanzitutto considera l’immigrazione il frutto di una sorta di complotto internazionale ordito dai poteri forti, e non un fenomeno naturale parte da sempre della storia umana. Inoltre risponde ad una logica razzista, simile a quella che, forse inconsapevolmente, diffuse Il Fatto Quotidiano parlando dello sfruttamento dei migranti in agricoltura quasi come fosse un fenomeno naturale (vedi): se gli immigrati sono disposti a lavorare in condizioni di sfruttamento inaccettabili ciò non è certo dovuto ad una qualche caratteristica intrinseca del lavoratore straniero ma proprio alla loro ricattabilità e questa è dovuta al rischio di espulsione. Sostenere la necessità delle espulsioni dicendo che queste proteggerebbero i diritti degli immigrati è un controsenso. La guerra tra poveri la alimenta chi favorisce la marginalizzazione, specie lungo la linea del colore (vedi).

    Infine, la chiusa è interessante: «Spiace che a portare avanti questa trappola siano i partiti cosiddetti di sinistra, ma delle due l’una: o non hanno capito niente del mondo globalizzato, o sono venduti al potere».

    A quest’ultima frase forse è meglio non aggiungere ulteriori commenti. Ai posteri l’ardua sentenza su chi abbia capito di più del mondo globalizzato tra chi intende chiudere le frontiere e chi invece vuole garantire il rispetto dei diritti a prescindere da sesso, religione, razza, provenienza.

     

    «Come mostra questa mappa, tutti i Paesi europei hanno centri di detenzione per gli immigrati clandestini, sia nella fase di prima accoglienza e identificazione che nella fase di partenza per il rimpatrio; Germania, Danimarca, Svizzera e Irlanda li tengono direttamente in carcere. A questo punto, o il Parlamento Europeo e tutti gli altri Paesi europei sono degli inqualificabili violatori dei diritti umani, o c’è qualcosa che non va nel ragionamento della mozione».

    Caro Bertola, la prima che hai detto. Anche io ho una mappa da farti vedere.

    map_europe[clicca per ingrandire]

  • Espulsioni a 5 stelle

    Il 13 gennaio, 24.932 iscritti al M5S (ovvero un terzo del totale) si sono espressi sul reato di clandestinità, la cui abrogazione sarà votata domani in Senato dagli eletti. In 15.839 hanno votato per la sua abrogazione, 9.093 per il mantenimento. Ovvero, il 63,53% contro il 36,47%. In realtà, contata l’astensione, il 19,71% contro l’11,31%.

    Auspicabilmente, i parlamentari del M5S voteranno secondo l’esito di questa votazione, e se quelli del Partito Democratico voteranno davvero, nonostante ci sia poco da fidarsi visti i loro trascorsi, come dicono di votare, il reato di clandestinità in Italia sarà abolito. Niente salti di gioia da parte del mondo antirazzista, ovviamente giacché molta è la strada ancora da percorrere per il pieno rispetto dei diritti, per una società integrata multiculturale e solidale, per l’abbattimento dei pregiudizi e delle discriminazioni. Niente salti di gioia, ma molta soddisfazione nell’area dei movimenti sociali. Attenzione però a non lasciarsi prendere dall’entusiasmo, dimenticando di cosa, di chi e con chi stiamo parlando.

    A quelli che dicono «dopo questo voto le cose finalmente cambiano», «la base è migliore di Beppe Grillo» e dopo lo scetticismo degli ultimi mesi o anni cominciano a pensare al M5S come un possibile strumento parlamentare nella lotta contro la xenofobia o vedono possibili aperture da parte del M5S perché questo si affianchi al movimento contro il razzismo e per i diritti dei migranti, andrebbero tuttavia ricordate un paio di cose.

    La votazione telematica è stata introdotta da una presentazione, scritta dai due senatori Andrea Cioffi e Maurizio Buccarella, che indirettamente ripercorre la vicenda verificatasi a ottobre quando i due furono rimproverati da Grillo e Casaleggio per aver proposto su iniziativa personale un emendamento che avrebbe depenalizzato il reato di clandestinità introdotto con l’entrata in vigore del regime Bossi-Fini. La votazione è stata anche preceduta da un messaggio inviato privatamente a tutti gli iscritti al M5S aventi diritto, poi reso pubblico e diffuso. Questi due documenti espongono il punto di vista dei senatori incriminati e ora democraticamente impegnati a far valere la propria posizione in materia di immigrazione. In particolare, ecco cosa dicono:

    «I promotori di quell’emendamento lo proposero […] al fine di sgravare da procedimenti penali inutili un sistema ingolfato e nell’ottica di una riduzione dei costi (efficienza, efficacia, economicità). Nessuna visione ideologica, ma un approccio pragmatico e di buon senso. L’eventuale abrogazione del reato, infatti, non intacca l‘impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni, richieste di asilo, flussi di entrata».

    «Con l’approvazione si avrebbero soltanto risultati positivi in termini di risparmio di denaro pubblico e snellimento dei tempi della giustizia rimanendo intatte tulle le altre disposizioni e norme relative alla procedura d’espulsione. Depenalizzare significa quindi mantenere il procedimento amministrativo di espulsione per sanzionare coloro che violano le norme sull’ingresso e il soggiorno nello Stato».

    Da questi due testi, si evince che:
    -la depenalizzazione del reato di clandestinità non è proposta in un’ottica di rispetto dei diritti, ma secondo criteri di convenienza economica e logistica;
    -il mantenimento dell’impianto generale della Bossi-Fini è non ideologico e di buon senso;
    -la depenalizzazione del reato di clandestinità non è finalizzata ad intaccare l’impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni.

    Dovrebbe essere chiaro dunque che, se lo spirito manifestato da questi due membri è condiviso dal resto degli eletti (ma il dibattito nato in seno al gruppo parlamentare a ottobre farebbe pensare addirittura che la linea proposta sia troppo progressista rispetto alle attuali norme sull’immigrazione), almeno a livello parlamentare, gli orizzonti entro cui si muove il M5S restano le espulsioni.

    Questo mostra come si possa coerentemente essere a favore dell’abrogazione del reato di clandestinità e allo spirito repressivo e disumano dell’attuale legislazione in materia. Mostra anche come, parlando il burocratese, si sia riusciti a far passare come grande prova di democrazia il fatto che domani in Senato non verrà votato ciò che piace a Grillo e Casaleggio, ma ciò che ha deciso la base, mentre la realtà dei fatti è che il bivertice del M5S ha trovato il modo di prendere due piccioni con una fava: non intaccare lo spirito attuale della Bossi-Fini potendo allo stesso tempo dire «dimostriamo finalmente che non siamo io e Grillo a comandare», scavalcando apparentemente a sinistra il PD per riprendere terreno elettorale perso in quell’area. Infine, mostra per l’ennesima volta cosa sia il “buon senso non ideologico” a cui la retorica pentastellata fa continuamente riferimento.

    «L’eventuale abrogazione del reato, infatti, non intacca l‘impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni» è stato sapientemente rassicurato a chi stava per votare, quasi a tranquillizzarlo sullo stato di salute della Bossi-Fini. Ovviamente, nessuno può sapere con che spirito quel 19,71% ha votato a favore dell’abrogazione del reato di clandestinità, se l’abbia fatto in un’ottica antirazzista, di integrazione, di rispetto dei diritti o piuttosto in una prospettiva che in generale mantiene lo stato di cose presente e tratta le persone come merci, parlando di efficienza e costi invece che di diritti. Certo è che almeno qualcuno avrà votato a favore dell’abrogazione proprio perché prontamente rassicurato.

    Ah, un ultima cosa: il M5S non permette agli immigrati ancora privi di cittadinanza di iscriversi (quindi neanche di candidarsi).

  • Il razzismo è strutturale

    Il razzismo non è figlio dell’ignoranza. Finalmente qualcuno lo fa presente (qui), interrompendo il flusso di frasi fatte, condanne unanimi e luoghi comuni che ha invaso il dibattito pubblico in seguito all’uscita razzista di Calderoli sul ministro Kyenge, paragonandola ad un orango.

    Come ben dice Iside Gjergji, il razzismo non è figlio dell’ignoranza, perché altrimenti sarebbe un problema risolvibile con la scolarizzazione; non è causato dalla scarsa informazione su tradizioni, culture e religioni delle popolazioni immigrate, perché altrimenti basterebbe seguire un corso di formazione, guardare un documentario, leggere una rivista sull’argomento; non è un prodotto della paura xenofoba, che piuttosto ne è una conseguenza. Aggiungo che non è neanche un problema intimamente legato all’esistenza di confini che «esisterà finché questi esisteranno», come mi è capitato di sentire affermare, perché molti gruppi etnici soggetti a discriminazione i confini non li hanno mai attraversati.

    «Il razzismo nasce dall’ignoranza» è il commento più quotato, e non è che una versione modificata di «il fascismo nasce dall’ignoranza», con cui in passato mi sono imbattuto (per esempio qui nei commenti): a entrambe queste affermazioni è sottesa la convinzione che la conoscenza sia di per sé capace di influire sul reale e di incidere sui rapporti di forza esistenti nella società, ma tale convinzione non considera la natura dei processi che producono i fenomeni sociali, riducendola ad una dimensione individuale per la quale il razzismo smetterebbe di esistere se tutti andassero in vacanza dall’altra parte del mondo. In altre parole, è completamente assente una visione organica del fenomeno, sostituita invece da presupposti individualistici e atomizzanti. Ciò si riflette sulla capacità di definire il concetto di razzismo in relazione al contesto storico, in quanto le due visioni sono dotate di differente “potenza di analisi”: evidentemente, per l’individualista la tratta atlantica degli schiavi e le leggi razziali sono esistite perché gli schiavisti e i nazifascisti erano «ignoranti».

    Veicolare l’idea che il razzismo sia fondamentalmente un problema di coscienza individuale contribuisce, direttamente o indirettamente, all’affermazione di una linea di pensiero ormai diffusa, che è stata normalizzata e naturalizzata (percepita come accettabile nel dibattito pubblico e naturale nell’immaginario collettivo), per cui il problema del razzismo è una questione, puramente formale, di etica e di decoro borghese: è sufficiente dichiararsi contro e deprecare queste entità astratte che sono i razzisti, basta che nessuno si definisca razzista apertamente (pur continuando ad agire secondo le proprie posizioni) ed ecco eliminato il problema. In questo modo, si legittima il classico incipit «non sono razzista, però» che non lascia presagire mai nulla di buono, ma anche si legittimano le contraddizioni, per esempio, di un Partito Democratico che si indigna per l’insulto di Calderoli ma promuove il razzismo in altre forme (vedi).

    Lo sdoganamento del razzismo ha permesso la normalizzazione di questo tipo di atteggiamenti e posizioni a tal punto che troppe persone non riescono più a distinguere le argomentazioni razziste all’interno di un discorso né addirittura si rendono conto di adottarle e farle proprie, offendendosi e indignandosi se ciò viene fatto notare. Tale sdoganamento ha una serie di responsabili, dalle testate giornalistiche e i mezzi d’informazione televisivi con il loro linguaggio sempre attento a sottolineare l’etnia di una persona anche quando del tutto irrilevante, alle pulsioni legalitarie per cui «le regole vanno rispettate», passando per la condanna degli antirazzisti bollati come “razzisti al contrario”: alle accuse di xenofobia si sono sostituite quelle di xenofilia, mostrando un cambiamento nella percezione di cosa sia socialmente accettabile e cosa non lo sia.

    Tutto questo mostra che nelle questioni dell’immigrazione e delle minoranze etniche si siano imposte, in una situazione di egemonia culturale, la retorica nazionalista e la narrazione identitaria care all’estrema destra, che ha puntualmente sfruttato politicamente il fenomeno, alimentandolo per costruire le basi della propria affermazione: come descritto da Guido Caldiron (intervistato qui), «una delle caratteristiche della “nuova estrema destra” è l’aver saputo imporre nel dibattito pubblico varie proposte radicali senza ricorrere ad argomenti apertamente razzisti o nostalgici del passato». Il risultato è che le destre populiste xenofobe stanno trovando margini di azione politica in tutta Europa.

    Torniamo ora alla questione iniziale. Se il razzismo non è più narrato ricorrendo apertamente al concetto di “razza”, ormai scientificamente smontato e politicamente obsoleto, occorre ridefinirlo per poterlo comprendere. Banalmente (ma forse no), è innanzitutto discriminazione: trattare le persone in maniera diversa in virtù della loro identità, classificare le persone in base al loro essere. Questa definizione permette di riconoscere il razzismo anche in affermazioni che non si richiamano al concetto di razza, come «lo stato italiano deve pensare prima agli italiani».
    L’obiettivo di questo articolo non è tracciare una genesi e risalire alle origini storiche del fenomeno: certamente l’odio per lo straniero, le proclamazioni di superiorità, la discriminzione basata sulla diversità razziale, etnica o culturale non sono recenti e nel corso della storia hanno assunto diversi significati e sono stati declinati in varia maniera, essendo di volta in volta espressioni del contesto storico funzionali ai sistemi sociali ed economici entro cui si sviluppavano.

    Qual è il significato del razzismo nel contesto attuale?
    Prima di tutto è parte di una tendenza più ampia, che consiste nella discriminazione su base identitaria. La discriminazione implica il riconoscimento di disuguaglianze che fungono da elementi intorno a cui si articola la sua legittimazione. Il razzismo dunque richiede, per poter esistere e diffondersi, che le persone siano educate alla disuguaglianza, considerandola naturale, e che siano disposte a discriminare, ovvero ad attribuire diritti diversi a persone diverse, a conferma della stessa disugualianza.
    A ben vedere, questo è esattamente una breve descrizione di ciò che accade nel sistema economico capitalistico, in cui esiste una disuguaglianza economica, ritenuta naturale, che si traduce in una disuguaglianza di diritti per cui chi produce è escluso dalle scelte connesse alla produzione, e tale esclusione è ritenuta anch’essa naturale.
    Allora non è una tendenza, ma una componente strutturale del sistema economico, che è intrinsecamente gerarchico, autoritario ed escludente. E in un sistema escludente l’esclusione appare normale, è un boccone facile da digerire: se il modo di produzione esclude quotidianamente e sistematicamente, ci si abitua all’idea, e allora perché non escludere su base razziale? Perché non su base di genere? Perché non su base religiosa?

    A questo “dispositivo psicologico” della discriminazione si aggiunga il vantaggio economico del razzismo: esso è funzionale al sistema di sfruttamento. Permette di formare e mantenere un sottoinsieme della classe lavoratrice in condizioni di ricattabilità e a bassissimo costo, con la comodità che tale suddivisione interna agli sfruttati può essere perpetuata senza l’uso di forza militare, ma semplicemente costruendo una narrazione razzista che assecondi una preesistente assuefazione alla marginalizzazione.
    «Le razze non esistono, ma l’organizzazione del lavoro finisce per riprodurle e per imporre gerarchie lungo la linea del colore» (da qui). In altre parole, la questione di razza facilmente si tramuta in questione di classe: le politiche italiane sull’immigrazione mostrano un chiaro esempio di questa possibilità, favorendo indirettamente lo sfruttamento dei migranti in agricoltura (qui il rapporto di Amnesty).

    Secondo questa stessa direzione, la discriminazione di razza spesso si rivela una forma di discriminazione di classe, che più che essere basata su caratteri etnici o razziali, trova in queste una legittimazione di facciata, mentre i criteri profondi di pregiudizio sono di carattere sociale (per esempio nel sempreverde «rubano»). In una società intrinsecamente gerarchica e discriminatoria, è prevedibile che chiunque discrimini chi nella gerarchia sta più in basso, e puntualmente ciò accade, ad esempio quando i poveri discriminano i poverissimi perché «loro sono sempre i primi della lista per l’assegnazione delle case popolari».

    In definitiva, il razzismo implica la discriminazione, che implica la disuguaglianza.
    Il razzismo e il capitalismo si rafforzano e si compenetrano, si nutrono l’uno dell’altro: il primo è funzionale al secondo, il secondo legittima il primo.
    Condannare il razzismo ma non il sistema di sfruttamento è un po’ come condannare le violenze poliziesche della Diaz ma non l’intero apparato militare che, dispiegato durante quel G8, le ha generate.