Blog

  • La resa dei conti in Africa occidentale: imperialismi e rivoluzioni

    Il 26 luglio, il presidente nigerino Mohamed Bazoum è stato posto in stato di arresto dalla propria guardia presidenziale, il cui capo Abdourahamane Tchiani ha preso il potere appoggiato dall’esercito. La giunta militare ha immediatamente preso possesso delle comunicazioni, dei palazzi governativi, ha chiuso le frontiere e indetto un coprifuoco a tempo indeterminato.

    Sono state già scritte e dette molte cose sul significato storico del colpo di Stato in Niger come sintomo del declino del controllo della regione da parte della Francia, come risultato dell’instabilità crescente degli Stati del Sahel, preda di gruppi armati capaci di strappare loro porzioni sempre più grandi di territorio, e come terremoto geopolitico che delineerebbe una strategia di influenza della Russia in Africa.

    Tuttavia, nelle varie analisi e letture degli eventi che stanno circolando, due cose non traspaiono adeguatamente: una traspare ma senza darle la dovuta importanza, l’altra sembra del tutto assente.

    L’Africa: immenso serbatoio di risorse

    Quello che sta succedendo nel Sahel e in Africa occidentale da un decennio dovrebbe essere oggetto di attenzione e preoccupazione da parte di chiunque intenda capire a fondo i processi che interesseranno il mondo intero nei prossimi anni, tra cambiamento climatico, devastazione ecologica globale e ristrutturazione del capitalismo.

    L’Africa è un immenso serbatoio di risorse economiche. Per via della sue caratteristiche geologiche, detiene circa un terzo delle risorse minerarie del pianeta, la qual cosa ha fatto di essa una torta da spartire tra le potenze dominanti fin da quando il capitalismo coloniale ha creato una rete di sfruttamento planetario basata sullo schiavismo. In Africa sono presenti tra il 20% e il 90% delle riserve mondiali di 11 minerali necessari per la transizione energetica (e alcune stime potrebbero essere al ribasso): da solo, il Sudafrica ha il 91% delle risorse mondiali di platino, il Marocco il 70% di quelle di fosfato, la Repubblica Democratica del Congo il 50% delle riserve di cobalto, e il continente detiene oltre il 90% delle riserve di metalli del gruppo del platino (rutenio, rodio, palladio, osmio, iridio, platino e renio). La lista è lunga ed è ovvio che faccia gola alle potenze che intendono accaparrarsi le risorse necessarie per controllare la filiera tecnologica dei mercati emergenti, come pannelli fotovoltaici, turbine eoliche, veicoli elettrici, produzione di idrogeno verde e catalizzatori automobilistici.

    Per non parlare dell’energia fossile: notoriamente gas naturale, petrolio e carbone abbondano in diverse regioni del continente. In aggiunta ai siti di estrazione attivi e ai giacimenti conosciuti, solo dal 2017 a oggi sono state date concessioni esplorative su un’area del continente di quasi 900 000 km2, equivalente alla superficie di Francia e Italia insieme. Questi progetti alimentano speranze di arricchimento rapido e hanno l’effetto di allontanare molti paesi attualmente privi di idrocarburi dal proprio potenziale di investimento nelle risorse rinnovabili.

    Tutto lascia pensare che l’Africa sarà nel prossimo decennio il principale campo di battaglia per il controllo delle risorse energetiche o dei materiali per il loro sfruttamento e, conseguentemente nel contesto attuale, per la supremazia economica: il controllo degli impianti di estrazione, lavorazione e smistamento delle risorse minerarie sarà decisivo, e senz’altro non per l’eliminazione della cause del riscaldamento globale e il ripristino degli equilibri ecologici. Al contrario, l’approvvigionamento di suddette risorse sarà all’origine di disastri ambientali e umanitari ancora maggiori e i tanto sbandierati obiettivi “verdi” saranno sacrificati (esattamente come adesso) sull’altare della corsa al profitto.

    Miniera di uranio di Tamgak, ad Arlit, Niger

    Il portato politico

    In questa cornice, le strategie di influenza delle varie potenze assumono una valenza molto più significativa. Se la competizione per il controllo economico è il motore cruciale che determina interessi e obiettivi delle forze in gioco, esiste anche una diversità di processi prettamente politici da cui dipende la forma dell’espressione e dell’attuazione di tali desideri di controllo.

    Questa è la prima delle due cose che mancano nelle letture attuali: il portato politico profondo. Il punto traspare solo superficialmente dalle analisi di questi giorni. Per esempio, quando si nota che il 25% dell’uranio che alimenta le centrali nucleari europee viene dal Niger e che il governo francese si è affrettato a precisare che un taglio alla fornitura nigerina non comprometterebbe in alcun modo la produzione energetica francese (mentre comunque il colosso minerario francese Areva-Orano continua a operare in Niger nonostante il golpe), ci si concentra sul dato economico ma non su quello politico. Il Kazakhstan è il maggiore produttore mondiale di uranio (oltre il 40%) nonché il maggiore fornitore della Francia (43% a fronte del 18% dal Niger) e le rivolte del gennaio 2022 ebbero un impatto sul prezzo dell’uranio nel mercato globale, ma all’epoca il governo francese non si scomodò a rilasciare alcuna dichiarazione e le sole rassicurazioni vennero da Areva-Orano.

    Perché delle tensioni in Kazakhstan con un reale impatto materiale sulle forniture di uranio non suscitano alcun appello alla calma, mentre delle tensioni in Niger senza impatto materiale spingono il governo francese a esprimersi? L’incertezza per ciò che rappresentano politicamente. Allarghiamo lo sguardo.

    L’intervento militare francese nel Sahel, cominciato nel 2013 con l’intento di coordinare la lotta contro il terrorismo islamico nella regione, con l’operazione Serval poi ribattezzata Barkhane, non è stato affatto capace di arginare la minaccia. Al contrario, la situazione si è aggravata: la presenza dell’esercito francese ha spinto migliaia di giovani verso la ribellione jihadista e oggi i gruppi armati controllano ampie regioni rurali, minacciano di espandersi a sud verso la costa toccando paesi prima al sicuro (Benin, Togo, Costa d’Avorio), e il tasso di violenza criminale, religiosa e politica è aumentato vertiginosamente.

    Carta pubblicata su The Economist basata sui dati ACLED sulla violenza armata in Africa occidentale.
    Africa coup belt
    La “cintura di instabilità”, carta ideata da Ken Opalo e pubblicata sulla sua newsletter

    Dopo anni di relativa calma, sono tornati in voga i colpi di Stato, tentati o riusciti: in Mali, Burkina Faso, Guinea, tradizionalmente allineati alle politiche neocoloniali francesi, hanno preso il potere giunte militari golpiste ostili: l’esercito francese è stato espulso dal Mali nel novembre 2022 e si è ritirato dal Burkina Faso del febbraio 2023, il Mali ha vietato radio e associazioni finanziate dalla Francia, e l’operazione Barkhane è stata dichiarata terminata così come la missione di pace dell’ONU in Mali (MINUSMA) nata inizialmente per stabilizzare il paese dopo la rivolta Tuareg del 2012. La Francia è stata costretta a rimodulare la propria presenza nel Sahel, sia in termini militari, con il trasferimento delle forze da Mali e Burkina Faso verso Niger e Ciad, sia in termini di strategie utilizzate, per renderla meno visibile sul piano politico e militare.

    Lo sfaldamento degli equilibri in Africa occidentale

    Questa ridotta visibilità è il punto cruciale, perché rispecchia un minore riconoscimento della Francia come cane da guardia della regione. La rete di alleanze e interessi intessuta in secoli di colonialismo si sta sfaldando sempre più clamorosamente e il campo filofrancese sta perdendo la prima indiscussa posizione dominante, aprendo un vuoto politico. A riprova di questo, un crescente sentimento “anti-francese” (potenzialmente anticolonialista) serpeggia tra la popolazione di tutta l’Africa occidentale, che si permette ormai di esprimerlo apertamente e in forme conflittuali (da slogan e bandiere bruciate ad attacchi a simboli del dominio francese, incendi e saccheggi di multinazionali).

    Questo vuoto è oggetto di contese tra forme politiche concorrenti. Da un lato è occupato dai regimi militari, che per parte della popolazione sembrano essere diventati la forma preferibile per l’espressione del sentimento “anti-francese”; da un altro dalle ribellioni tradizionaliste e fondamentaliste guidate dai numerosi gruppi armati jihadisti; infine, in paesi con una più solida tradizione democratica, da movimenti di opposizione popolari dichiaratamente anticolonialisti, che il campo filofrancese non riesce più a tenere sotto controllo.

    Quest’ultimo è il caso del Senegal, dove il governo filofrancese di Macky Sall è da mesi alle prese con un’opposizione in stato di mobilitazione permanente in difesa di Ousmane Sonko, carismatico militante panafricanista e potenziale candidato alle prossime elezioni presidenziali, sostiene l’uscita dal franco CFA, strumento coloniale per eccellenza che strangola le economie delle ex-colonie francesi. Il governo ha risposto con il pugno di ferro: esercito e squadracce armate per strada, decine di morti, arresti indiscriminati, blocco di internet, oscuramento dell’unico canale televisivo vicino all’opposizione, scioglimento del principale partito di opposizione.

    Il 26 luglio, nel solco di questa dinamica di riconfigurazione dei rapporti di forza tra i vari attori istituzionali e sociali, gruppi di interesse e gruppi militari nel Sahel, si è aggiunto alla lista il colpo di Stato in Niger.

    La fragilità dell’ascendente della Francia si riflette anche nell’incapacità della CEDEAO (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, ECOWAS in inglese) ad accordarsi su una linea politica riguardo alla gestione della situazione in Niger. Finora, la linea dominante era sempre stata quella che favoriva la tutela degli interessi francesi nella regione: anche dopo i colpi di Stato in Mali, Guinea e Burkina Faso, la sospensione di questi paesi aveva mantenuto l’allineamento.

    Dopo il colpo di Stato in Niger, la CEDEAO, presieduta per adesso dalla Nigeria e forte dell’appoggio di esponenti di spicco della diplomazia occidentale (da Parigi, Washington, Bruxelles), ha staccato l’erogazione di corrente elettrica al Niger (fornita al 70% dalla Nigeria) e ha dato un ultimatum per ripristinare l’ordine costituito entro una settimana, pena l’uso della forza militare. In reazione, i governi militari di Mali e Burkina Faso, hanno annunciato che in caso di intervento entrerebbero in guerra in difesa del Niger. Ovvero, in guerra contro altri Stati della stessa CEDEAO di cui fanno parte, sebbene sospesi.

    Non solo: per dar seguito alla minaccia, il presidente della Nigeria ha sottoposto al parlamento nigeriano la richiesta di intervento militare, ma la proposta è stata respinta a larghissima maggioranza. La maggior parte degli altri Stati membri, pur approvando l’idea, non ha mobilitato le forze armate e la Nigeria è l’unico Stato con una forza militare che conterebbe qualcosa in questo frangente. Insomma, il presidente della CEDEAO è partito fiducioso di raccogliere l’usuale consenso, ma non ha avuto l’approvazione neanche del proprio paese. Difficile immaginare una disfatta politica più goffa. Quello che conta in questa analisi è che solitamente quel consenso era dato dall’allineamento sugli interessi francesi. Oggi non è più così e si assiste a un’accelerazione importante del processo di sfaldamento degli equilibri politici della regione.

    Le mire espansionistiche russe

    L’assenza di un cane da guardia nella regione si manifesta in un’ultima dinamica, da non sottovalutare: l’avanzamento delle mire espansionistiche russe.

    In questo, il Mali del generale Assimi Goïta è stato un caso lampante: mentre espelleva l’esercito francese, chiudeva i canali diplomatici e vietava associazioni e radio francesi, la giunta militare faceva accordi con il gruppo Wagner assumendolo come “supporto militare” e concedendo sottobanco lo sfruttamento di diversi siti minerari. Il Mali è diventato un modello da manuale: il Burkina Faso ha seguito rapidamente; e nel giro di solo una settimana i golpisti in Niger hanno preso molte delle misure osservate in Mali negli ultimi anni. Mentre le giunte al potere negano, la diplomazia russa conferma. Quando il primo ministro maliano Choguel Kokalla Maïga si è schierato a favore dei golpisti in Niger, lo ha fatto da San Pietroburgo, dove presenziava il vertice Russia-Africa.

    La giunta filorussa in Mali è la forma politica visibile delle ambizioni espansionistiche della Russia, ma la presenza di forze che tutelano gli interessi russi è attestata in diverse altre forme più discrete. Per esempio, il gruppo Wagner è presente nella Repubblica Centrafricana dal 2018 tramite due società prestanome che forniscono “supporto militare” (leggasi: massacri di civili) e si assicurano il controllo delle miniere di oro. La COSI (agenzia prestanome) il 31 luglio ha diramato un comunicato di appoggio al golpe in Niger, strumentalizzando la legittimità del sentimento anticoloniale.

    Una carta che riassume le “operazioni militari” del gruppo Wagner in Repubblica Centrafricana, tratto dal rapporto ACLED del 2 agosto 2023.

    Altre strategie si collocano nel solco del soft power costruito pazientemente nel corso di anni o decenni,, tramite l’apertura, il finanziamento e la coordinazione di centri studi, associazioni culturali, organi di informazione, gruppi di pressione che hanno fatto circolare materiale in linea con gli interessi strategici del blocco espansionista e imperialista russo, in maniera simile a quanto successo in Donbass.

    Questo spiega la presenza di così tanti slogan pro-Putin, rivendicazioni filorusse e bandiere russe nelle manifestazioni di piazza degli ultimi anni, dal Mali alla Repubblica Centrafricana, fino ad arrivare agli attacchi dell’ambasciata francese a Niamey.

    Una disamina dettagliata delle attività che indicano la volontà del blocco imperialista russo di impiantarsi nella regione approfittando della crescente instabilità e vuoto di potere, sostituendosi almeno in parte al blocco neocolonialista francese, sarebbe ancora molto lunga. Il punto principale che emerge, ancora una volta, è che gli equilibri in Africa occidentale stanno saltando e che solo un’analisi prospettica di lungo termine può cogliere le implicazioni degli eventi in corso.

    L’altra risorsa economica dell’Africa

    All’inizio di queste considerazioni, è stato detto che due cose non traspaiono adeguatamente nelle letture attuali. Una è lo sfaldamento generale di tutti gli equilibri istituzionali e sociali in Africa occidentale, che spesso viene colto solo di sfuggita. L’altro punto invece sembra completamente assente. Qual è?

    Come citato sopra, l’Africa detiene un’enorme quantità di risorse e per molte di queste addirittura il primato delle riserve mondiali. Di questi dati si parla molto nelle analisi geopolitiche, negli studi delle relazioni internazionali e nelle valutazioni politiche di buona parte della sinistra. Tuttavia, in una prospettiva rivoluzionaria e materialista, manca qualcosa di fondamentale, e cioè la presa in considerazione di un’altra risorsa economica dell’Africa: la forza lavoro.

    Complessivamente, l’Africa detiene di gran lunga il primato mondiale per la crescita democrafica, con un tasso medio del 2,45% dal 2000 in poi. Il Niger registra il tasso di fertilità più elevato al mondo (6,89%) e ha la popolazione più giovane del pianeta (il 50% ha meno di 15 anni). Entro una quindicina d’anni, la popolazione totale dell’Africa potrebbe agevolmente superare i 2,5 miliardi di persone.

    Nonostante la disponibilità in materie prima e risorse di immenso valore economico, l’Africa detiene il primato per tasso di povertà e per indice di sviluppo umano medio. Sui motivi di questo divario, sono già stati scritti fiumi di inchiostro e gran parte della responsabilità è da attribuirsi a secoli di colonialismo europeo che hanno devastato e saccheggiato territori e popolazioni sottoponendole a incredibili livelli di violenza politica e economica. L’Africa non è povera: è impoverita, o per dirla con Walter Rodney, “è stata sottosviluppata“.

    Percentuale della popolazione sotto la soglia di povertà nel 2019 (soglia di povertà: 2,15 $ al giorno, corretta tenendo conto di inflazione e costo della vita). Fonte: Our World in Data.

    Negli ultimi anni, molti Stati africani hanno registrato altissimi tassi di crescita economica, tra i più alti al mondo. Se l’Africa cresce così tanto ma la popolazione anche così tanto povera, dove va a finire tutta questa ricchezza? Non serve chissà quale perspicacia per capire che esistono due processi paralleli e parzialmente sovrapposti: l’appropriazione neocoloniale e lo sfruttamento capitalistico.

    I dati mostrano che nell’ultimo decennio si è assistito a un aumento delle disuguaglianze economiche nella maggior parte dei paesi dell’Africa subsahariana, con una distribuzione della ricchezza che ha visto il 10% più ricco della popolazione concentrare nelle proprie mani quote sempre maggiori, e un 1% che da solo detiene fino al 36% della ricchezza (per informazione: in Niger detiene tra il 16% e il 19%).

    E questa è solo una parte della ricchezza non redistribuita: una grossa parte è direttamente spostata al di fuori dei confini seguendo schemi neocoloniali che tengono le popolazioni africane strette in una morsa micidiale.

    Imperialismi e rivoluzioni

    Ricapitolando: l’Africa produce sempre più ricchezza e ha un potenziale strategico sempre maggiore; questa ricchezza è sempre più concentrata nelle mani di pochi sia nei paesi africani che nelle potenze neocoloniali; e questo avviene nonostante l’espansione demografica, il che crea ulteriore “scarsità” per la popolazione povera a cui questa ricchezza viene sottratta.

    Questo scenario di “scarsità” delle risorse dovuto alla competizione di forze concorrenti, con aumento di violenza economica e politica intra- e interstatale a opera di attori istituzionali e non, è lo scenario che si prospetta a livello mondiale nel prossimo futuro, di cui la situazione in Africa e in particolare nel Sahel è un’anticipazione.

    Bisogna considerare un punto cruciale: la popolazione povera dell’Africa lavora per produrre tutta questa ricchezza. Sarebbe difficile che continuasse ancora a lungo a vedersi depredata, senza battere ciglio, della ricchezza che produce da parte di cricche locali in combutta coi padroni coloniali, di aziende multinazionali eredi indirette (e a volte dirette) dello schiavismo atlantico, di signori della guerra senza scrupoli.

    In questa prospettiva, molte delle forze citate sopra assumono una funzione storica precisa: quella di scongiurare la nascita di un movimento rivoluzionario che faccia seguito alle logiche rivendicazioni di redistribuzione della ricchezza, scardinando i principi chiave dell’appropriazione coloniale e dello sfruttamento capitalistico.

    L’uso del sentimento anti-francese da parte del blocco imperialista russo, appiattendo ogni narrazione su un piano geopolitico e “multipolare” in cui è naturale che i territori del mondo si dividano in sfere di influenza tra grandi potenze regionali, soffoca l’emergere potenziale di un blocco anticolonialista rivoluzionario. Per la Francia e il resto dell’Occidente, nonostante la competizione con la Russia in Africa sia un piatto indigesto, è comunque preferibile rispetto all’affermarsi di un movimento rivoluzionario, che avrebbe un potenziale di destabilizzazione del capitalismo mondiale molto più pericoloso dal punto di vista della borghesia in quanto arriverebbe a toccare la madrepatria coloniale.

    I movimenti rivoluzionari che lottarono per l’indipendenza nell’impero coloniale portoghese condussero alla fine della dittatura di Salazar: armandosi per la liberazione dei propri paesi, contribuirono alla liberazione del Portogallo dal fascismo. Le colonie italiane conobbero una dinamica simile: la prima Resistenza antifascista fu quella anticoloniale, condotta da Omar al-Mukhtar in Libia a partire dal 1923 e seguita da movimenti di guerriglia in Etiopia e Eritrea contro il colonialismo e l’occupazione da parte dell’Impero italiano.

    In quest’ottica, non sarebbe azzardato tracciare un parallelo tra la crescita del sentimento “anti-francese” nel Sahel e l’aumento della conflittualità politica in Francia, particolarmente elevata rispetto agli altri paesi europei nell’ultimo decennio, partendo dal movimento dei gilet gialli alle rivolte dello scorso giugno, passando per il movimento contro la riforma delle pensioni, accompagnati da una svolta autoritaria e repressiva dello Stato francese, che è oggi possibile includere nel club delle “democrazie illiberali”.

    Questa idea dell’imperialismo come argine alla rivoluzione non riguarda solo ciò che la Francia subisce in Africa occidentale, ma anche ciò che attivamente promuove. Come già ricordato, l’intervento francese nel Sahel e la conseguente militarizzazione del conflitto alimentano i gruppi armati conservatori e fondamentalisti: questi ultimi trovano nel sentimento anti-francese terreno fertile su cui far leva e incanalano in ribellioni e insurrezioni di carta tendenze che altrimenti potrebbero finire per organizzarsi politicamente colpendo il cuore del sistema economico.

    I vertici dello Stato francese ne sono coscienti, ma preferiscono questo scenario di morte e distruzione piuttosto che alleggerire la pressione della morsa del capitalismo neocolonialista: scelgono di impedire preventivamente la nascita di un movimento anticoloniale radicale, popolare e rivoluzionario. Sanno che arriverà un momento in cui coloro che da secoli producono ricchezza per il resto del mondo chiederanno inevitabilmente i conti.

    Repressione contro le proteste a Dakar, 3 giugno 2023.
  • Le rivolte in Francia sono una questione di classe

    Queste riflessioni sono state pubblicate anche su Napoli Monitor.

    Il figlio che non è abbracciato dal villaggio
    lo brucerà per sentirne il calore
    (proverbio)

    L’ennesima esecuzione razzista da parte della polizia francese ha innescato una rivolta per certi versi molto più esplosiva di quella del 2005. Le reazioni del governo, della borghesia, di una parte della sinistra, sono di una cecità agghiacciante, lontana anni luce dalla comprensione dell’origine sociale dello scoppio di tale rivolta. All’Onu, che chiede alla Francia di rivedere i metodi della propria polizia e di assicurarsi di prevenire e punire ogni comportamento discriminatorio, il governo di Macron risponde che nella polizia francese non esiste alcun razzismo. Al raro giornalismo ancora lucido che fa notare che la legge votata nel 2017 dall’attuale ministro dell’interno Darmanin ha portato alla quintuplicazione del numero di morti ammazzati dalla polizia, il ministro semplicemente nega che tale aumento sia mai avvenuto, in barba alle statistiche e ai documenti ufficiali.

    Invece di parlare di ciò che ha condotto all’omicidio di Nahel, si evoca la sua morte solo come presunto “pretesto” per bruciare tutto. Se l’omicidio di Nahel è un pretesto, qual è il vero motivo? Secondo Macron sono i videogiochi. Per alcuni osservatori, anche in Italia, incapaci di dissimulare il razzismo, il motivo è semplicemente la provenienza della popolazione in rivolta: irrazionale e presa da una furia immotivata, sarebbe costantemente in attesa di una qualunque scusa per bruciare tutto senza un perché.

    La vera questione neanche si tocca: l’origine di gran parte della popolazione in rivolta è coloniale. Il trattamento che questa popolazione riceve quotidianamente da parte delle istituzioni è coloniale. La gestione politica razzista è coloniale. Le rivolte delle “banlieues” a cui si assiste ciclicamente sono solo un’infinitesima parte della violenza coloniale su cui da secoli si basa la società francese.

    La scarsa conoscenza della questione coloniale francese rischia però di essere letta in maniera limitata da un pubblico italiano. Il colonialismo è ben più del “semplice” razzismo, che ne costituisce il lato culturale: resta il piano economico. Riducendo tutto al razzismo, l’aspetto economico strutturale rischia di passare inosservato. Il colonialismo è stato ed è innanzitutto un sistema che gerarchizza gli esseri umani per colore, nazionalità, origine, statuto amministrativo, e opera su questa base per estrarre ricchezza e distribuirla in maniera socialmente iniqua. Storicamente, il colonialismo ha consentito in maniera sostanziale l’accumulazione originaria, l’appropriazione di risorse e lavoro da parte degli uomini d’affari europei, e ha contribuito allo sviluppo del capitalismo. Oggi, la gestione coloniale della popolazione povera e di origine straniera è ancora la più forte forma di disciplinamento che tiene in piedi il sistema di sfruttamento.

    Le rivolte di questi giorni esprimono ampiamente una rabbia contro questo sistema. Poco importa che non ci siano rivendicazioni politiche ufficiali. La stragrande maggioranza degli oltre mille incendi di edifici ha colpito particolari obiettivi: commissariati, stazioni di polizia, caserme, municipi. La rivendicazione è sotto gli occhi di tutti: basta volerla vedere.

    Inizialmente sono stati attaccati i luoghi del potere poliziesco e delle istituzioni. In un secondo tempo è stato appiccato il fuoco anche ad altri luoghi del servizio pubblico, come scuole e biblioteche. Molta gente, pur comprendendo la rabbia per il razzismo e l’omicidio di Nahel, ha interpretato questi atti come puramente criminali, senza alcun contenuto politico, dimenticando che scuole e biblioteche, per quanto possa dispiacere, sono di fatto strumenti di esclusione sociale. Nonostante il suo valore emancipatore ideale, la scuola è per molti giovani la prima istituzione in cui le disuguaglianze sociali si trasformano in disuguaglianze scolastiche, in cui si subiscono discriminazioni razziste e disciplinamento poliziesco: addirittura, alcuni presidi collaborano direttamente con la polizia segnalando gli allievi più “vivaci”. In questo senso, la scuola non è che un’estensione del sistema poliziesco. In molte biblioteche di quartieri in cui la maggior parte delle famiglie a casa non parla francese, è difficile trovare materiale in lingue diverse. Anche in questo caso, un encomiabile intento emancipatore assume le sembianze concrete di uno strumento di esclusione o di imposizione culturale. L’attacco a questi luoghi è da leggersi come un attacco al sistema di esclusione sociale che opera quotidianamente nei quartieri. Non è un attacco ai “simboli” di tale sistema, ma proprio ai luoghi in cui materialmente esso prende forme visibili.

    In risposta a chi sostiene che la rivolta non abbia rivendicazioni concrete, è ancora più significativo il fatto che rapidamente si siano diffusi a macchia d’olio i saccheggi di negozi di ogni tipo fino ad arrivare al cuore dei quartieri ricchi delle maggiori città – qualcosa che non era mai avvenuto in contesti simili. Come spiegare questa evoluzione? Numerose scene dai quartieri in rivolta testimoniano del dispiegarsi di un momento di apertura, in cui tutto sembra possibile. Cadono i freni inibitori sociali, guardiani del desiderio, e la gente pare voler fare tutto ciò che normalmente è vietato. In questa disinibizione, in questo slancio desiderante, immediatamente emerge il bisogno-volontà di redistribuzione della ricchezza: quella ricchezza da cui il sistema capitalista-coloniale esclude socialmente.

    In questa dinamica di apertura è storicamente normale che capiti un po’ di tutto, e spiace dover fare l’avvocato del diavolo, perché significa che c’è qualcuno che in questa dinamica vede, appunto il diavolo, trasformandola in una questione morale. Perché ci si indigna per delle macchine ribaltate e bruciate e non per le migliaia di ingiustizie quotidiane considerate normali? Il sistema capitalista-coloniale fa in modo che certe categorie di persone abbiano meno possibilità di accedere agli studi; se vi accedono, hanno meno possibilità di concluderli; se li concludono, hanno meno possibilità di trovare un lavoro; se lavorano, hanno meno possibilità di essere ben pagati. Si tratta di una questione prettamente sociale, e sollevarla è squisitamente politico, che lo si faccia scrivendo comunicati ben impaginati o saccheggiando centri commerciali.

    Come mostra il caso di scuole e biblioteche, si potrebbe trovare una motivazione praticamente per ogni edificio dato alle fiamme nell’ultima settimana; a prescindere dalla sua funzione teorica e ideale ci si accorge che si tratta sempre di luoghi in cui si manifestano le disuguaglianze. Perché il sistema di oppressione e di esclusione dalla ricchezza è ovunque, e quando la rivolta esplode riesce a rendere visibile la sua presenza. Per dirla con Brecht, “tutti vedono la violenza del fiume in piena, ma nessuno quella degli argini che lo costringono”.

    Le rivolte in Francia sono una questione sociale. Davanti all’esacerbarsi sempre più intenso della questione delle disuguaglianze, lo stato francese si trova a un bivio: da una parte, l’emancipazione e la redistribuzione sociale della ricchezza, ovvero la costruzione di una società più inclusiva, egalitaria ed emancipatrice; dall’altra, il pugno di ferro per ristabilire l’ordine che produce e perpetua tali disuguaglianze, la violenza nuda e cruda a difesa degli interessi del potere capitalista razzista e coloniale, ovvero la strada del fascismo. In linea con la tendenza degli ultimi anni, acceleratasi vistosamente negli ultimi sei mesi e precipitata apertamente la settimana scorsa, il governo francese ha scelto il fascismo. (monsieur en rouge)

  • La dignità del vivente

    Lo scorso dicembre, il podcast francese di ecologia politica Le monde d’après ha intervistato Alessandro Pignocchi, militante del movimento dei Soulèvements de la Terre conosciuto nei mesi successivi per aver organizzato la manifestazione del 25 marzo 2023 a Sainte-Soline. Ho trascritto, riadattato e tradotto l’intervista nel testo qui sotto, che è stato pubblicato su Jacobin Italia.

    Il 21 giugno, il governo francese ha ufficializzato la procedura di scioglimento dei Soulèvements de la Terre, movimento ecologista radicale, conflittuale e di massa che conta più di 140.000 simpatizzanti e quasi 200 comitati locali, assurdamente accusato di «ecoterrorismo» nel contesto della spirale repressiva degli ultimi mesi che ha visto un inquietante deterioramento della libertà di espressione, segnalato anche dall’Onu. Il movimento, nato nel 2021, è stato all’origine di decine di azioni dirette di massa negli ultimi due anni (occupazioni di terre, sabotaggi, «disarmo» di impianti e stabilimenti nocivi per l’ambiente) ed è stato capace di federare attorno a obiettivi materiali e concreti una grande rete di associazioni, collettivi, sindacati, gruppi militanti, personalità del mondo culturale, intellettuale e artistico.

    Alessandro Pignocchi è uno di questi: fumettista con un passato da ricercatore in scienze cognitive e sociali, ha scritto di recente, insieme all’antropologo Philippe Descola, il «saggio illustrato» dal titolo Ethnographie des mondes à venir. Il podcast francese Le monde d’après, che si occupa di questioni legate all’ecologia politica, lo ha intervistato. In questa traduzione si toccano le principali idee politiche e strategiche dietro alle pratiche di azione diretta del movimento ecologista in Francia.

    Nel libro, appoggiandovi all’antropologia, dite che il sistema oggi egemonico, il capitalismo con gli Stati-nazione, è un incidente di percorso nella storia dell’umanità.

    Le strutture in cui si cresce, si riceve un’educazione, si vive, tendiamo a considerarle universali e indiscutibili, e spesso non abbiamo neanche gli strumenti per riflettere su di esse. L’esempio più classico di cui parla l’antropologia è la distinzione tra natura e cultura, l’idea che esiste qualcosa là fuori, chiamata natura, che sia una realtà oggettiva distinta chiaramente dalla cultura e dalle attività umane. Solo osservando quanto mostrato da studiosi e da popolazioni che si organizzano in tutt’altro modo, che non hanno nemmeno un vocabolo per esprimere ciò che noi chiamiamo «natura», ci si accorge che le cose potrebbero essere differenti.

    Un’idea è pensabile e criticabile solo se si riesce a immaginare il suo contrario: ciò è vero per la distinzione natura-cultura, ma anche per lo Stato-nazione o il capitalismo. Per fortuna esistono la storia, l’antropologia, l’archeologia, tutte discipline la cui funzione è dare a una società la percezione della relatività dei propri valori, del fatto che le strutture potrebbero essere diverse. Non sono semplici esercizi di immaginazione, ma forme di organizzazione sperimentate di fatto da altri popoli altrove nel mondo o in altri momenti della storia.

    Nel libro chiamate «naturalismo» la distinzione tra natura e cultura. Perché è un problema distinguere cultura e natura?

    Non è necessariamente un problema in sé. Il problema è che distinguere nettamente le società umane dagli altri esseri viventi e dai fenomeni naturali, e soprattutto attribuire a questi ultimi uno statuto di oggetto, ha avuto magari alcuni risvolti positivi (per esempio ha dato un impulso allo sviluppo delle scienze moderne) ma anche un certo numero di inconvenienti: è infatti una condizione dello sfruttamento e della devastazione capitalista del mondo, poiché crea una vasta categoria di oggetti da cui si può attingere risorse e materiale senza alcuna remora, senza alcun dovere di reciprocità. Si tratta di un comportamento che alla scala della storia dell’umanità è estremamente insolito: gli altri popoli del mondo non tendevano a considerare gli esseri non umani come materia inerte. Questo è il problema contingente della crisi ecologica: non la distinzione tra natura e cultura, ma le idee che la presuppongono, che si materializzano in istituzioni e fatti sociali. Esistono poi altri problemi, in particolare la povertà dei modi di relazione che produce nei confronti di piante, animali e luoghi di vita: o li si sfrutta, considerandoli come risorse, o li si protegge, ma la protezione «all’occidentale» è anch’essa un modo di relazione relativamente povero che si limita più o meno alla contemplazione estetica, e in ogni caso li si considera come oggetti il cui valore deriva dai servizi che possono renderci.

    Nei rari luoghi dell’Amazzonia in cui il capitalismo e il naturalismo non sono ancora penetrati profondamente, le piante e gli animali sono considerati soggetti, esseri con una propria interiorità, e dunque i modi di relazione con essi sono relazioni sociali: con loro si discute, si patteggia, ci si sente in dovere di reciprocità; tutte le attività di sussistenza come caccia, raccolta, agricoltura, si realizzano secondo modi di relazione diplomatici: si devono continuamente risolvere conflitti d’uso, morali, negoziando in maniera più o meno ritualizzata per andare d’accordo con i coabitanti non umani. In termini di rappresentazione, d’emozione, di coinvolgimento sono molto più ricchi di una semplice relazione d’uso, il che apre a maniere di stare al mondo più intense e felici rispetto a quando ci si limita al semplice sfruttamento o alla contemplazione.

    Noi non sosteniamo ovviamente che si debba diventare animisti come i nativi dell’Amazzonia, ma che si debba abitare il mondo secondo istituzioni, differenti dalle nostre, che ci porterebbero a tenere spontaneamente conto degli interessi della foresta, delle praterie, degli animali di allevamento, eventualmente degli animali cacciati, degli animali selvatici e di quelli domestici. Il punto è politicamente importante perché se si critica il naturalismo, nel senso di natura oggettificata, in cui i soggetti sono dalla parte delle società umane, solo quando si criticano le responsabilità umane per la crisi ecologica si entra in azione per «evitare il peggio»; invece è molto più forte lottare non per evitare il peggio, ma per andare verso un meglio. Sono modi d’azione più forti di quando si reagisce semplicemente all’ansia e alla paura della catastrofe.

    Come si possono avere relazioni diplomatiche con persone che non sono della nostra stessa specie?

    Non è scontato per noi che viviamo in un mondo in cui la diplomazia è un fatto sociale e il sociale riguarda esclusivamente gli esseri umani, ma dopo tutto l’idea non è così assurda. Nel luogo a cui ci ispiriamo, la ZAD di Notre-Dame-des-Landes, si può dire che in generale chi ci abita mantiene delle relazioni diplomatiche con gli esseri non umani: quando si tratta di scegliere quale albero tagliare nella foresta di Rohanne, si pensa agli interessi delle attività agricole, al bisogno di legno, ma anche e altrettanto seriamente a questioni di rigenerazione della foresta, per esempio facendo spazio per permettere la ricrescita di altre specie, per creare una maggior diversità e una foresta più ricca; quando chi alleva si chiede su quale prato far pascolare le pecore, le sposta dove il giunco comincia a invadere e trasformarsi in foresta; e lo stesso vale per il modo di trattare gli animali allevati. Magari il termine «diplomazia» è un po’ pesante, ma sono gli interessi di questi esseri in quanto soggetti a essere spontaneamente presi in considerazione. Per noi, le piante coltivate e gli animali allevati sono pura risorsa, sono «animali-materia» per dirla con Charles Stépanoff, e le piante sono ancora più oggettificate. Al contrario presso altri popoli fin dalla prima infanzia si ascoltano i racconti dei genitori, si osservano comportamenti in cui le piante coltivate, per esempio, sono considerate dalle donne come dei figli. Esistono tanti altri modi di interazione molto più sofisticati, tanto con gli animali cacciati nella foresta quanto con le piante coltivate: sono interlocutori con i quali si discute, si tratta. Ovviamente noi non proponiamo di metterci a credere che le pecore e gli alberi della foresta di Rohanne possano venire a trovarci in sogno per chiederci questo o quello, ma di costruire un ambiente in cui le attività umane di abitazione, di sussistenza, siano pensate collettivamente considerando gli interessi degli esseri non umani con cui coabitiamo, formulati ed espressi dalle persone che sono a diretto contatto con la foresta e con le greggi. Non si può conoscere con precisione cosa sia l’interesse di un albero o di una pecora, ma esistono a grandi linee direzioni che si possono immaginare, senza prendere troppi rischi, come buone e da favorire. Per esempio, il criterio della diversità: una foresta non tende mai da sola alla monocoltura, l’interesse di un ecosistema è di essere più diverso possibile.

    “Non difendiamo la natura, siamo la natura che si difende” – Vignetta dal fumetto La recomposition des mondes di Alessandro Pignocchi

    Affermate nel libro che anche se a volte abbiamo dei rapporti affettivi con soggetti non umani, per esempio parlando con un gatto, un uccellino o una pianta, ciò «non viene istituito». Come si può andare verso un’istituzionalizzazione?

    Nella nostra società, anche se esiste una legittimazione della relazione con gli animali domestici, quest’ultima costituisce un’eccezione: effettivamente con loro si discute, si hanno rapporti empatici, ma in generale le istituzioni su cui si articolano le grandi dimensioni del nostro rapporto col mondo, in particolare le nostre attività di sussistenza, sono estremamente oggettificanti. L’agricoltura industriale che nutre la maggior parte di noi non si pone certo la questione dell’interiorità degli esseri non umani. La tendenza generale che consiste ad attribuire un’interiorità a piante e animali, che manifestiamo soprattutto con gli animali domestici e che i bambini hanno molto più forte degli adulti, è qualcosa che crescendo impariamo a inibire, perché in generale in Occidente abbiamo plasmato istituzioni oggettificanti e non solo rispetto agli esseri non umani ma anche rispetto agli esseri umani. Le istituzioni economiche sono la forza oggettificante per eccellenza: per una struttura come il nostro mondo, dominato dalle regole del gioco economico, ogni essere, ogni ora di lavoro, ogni oggetto deve poter entrare nel mercato con un valore numerico, un valore di mercato, ed essere scambiato con qualunque altro oggetto. Si possono scambiare solo degli oggetti: a partire dal momento in cui ti accordo un’interiorità, non sei più scambiabile con un’ora di lavoro o con un oggetto o con una somma di denaro. Per un bambino che cresce in una grande città all’inizio è senza dubbio un po’ strano passare le giornate a scavalcare persone senza fissa dimora come se fossero meri ostacoli. Lo stesso vale per qualunque imprenditore o dirigente politico: imparano a oggettificare, devono inibire le proprie facoltà soggettivanti per trattare gli esseri umani che dominano come semplici oggetti, parametri di un’equazione senza un’interiorità. Vediamo lo stesso con l’allevamento: molti piccoli allevatori si avvicinano al mestiere per avere relazioni ricche e dense con gli animali, ma presi nella morsa del gioco economico hanno un vincolo di profitto, devono ingrandirsi e rendicontare e a poco a poco devono maltrattare gli animali e inibire sempre di più le facoltà empatiche che li avevano spinti all’inizio a entrare in quella attività, fino a trovarsi in un rapporto puramente oggettificante. Cito nel libro un allevatore di vacche che una volta oltrepassate le cinquanta vacche ha smesso di chiamarle per nome, per non impazzire. 

    Come cambiare queste istituzioni non è affatto scontato: strutturano praticamente tutto il nostro mondo da almeno due secoli. La sfera economica, il fatto che l’insieme delle nostre scelte sia determinato da questioni di profitto, è la prima cosa di cui disfarsi. Nella ZAD di Notre-Dame-des-Landes attraverso il mutualismo, la pratica dei beni comuni e l’attuazione di una forma di autonomia alimentare e politica, la morsa della sfera economica si allenta e ci si può offrire il lusso di pensare l’insieme delle attività che organizzano il territorio non più secondo criteri di profitto economico ma secondo ciò che si decide collettivamente in assemblee generali, considerando come soggetti non solo gli altri esseri umani ma anche gli esseri non umani, integrando i loro interessi alle decisioni collettive. L’esercizio di fantapolitica che proponiamo è di moltiplicare i territori di questo tipo. Appena si allenta un po’ la morsa dell’economia, è abbastanza ovvio considerare tutti gli altri esseri che abitano il territorio come co-abitanti, interlocutori, compagni di oppressione oggettificati dalle stesse forze statali e capitaliste: si hanno nemici comuni e solidarietà comuni.

    Scavo preliminare da parte del collettivo Naturalistes de terre, per la realizzazione di uno stagno in cui possano trovare rifugio una serie di specie animali della foresta di Bord, vicino Rouen, durante la manifestazione del 6 maggio 2023

    Vorrei rimanere su quanto hai detto sull’economia. Nel libro, parlate di supremazia della sfera economica. Potresti spiegare cosa intendete dire?

    Sul piano materiale è semplicemente la creazione di un mercato del lavoro da parte della borghesia, dunque la proletarizzazione della popolazione. Il primo ingranaggio, la base perché si abbia un proletariato che metta la propria forza lavoro a disposizione della borghesia, è che la popolazione che lo forma abbia perso le condizioni della propria autonomia.

    Ci sono molti modi che gli Stati hanno usato e continuano a usare. Il principale è la privatizzazione della terra: quella terra che le popolazioni erano solite usare come bene comune, attingendo collettivamente a un insieme di risorse che permettevano loro di vivere. Dal momento in cui si disse «questo non vi appartiene più, a partire da oggi dovrete pagare per accedere o disporre della terra», non si ebbe più altra scelta se non andare a vendere la propria forza lavoro. Ci sono mille modi come questo usati per proletarizzare la popolazione. Nel corso del XVIII secolo, i fatti economici si distaccano e acquisiscono autonomia rispetto ad altri fatti sociali; allo stesso tempo, gli economisti e i filosofi teorizzano la creazione di una disciplina, l’economia, come sfera autonoma, un insieme di fatti sempre più indipendenti che assumono una posizione dominante sul resto della vita sociale: esiste il mercato, che si concepisce come dotato di vita propria, e i suoi alti e bassi determinano le decisioni politiche. Oggi si giustificano leggi oppressive, di impoverimento, perché sono al servizio del buon funzionamento economico del paese e della crescita: ecco la sfera economica che domina sul resto della vita sociale. Rimetterla al servizio della vita sociale significa tornare a sottomettere, com’è stato nella storia dell’umanità, tutte le decisioni che riguardano la sussistenza, l’abitazione, il vivere insieme, non a regole economiche astratte ma a decisioni collettive, decisioni politiche: ovvero, sottomettere l’economia alla politica.

    Parlate anche dell’idea di compensazione ecologica, secondo cui se si vuole distruggere un territorio, per esempio cementificandolo, bisogna compensare piantando degli alberi altrove.

    Questo è ciò che si chiama commensurabilità generalizzata: ogni cosa è commensurabile, cioè può essere schiacciata su un asse di valore unico secondo cui tutto si può scambiare. In un mondo economicizzato se distruggi un ecosistema da qualche parte ma poi costruisci altrove qualcosa di valore equivalente, allora va tutto bene. Ciò significa che i legami affettivi di una popolazione con quell’ecosistema non hanno alcun valore. Infatti, perché esista la compensazione ecologica, è necessario che la totalità dell’ambiente e dei suoi abitanti non umani siano degli oggetti, per poterli scambiare con altri oggetti a cui si attribuisce pari valore… ma ovviamente per una popolazione che è cresciuta lì, che ha intessuto dei legami affettivi e magari, come nel caso delle popolazioni indigene, dei legami simbolici estremamente forti, dire «sì, la distruggiamo, ma niente paura: ne costruiamo un’altra altrove» non ha assolutamente senso, sarebbe come dire «prendiamo un vostro familiare, ma niente paura: lo sostituiamo».

    Nel mondo a cui aspiriamo, non esiste uscita dalla crisi ecologica senza disfare queste istituzioni oggettificanti, in particolare quelle economiche. Si devono invece costruire collettivamente e con forza delle istituzioni soggettivanti. In un mondo del genere, la compensazione ecologica diventa qualcosa di completamente assurdo.

    Nel libro constatate il sentimento di impotenza politica di responsabili di Ong che non vedono più a cosa serve ciò che fanno, ma allo stesso tempo criticate l’idea di un capovolgimento rivoluzionario che non vedete all’orizzonte. Proponete una specie di sistema misto in cui ci sarebbero degli Stati ma anche delle comunità autonome.

    Le Ong e tutto il mondo dell’associazionismo si sono sviluppate sotto la socialdemocrazia, che è stata un periodo assai particolare: alla fine della Seconda guerra mondiale, per molteplici ragioni molto contingenti, le classi dominanti sono state inclini a fare concessioni. Bisogna prendere atto della fine di quel periodo: la socialdemocrazia ha essa stessa liberato le mani del capitale e sdoganato la possibilità dei movimenti internazionali di capitale. L’idea che l’argomentazione e la disamina scientifica possano influire sulle decisioni delle classi dirigenti deve semplicemente essere abbandonata, soprattutto ora che la crisi ecologica accresce ogni giorno gli antagonismi di classe: le classi dirigenti si sentono minacciate, pensano a mettersi al riparo e non certo a condividere le ricchezze.

    Un altro problema è l’idea relativamente diffusa che bisogna sensibilizzare più gente possibile. Ovviamente è sempre ottimo riuscire a sensibilizzare, ma oggi la priorità non è questa: ci sono persone sensibilizzate a sufficienza, che soffrono del proprio lavoro di merda completamente assurdo, privo di senso, distruttivo… la consapevolezza e il desiderio di trovare altri modi di sostentamento, non distruttivi e che permettano di avere relazioni più piene con gli altri esseri umani o non umani non mancano.

    Resta il capovolgimento rivoluzionario, il grande evento, e va benissimo continuare a pensarlo. Esistono tuttavia ragioni di dubitare della sua possibilità vista la potenza militare degli Stati e a che punto siamo diventati incapaci di organizzarci collettivamente. Abbiamo tutto da reimparare e l’idea di spazzare via le istituzioni per ricostruirle a tavolino, insieme, in armonia, sembra una prospettiva politica perlomeno azzardata. Provare a pensarci resta fondamentale, ma riteniamo che non possa essere l’unico orizzonte politico. Proponiamo una via alternativa che in effetti non è incompatibile con l’idea del grande evento: riprendersi i territori sfidando i modi di gestione della classe dominante, proponendo pratiche di organizzazione differenti. Invitiamo a pensare alle trasformazioni che tali territori autonomi potrebbero comportare per lo Stato. Non diciamo affatto che si dovrà segregare il territorio e che ci saranno da un lato territori autonomi che fanno la propria vita e dall’altro Stati che continueranno a esistere esattamente come prima. Diciamo che uno Stato che si trova, per un motivo o per l’altro, a dover convivere con dei territori autonomi non è più lo stesso Stato, perché i territori autonomi non sono compartimenti stagni, la popolazione si muove. Basandoci sull’antropologia e la storia recente, vediamo che in una vasta zona dell’Asia del Sud-Est la coabitazione tra Stati e territori organizzati ai loro margini era tipica, e negli ultimi 20.000 anni della storia dell’umanità questa era una situazione estremamente normale. Dei territori autonomi offrirebbero alle popolazioni che vivono sul territorio dello Stato una sorta di piano B: un altro modo di sostentarsi, di abitare, di nutrirsi, di vivere in società all’infuori dello Stato. Questo conferisce un potere di negoziazione, dei margini di manovra, che purtroppo l’organizzazione e la solidarietà operaia non riesce più a ottenere dagli anni Settanta quando gli Stati sono riusciti a distruggere il mondo del lavoro, a stroncare sul nascere ogni tentativo di sperimentare una potenza collettiva. Il tentativo di riprendersi le terre e di organizzarvisi diversamente è un’arma relativamente nuova che per adesso gli Stati gestiscono meno bene, per esempio, dei movimenti sindacali, e che avrebbe un potere di trasformazione potenzialmente molto grande: crea popolazioni estremamente mature sul piano politico, da alle persone che abitano sui territori dello Stato la possibilità di sperimentare qualcosa di diverso, traducendo in realtà prospettive altrimenti puramente astratte (e una prospettiva astratta non mobilita gli affetti allo stesso modo).

    Al contrario di quanto accusa una parte della sinistra più tradizionale, secondo cui si finirebbe semplicemente col farsi l’orto da qualche parte abbandonando il proletariato alla sua condizione, pensiamo invece che questi territori hanno delle virtù intrinseche e sono anche delle possibilità flessibili.

    Manifestazione a Sainte-Soline, 25 marzo 2023

    Com’è possibile che questi territori si mantengano considerato che gli Stati dispongono di una forza coercitiva enorme?

    Questo pone chiaramente un problema, ma immaginiamo una serie di situazioni in cui una coabitazione forzata fosse possibile. Per esempio, in una situazione di seria instabilità politica – come un movimento dei gilet gialli moltiplicato per dieci – lo Stato non avrebbe che una sola risposta, fortemente repressiva, e le classi dominanti avrebbero un mero comportamento di autodifesa, mentre tutte le strutture che avranno sviluppato con successo forme di solidarietà, di mutuo soccorso e di autonomia si troverebbero a sopperire a bisogni primari della popolazione, mantenendo condizioni di vita decenti, e da un tale periodo di instabilità si potrebbe uscire trovandosi in una situazione politica simile, al netto di alcune ovvie differenze, a quella conosciuta alla fine della Seconda guerra mondiale. Per esempio, se lo stato sociale si è affermato attraverso il voto è anche grazie al fatto che il Partito comunista usciva dalla guerra come resistente vittorioso, mentre i grandi industriali, seppure con qualche eccezione, si erano mostrati collaborazionisti. In una situazione simile tutte le forme di autonomia territoriale, di solidarietà locale, di movimento associativo, uscirebbero dalla crisi con tutte le virtù del caso, mentre lo Stato e i padroni sarebbero del tutto screditati e si troverebbero obbligati a riconoscere le strutture istituzionalizzate dei territori autonomi e soprattutto la loro creazione, estensione, organizzazione in reti. Ci sono poi altri scenari possibili, ma quella di costringere, in un modo o nell’altro, lo Stato, di questi tempi è in realtà una delle principali prospettive politiche che non è irragionevole avere.

    In effetti, mi sembra che si parli molto della possibilità di collettivi autonomi in campagna.

    Riunire e federare forme di solidarietà e mutualismo tra movimenti rurali, contadini e movimenti di occupazione urbana è una grossa sfida, ma esistono diversi modi. Il collettivo «Reprise de terre» si pone direttamente queste domande: gli orti urbani, la ripresa delle terre in città per permettere forme di sussistenza minima, sono cose che si sviluppano in parecchi posti. Nelle grandi città dell’America del Sud è così che la popolazione è sopravvissuta nel periodo delle restrizioni pandemiche… Potrebbe suonare come un semplice aneddoto ma non lo è: l’antropologia e la storia mostrano che in generale le popolazioni umane hanno sempre oscillato su base stagionale tra modi di vivere estremamente diversi, sia in termini di sussistenza che di organizzazione politica. Da qui possiamo immaginare movimenti di popolazione stagionali tra centri più urbanizzati e territori di produzione agricola in cui ciascuno in un modo o nell’altro potrebbe partecipare alle attività per una parte dell’anno. Nel prossimo futuro, sono sicuramente interazioni di questo tipo che bisogna immaginare e costruire.

    Alla fine del libro, difendete l’eterogeneità dei modi di stare al mondo, ovvero non difendete un modello che dovrebbe applicarsi ovunque.

    Riteniamo che un mondo vario e diverso sia più bello da vivere che un mondo noioso e uniforme. Un mondo in cui ci sia una sola regola del gioco, un solo modo di essere una persona valida, è un mondo completamente deprimente. Una proliferazione di territori con diversi modi di organizzazione politica, diverse maniere di sostentarsi e soddisfare i bisogni, diversi sistemi di valori, crea possibilità di emancipazione molto maggiori di un mondo uniforme in cui le condizioni di dominazione sono ovviamente più severe e violente che in un mondo in cui esistano molteplici possibilità di scelta.

    In generale insistiamo sul principio della diversità anche perché ci sembra un valore meno antropocentrico e etnocentrico di molti altri. Si può ritenere, senza correre troppo il rischio di proiettare e antropomorfizzare, che la diversità è anche nell’interesse degli ecosistemi, degli ambienti di vita. Ci sembra insomma un valore con un buon numero di virtù e possiamo forse considerare la diversità come l’unico valore veramente universale, da prendere come presupposto per pensare tutto il resto.

    L’otarda di legno che ha aperto uno dei tre cortei di Sainte-Soline, 25 marzo 2023
  • Raffigurare la rivoluzione delle donne: corpi che interagiscono con le immagini

    Ho tradotto questo testo originariamente scritto in farsi da L., una militante femminista iraniana, tradotto in inglese e pubblicato su Jadaliyya, sito di riflessione culturale e politica dello spazio tra l’Africa del Nord e l’Asia occidentale. In questa intensa testimonianza diretta, una donna della rivolta in Iran racconta l’esperienza politica sensibile dell’essere un’immagine di libertà: impossibile da catturare, centralizzare, dominare. La mia traduzione in italiano è poi stata pubblicata su Dinamopress.

    Donne che danzano sul viale Bandar Abbas

    La sollevazione in Iran: una rivoluzione femminista?

    Per Zhina, Niloofar, Elaheh, Mahsa, Elmira, e per tutte coloro di cui devo ancora pronunciare i nomi.

    Questo scritto è il tentativo di elaborare un’intuizione nata dall’esperienza diretta di un divario: quello tra il vedere foto e video di proteste online e l’essere presente in strada. È uno sforzo esplicativo del corto circuito che attraversa l’apertura tra queste due sfere – spazio virtuale e realtà della strada – in questo momento storico. [In un corto circuito, si stabilisce una connessione tra due parti di un circuito elettrico che può causare una corrente fino a migliaia di volte superiore a quella che ci si aspetterebbe per il circuito]

    Le proteste hanno raggiunto la mia piccola cittadina pochi giorni dopo essere scoppiate in Kurdistan e solo due giorni dopo Teheran. Per diversi giorni, sono stata esposta a video che ritraevano le proteste della gente in strada, le loro canzoni, le foto e le figure delle manifestanti. Mercoledì, mi sono infine trovata io stessa nel mezzo di una protesta di strada. I miei primi momenti “lì”, in strada, circondata da altre persone, sono stati stranissimi. Appena un giorno prima avevo guardato queste persone manifestare da dietro lo schermo del mio telefono, ammirandone il coraggio, commuovendomi e piangendo di fronte alle loro azioni. Ora mi guardavo intorno e provavo a sincronizzare le immagini della strada con la realtà della strada. Quello che osservavo coi miei occhi era molto simile a quanto avevo già visto sullo schermo, ma c’era un divario, uno scarto tra la me-spettatrice e la me-in-strada, e sono bastati pochi brevi istanti per rendermene conto.

    La strada non era più per me un luogo di paura, ma uno spazio ordinario [faza-ye ‘adi]. Tutto era ordinario, anche quando le forze di sicurezza ci hanno attaccate con manganelli, proiettili e taser. Non so bene come spiegare la parola “ordinario”, non saprei che altro termine usare. Lo spazio tra me e le immagini che avevo desiderato si era accorciato improvvisamente: io stessa ero quelle immagini. D’un tratto, mi trovavo in un cerchio a bruciare il velo come se lo avessimo sempre fatto. D’un tratto, prendevo coscienza di me stessa e mi accorgevo che la polizia mi aveva picchiata appena qualche attimo prima.

    L’esperienza reale di essere picchiata era molto più ordinaria di ciò che avevo visto sullo schermo.  Non c’era traccia del dolore che avevo immaginato guardando quei video.

    Quando il corpo subisce i colpi è “caldo” e non proviamo il dolore che ci potremmo aspettare. Avevamo visto diversi video di corpi crivellati di pallini di gomma, ma le persone colpite dicono che non sono poi così dolorosi o terrificanti.

    In strada, d’un tratto pensi che dovresti correre e ti accorgi che hai già iniziato a correre. Ti dici che ti dovresti accendere una sigaretta e ti trovi proprio lì, tra la gente, a fumare una sigaretta [1]. Il corpo si muove più veloce della percezione, le due cose non sono ancora sincronizzate. Penso che neanche la morte faccia paura a chi ha sperimentato l’essere in strada. L’esperienza della strada sospende il pensiero della morte, ed è questo che fa paura a chi, dall’altro lato, osserva: vedere persone pronte a morire. Siamo persone pronte a morire. Anzi, nemmeno pronte: piuttosto liberate dal pensiero della morte. Ci siamo lasciate la morte alle spalle, nell’intimo incontro con le nostre paure e nell’aver corso oltre, nel calore dei nostri corpi.

    Una volta ho ricevuto sonori applausi dopo essere sfuggita a un confronto con le forze di sicurezza ed essere corsa a riconfondermi nella folla. Camminando di notte verso casa, un fattorino in moto passando mi faceva il segno della vittoria o mi lanciava urla di incoraggiamento. Ero ancora assorta nell’evento: non ero pienamente cosciente del motivo dell’apprezzamento e dell’incoraggiamento. La mattina dopo, guardandomi i lividi allo specchio, i dettagli degli scontri mi sono improvvisamente ripassati davanti agli occhi. Era come se mi fossi di colpo ricordata di un sogno di cui non ero cosciente fino a un attimo prima.

    Il mio corpo si era raffreddato, la mia mente aveva cominciato a lavorare. Non ero semplicemente stata picchiata: avevo anche resistito e risposto con pugni e calci. Il mio corpo aveva inconsciamente reagito facendo ciò che avevo visto fare ad altri. Mi ricordavo i volti increduli delle guardie nel tentativo di sopraffarmi. Soltanto adesso, dopo un certo intervallo di tempo, la memoria aveva raggiunto il corpo.

    Per me, la differenza palpabile tra questa protesta e le proteste a cui avevo partecipato in passato è stata il passaggio dal “movimento di una folla” alla “creazione di una situazione”. Ogni volta, nel breve intervallo prima dell’arrivo delle forze della repressione, un raduno di dimostranti si formava intorno a una situazione per creare qualcosa.

    Con l’arrivo delle guardie, a seconda delle condizioni della strada e di quella delle vie circostanti, il raduno si disperdeva dopo lo scontro, ma solo per riformarsi in un altro luogo. Queste situazioni si creavano quando la gente bloccava una strada, bruciando un cassonetto al centro della carreggiata e immobilizzando il traffico. All’interno di questa finestra di possibilità, la folla non enorme ma determinata cercava rapidamente di creare una situazione. “E ora bruciamo il velo.” Una donna saltava su un bidone, fronteggiava il traffico bloccato e alzava il pugno, restando fissa in quella posa qualche istante. Un’altra donna saltava sul tetto di una macchina e sventolava il velo per aria. Alcune donne di mezza età restavano nel mezzo del gruppo dall’inizio alla fine, muovendosi subito per aiutare il rilascio di eventuali persone arrestate.

    La figura della donna che porta la torcia su Boulevard Keshavarz.

    Chiunque voleva essere parte della massa di immagini viste nei video delle proteste dei giorni precedenti e provenienti da altre città. In questi momenti, le persone che intonavano slogan erano pochissime. Potevo chiaramente vedere il loro “desiderio” [meyl] di diventare “quell’immagine” [tavsir],  l’immagine di resistenza che gli abitanti della mia città avevano visto nei giorni precedenti. Qui di seguito vorrei esplorare proprio questo “desiderio”, per rispondere alla domanda: cosa rende quello che sta accadendo una rivoluzione femminista?

    Come ho scritto, queste proteste non sono incentrate sulla folla ma piuttosto sulla situazione, non sugli slogan ma piuttosto sulla figura-immagine. Per chiunque, e intendo veramente chiunque, è possibile creare da sé un’incredibile e radicale situazione di resistenza, in un modo che lascia senza parole.

    La fiducia in questo “possibile”, questa abilità, si è diffusa capillarmente. Chiunque sa che sta creando una situazione indimenticabile con le proprie figure di resistenza. Le persone, soprattutto le donne – queste tenaci e determinate cercatrici dei propri desideri – stanno inseguendo con forza questo nuovo desiderio, ed esso stesso, in una catena di desideri, fa sempre più da innesco alla creazione di altre figure e situazioni di resistenza: voglio essere quella donna nella figura di resistenza che ho visto nella foto, dunque creo una figura.

    Le figure erano già presenti nell’inconscio delle persone che protestavano prima ancora di metterle in pratica, come se fossero state messe a punto per anni. Questa figura di resistenza, questo corpo immortalato in immagini, diventa, in fondo alla catena di innesco dei desideri, un’incitazione al desiderio di altre donne di mettere in atto le proprie figure. Sapeste che desideri sono stati liberati in questi giorni dalla casa-prigione dei nostri corpi di noi donne!

    Vorrei contrapporre il vettore di forza che mobilitava la folla nelle proteste del 2009, per esempio, ai punti di innesco di adesso, punti di eccitazione molteplici e sparsi nelle strade. Come l’orgasmo femminile, questi punti non sono né concentrati né limitati a un punto preciso nella strada/corpo. Se voglio chiamare questa sollevazione una rivolta femminista, devo cercare qualcosa aldilà del punto di partenza delle proteste, lo slogan “Donna, Vita, Libertà”, e la chiamata iniziale a radunarsi da parte delle militanti femministe.

    Oltre a queste cose, ciò che ha esteso la sollevazione in una forma femminile e femminista e che sveglia i desideri delle donne nel mondo intero, sono i diversi punti di stimolo figurativo nei corpi in rivolta: figure che le persone che protestano desiderano visibilmente diventare, tanto che non è più possibile scendere in strada senza assumere la figura di uno di questi corpi disobbedienti, ribelli, resistenti, che si tratti di stare sul tetto di una macchina, salire in cima a un cassonetto, bruciare il velo, liberare una persona arrestata, o sfidare le forze della repressione.

    Le immagini di altre donne che resistono, viste da noi donne, ci hanno fornito una nuova comprensione dei nostri corpi.

    Credo che la singolarità di questa resistenza femminista e del suo carattere figurativo hanno fatto in modo che, fin dall’inizio, a diventare iconiche fossero le istantanee, le fotografie, molto più che i video. Sono state pubblicate in quantità massiccia fotografie che ci hanno rese orgogliose e che si sono rapidamente impresse nella nostra memoria collettiva, tanto che si potrebbe scrivere la cronologia di questa sollevazione attraverso le immagini pubblicate ogni giorno. Fotografie che alimentavano la sollevazione e la spingevano in avanti: la foto di Zhina [Mahsa] Amini sul letto d’ospedale. La foto della famiglia di Zhina che si abbraccia, in lutto, all’ospedale.

    L’immagine delle donne curde al cimitero di Aychi mentre sventolano i propri veli. Cosa vediamo di tutta quella scena: l’istante in cui i veli ondeggiano in aria, sospesi. La foto della lapide di Zhina. La figura della donna che porta la torcia su Boulevard Keshavarz. La figura della donna che sta in piedi da sola in mezzo alla strada, di fronte all’idrante sulla rotonda Vali Asr. La figura della donna seduta. La figura della donna in piedi. La figura della donna che tiene un cartello a Tabriz, faccia a faccia con le forze della repressione. La figura della donna che si lega i capelli. L’immagine del cerchio danzante intorno al fuoco a Bandar Abbas. E così via, moltissime altre.

    L’immagine delle donne curde al cimitero di Aychi

    Cosa conferisce a una fotografia questo incredibile potere stimolante rispetto a un video? Il tempo imprigionato nella foto. Il tempo imprigionato rende la foto densa, portatrice dell’intera storia durante cui quel corpo è stato soggiogato. La sollevazione delle donne in Iran è una rivolta incentrata sulle foto. Che cosa amplifica questo tratto femminista e non lo lascia sparire? Oltre al nome di Zhina, oltre a “Donna, Vita, Libertà”, con un livello di repressione talmente pesante che spesso è persino impossibile che si formi una folla, sono le figure della resistenza delle donne, che continuano a fare di questa sollevazione una rivolta femminista.

    Questo tempo condensato rende inadeguata una narrazione lineare della storia e mette in luce, al suo posto, la situazione nella sua topologia: i gesti, i momenti, le micro-battaglie che combattiamo ogni giorno. Per quel momento e tutti quei momenti. Non per una narrazione generale, ma per ogni piccola cosa.

    [2] Per quei micro-momenti fugaci, per riprenderseli, per quel nodo alla gola, per quella paura, per quell’eccitazione, per quella parola, per quell’istante che ancora continua, che si è trascinato fino ad oggi, nascosto sotto la notra pelle, sotto le nostre unghie, nei nostri nodi alla gola. Il passato prossimo: questo è il tempo delle fotografie. Fa crescere il desiderio, riporta alla luce il passato, lo estende fino a un secondo fa e nel momento presente, consegna la lunga sequenza di istanti al prossimo momento, alla prossima foto, alla prossima figura.

    In effetti, ciò che contraddistingue questa rivolta come femminista è il carattere immaginifico: la possibilità di creare immagini che non necessariamente catturano l’intensità del conflitto, la brutalità della repressione, o lo svolgersi degli eventi, ma piuttosto sono portatrici della storia dei corpi.

    Una pausa, un’interruzione. Guarda questo corpo, osserva per intero la sua storia. Qui. La figura della donna che porta la torcia, portatrice autosufficiente di storia senza bisogno di riferimenti agli istanti precedenti o successivi. La storia di questo corpo non è raccontata in una sequenza temporale lineare su un video volto a rappresentare la repressione o lo scontro o l’azione, ma piuttosto si cristallizza in un istante rivoluzionario. Soffermati sul momento in cui la donna solleva il velo mentre brucia e fa il segno della vittoria: il movimento degli occhi attraverso la larghezza dell’immagine, il bagliore dei fari dell’auto dietro di lei, le mani alzate, il volto sorridente dell’uomo che sta alla sua destra, gli alberi lungo la strada. Una figura, stop. Non servono il prima e il dopo, perché la figura non è creata dentro una sequenza temporale lineare ma in un respiro, in una pausa storica: un momento in cui il cuore della storia smette di pulsare per il tempo di un battito.

    Questi momenti e figure sono autosufficienti nel rappresentare la storia della repressione dei corpi delle donne. Ecco la caratteristica distintiva di questa rivolta. La rivolta femminista di corpi e figure. Il carattere femminista di queste proteste sta nell’aprire alla possibilità di creare queste immagini figurative.

    Queste immagini-icone influenzano a loro volta il desiderio di riempire lo spazio con immagini simili. Ho assistito coi miei occhi al dispiegamento di tale desiderio. Corpi che volevano essere una precisa figura hanno realizzato di avere la capacità di diventare quella figura.

    Corpi che dunque si esponevano al pericolo, si gettavano nella mischia, assumevano quella posa. Su un terreno in cui esistono poche occasioni di prendersi lo spazio, cercavano la possibilità di creare momenti di resistenza.

    Avevamo già visto immagini di donne resistenti: per esempio, foto delle Unità di Difesa delle Donne (YPJ) nel Kurdistan siriano. La differenza tra quelle foto e le figure delle donne nelle recenti proteste è la centralità del volto nelle prime, contrapposta all’assenza di volti nelle seconde. La particolarità delle prime con armi e tenuta da combattimento, rispetto all’universalità delle seconde che indossano abiti di tutti i giorni. I primi piani dei bei volti nelle vesti della resistenza (il desiderio di chi fotografa) hanno lasciato posto a immagini di figure di resistenza (il desiderio del soggetto). “Voglio che tu mi veda così”: immagini di capelli sciolti e scoperti e di pugni chiusi, di corpi sui cassonetti e sulle automobili.

    Queste figure richiamano Vida Movahhed e le altre “ragazze di via Enqelab”. [3] Vida sembra essere stata un punto di svolta nella rappresentazione della lotta delle donne iraniane contro il velo obbligatorio. Un punto di partenza, lontano dai video dei “Mercoledì bianchi” incentrati sui messaggi e sui volti – più che altro selfie di donne che camminavano per strada spiegando la situazione e i loro desideri. [4] Vida Movahhed è diventata la figura condensata di tutti i video che altre donne prima di lei avevano girato e diffuso camminando senza velo. Al contrario di queste donne, lei rimaneva in silenzio, immobile, punto di transizione tra il video e la fotografia. Una transizione dalla narrazione di una scena ordinaria alla creazione di una situazione storica, il passaggio da una persona che si esprime su di sé e sul proprio desiderio a un’immagine fissa, silenziosa, figura di resistenza. Qui, l’immagine della donna che protesta si è sottratta alla sequenza temporale del video, si è distaccata dalla rappresentazione di una scena ordinaria ed è atterrata su un palco carico di performatività storica: figura di tutte le donne prima di lei e ispirazione per le tutte le figure di donne dopo di lei.

    Vida Movahhed su via Enqelab

    In un ciclo senza fine, immagini e figure si trasformano l’una nell’altra: le immagini pubblicate e diffuse stimolano l’immaginazione dei corpi, poi le persone scendono in strada non con i corpi che sono, ma con i corpi che possono e vogliono essere. Con la propria immaginazione. Il loro atto rivoluzionario è incarnare questa immaginazione. In effetti in questo legame strettto tra immagine e strada, realtà e rappresentazione si orientano reciprocamente. Il sogno/rappresentazione/personificazione può imporsi sulla realtà, diventando quell’immagine e allo stesso tempo accendendo il desiderio di altri corpi di diventarci. È una catena di immagini, “corto circuito tra strada e spazio virtuale”.

    Accanto a queste figure individuali, ci sono anche state figure collettive. Il cerchio che brucia il velo. La danza intorno al fuoco che da Sari ha raggiunto le altre città. Vediamo la ripetizione di figure collettive senza che sia più possibile determinare il luogo preciso in cui sono avvenuti gli assembramenti. Nei primi giorni delle proteste, circolava un breve video di un piccolo assembramento di donne a Paveh. Uno sparuto e solitario gruppo di donne che camminavano dal fondo della strada. Questo gruppo, il cui assembrarsi appariva estremamente pericoloso, mi sembrava molto simile i raduni di donne in Afghanistan. Quella situazione storica lega insieme due immagini, due collettivi.

    Molte immagini non nascono perché non sono prese. Molte non “prendono” perché non danno origine a una protesta. Perché dunque certe immagini riescono a “prendere” anziché essere passivamente “prese”? Le figure hanno preso perché erano lo specchio storico delle donne. Credo che più che la considerazione iniziale “Avrei potuto essere io al posto di Zhina” [ovvero: sarei potuta morire anch’io in custodia della polizia morale], l’immagine della donna che brucia il velo sulla macchina ha acceso un intenso desiderio del tipo “voglio essere anch’io quella figura”, il desiderio di esprimere quella figura di speranza, ed è stata quella figura che non solo ha acceso il desiderio ma ha condotto i corpi delle donne a esprimersi e raschiare via la ruggine [zangar] dallo specchio che avevano davanti. Questo desiderio è stato stimolato da un’immagine, ma è in virtù della storia portata da quel corpo che è sbocciato trasformandosi in desiderio rivoluzionario. È tale desiderio figurativo che è distintivo di questa rivolta femminista, è l’esplosione di una storia repressa, come un corpo messo al mondo dopo una gravidanza che abbiamo vissuto per anni.

    Le figure di donne politicamente attive che conoscevamo in precedenza soffocavano l’attivazione del potere politico e la sua distribuzione, perché mettevano in risalto i volti e i nomi delle militanti. Volti e nomi smorzano il potere che ha una figura di accendere i desideri di altre donne perché rendono la situazione di quella figura particolare, speciale, rispetto alla situazione generale delle donne. Adesso, la figura si è liberata del limite del volto: è generica, senza volto, coperta da una maschera, anonimizzata per ragioni di sicurezza; è un’immagine scattata da dietro, senza nome, anonima; è il corpo politico della donna a circolare adesso per le strade.

    Dalla bellezza del corpo alla suggestione della figura. Dal corpo imprigionato nella bellezza al corpo liberato nella figura. Non si tratta di una trasformazione del sé in un corpo ideale, ma della creazione di una nuova figura di resistenza in ogni momento e in ogni corpo. Se il corpo è stato acceso e prende ispirazione dalle figure precedenti di cui ha visto le immagini nello spazio virtuale, esso crea una nuova figura e a sua volta ne ispira altre per il futuro, in una catena di stimoli e ispirazioni. Questa figura ha liberato le donne dalla prigionia, nel corpo e nella sua oppressione storica, e ha permesso al corpo di fiorire nel suo risveglio, scoprendo appena adesso la possibilità e la bellezza della propria resistenza. Maturando una seconda volta.

    Riguardo alla firma dell’articolo: una volta la persona che amo ha deciso di intitolare un progetto “L”, che volendo potrebbe riferirsi a me. Assorbita nell’esperienza di questo spazio rivoluzionario, così simile all’esperienza dell’amore, vorrei mettere da parte la mia costante esitazione rispetto a questo riferimento a “L” per, invece, appropriarmene insieme al gesto del mio compagno. La mia firma di questo testo come “L” è un’appropriazione rivoluzionaria del suo gesto. Ciò non solo mi protegge dalle minacce delle forze governative ma anche mi libera nella mia idea di amore, proprio nel momento in cui i nomi sono diventati simboli (riferimento al nome di Mahsa Amini e allo slogan, più volte ripetuto e difficile da tradurre, “Il tuo nome è diventato un simbolo”.

    Mahsa Amini, il tuo nome è diventato un simbolo

    Note

    [1] Questa frase è estratta da un passaggio che ho scritto al mio compagno dopo aver visto un video virale dell’apertura delle porte della prigione di Qasr e la liberazione dei prigionieri politici alcuni mesi prima della Rivoluzione del 1979. Questo scrissi il 2 agosto 2020:

    «Stanotte ho visto su internet il video della liberazione dei prigionieri politici. Visto e rivisto. Non potrei essere io a pettinare i capelli di quella donna scostandoli dalla fronte? Come si può provare gioia? È così sfuggente il momento in cui provi qualcosa come un’ispirazione profonda, pensi di essere felice, ma non appena torni alla realtà ti accorgi che sei una persona che era felice una volta mentre adesso l’incapacità di concepire quell’emozione passeggera rende tutto incomprensibile. C’era così tanta gioia in quel video. Che atmosfera… Non serve dire nulla. Basta scostare la frangia di capelli dalla fronte che hai davanti per riconoscerla e realizzare che lei lì, e sei tu a rivelare il suo volto.

    Sei tu?

    Sì, sono io.

    Un volto per tutte. Un volto liberato le cui emozioni non sono state represse che piange e ride. Piange mentre ride, in una sorta di attacco emotivo. Un volto che non è in grado di distinguere la gioia da una situazione trasformata. Il momento in cui tutto fluisce, l’istante della rivoluzione: non un momento prima o un momento dopo. La situazione sospesa, di divenire. Come si può riconoscere qualcuno nella folla in un momento di rivoluzione? Quando ogni organo del corpo supera la coscienza di sé e i modi di essere che aveva imparato. Scostando i capelli e cercando un ricordo lontano. Un neo nero accanto all’orecchio destro. Poi ti dici che dovresti accenderti una sigaretta e ti vedi lì, a fumare una sigaretta. Dici: dovrei cominciare ad andare, e vedi te stessa nella folla. Sei stata sempre lì».

    Nelle attuali circostanze rivoluzionarie, sto rendendo questa mia lettera personale proprietà comune Questa lettera non appartiene più solo al mio amante ma a tutti i corpi che ho visto e tanto amato per le strade.

    [2] #barayeh (parola che significa “per” nel senso di “a causa di”) si riferisce a un’iniziativa su Twitter che ha avuto successo: migliaia di persone hanno scritto ciò che le spingeva a scendere in piazza e sostenere le proteste.  “Per” gli studenti a cui è stato negato il diritto di studiare. “Per” gli intellettuali uccisi. “Per” la felicità negata alla generazione della guerra. “Per” gli operai della fabbrica di Haft Tappeh. E così via, a migliaia. Il giovane artista Shervin Hajipour ne ha ricavato una canzone, dal titolo “Barayeh”, il cui testo consiste di una sequenza di queste frasi pubblicate su Twitter, e che si è diffusa a macchia d’olio diventando uno degli inni della rivolta. Le autorità hanno arrestato Shervin subito dopo la pubblicazione della canzone.

    [3] Vida Movahhed è una donna il cui gesto silenzioso contro il velo obbligatorio ha ispirato un’ondata di azioni simili poi conosciuta come “Ragazze di via Enqelab”. Alla fine di dicembre 2017, Movahhed si è arrampicata su un quadro elettrico all’incrocio di via Enqelab, ha legato il proprio velo a un bastone e l’ha lasciato per aria. Arrestata e condannata a un anno di prigione, è praticamente scomparsa dalle cronache ma la sua figura con il velo in cima al bastone è diventata un’icona visiva della disobbedienza civile delle donne.

    [4] I “Mercoledì bianchi” sono stati una campagna online lanciata nel 2017 da Masih Alinejad, in cui le donne registravano video nell’atto di togliersi il velo in luoghi pubblici in Iran e li mandavano a Alinejad che poi li pubblicava.

  • Le lenti pervasive che non sai di avere: riflesso coloniale e guerra in Ucraina

    Esistono cose talmente normali da essere invisibili. Quando un valore è alla base stessa della società e ne struttura ogni aspetto, perché intrinsecamente integrato alla realtà sociale non solo ideologicamente, in quanto legato al pensiero comune e alla logica politica dominante, ma anche proprio materialmente, in quanto incorporato nei rapporti di forza presenti nella società e percepito da tutte o quasi tutte le sue componenti come naturale, allora ovviamente quel valore si fatica a vederlo e riconoscerlo. Proprio perché è ovunque: non è un particolare valore, è la normalità.

    Chi dalla nascita indossasse un paio di lenti rosse, incollate al viso senza possibilità di sfilarsele, avrebbe serie difficoltà a concepire un mondo non pervaso da una particolare sfumatura color sangue. L’Europa, e in particolare l’Europa occidentale, ha un problema: indossa da secoli un paio di lenti di cui non ha alcuna intenzione di sbarazzarsi e attraverso cui vede, interpreta, giudica, agisce. Queste lenti sono il riflesso coloniale. Non si tratta soltanto del retaggio ottocentesco di chi, sotto il peso del fardello dell’uomo bianco dell’opera di Kipling, cioè della presunta responsabilità storica e morale di “civilizzare” il resto del mondo, organizzava spedizioni militari con l’elmetto e la camicia color kaki; o di chi, rispettivamente nel 1896, 1899 e 1900, in divisa statunitense e britannica, inventava i campi di concentramento a Cuba, nelle Filippine e in Sudafrica, idea poi ripresa dai nazisti dopo decenni di rodaggio da parte delle potenze coloniali; si tratta anche di chi concepisce la storia come un percorso lineare e progressivo verso forme “più elevate” di organizzazione sociale (occorre dire che corrispondono al modello occidentale?); di chi crede che la democrazia e il sapere scientifico siano prodotti di una “cultura occidentale” che parte dalla civiltà greco-romana e prosegue verso l’Illuminismo passando per le “radici giudaico-cristiane” dell’Europa; di chi, con riflesso eurocentrico e orientalista consapevole o inconsapevole, ritiene la razionalità un carattere unico e distintivo del mondo occidentale moderno. Il riflesso coloniale è una questione di lettura di se e degli eventi del mondo, e il razzismo esplicito è solo un suo caso particolare.

    Restando in tema di lenti e di ottica, il riflesso coloniale è quindi uno spettro: si può scomporre come la luce che attraversando un prisma genera lo spettro dei colori da un unico fascio di luce bianca. Il riflesso coloniale si scompone in uno spettro che va dal razzismo genocidiario all’umanitarismo terzomondista e a un certo tipo di solidarietà. Sono colori diversi ma appartengono allo stesso fascio di luce.

    Nelle ultime settimane, parlando della guerra in Ucraina, il riflesso coloniale si è manifestato in diverse sue sfumature, nella lettura di diversi aspetti della situazione attuale: nella narrazione che viene fatta del popolo ucraino, nel trattamento della persone in fuga dalla guerra, nella demonizzazione di Vladimir Putin e il retroterra ideologico della politica delle sanzioni, infine nella narrazione di ciò che avviene in Russia sotto il fascismo putiniano.

    Civili cercano riparo sotto un ponte distrutto dai bombardamenti dell’aviazione russa, sul fiume Irpin (AP: Emilio Morenatti)

    La narrazione che vede il popolo ucraino solo come passivo

    Il riflesso coloniale è innanzitutto un atteggiamento collettivo. Tale atteggiamento riflette un ordine materiale costituito da ben precisi rapporti di forza che seguono la linea del colore, il regime della bianchezza; è anche allo stesso tempo prodotto e origine di precisi modelli di comportamento e di visione di sé che costituiscono il nocciolo psicologico del suprematismo bianco. Riflesso coloniale non è solo credere nella superiorità di chi è nato da questo lato delle frontiere del mondo, ma anche in quella del suo punto di vista: le altre prospettive sono viste come incomplete, ingenue, deviate, manovrate, parziali. Il punto di vista occidentale si spaccia invece per oggettività: è descrittivo e aderisce ai fatti, si basa su principi universali, valuta scientificamente il corso degli eventi.

    Questo atteggiamento si riscontra, in forma esplicita o velata, nella stragrande maggioranza delle persone, incluse quelle che, nel così detto Occidente, si reputano di sinistra, alcune delle quali nelle ultime settimane rischiano di rivelarsi i più fieri giustificazionisti dell’imperialismo russo: condannano l’aggressione ma con riserva, criticano aspramente qualunque ipotesi di aiuto logistico o militare alla popolazione ucraina aggredita, organizzano manifestazioni genericamente “contro la guerra” senza nominare chi la fa (nominando invece la NATO, unico vero nemico), sbandierano gli stessi argomenti addotti da Putin come giustificazione della guerra (la presenza del battaglione di Azov nell’esercito ucraino, le violenze nelle regioni russofone dell’Ucraina orientale, l’espansionismo della NATO; manca solo la corruzione morale dell’Ucraina governata da “gay, lesbiche e trotzkisti”, ma forse Marco Rizzo potrebbe essere d’accordo anche su quello).

    Praticamente tutti i sondaggi in Ucraina (senza eccezioni, almeno stando ai sondaggi pubblicati) mostrano che la maggioranza degli intervistati vorrebbe l’ingresso del paese nella NATO e auspicherebbero un intervento da parte della NATO in caso di invasione da parte della Russia? Dei sempliciotti, non sanno veramente cosa fanno. Certamente il giudizio di queste persone è manovrato dalla NATO, unico vero potere contro cui valga la pena lottare, cioè ovviamente quello designato, perché giustamente percepito come tale, da chi vive nei paesi “occidentali”. Guai a chiedersi il perché di questo interesse per l’ingresso in un’organizzazione militare internazionale espressione dell’imperialismo statunitense, oltre alla semplice manipolazione dell’opinione pubblica ucraina da parte della NATO espansionista e dei suoi servi: il punto di vista di quelle persone non si chiede nemmeno, e se lo si chiede non lo si ascolta, e se lo si ascolta non lo si prende molto seriamente. Perché esiste un solo punto di vista che sia veramente universale, che descrive la vera realtà dei fatti del mondo, e che dovrebbe essere una guida, una luce nella notte per tutte le pecorelle smarrite: il punto di vista di chi vive in un paese occidentale (e magari è anche bianco, maschio, eterosessuale, benestante e così via, ma meglio non aggiungere carne al fuoco) e che giustamente vede nella NATO la principale minaccia alla pace nel mondo. Chi ragiona così non riesce neanche a concepire che cercare un modo -un qualsiasi modo, anche disperato- di difendersi militarmente anche in maniera preventiva può essere una questione letteralmente di vita o di morte: per chi non ha il privilegio strutturale di vivere in un paese che non rischia di essere invaso dall’oggi al domani dalla superpotenza della regione, la priorità maggiore potrebbe essere difendersi dalla Russia, non dalla NATO.

    Lo striscione di Rifondazione Comunista in risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia

    Questa posizione non da ascolto alle persone direttamente coinvolte nel conflitto. Esse vengono schiacciate in un falso bipolarismo geopolitico che soffoca la voce di qualunque forma di vita irriducibile a una rappresentazione. L’incapacità di riconoscere la legittimità di chi si trova in posizione di potere strutturalmente sfavorevole e di ascoltarne seriamente la voce è una delle forme in cui si manifesta il riflesso coloniale. La solidarietà con una vittima è prima di tutto legittimare la sua versione dei fatti, non lasciarla sola, non parlare per suo conto a meno che ciò non sia espressamente richiesto: altrimenti, è sovradeterminazione. E la sovradeterminazione, compagne e compagni, è riflesso coloniale.

    Solidarietà con una persona vittima di discriminazione razzista o sessista significa rifiuto di argomentazioni sistematicamente addotte a difesa dell’aggressore che immancabilmente mettono in dubbio la parola della vittima (“bisogna approfondire”, “cosa ne sappiamo noi di come sono andate le cose”, “la questione è più complessa di quello che sembra”). Ciò non significa che la vittima ha sempre ragione, che la sua versione è sempre quella che corrisponde alla realtà scientifica oggettiva e misurabile dei fatti; ma il primo riflesso di una persona che si dichiari in solidarietà dovrebbe essere far sentire la vicinanza alla vittima, evitare di parlarle sopra o al posto suo, considerare e sostenere il suo punto di vista, anche avendo qualche dubbio. Pensate a come vi sentireste voi se foste vittime di violenza (di qualsiasi tipo) e qualcuno minimizzasse. La chiamereste solidarietà?

    La maggior parte delle piazze convocate dalla comunità ucraina in Italia contro l’invasione del 24 febbraio non hanno tra le parole d’ordine riferimenti alla NATO. Chi vuole partire dalla questione dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ed estendere la critica all’imperialismo in generale, e dunque anche quello statunitense o quelli europei, può farlo senza scavalcare la comunità con cui si sostiene di essere in solidarietà. Per esempio, può denunciare “ogni imperialismo”; invece, parificare il ruolo di Russia e NATO nell’invasione dell’Ucraina dichiarandosi “né con Putin né con la NATO” sarebbe come chiamare piazze in solidarietà col popolo palestinese con la parola d’ordine “né con Israele né con l’Iran”, solo perché l’Iran è nemico di Israele nello scacchiere geopolitico.

    Alcune persone oggi sono alle prese con questioni di vita o di morte. Se non vi piace esattamente il loro posizionamento politico e volete convincerle ad aderire al vostro, innanzitutto aiutatele a sopravvivere alle bombe. Nessuno nasce con la linea corretta impressa nel cervello. Date loro la solidarietà che meritano in quanto vittime di aggressione militare.

    Questo è un buon momento (l’ennesimo, a dire il vero) perché la sinistra occidentale ripensi il proprio approccio alle questioni di potere che coinvolgono persone o regioni del mondo che non godono degli stessi privilegi strutturali. Un buon inizio, adesso, sarebbe smettere di considerare gli oltre 40 milioni di persone in Ucraina come dei sempliciotti senza chiavi di lettura per comprendere a fondo la realtà del proprio paese e incapaci di compiere scelte politiche consapevoli. Continuare a fare questo, come sottolineato da un anarchico in Gran Bretagna, di origine polacca, sarebbe westplaining. Ovvero, un atteggiamento tipico del riflesso coloniale. A conferma di ciò, non è un caso che le letture più lucide sulla questione, fuori dall’Ucraina, si manifestino nelle parole del comunicato del movimento zapatista, che di colonialismo sa qualcosa, e di quello dei rivoluzionari siriani in esilio in Francia, che hanno subito le conseguenze della stessa incomprensione e arroganza da parte della sinistra occidentale quando l’assassino era Assad. In queste letture, il primo punto è: ascolta le voci di coloro che sono stati immediatamente colpiti dagli eventi.

    Due pesi, due misure: il colore di chi fugge

    “So cosa vuol dire dover lasciare la propria casa, la propria famiglia, per fuggire dalla guerra, e voglio aiutare chi, adesso, sta vivendo questo in Ucraina. Ma voglio anche sapere perché noi in fuga non dall’Europa abbiamo dovuto morire di freddo nella foresta. […] Com’è possibile che a una frontiera si picchia la gente e all’altra si offrono zuppa e biscotti? Non è forse razzismo?”. Queste le parole di Ibrahim, che ha vissuto il razzismo delle politiche migratorie europee al confine tra Polonia e Bielorussia, dove da mesi migliaia di persone sono bloccate senza via d’uscita, rifiutate dalla polizia bielorussa e respinte dalle guardie di confine polacche, con cui collaborano gruppi di neonazisti armati a caccia di stranieri.

    Una giornata come tutte le altre al confine tra Polonia e Bielorussia (immagine Reuters). The Guardian pubblica questa immagine in un articolo che da a Bielorussia e Russia la colpa per il trattamento disumano di queste persone da parte della Polonia.

    Le frontiere sono state subito aperte e l’accoglienza nei paesi dell’Unione Europea subito garantita alle persone provenienti dall’Ucraina, ma non è riservato a tutte lo stesso trattamento: fin dall’inizio della fuga, centinaia di persone afrodiscendenti hanno raccontato che dopo aver vissuto la difficoltà ad accedere ai treni speciali organizzati in Ucraina per l’evacuazione dei civili, in cui era regola la precedenza a “donne e bambini” bianchi, seguiti da uomini bianchi e solo infine da donne e bambini non bianchi, è stato ostacolato loro in ogni modo l’ingresso in Polonia, accompagnando tutto questo ancora una volta a una separazione fisica da tutte le altre persone e aggiungendo la minaccia di sparare, in una pratica che è letteralmente politica di apartheid (nazista, sudafricano, o statunitense degli anni Sessanta?).

    Chi ha continuato a viaggiare verso ovest ha visto la polizia tedesca alla frontiera tra Polonia e Germania bloccare tutti i treni, salire e letteralmente chiedere alle persone nere di scendere dal treno. La richiesta è stata motivata dalla necessità di controllare gli ingressi di persone di nazionalità diversa da quella ucraina, ma la spiegazione non regge: se fosse stata una questione di nazionalità, la polizia avrebbe parlato di nazionalità, non di colore della pelle.

    In questo caso, il riflesso coloniale è evidente e si esprime nella sua forma più conosciuta e spettacolarizzata: il razzismo vecchio stile, quello basato sull’aspetto fisico. Lo stesso razzismo è all’origine dei commenti sgomenti che hanno popolato fin da subito la descrizione del teatro di guerra ucraino: “questo non è un paese del terzo mondo, ma un paese europeo civilizzato”, “sto vedendo morire ammazzati bambini con gli occhi azzurri”, “stiamo parlando di persone che fanno una vita simile alla nostra, lasciano una casa con la TV e scappano in auto”, il repertorio potrebbe continuare a lungo e molte di queste frasi sono state pronunciate da giornalisti in diretta televisiva, dando a intendere neanche troppo velatamente che la guerra in un paese non civilizzato (qualunque cosa significhi), la morte di bambini dagli occhi neri e la tragedia di lasciare la propria casa senza possedere un televisore sarebbero meno toccanti.

    Un’infelice dichiarazione di Riccardo Chiaberge, giornalista e inspiegabilmente direttore scientifico per l’Enciclopedia Treccani, spiega il perché di tale differenza di trattamento: “Hanno più o meno le nostre abitudini di vita, la TV il frigorifero l’auto il fast food, quindi facciamo meno fatica a immedesimarci. Chi di voi riesce a immedesimarsi in un bambino yemenita? Giusto provarci, ma non è facile” (il tweet è poi stato rimosso, ma era così).

    Sana’a, capitale dello Yemen. Come vedete, zero automobili.

    A chi dice che questa particolare simpatia per chi fugge dalla guerra in Ucraina è dovuta al fatto che “l’Ucraina è più vicina”, andrebbe fatto notare che l’est dell’Ucraina non è più vicino di quanto lo sia la Siria (paese di provenienza di milioni di rifugiati dal 2011, trattati come bestiame dall’Unione Europea e da paesi compiacenti, come la Turchia, pagati dall’Unione Europea in miliardi di euro). Per non parlare della Libia, che dalle coste italiane dista qualche centinaio di chilometri ma da cui si fa di tutto per limitare gli arrivi e a cui si finanzia, invece, la costruzione di lager per contenere i flussi migratori mentre le guardie libiche abbandonano la gente nel deserto senz’acqua. Se poi qualcuno si affrettasse a correggere il tiro precisando che l’empatia per chi fugge dalla guerra in Ucraina è dovuta al fatto che l’Ucraina è “vicina” ma non in senso geografico, si potrebbe obiettare che anche per la Siria sulle pagine di alcuni giornali a tiratura nazionale (come Il Fatto Quotidiano, Famiglia Cristiana o La Repubblica) si era evocata una “terza guerra mondiale” che potrebbe coinvolgere i paesi europei, senza per questo suscitare tale moto di empatia e solidarietà. Chiaramente il distinguo non è dovuto a quel rischio, ma piuttosto all’eurocentrismo e al razzismo di chi è capace di solidarizzare solo con chi scappa da un paese che nella gerarchia razziale globale occupa una posizione relativamente elevata, o perlomeno sufficiente per meritarsi sincera solidarietà. La Danimarca, che dal 2016 confisca i beni dei rifugiati afgani e siriani oltre una certa soglia di ricchezza, ha annunciato che non applicherà questa odiosa legge razzista sui rifugiati ucraini (a conferma del fatto che si tratta di una legge scritta con intenti razzisti).

    Due pesi, due misure. Nelle piazze solidali con l’Ucraina si trovano bellissime parole sull’accoglienza di chi fugge dalla violenza e dalla morte, ma è molto difficile trovare riferimenti alla totale assenza di solidarietà dell’Unione Europea ai propri confini nei confronti di praticamente tutte le persone diverse da quelle provenienti dall’Ucraina (e con gli occhi azzurri). Nessun accenno al fatto che quell’avamposto dei sacri e tanto sventolati valori dell’Unione Europea che è la Polonia sta costruendo un muro anti-migranti alto più di 5 metri, dotato di telecamere, sensori termici e filo spinato al confine bielorusso, mentre impedisce selettivamente il passaggio delle persone non bianche in fuga al confine ucraino. Nel frattempo, media vicini ai paesi del patto di Visegrad dichiarano (per poi eliminare le dichiarazioni) che “gli africani in Ucraina non dovrebbero scappare, ma restare a combattere” contro l’esercito russo, come carne da macello.

    In Italia, quando Salvini ha detto che “l’Italia ha il dovere di spalancare le porte a chi scappa” perché “questi profughi sono veri e scappano da guerre vere” è veramente incredibile che a nessuno sia venuta voglia di insorgere contro la Lega; al contrario, seppure la cosa ha stupito alcuni giornalisti, questi hanno continuato a porgergli il microfono. Per quanto se ne sa, assolutamente nessuno di loro, né nessuna tra le figure politiche di rilevanza nazionale, ha reagito accusandolo di razzismo. Lo stesso vale per la vicenda di Salvini a Przemysl, in Polonia, dove è stato contestato dal sindaco in persona (di estrema destra pure lui) che si è rifiutato di rivolgergli la parola per le sue precedenti simpatie per Putin: parte del giornalismo italiano ha riportato la notizia sogghignando, ma avrebbe difficoltà a spiegare il fatto che molto spesso, invece di fare lo stesso e umiliare Salvini per le vergognose posizioni razziste, lo si intervista senza battere ciglio, lo si invita ai salotti televisivi, non gli si ribatte mai. La legittimazione che il giornalismo italiano offre a Salvini ogni giorno lo rende razzista tanto quanto Salvini: chi non lo umilia quando può è complice, perché non è antirazzista, ma solo antisalviniano, una posizione interna al campo razzista.

    Se l’avere a che fare così intensamente ed emotivamente con la questione delle frontiere non apre alcun dibattito sulla natura e la gestione generale delle frontiere; se le dichiarazioni razziste di un noto esponente politico non suscitano accuse di razzismo, ciò non può essere per caso. In psicologia, si dice che è un rimosso. Come il rimosso coloniale.

    La demonizzazione di Putin per difendere l’Europa

    La più grande manifestazione contro la guerra in Ucraina è stata quella di Berlino del 27 febbraio, partecipata da circa mezzo milione di persone. Difficile fare una statistica, ma la stragrande maggioranza dei cartelloni e degli slogan di quella manifestazione parlavano di Putin. Molti lo accostavano alla figura di Hitler. Esistono qui due problemi: il primo è la personalizzazione, il secondo la demonizzazione.

    Manifestazione contro la guerra in Ucraina, Berlino, 27 febbraio 2022

    Chiaramente, in questo contesto specifico, Putin è il volto dato a una forma di fascismo che si afferma tramite una politica di aggressione imperialista. Tuttavia, nonostante i numerosi accostamenti a Hitler, il fascismo non è quasi mai nominato (e ancor meno lo è l’imperialismo). Il motivo è abbastanza facile da intuire: riconoscere il fascismo di Putin e nominarlo per ciò che è significherebbe dover fare i conti con i vari fascismi nei paesi europei e dei paesi europei – che guardacaso sono stati o sono tuttoggi molto vicini a Putin, finanziariamente e politicamente. Cosa si può fare, da questo lato del continente, per solidarizzare con chi subisce l’aggressione e contrastare il potere fascista imperialista della Russia di Putin? Gli slogan contro Putin sono facili (del resto, anche il nome si presta a una miriade di giochi di parole almeno in tutte le lingue romanze), ma dove sono gli slogan contro gli amici di Putin? Il primo è lontano, ma i secondi sono spesso letteralmente sotto casa, o sui santini elettorali, se non tra gli scranni del Parlamento. Governi, capitalisti, istituzioni europee che con Putin e la sua cricca fanno affari da decenni. A loro, come ricordato nella parte precedente, si porge il microfono.

    Concentrarsi su Putin anziché su ciò che Putin rappresenta permette quindi di distogliere in generale l’attenzione dall’Europa, che ne esce candida e pulita: tutta la colpa è della Russia di Putin. Si badi bene che questa analisi non è in contraddizione con quanto detto sopra riguardo alla NATO. Se la colpa non è tutta della Russia, si potrebbe rispondere, allora non avrà colpe anche della NATO? La risposta -non ironica- è sì: la NATO ha sempre colpe. Tuttavia, anche parlare delle colpe della NATO significa puntare il dito su qualcosa di relativamente lontano: gli Stati Uniti (non ci si prenda in giro dicendo che l’Italia fa parte della NATO: è ovvio, ma non è questo il punto, visto che negli ambienti dell’anti-atlantismo non si fa altro che dire che essere parte della NATO rende i paesi membri burattini servi dell’imperialismo statunitense). Il risultato di questa operazione è molto simile: difende l’immagine dell’Europa. Chi, dall’alto del privilegio europeo, si preoccupa di difendere l’Europa, sta adottando un riflesso coloniale.

    Vi è poi la questione della demonizzazione. Non è un caso l’accostamento a Hitler, e non è un caso il fatto che tale accostamento anziché richiamare il fascismo ne allontani lo spettro: Hitler, e in generale il nazismo, è stato presentato come male assoluto da più di mezzo secolo di propaganda. Hitler era un folle, uno psicopatico, un demone. Non un fascista che agiva guidato precisamente dai propri principi politici. Nelle ultime settimane hanno abbondato analisi del personaggio Vladimir Putin, ipotesi sul suo profilo psicologico, riferimenti al suo essere folle, paranoico, psicopatico, narcisista, tra le altre cose (si cerchi su un qualcunque motore di ricerca “profilo psicologico Putin”).

    Si noti che, evidentemente, anche questa operazione difende l’immagine di un’Europa seria, saggia, composta, ragionevole, assennata, al contrario del folle Putin. Migliaia di utenti di Twitter capaci di prendere le difese dei manifestanti che nelle maggiori città della Russia hanno protestato contro la guerra in Ucraina, sarebbero pronti a chiedere l’arresto indiscriminato di migliaia di persone nelle manifestazioni che in Europa dissentono da scelte compiute da governi europei. Se Putin non è umano ma un demone, un qualcosa di ontologicamente diverso da Macron o Draghi, allora protestare contro Putin è accettabile e addirittura auspicabile, ma i movimenti che mettono in questione il potere in Europa occidentale sono teppisti, violenti, inaccettabile sfida al sistema democratico. I gilet gialli che dal 2018 protestano contro il ragionevole e assennato Macron sono degli incivili e dunque si sono meritati di essere arrestati e condannati a migliaia (oltre 12 mila), di essere repressi nel sangue (4500 feriti), accecati e mutilati dalla polizia (decine di vittime). Essere contro Putin va bene, ma mai e poi mai mettere in questione i governi “buoni”.

    Ricapitolando, i “due minuti d’odio” contro Putin sono giustissimi, ma bisognerebbe ricordare che in1984 di George Orwell i due minuti d’odio erano un dispositivo di costruzione del consenso. Che consenso si sta costruendo contro Putin se non quello intorno all’idea di un Occidente, in particolare un’Europa, ragionevole e razionale? E l’idea che l’Occidente sia ragionevole e razionale in contrapposizione alla Russia (fatta ovviamente coincidere con Putin – si veda di seguito) e magari a tutto il resto del mondo, cos’è se non riflesso coloniale?

    Manifestazione a Monaco: contro Putin ma non contro il fascismo?

    Il dissenso oscurato dalla narrazione geopolitica

    Un caso particolare del riflesso coloniale si trova infine nella narrazione di quanto avviene in Russia e Bielorussia, che vengono concepite e raccontate come blocchi monolitici, sovrapponendo governo e paese governato. Questa è una tendenza tipica delle letture puramente geopolitiche, che schiacciano ogni altro conflitto su quello tra potenze regionali o mondiali, ignorando la diversità di interessi interni a ogni singolo paese e le forze e i conflitti che ne scaturiscono. Nelle letture puramente geopolitiche, esistono la Russia, la Francia, la Turchia, ciascuna coi propri interessi da difendere, ma non le singole persone: gli interessi delle singole persone (o gruppi di persone) saranno sempre schiacciati da quelli delle entità geopolitiche, le uniche che scrivono veramente la storia, con cui si dovranno sempre misurare: alla Russia conviene invadere l’Ucraina, la Francia fa la Rivoluzione francese, la Turchia è contro la Grecia. Come nel gioco del Risiko.

    Inutile dire che, solitamente, chi adotta questo approccio e promuove questa visione è ben cosciente dei propri interessi particolari e della diversità di interessi e variegate posizioni politiche interne al proprio paese. Questa diversità, tuttavia, sembra sparire quando si parla di paesi altri: l’Altro è sempre indistinto, una rappresentazione astratta fatta di preconcetti e stereotipi, e non lo si conosce mai veramente, perché non è mai concepito in quanto individuo. E questa idea, a questo punto lo si sarà già capito, è riflesso coloniale. Si tratta letteralmente del mondo in cui l’Europa coloniale ha rappresentato e rappresenta i popoli nativi di ogni angolo del globo.

    Questa concezione sta dietro alla narrazione del tipo “noi contro loro” ampiamente adottata dai media occidentali (e certamente, in maniera speculare, anche da quelli russi), che da un lato ignora o depotenzia il dissenso in Russia e Bielorussia – così come fa con il filoputinismo in Europa costituito da gran parte dell’estrema destra e, involontariamente o meno, da parte della sinistra -, dall’altro alimenta il sentimento anti-russo a sostegno della politica di sanzioni abbracciata dai governi e le istituzioni occidentali. Allora fioccano – parallelamente alle sanzioni dirette contro “gli oligarchi”, cioè i capitalisti di nazionalità russa – le misure volte a discriminare le persone di nazionalità russa in quanto tali: studenti, attrici, atleti, ricercatrici. Sarebbero “loro” – questa entità indistinta – a sostenere il regime di Putin: avere la nazionalità russa equivale ad essere complice del governo russo, cioè contro di “noi”.

    L’opposizione di blocchi monolitici, cornice di lettura della realtà già ampiamente rodata nella retorica dello “scontro di civiltà” tra Occidente e Islam, non è una grossolana semplificazione: è una falsità. Basta parlare con le persone, ascoltare le loro storie e quelle delle loro famiglie. Gli esseri umani soffrono, partono, si innamorano, migrano, lottano, vivono spesso e volentieri contro le istituzioni di potere che controllano il territorio in cui sono nati, dalla notte dei tempi e in ogni angolo del mondo. La realtà pullula di esempi, è davvero improbabile non averne conosciuti anche da molto vicino. La facile accettazione della falsità che nega questi esempi è resa possibile dalla capillare diffusione nella società di una precisa ideologia, quella dello Stato-nazione, secondo cui nascere in un certo territorio è ragione sufficiente per finire sotto la tutela dello Stato che lo controlla e si dovrebbe poter trarre una qualche conclusione su di una persona esclusivamente dal fatto che è sotto tale tutela – il più delle volte per caso. Se si accetta questo meccanismo come “normale”, si percepiranno come “eccezioni” tutti gli innumerevoli esempi contrari, per quanto innumerevoli possano essere.

    “No alla guerra, libertà per i prigionieri politici”, Mosca (Evgenia Novozhenina/Reuters)

    Il dibattito è intossicato dal concetto insensato dello Stato-nazione a tal punto che pare impossibile immaginarsi altro, ragionare fuori da quella logica. Quasi nessun è capace di pensare al di fuori del prendere posizione come Stato, come se ciascun individuo fosse sovrapponibile, nelle sue scelte, a quelle dello Stato sul cui territorio si trova a vivere, o addirittura della cui nazionalità si trova, non per scelta, ad avere. Da qui i dibattiti poco entusiasmanti, tutti rigorosamente in prima persona plurale, su “cosa dovremmo fare”, che posizione “dovremmo avere”, che segnale “dovremmo mandare” in quanto Italia. L’Italia, in quanto Stato-nazione, non è meglio della Russia, e non si capisce per quale motivo chi ha a cuore i valori della solidarietà dovrebbe farvi affidamento.

    La narrazione “noi contro loro” non è che un diversivo e l’obiettivo è sempre lo stesso: fare apparire l’Occidente molto più diverso dalla Russia di quanto non sia. Mentre un ballerino russo o una ricercatrice russa non possono più lavorare perché fino a prova contraria sostengono la guerra voluta da Putin, al sottoscritto, di nazionalità italiana, nessuno ha mai chiesto di dissociarsi dalla guerra ai flussi migratori fatta di politiche omicide attuata dallo Stato italiano. In entrambi i casi, si tratta sempre di migliaia di persone che muoiono per precise scelte governative. Anche in questo caso, due pesi e due misure.

    E pensare che si potrebbero colpire specificamente gli interessi di Putin e dei suoi amici, ma non lo si fa perché salterebbe fuori che sono gli stessi interessi dei bravi capitalisti occidentali, che fanno parte della stessa cricca in un sistema di alleanze incrociate solo un po’ meno contorto di quello che unisce l’Occidente al terrorismo dell’ISIS.

    A dimostrazione di ciò, ai governi occidentali non sembrano essere piaciute le “sanzioni dal basso” messe in pratica da connazionali. A Biarritz due persone hanno fatto irruzione nella villa del genero di Putin, Kirill Shamalov, cambiato le serrature e invitato i rifugiati dall’Ucraina, per essere poi entrambi prontamente arrestati; a Colonia gli edifici di proprietà dello Stato russo occupati da un gruppo anti-militarista per dare alloggio a persone straniere e senzatetto sono a rischio di espulsione; a Londra il collettivo di occupanti della mega-proprietà del miliardario russo Oleg Deripaska, in Belgrave Square, è stato espulso manu militari quasi immediatamente, subendo quattro arresti. (Per chi avesse voglia di allungare la lista, qui si può trovare qualche idea). Tra gli “oligarchi russi” e chi sequestra dal basso le loro ricchezze in solidarietà col popolo ucraino aggredito, i secondi subiscono la repressione armata da parte dei governi “occidentali” a parole favorevoli alle sanzioni: gli stati “occidentali” proteggono con le armi le proprietà degli oligarchi russi, perché prima che russi sono miliardari, proprio come i miliardari occidentali, con cui condividono, fatta eccezione per brevi momenti storici, la gran parte degli interessi. Queste “sanzioni dal basso” hanno suscitato una certa simpatia e incontrato un certo favore presso l’opinione pubblica, perché dirette contro chi finanzia violenze imperialiste. E se qualcuno occupa la proprietà di un miliardario occidentale, non è la stessa cosa? Del resto, è veramente improbabile che un miliardario non abbia mai finanziato direttamente o indirettamente alcun progetto imperialista, inclusa la vendita di armi alla Russia, a ricordare ancora una volta il sistema di alleanze incrociate dissimulato dalla falsa narrazione del “noi contro loro”.

    Video dell’operazione della polizia anti-sommossa britannica in difesa degli interessi dell’oligarca russo Oleg Deripaska tanto odiato dal governo

    E si pensi a quanto accaduto sui treni tedeschi, al muro della Polonia, ai rimpatri forzati, ai barconi nel Mediterraneo: le politiche di muri, respingimenti, prigioni, esclusioni sono la norma della gestione dei flussi migratori a livello sovranazionale. In generale questo accade lungo tutte le migliaia di chilometri di frontiera della così detta Fortezza Europa: discriminazione, disumanizzazione, migliaia di persone annegate, assiderate, soffocate ogni anno. Non per incidenti ineluttabili, ma per deliberate scelte politiche. Dal punto di vista di quelle persone, nella loro esperienza materiale, le istituzioni europee non sono meno fasciste del regime di Putin.

    Ogni volta che si usa la prima persona plurale parlando di geopolitica, o più banalmente in qualunque discorso in cui si faccia cenno ad altri paesi; ogni volta che si traggono conclusioni su una persona basandosi solo sulla sua nazionalità; ogni volta che si identifica un governo col paese che governa, si conferma e si alimenta l’ideologia dello Stato-nazione alla base della guerra. Ideologia che, col corrispondente riflesso nazionalista, appare a troppe persone del tutto normale, proprio come il colonialismo e il riflesso coloniale, perché struttura intimamente la società e ne pervade ogni aspetto. Sarebbe ora di abbandonare entrambi questi riflessi prima che sia troppo tardi. Anzi, è già tardi, di qualche secolo.

    “Se ho un messaggio da dare, è che il mondo non è diviso in paesi. Il mondo non è diviso tra Est e Ovest. Voi siete americani, io sono iraniana, non ci conosciamo, ma comunichiamo tra noi e ci capiamo perfettamente. La differenza tra voi e il vostro governo è molto più grande della differenza tra voi e me; la differenza tra me e il mio governo è molto più grande della differenza tra me e voi; e i nostri governi sono molto simili” Marjane Satrapi

  • Camini

    Mi sono ritrovato per le mani questo scritto datato 8 febbraio 2021. Ho pensato di pubblicarlo qui perché magari parla anche ad altre persone, e sarebbe un peccato tenere per se questi pensieri, dolci e amari anche se magari sfugge qualcosa.

    Mi trovo sul divano, le gambe avvolte in una coperta azzurra, il resto avvolto dal silenzio notturno che solo il coprifuoco è capace di regalare come incongruo compenso per i danni arrecati. Accanto a me, l’inutile camino infilzato da parte a parte da un cavo elettrico e da allora diventato pura immagine eccetto che per la sporcizia nera che dissemina sul pavimento, che sarebbe facile da accettare se solo il camino funzionasse.

    Mi tornano in mente i giorni in cui cercavo casa ed ero assediato dai camini ornamentali. Poi la casa fu senza camino, ma non c’era bisogno di ornamento perché tutto quello che vi accadeva era decorazione. Da allora, il camino non era più simbolo di un assedio e di una conquista impossibile, invece mi ricordava il conforto di una casa amica ed era rifugio, lunghi discorsi attorno a montagne di olive e guacamole, la calma di un affetto fraterno fatto di complicità e nutrito da mille storie.

    Per associazione ripenso a quando, ancora prima, passavo la notte su un altro divano, troppo corto per distendersi del tutto, e infatti non ero disteso. Anche allora cercavo casa, ma l’ingenuità mi abitava ancora e non era mai stata inquilina sgradita. Erano tempi di incredibile scoperta, senza veri limiti allo stupore dinnanzi alla complessità della vita interiore e del mondo oltre le pareti della campana di vetro.

    Il camino trafitto è oggi qualcosa, ma non so più cosa possa simboleggiare: l’incombenza della vita, la fretta di una scelta, la fragilità dei luoghi, la tenacia dei ricordi? Non so dare un senso a questa immagine di camino, ancora una volta ornamentale a ricordare che i luoghi di vita non sono che luoghi spogli se non li vestiamo, vuoti se non li riempiamo. La cornice di marmo grigio scuro sostiene un vaso di fiori secchi, un portaincensi, una lampada rossa decorata da scorze d’arancia, due candele e un cesto di vimini pieno di spezie. Si deve riconoscere che ha una sua praticità, come ogni decorazione che si ricordi: nulla è solo ornamentale. E appeso in cima un quadretto tinteggiato di colori caldi, ricordo di viaggio di qualcun altro. Ma oggi pomeriggio ho visto tanti ricordi di me: la libreria, il mobile scuro che era il mio comodino, le credenze scassate, i cassetti della scrivania, la sedia, i vestiti addosso a Paul e anche un altro quadretto tinteggiato di colori caldi, ricordo di un mio viaggio. Mi sono detto che i ricordi si prendono e si danno, ma che una volta dati non ti appartengono più e sono percorsi da vita propria.

    Questa è in realtà la prima casa non popolata da ricordi che racconterò, fatta eccezione per la sua imminente demolizione. Mi viene da scrivere questo, ma poi mi ricordo della festa a sorpresa e dell’apparizione di mio fratello. La gioia di ritrovare la gioia. Il pupazzo di neve. Le serate in giardino quando non faceva freddo. Alla fine i ricordi non mancano, e se non li racconterò sarà solo perché non ne avrò bisogno. Ma mi mancheranno le due candele, il mazzo di fiori, la lampada e il cestino delle spezie che mi fissano eleganti e immobili appoggiati sulla cornice di marmo del camino morto? Sì, mi mancheranno.

  • La colonizzazione del sapere: la storia nascosta dietro le piante medicinali

    Una versione ridotta di questo post è stata pubblicata su Carmilla Online. Buona lettura.

    “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Generalmente, l’immagine suggerita da questa formulazione è quella di un oggetto che sotto l’influsso di un insieme di forze cambia forma. Pensando in questo modo, tuttavia, si sorvola su un fatto: anche l’insieme delle forze, agendo, si trasforma e anche gli oggetti che le producono sono a loro volta trasformati. Ogni trasformazione ne implica infinite altre, se si allarga lo sguardo.

    Questo fa il libro La colonisation du savoir di Samir Boumediene, pubblicato nel 2017 in francese e purtroppo non tradotto in italiano: allarga lo sguardo partendo dalla storia moderna delle piante medicinali del “Nuovo Mondo”, e lo fa in maniera intelligente, radicale, appassionante. Che molti prodotti oggi parte integrante delle abitudini di centinaia di milioni di persone in Europa siano originari dell’America (si pensi al tabacco, al cacao, al pomodoro) è un fatto risaputo; ma ridurre tutto a meri spostamenti di risorse attraverso l’Atlantico significherebbe non cogliere le implicazioni sociali, religiose, politiche, economiche. Ogni oggetto ha una storia incorporata inscindibile dalla materia tangibile. La colonisation du savoir prova a raccontarla prendendo le piante medicinali come indicatori dei rapporti di forza nella società e spiegando che, visto che la storia è incorporata negli oggetti, “tutti i giorni inghiottiamo dei morti” (pag. 8).

    Il riflesso coloniale

    La prima cosa analizzata nel libro è il rapporto contraddittorio e in costante evoluzione tra i popoli colonizzatori e il sapere dei popoli colonizzati. Quando gli europei giungono in America, si trovano al cospetto di un “nuovo mondo medicinale”, abitato da piante mai viste prima utilizzate da popoli mai visti prima in modi mai visti prima.

    L’atteggiamento dei coloni è dapprima di indifferenza per l’ignoto: se i coloni attraversano l’oceano è per trovare ciò che cercano (per esempio le spezie asiatiche), non scoprire cosa di nuovo esiste sul posto. Non appena si imbattono in qualcosa di vagamente familiare, usano i nomi delle piante e sostanze che cercano, quelle del Vecchio Mondo, eventualmente limitandosi a precisare la provenienza geografica. In realtà, spesso si tratta di piante molto diverse, simili solo per alcune delle loro proprietà. Spinti dalla volontà di trovare precisi prodotti gli europei esagerano le somiglianze e minimizzano le differenze: anche decenni dopo, quando ormai si sa che si tratta di piante diverse, sono reticenti a usare parole nuove per piante nuove. Per questo motivo, “le piante americane sono dei mosaici, ricomposizioni di cose conosciute” (pag. 72). La colonizzazione passa allora per l’imposizione di categorie europee, come forma di “imperialismo linguistico” (pag. 55). Questo gioco di specchi in cui gli oggetti europei sono la norma e tutto il resto del mondo non è che un loro riflesso continua ancora oggi, nascosto per esempio nel criptorazzismo di chi definisce “etnica” qualunque cucina che non sia di origine europea.

    Per certe piante americane gli europei provano non indifferenza ma repulsione ed è chiaro che l’origine di tale disgusto non è tanto da cercarsi nelle loro proprietà organolettiche quanto nel razzismo. Il cioccolato è descritto all’epoca come “brodaglia per porci più che per uomini”, il mate è considerato una bevanda diabolica che fa “vomitare come bestie”, la coca e il tabacco sono ripugnanti. Come descritto altrove, lo stesso vale per altre piante: secoli dopo l’importazione e l’acclimatazione di specie nutritive come la patata o il pomodoro, ancora naturalisti e medici europei mettevano in guardia dalle loro presunte “scarse proprietà nutritive”.

    Xocolatl (da cui “cioccolato”), bevanda maya con cacao, mais, peperoncino, vaniglia, achiote e diverse sostanze psicotrope.

    Tutto si trasforma

    Certi elementi della farmacopea americana poterono attraversare l’oceano ed essere integrati alle pratiche e i saperi medici europei. L’integrazione non fu un semplice passaggio da una sponda all’altra: fu una metamorfosi. Metamorfosi è la parola chiave di tutta la storia delle piante medicinali: subita dalla pianta nella selezione, raccolta, rielaborazione e preparazione in forma di un farmaco; indotta sul corpo di chi usa una pianta; provocata dal confronto con nuove forme di sapere, maniere di vivere, gesti quotidiani.

    Un esempio notevole è costituito dalla china, cui l’autore dedica una buona parte della ricerca. La china si presenta come una “corteccia rossastra e amara”, in grado di curare le “febbri intermittenti”, corrispondenti alla malattia oggi nota come malaria. L’ingresso della china nel repertorio medicinale europeo non è facile, perché cura un male molto diffuso e deve dunque farsi strada tra molti rimedi già di uso comune (pag. 207). In questo contesto nascono accesi dibattiti a suon di libelli, schedule e trattati: per la scienza medica europea dell’epoca, basata sui principi del galenismo, l’efficacia della china contro le febbri intermittenti è “inspiegabile” (pag. 209). Il galenismo (o teoria degli umori) è fondato sulla convinzione che le malattie derivino da squilibri nelle proporzioni di quattro elementi presenti nel corpo umano, caratterizzati da proprietà opposte (caldo-freddo, secco-umido), e che il rimedio alla malattia consista nell’applicazione di trattamenti che ristabiliscano le corrette proporzioni (per esempio trattando una malattia “calda” con un rimedio “freddo”). L’osservazione che la corteccia di china considerata “molto calda” cura malattie “calde” come le febbri intermittenti mette in discussione tali principi, col risultato che il sapere medico è rimodellato e ridefinito e lo stesso accade alle visioni del mondo ad esso sottese. Basti pensare che la china permette l’elaborazione e la diffusione di nuove ricette che rivoluzionano la farmacia europea, che la volontà di applicarla su larga scala come rimedio alla malaria si traduce nella costruzione di ospedali e nell’instaurazione delle prime politiche sanitarie moderne e che le sue proprietà curative facilitano la colonizzazione di Africa e Asia. L’efficacia della china come rimedio specifico per le febbri intermittenti ha conseguenze anche sulla relazione asimmetrica tra medico e paziente, intaccando il potere del primo a favore del secondo, perché chi si ammala può ora fare affidamento allo specifico senza passare per l’intermediazione della figura del medico: non è un caso che molti medici del periodo si oppongano alla diffusione della china tuonando contro i malati che “vanno direttamente in spezieria a comprare ciò che li cura” (pag. 239). Per finire, la materia prima da cui la china si ricava, cioè l’albero di china (Cinchona officinalis), resta per secoli avvolta dal mistero, il che rende frequenti truffe e contraffazioni che instaurano un clima di sospetto tra i vari intermediari nella filiera e aumentano la competizione per la risorsa, con il conseguente peggioramento delle condizioni di vita nei luoghi d’origine della pianta. È chiaro che appropriandosi della china gli Europei non si appropriano solo di una pianta, ma della capacità di gestire le sue proprietà (il suo potere).

    Insomma, i prodotti che attraversano l’Atlantico non sono semplicemente oggetti che cambiano posizione geografica: cambiano nome, forma, scopo, significato, ovvero cambiano natura relazionale, e con loro cambiano tutti gli attori che con essi vengono direttamente o indirettamente a contatto. La trasformazione, lo spostamento e la redistribuzione della materia si accompagnano a metamorfosi occultate: quelle dei rapporti di dominio, dei processi produttivi, dell’ambiente.

    Ciascuna di queste trasformazioni interroga le società: il legno di guaiaco cura la sifilide, ma la sua efficacia non rischia di attenuare la paura e condurre alla lussuria? Va bene importare il tabacco, ma sarà permesso fumare in chiesa? La cioccolata è un alimento o una medicina, ovvero è consentito il suo consumo durante la quaresima? Tutte queste domande che oggi fanno sorridere hanno generato dibattiti con difensori e detrattori, ciascuno con la propria posizione di potere, le proprie credenze e valori, i propri interessi da tutelare. La capacità di Samir Boumediene è non limitarsi a riportare i come e i perché di quei dibattiti, ma anche raccontare le storie di cui quei dibattiti sono stati prodotto intellettuale: storie in cui si intrecciano giochi di potere, pirateria, peripezie di libri perduti e ritrovati, intrighi politici e spinte religiose, operazioni di spionaggio, problemi erettili dei Vincenzo Gonzaga di turno (sic!), missioni scientifiche con obiettivi geopolitici, intere carriere costruite su provvidenziali casualità…

    La pianta di china e la sua corteccia.

    La violenza e l’accumulazione

    Un merito fondamentale di Samir Boumediene in tutta l’opera è di rendere con estrema chiarezza la violenza del processo di appropriazione della conoscenza locale da parte delle varie manifestazioni del potere coloniale. Anche il più comprensivo dei missionari come Bartolomé de las Casas, che contrariamente a molti contemporanei insiste sul fatto che anche gli indigeni abbiano un’anima, così facendo giustifica la loro evangelizzazione e contribuisce allo sradicamento delle culture locali. Anche il naturalista più ricettivo rispetto ai saperi indigeni come Francisco Hernandez, primo europeo a raccogliere organicamente le conoscenze botaniche dei popoli americani adottando addirittura la nomenclatura e la tassonomia nahuatl, non si fida della parola delle persone indigene, le considera incapaci di sfruttare al meglio la ricchezza e la diversità delle risorse del territorio (pag. 113) e si meraviglia che “genti tanto incolte e barbare” sappiano riconoscere con tanta precisione le piante e in generale la natura (pag. 111).

    Il sapere sociale relativo alle piante medicinali è stato saccheggiato e spesso estorto con l’inganno e con la tortura. Questo saccheggio culturale riflette una politica genocida fatta di sfruttamento delle risorse, imposizione di un regime di apartheid razziale, lavoro forzato e schiavismo, esperimenti scientifici sui “nudi corpi” degli indigeni disumanizzati, deportazioni e distruzione di intere società.

    Gli indigeni, prima profondi conoscitori dell’ambiente circostante e padroni di un sapere tramandato di generazione in generazione in società in cui il lavoro di cura è condiviso da tutta la comunità e “la conoscenza medica è comune” (pag. 59), una volta ridotti in schiavitù, separati e deportati per lavorare in veri e propri campi di lavoro magari distanti centinaia di chilometri, una volta morte le persone più anziane custodi di preziose conoscenze, perdono quel sapere, il filo di trasmissione si spezza. Allora, a fronte della spaventosa crisi demografica, la sopravvivenza degli indigeni si trova a dipendere dagli ospedali organizzati da missionari e gesuiti: in questi luoghi mirati all’indottrinamento e alla “pratica della vita cristiana” si applicano le varie conoscenze strappate ai popoli indigeni, che la capillare rete organizzativa ecclesiastica è invece capace di tenere insieme. Il potere si propone quindi come soluzione a problemi da esso stesso creati, e non deve stupire che ciò si traduca in una maggiore oppressione.

    Se la colonizzazione è stata uno spostamento globale verso una distribuzione fortemente asimmetrica delle risorse, più di quanto si fosse mai verificato prima, questa tendenza si è poi intensificata con la nascita del capitalismo e la sua affermazione come forma economica dominante, fino ai giorni nostri con livelli di disuguaglianza inediti nella storia dell’umanità. La relazione tra capitalismo e colonizzazione dell’America ha radici squisitamente materiali: l’accumulazione di risorse naturali, conoscenze e forza-lavoro operata dagli europei sui popoli indigeni americani e sugli schiavi africani della tratta atlantica corrisponde a un processo di accumulazione originaria, momento cruciale per lo sviluppo capitalistico.

    «Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione tra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro… Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. Esso appare “originario” perché costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione ad esso corrispondente» (Il Capitale, libro I)

    Marx parla delle enclosures dell’Inghilterra del Seicento che espropriarono le masse rurali delle proprietà collettive ad uso comune, ma nella storiografia marxista il concetto di accumulazione originaria è stato esteso ad altri processi, relativi anche a beni intangibili (come i saperi sulla gestione dei corpi nella caccia alle streghe), e queste parole sarebbero altrettanto applicabili alla deportazione degli indigeni come strumento di appropriazione del loro sapere sociale: i “produttori” delle conoscenze mediche (membri delle comunità indigene) e i “mezzi di produzione” (interazione con il proprio ambiente e comunicazione con gli altri membri) sono “separati” tramite meccanismi in parte identici alle enclosures (allontanamento fisico, divieto o impossibilità di riorganizzazione della comunità colpita).

    Del resto è lo stesso Marx a riconoscere il ruolo cruciale della schiavitù nell’ascesa del capitalismo:

    «La schiavitù diretta è il cardine dell’industria borghese, proprio come le macchine, il credito, ecc. Senza schiavitù niente cotone, senza cotone niente industria moderna. Solo la schiavitù ha conferito alle colonie il loro valore, le colonie hanno creato il commercio mondiale, e il commercio mondiale è la condizione della grande industria. […] I popoli moderni non hanno saputo fare altro che mascherare la schiavitù nel loro proprio paese e l’hanno imposta senza maschera al nuovo mondo» (Miseria della filosofia, capitolo 2)

    Il sapere morto

    Se l’Europa ha potuto dominare il resto del mondo non solo con la mera forza delle armi ma anche con la sua idea di progresso e la sua scienza, non è mai stato per particolari meriti: come già detto, le condizioni di quel progresso e di quel sapere scientifico sono state il più delle volte estorte con la tortura, il furto o l’inganno. Non è facile distinguere spedizioni militari e missioni scientifiche dell’epoca, e i naturalisti europei sono ben coscienti di ciò che rappresenta il continente americano: un immenso serbatoio di conoscenze di cui appropriarsi. Nel 1763, il naturalista Mark Catesby afferma con ammirazione che l’America “ha dato all’Inghilterra in meno di un secolo una diversità vegetale maggiore di quante gliene abbiano date le altre parti del mondo in più di un millennio”. Ma l’America non ha dato niente: è stata saccheggiata. Più tardi, il medico inglese Henry Barham pubblica un’opera da diffondere tra i latifondisti bianchi americani affinché possano “godere al meglio dei saperi ottenuti da Neri e Indiani”. Ottenuti come? Non viene precisato.

    Nel 1752 un più onesto Pierre Louis Moreau de Maupertuis scrive: “i soli rimedi specifici che siano conosciuti [dagli Europei] si devono al caso o ai popoli selvaggi, non uno si deve alla scienza dei medici”. Qualcosa di simile esiste ancora oggi, seppur in misura differente e meno drastica da quella delineata da Maupertuis: nella ricerca per lo sviluppo di nuovi farmaci una delle strategie utilizzate è attingere alle farmacopee tradizionali per isolare eventuali principi attivi interessanti. Questo mentre si continua ad affermare ideologicamente una superiorità assoluta della scienza accademica, tecnicista e riduzionista a scapito dei saperi medici popolari, quando invece è la prima ad attingere ai secondi, senza dover chiedere il permesso a nessuno e magari firmando brevetti ed esordendo alle conferenze internazionali con “io ho scoperto che…”.

    Come descritto sopra, la perdita dei saperi rende dipendenti da istituzioni di controllo che filtrano il sapere locale trasformandolo e a volte trasfigurandolo fino a renderlo irriconoscibile. La scienza europea accumula conoscenze che al contempo fa sparire.

    La colonisation du savoir mostra come questo sia avvenuto per quanto riguarda le conoscenze relative alle piante medicinali, ma ciò è (stato) altrettanto vero per le lingue, le economie, i modi di pensare, le maniere di vivere. Si pensi solo all’esempio delle lingue: per secoli, seppur in varie forme, si è tentato di salvaguardare il patrimonio linguistico americano (di una varietà impressionante) più annotandolo e descrivendolo formalmente che impedendo che si sfaldassero e infine estinguessero la maggior parte delle comunità che di quel patrimonio erano custodi. Anche quando ha tentato di “proteggere” quelle conoscenze dall’estinzione, la scienza europea non ha saputo farlo che mettendole “sotto vetro”, limitandosi a documentarne l’esistenza. Le pratiche di cura sono diventate sistemi sanitari, i beni comuni sono stati assorbiti dal mercato. Ma un sapere morto è meno prezioso di un sapere vivo, e se le pratiche di cura diventano sapere morto, le parole “pratiche” e “cura” perdono tutto il loro potenziale, così come i beni comuni muoiono una volta mercificati e rivenduti.

    Per evitare l’estinzione delle risorse prelevate per mano delle politiche estrattiviste, un insieme di misure sono attuate per la protezione degli indigeni e del loro ambiente: per esempio, l’instaurazione di un dispositivo che per la prima volta riconosce a qualcuno (la monarchia spagnola) la proprietà di una specie vegetale (l’albero di china). Comincia a profilarsi un nuovo rapporto con le risorse naturali, “la gestione sostenibile delle risorse biologiche” in cui “la preoccupazione ecologica si rivela in tutta la sua duplicità”, giacché si intende proteggere, “più che una risorsa naturale in via d’estinzione, il suo sfruttamento economico” (pag. 285). Benvenuti, insomma, nel capitalismo verde…

    La riduzione della vita alla forma-merce e l’occultamento delle relazioni in cui ciascun oggetto è inevitabilmente imbrigliato corrispondono a quanto Max Weber chiamava “disincanto del mondo”: la perdita della coscienza dell’anima delle cose. La china costituisce un esempio eloquente: da essa dipesero il corso della storia e i destini dei popoli del mondo intero, ma per gli Europei non era altro che corteccia trasportata in grandi casse. Il suo uso sempre più diffuso portò in pochi decenni a un disastro ecologico (pag. 241) al riparo dagli sguardi degli europei che continuavano a richiedere la china-merce come se si trattasse di un prodotto inesauribile e non la porzione di un essere vivente parte di un equilibrio di relazioni ecologiche. Anche l’ignoranza di qualcosa è sintomo di gerarchie e relazioni di potere.

    Il pulque (a sinistra) è ottenuto dalla fermentazione dell’agave (a destra)

    Dietro la cura

    Come già accennato, il potere coloniale limita o vieta l’uso di alcune piante (foglie di coca, pulque, rimedi abortivi, “filtri d’amore”, peyote…). Queste misure sono giustificate in nome della salute degli indigeni (pag. 381), ma è difficile credere alla bontà umana dei legislatori. Se sono promulgati decreti repressivi e se nonostante questo gli usi popolari continuano per secoli, è perché ovviamente non è solo questione di piante. In effetti, non è neanche solo questione di salute. Nella visione del potere coloniale, dietro ciascuna di queste piante si annida il “diavolo”, un particolare rapporto con l’invisibile immanente e onnipresente dietro al visibile sotto forma di spiriti e forze misteriose. Gli allucinogeni permettono agli indigeni di vedere immagini di quelle divinità che il potere coloniale intende estirpare. E se gli oppressori le vogliono combattere, bisogna scegliere da che parte stare. Così la repressione produce ciò che condanna (pag. 339). Le piante diventano strumenti di affermazione dell’identità indigena e di resistenza.

    Allora, il peyote è una pianta medicinale o una pianta rituale? Quando il guaritore della comunità assume il peyote per evocare e interrogare lo spirito sull’origine del male presente nel corpo da guarire e sul rimedio da somministrare, egli si sta richiamando a una concezione della malattia che sarebbe impossibile comprendere fuori da una precisa lettura della realtà (pag. 335), in cui la divinazione tramite allucinazioni fa parte della cura esattamente allo stesso titolo di un decotto di erbe, le due cose sono tappe necessarie di uno stesso processo teso alla guarigione. Chi usa quelle piante a scopo curativo, si affida a una serie di credenze che costituiscono l’impalcatura spirituale su cui si innestano le pratiche mediche: non esiste medicina senza morale.

    L’inscindibilità tra pratiche mediche e concezione del mondo è testimoniata dalla difficoltà incontrata dal potere coloniale nel tentativo di separare gli usi medicinali da quelli rituali, consentendo i primi e vietando i secondi, per legittimare la propria posizione di “protettore della salute”. L’operazione si rivela un fallimento: nelle culture indigene, una tale separazione non ha alcun senso. La distinzione tra pratiche mediche e pratiche non-mediche è una falsa dicotomia.

    Per questo, le politiche sanitarie nascondono invariabilmente aspetti diversi dalla gestione della salute. Nessun oggetto, e in particolare nessun farmaco, nessun trattamento, nessun gesto è fatto solo dalla materia sensibile che lo compone: tutto appartiene a una rete di relazioni. Vietare o imporre un oggetto significa anche vietare o imporre la storia incorporata in quell’oggetto, l’invisibile visione del mondo che gli è intrinsecamente legata.

    Dalla pianta di peyote si ricava un potente allucinogeno.

    Il potere della medicina

    Nel 1751, l’Enciclopedia del sapere illuminista riporta l’aneddoto delle “donne americane che abortivano perché i loro figli non avessero padroni efferati come gli spagnoli” e, attribuendo alla “durezza della tirannia” le cause di una pratica sanitaria, lascia emergere un senso della salute pienamente politico (pag. 315). Del resto, come notato sopra, non esiste medicina che non sia espressione di una certa morale.

    Sul senso della salute si gioca un conflitto profondo che mobilita diverse concezioni del mondo.

    Il potere della medicina è dire cosa è bene e cosa è male per il corpo, che diventa terreno di battaglia, e stabilire se qualcosa è un medicinale, una malattia, una pratica medica, oppure non lo è, relegandolo ad altri campi (religione, superstizione, politica, etica, tecnica…).

    Per comprendere come ancora oggi la medicina sia un potere nella misura in cui definisce il confine tra sfera medica e non-medica, facciamo un salto in avanti di qualche secolo. La quarantena, il distanziamento sociale, l’obbligo di mascherina all’aperto, la chiusura dei confini nazionali, il divieto di passeggiata, il coprifuoco notturno… sono misure sanitarie? Lo sono tutte allo stesso modo? In che misura sono sanitarie e in che misura competono a un campo differente? Quali concezioni del mondo e quali letture della realtà sono mobilitate da ciascuna di queste “pratiche mediche”? In che modo e per quali motivi queste pratiche sono diventate terreno di conflitto?

    È chiaro che ciascuna delle forze in gioco sullo scacchiere sociale teme che la questione della cura apra orizzonti indesiderati. Perché non lavorare sempre da casa per sfruttare meglio la forza-lavoro? Perché non cogliere l’occasione del lockdown per estendere le tecnologie di sorveglianza? Perché non rifiutare l’autorità degli esperti? Perché non usare d’ora in poi la mascherina per camuffarsi scontrandosi con la polizia? Perché non liberarci dell’economia?

    I medici e gli inquisitori “potevano contestare che il mondo visto sotto allucinogeni fosse reale, ma non potevano negare che fosse realmente visto” (pag. 336).

    Il potere coloniale in America dovette arrendersi: per proteggere le forme di vita, anche quando si vuole farlo per poter continuare a sfruttarle, non è possibile separare la sfera medica dalle altre. Le forme di vita necessitano di un corpo “sano”, ma anche di una storia, di un ambiente, di una vita relazionale “sana”. La dicotomia tra l’esigenza relazionale, affettiva, soggettiva, e la verità fisiologica, scientifica, misurabile, è una falsa dicotomia. L’apparente conflitto prende le mosse da due tensioni: “l’una riguarda cosa deve essere considerato attinente alla sfera medica e cosa non deve esserlo; l’altra riguarda l’esistenza stessa di tale scelta” (pag. 352).

    Incontrare il prossimo senza sospetti, avvicinarsi ai propri affetti, vegliare sui propri cari, radunarsi per condividere le emozioni, prendersi le strade con dignità sono essenziali per la vita degli esseri umani.

    Epilogo

    Nella sua opera, Samir Boumediene mette in relazione luoghi ed eventi apparentemente lontani e illustra come la colonizzazione abbia creato legami distruggendone altri: “dei minatori indigeni si ubriacano di vino nelle Ande e delle fattucchiere di origine africana tramano con la coca. In tutta l’America, la miseria e il rancore spingono al suicidio o all’aborto, la paura del maleficio avvelena la vita quotidiana e le piccole vendette si moltiplicano, mutandosi a volte in rivolte. Al prezzo di tutte queste trasformazioni, dall’altro lato dell’Atlantico dei malati possono curarsi e dei borghesi possono bere la cioccolata. La colonizzazione del sapere è simultaneamente interdipendenza e frammentazione dei destini” (pag. 422). Nella lettura di questo passaggio, come non pensare oggi alla catena di eventi, in parte sconosciuti e misteriosi non meno dell’albero di china all’epoca, che hanno portato alla proclamazione dello stato di pandemia mondiale, al tracollo delle economie e quasi al collasso dei sistemi sanitari di molti paesi?

    Ecco, allora, cosa insegna questo libro: prima di tutto, che in questo mondo frammentato anche se iperconnesso, la storia continua a impregnare tutto e a vivere dietro ogni cosa. La resistenza non muore mai. In secondo luogo, che l’appropriazione delle forme del sapere (lingue, usi, conoscenze) non è un contorno della storia della colonizzazione, un effetto collaterale della conquista, bensì un suo punto fondamentale: addirittura una sua condizione, con conseguenze sul significato pratico di decolonizzazione e sulla riflessione politica in seno al movimento antirazzista e anticoloniale.
    Ma soprattutto, punto oggi di estrema attualità, rivela ciò che di non scontato esiste dietro la cura e la medicina e come diversi modi di porsi rispetto alla salute, alla cura del corpo e della mente, alla responsabilità verso il prossimo possono essere, anzi certamente sono, dietro ogni gesto.

  • Chi fa scienza ha un ruolo politico

    La settimana scorsa, Lundi Matin ha pubblicato l’appello di una dottoranda per la politicizzazione delle cosiddette “scienze dure”. Si tende, per lo meno in Francia, a ritenere che le questioni politiche e sociali interessino poco chi si occupa delle cosiddette “scienze dure”, in quanto tali questioni ricadrebbero in una qualche maniera al di fuori del loro campo e sarebbero riservate piuttosto ai ricercatori in scienze sociali. Eppure, in questi ultimi anni, l’importanza assunta dalle questioni climatiche, ambientali ed ecologiche sta scombinando le carte e spinge sempre più scienziati e scienziate a partecipare al dibattito pubblico ed schierarsi politicamente. Proprio a ciò incoraggia questo testo.

    Il testo affronta una serie di questioni che in Italia sono già state discusse in maniera più o meno ampia a livello della teoria politica, ma forse non abbastanza metabolizzate sul piano della pratica e dell’impostazione discorsiva. L’ultima prova lampante è la quasi totale inconsistenza dei movimenti rispetto alle misure adottate in Italia in nome della pandemia, ma si potrebbero fare altri esempi in relazione alla fiducia cieca e al rispetto incondizionato che la generica sinistra “istruita” ripone nelle istituzioni scientifiche o nel Burioni di turno, a prescindere da ogni analisi che tenga conto dei rapporti di forza e dei conflitti che operano nella società, spesso a costo di reagire con una saccenza classista ed elitaria. Questo atteggiamento si chiama “scientismo” ed è esattamente quanto intende denunciare il testo che mi è sembrato opportuno tradurre. Visto che sono questioni già discusse in Italia, una parte di lettori e lettrici vi troverà asserite delle ovvietà, ma ripeterle di questi tempi non fa certo male, specie se si sottolinea la necessità di agire sul piano delle pratiche politiche e non fermarsi alla sola riflessione teorica.

    In materia di ecologia, il discorso scientifico occupa oggi una posizione considerevole, in particolare per quanto riguarda le scienze della natura (espressione qui usata per riferirsi a scienze come la meteorologia, l’oceanografia, la climatologia, la glaciologia, la biologia, l’ecologia scientifica, l’ornitologia, ovvero scienze il cui oggetto di ricerca rende conto, direttamente o indirettamente, delle devastazioni ecologiche attuali come il riscaldamento globale o l’erosione della biodiversità; si noti che si tratta di scienze la cui parola gode di una legittimazione forte da parte della stampa e che gli e le scienziate della natura sono relativamente poco politicizzati). Ogni nuovo rapporto dell’IPCC (gruppo inter-governativo sul cambiamento climatico, foro scientifico dell’ONU nato per studiare il riscaldamento globale) o del simile IPBES (piattaforma inter-governativa scientifico-politica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici) è riportato e commentato dalla stampa. Le analisi scientifiche del cambiamento climatico e dell’erosione della biodiversità compaiono tanto sui cartelli alle manifestazioni quanto nei discorsi del ceto politico (si noti che in Francia, contrariamente al altri paesi, esiste un consenso abbastanza solido a tale riguardo e il “negazionismo climatico” resta molto minoritario). Gli e le scienziate della natura ne sono pienamente coscienti e considerano che il loro staturo conferisca loro un preciso dovere di divulgazione delle proprie conoscenze. Per varie ragioni, c’è tra loro chi raccomanda o si vede imporre la “neutralità”, sia in termini di discorso che di posizione. Sebbene tale tentativo possa apparire legittimo, esso si basa su ignoranze e fraintendimenti che confondono il metodo scientifico con la neutralità, l’ecologia in senso scientifico con l’ecologia in senso politico.

    Discorso neutro o discorso vuoto?

    Quando si tratta di descrivere gli oceani, le nuvole, le specie animali e vegetali, le foreste, i suoli, o quando si tratta di rendere conto delle attuali devastazioni ambientali, il solo modo di essere neutri sarebbe tacere, il che ovviamente non sarebbe affatto soddisfacente in termini di comunicazione scientifica.

    Infatti, la scelta delle parole riflette i valori, la cultura e la visione del mondo di chi parla. Se esiste una battaglia di idee in merito alle parole impiegate per descrivere le distruzioni ecologiche, è perché esse sono di fondamentale importanza politica. Il termine “antropocene” è un caso eclatante: benché usato spesso dai media e da scienziati e scienziate della natura, è stato fortemente criticato e diverse alternative sono state proposte per sopperire ai suoi limiti. Il problema è che identificando un’ipotetica umanità indivisibile come agente delle devastazioni ecologiche attuali, il termine reso popolare alla fine del XX° secolo dal meteorologo e chimico Paul Josef Crutzen non permette di cogliere la ripartizione ineguale delle responsabilità all’interno della specie umana. Per esempio, si considerano insieme le società industriali e i popoli cosiddetti autoctoni o indigeni (la versione originale parla anche di popoli “primitivi” o “selvaggi”, ma mi rifiuto di utilizzare questi vocaboli, NdT), eppure questi ultimi non hanno niente a che vedere con ciò che chiamiamo, per questo a torto, “antropocene”. Anzi, alcune delle società non industriali sembrano addirittura fornire la prova vivente del fatto che la specie umana può vivere in equilibrio con il suo ambiente e rappresentano una fonte di ispirazione per immaginare le profonde trasformazioni a cui le devastazioni ecologiche dovrebbero spingere le nostre società. Per questo, c’è chi preferisce parlare di “industrialocene” o ancora di “occidentalocene”. Oppure chi identifica nel capitalismo il principale responsabile del disastro, e parla allora di “capitalocene”. Quest’ultimo concetto ha il merito di puntare il dito sul fatto che anche all’interno delle società industriali la responsabilità non è ugualmente condivisa tra gli individui (per esempio, il 7% più ricco produce il 50% di emissioni di diossido di carbonio, il 45% più povero solo il 7% delle emissioni): sono coloro che amministrano il capitalismo e supportano l’ideologia corrispondente ad esser chiamati in causa.

    È dunque chiaro che la scelta del termine “antropocene” per designare l’epoca geologica attuale, sebbene sia comune in certi ambienti scientifici e giornalistici, non ha nulla di neutro e, come molti termini derivanti dal campo delle scienze della natura, ha acquisito un portato fortemente politico. Il suo utilizzo rinforza certi preconcetti che ci impediscono di immaginare un mondo desiderabile per il “dopo” e alimenta una visione misantropica secondo cui gli umani in generale sarebbero il virus che devasta il pianeta. Se è certo che l’uso della parola “capitalocene” costerebbe a una scienziata la qualifica, da parte della stampa e dei colleghi, di essere schierata, se non proprio accusata di non-neutralità, lo stesso non può dirsi del termine “antropocene”. Voler descrivere il mondo in una maniera che si presume neutra porta in fondo a plasmare il proprio discorso sull’ideologia dominante, favorendo quindi lo status quo.

    Neutralità e status quo

    Consideriamo il caso di una presentazione su delle proiezioni climatiche della temperatura della superficie terrestre, in cui la persona che presenta sia portata a mettere le proprie ricerche in prospettiva e fornire un contesto che inquadri e giustifichi il proprio lavoro. Si parlerà per esempio di “transizione ecologica” o ancora di “obiettivi di sviluppo sostenibile”. In generale, si darà per scontata la necessità delle attività industriali, la disponibilità delle tecnologie attuali, un livello elevato di consumo di energia e materiali (questo è l’approccio tenuto, per esempio, dall’IPCC e l’IPBES). Benché la sobrietà e il risparmio siano sempre raccomandati, non si precisa mai dove si colloca il limite tra la sobrietà e lo spreco. L’istituzione statale sarà presa come norma e considerata come forma democratica di gestione. Si condanneranno i danni all’ambiente unicamente nella misura in cui avranno effetti sull’umanità: per esempio, la scomparsa di specie vegetali a causa del cambiamento climatico sarà messa in evidenza per le eventuali proprietà medicinali di questa o quella pianta, non per il loro valore intrinseco. Nel proporre eventuali soluzioni si dimenticherà, come spesso accade, l’impatto che l’estrazione mineraria necessaria alla transizione energetica occidentale ha sulle popolazioni locali in Asia, in Africa o America Latina. Una visione contabile, antropocentrica, etnocentrica e sociocentrica del mondo animerà i propositi scientifici della persona che interviene. La stessa cosa potrebbe verificarsi per una presentazione sull’acidificazione degli oceani, lo scioglimento dei ghiacci o la circolazione atmosferica. Una tale posizione non sarà considerata “di parte”, eppure lo è.

    Scienziati e scienziate della natura che fanno propria tale visione del mondo potranno esprimerla senza arrossire, a volte senza neppure rendersi conto che le proprie affermazioni non sono ovvie e scontate. Chi invece nelle scienze della natura pensa che è necessario cambiare radicalmente prospettiva, rimettere in causa i valori e i modelli sociali attuali, non oserà difendere le proprie idee per timore della disapprovazione dei colleghi, o addirittura di vedere messa in dubbio la propria integrità scientifica. Eppure, la documentazione scientifica delle devastazioni ambientali dovrebbe proprio portarci ad uscire dallo status quo, a sovvertire il nostro immaginario per trovare soluzioni in cui la specie umana, le altre specie animali e il loro ambiente di vita siano preservati.

    L’illusione della posizione neutra

    È impossibile avere una posizione neutra in un contesto politico. Quest’ultimo è fatto di opposizioni, di rapporti di forza, di conflitti, di vittorie per alcuni e sconfitte per altri. Evitare di prendere posizione significa agire in favore dello status quo, avallare le oppressioni invece che combatterle. Tra l’altro, come fa notare Jean-Baptiste Fressoz, storico delle scienze e dell’ambiente, la questione della “militanza politica” delle persone di scienza viene sempre posta quando esse mettono in questione l’ordine sociale, mai quando lo sostengono. Credere nella possibilità di una posizione neutra ricade in una concezione idealizzata del dibattito politico, che si vorrebbe mero scambio di idee da cui risulterebbe una decisione comune organizzata democraticamente dalle istituzioni politiche. Non è affatto così. Le attuali forme di governo sono autoritarie, dalle aristocrazie elettive che sono gli Stati alle grandi imprese gerarchiche sottoposte esse stesse al mercato. In tale contesto, non prendere posizione significa lasciare il potere decisionale ai “responsabili” politici e alla “razionalità” economica che hanno portato proprio alla situazione attuale mettendo in pericolo le condizioni di vita e devastando il mondo vivente sulla Terra.

    La figura dell’esperto è il problema

    La ricerca di neutralità da parte delle persone di scienza deriva dalla posizione di “esperte” che è loro attribuita nella società e nel dibattito pubblico. I sistemi di governo autoritari che conosciamo sono fondati sul primato del sapere tecnico su ogni altra forma di sapere. Lo scientismo (che altrove è stato definito una “nuova chiesa universale”) ritiene che solo il metodo scientifico permetta di accedere alla verità e che quindi ogni decisione deve essere presa sulla base di fatti stabiliti scientificamente. Questo postulato conferisce alla figura dell’esperto uno statuto di autorità. Come persona di scienza è allora legittimo non voler prendere una posizione in nome della scienza in un dibattito di idee politiche, per non scalfire lo statuto di autorità per la difesa di posizioni personali. Questo proposito è in effetti ingannevole, perché la conoscenza scientifica non permette mai da sola di affermare se questa o quella posizione politica sono buone. D’altro canto, un tale abuso rischierebbe di mettere in crisi la credibilità della parola scientifica. Eppure, una persona di scienza non deve privarsi di esprimere la propria posizione come individuo, perché non si può non prendere posizione, come visto già sopra.

    Del resto, se una persona di scienza quando esprime la propria opinione come individuo deve mostrarlo chiaramente e non farlo in nome della scienza, ciò non deve dar l’impressione che il suo lavoro scientifico sia, in sé, neutro. Sbaglierebbe chi dicesse che chi fa scienza deve comunicare in modo esplicito separando i momenti in cui milita in quanto cittadino e quelli in cui si posizione in quanto ricercatore. Da un lato, l’individuo e il ricercatore sono indissociabili, dall’altro metodo scientifico non significa neutralità ma piuttosto attendibilità (essendo i risultati verificabili e riproducibili). Questi fatti sono da esplicitare fin dall’inizio quando una persona di scienza interviene in un dibattito pubblico.

    Inoltre, lo scientismo inibisce in chi fa scienza della natura la capacità di esprimersi su questioni di società diverse dall’oggetto diretto dei propri lavori di ricerca. Di fatto, se solo gli esperti hanno ragione, allora la parola di un non esperto non è mai legittima, così come un oceanografo non dovrebbe esprimersi in questioni di agricoltura, un biologo non dovrebbe esprimersi in questioni di produzione energetica e così via.

    Tuttavia, questo funzionamento tecnocratico ha dato prova di non essere capace di risolvere i problemi che produce, in particolare in materia di difesa della natura. La specializzazione a oltranza delle competenze tecniche impedisce agli individui di comprendere il mondo nella sua globalità e la delega delle decisioni a un’aristocrazia (sia pur eletta) porta all’accaparramento della natura da parte di una minoranza. Peraltro, nonostante la serie di nuove soluzioni tecniche ai problemi ambientali provocati dalle attività industriali, i danni non accennano a ridursi.

    Infine, va tenuto ben presente che la prospettiva di un potere autoritario “ecologico” in cui la gestione delle risorse naturali fosse assicurata da un estremo controllo della popolazione non è affatto felice. Lo spettro dell’ecofascismo è presente, incombe fin dal Rapporto sui Limiti dello Sviluppo e si avvicina sempre più con il fiorire delle “smart cities” (si suppone che le città intelligenti dovrebbero migliorare la gestione e la distribuzione delle risorse, ma sono un ottimo pretesto per il dispiegamento di politiche securitarie, di sorveglianza e controllo della popolazione, che spesso il capitalismo si affretta a dotare di un’aura verde ecosostenibile). Esistono svariate società possibili che prendano in considerazione i limiti del pianeta e non saranno gli esperti a poter decidere quale progetto politico ecologico sia “migliore”. Esiste una grande differenza tra ambientalismo ed ecologia politica: quest’ultima permette di comprendere che non esistono traiettorie univoche dettate da considerazioni ecologiche.

    La scelta del pubblico

    I rapporti scientifici dell’IPCC o dell’IPBES non vengono dal nulla: conformemente all’organizzazione tecnocratica delle nostre società, essi sono inizialmente destinati ai responsabili politici (così come da loro sono commissionati), per consentire loro di prendere quelle che si presumono le migliori decisioni. Questi rapporti hanno tuttavia assunto un peso considerevole nel dibattito pubblico: permettono ai non esperti, cioè cittadini e cittadine, di informarsi sulle devastazioni ecologiche, di comprendere meglio il funzionamento del mondo naturale in cui viviamo e sono anche un mezzo di fare pressione su chi governa. In questo modo le persone di scienza, attraverso uno strumento tecnocratico come i rapporti scientifici destinati a chi decide, alimentano paradossalmente una trasmissione di sapere e di potere verso il basso.

    Nelle scienze della natura, molte persone sono tuttavia persuase che i rapporti scientifici non siano abbastanza e che sia necessario andare incontro al pubblico per trasmettere le proprie conoscenze: si impegnano così nella divulgazione e nella comunicazione, e ciò non può che essere accolto positivamente. La scelta del pubblico cui si rivolgono ha anch’essa carattere politico. Il fatto che Jean Jouzel, ex-vicepresidente dell’IPCC nonché ex direttore dell’Institut Pierre Simon Laplace, tenga delle conferenze sul clima a bordo di navi da crociera di lusso è stato fortemente criticato da parte del movimento ecologista. Non si può considerare neutro neanche il fatto che Hervé Le Treut, neodirettore dello stesso istituto, abbia tenuto una conferenza a un meeting del partito di Macron, En Marche. In Francia, Valérie Masson-Delmotte è probabilmente la ricercatrice più attiva nella diffusione dell’informazione scientifica sul clima. Oltre a intervenire nelle università e nella stampa, sceglie di andare a incontrare chi milita nel movimento per il clima e anche di discutere con Assa Traoré (che lotta tenacemente per reclamare verità e giustizia dopo l’assassinio di suo fratello Adama Traoré da parte della polizia francese nel 2016). Tale iniziativa è di particolare importanza visto che la popolazione che si considera “ecologista” è in maggioranza bianca e proveniente da classi sociali agiate. Si vede dunque dalla diversità di pratiche che la scelta del pubblico a cui ci si rivolge non è mai neutra, proprio come la natura del discorso e la posizione assunta da chi parla in quanto persona di scienza.

    Chi fa scienza è un soggetto politico

    Se il metodo scientifico permette di controllare oggettivamente la veridicità di un’affermazione, l’oggetto di studio è comunque sempre definito da valori e priorità che sono, esse, politiche. Le istituzioni, le modalità di finanziamento e di funzionamento della scienza non sono né oggettive né razionali. È indispensabile che coloro che fanno scienza si approprino, se non lo hano ancora fatto, della dimensione politica delle proprie discipline. In realtà, molte persone sono impegnate in un impostazione di riflessione politica profonda, e attingono alle scienze umane e sociali informazioni preziose: cominciano a prendere posizione nelle tribune o in occasione delle presentazioni scientifiche, si impegnano in azioni sindacali, partecipano attivamente ai movimenti, creano collettivi di ecologia politica. Questo testo è un appello per l’amplificazione di questo movimento di politicizzazione delle scienze della natura.

    Verso la politicizzazione

    Per trasformarsi da scienze ridotte ad analisi tecniche in scienze capaci di assumere e cogliere la propria funzione politica, è necessario aprire i mondi della ricerca. Le scienze della natura non avrebbero che da guadagnare mescolandosi a discipline come l’antropologia, l’economia, la filosofia, la sociologia o la storia, essenziali per comprendere ciò che porta alle devastazioni ecologiche. Dei collettivi di ricerca, come l’Atécopol di Tolosa, si muovono già in quest’ottica di scambio tra le discipline. Questa impostazione permette di capire il mondo nella sua globalità per assumere una posizione politica piuttosto che allinearsi automaticamente a uno status quo potenzialmente devastatore. Una simile apertura e presa di posizione implicano di uscire dal ruolo di esperti ed esperte e di condannare la tecnocrazia, come alcuni collettivi quali Survivre et Vivre fecero già negli anni 1970. Il prolungamento naturale di questo percorso è l’apertura all’insieme dei non esperti che lottano per una nuova società in cui l’ecologia sia centrale e non si riduca a qualche aggiustamento marginale di pratiche invariabilmente distruttive.

  • Per Steve Maia Caniço

    Oggi è il 22 giugno 2020. Esattamente un anno fa, nella notte tra il 21 e il 22 giugno 2019, moriva Steve Maia Caniço all’età di 24 anni, precipitato nel fiume per colpa della polizia.

    Durante la Festa della Musica, che in Francia a partire dagli anni Ottanta si tiene ogni anno per salutare la stagione estiva con concerti che riempiono i parchi, i cortili, i locali, le strade e le piazze di tutte le città, a Nantes uno dei concerti si svolge lungo la Loira, con la partecipazione di centinaia di persone fno a tarda notte. Lo spirito della serata vuole che la gente esca di casa, si diverta, goda del clima, della musica e degli spazi urbani che la musica è in grado di trasformare ovunque in palchi improvvisati, e le persone presenti fanno esattamente questo, su un lungofiume abbastanza affollato che è diventato la pista di un DJ set.

    A un certo momento arriva la polizia. Forse perché qualche vicino si è lamentato del volume della musica visto che sono passate le 4 di notte, forse perché la festa non era tra gli eventi ufficialmente dichiarati alle istituzioni comunali, forse perché le forze dell’ordine francesi sono ormai avvezze da mesi all’uso documentatissimo di una violenza incredibile su manifestanti inermi ogni sabato pomeriggio, forse perché la Francia è un paese che da quasi due anni sta scivolando neanche troppo velatamente verso un fascismo in salsa neoliberale in cui la polizia può intervenire con la forza bruta per impedire la distribuzione di qualche volantino in un paesino di tremila anime. Fatto sta che la polizia arriva in forze.

    In quel momento, come riportano decine di testimonianze, durante il concerto, mentre la gente balla e senza che accada nulla di particolare (smentendo la ricostruzione dell’IGPN, l’organo di inchiesta interno alla polizia, secondo cui all’origine dell’intervento è un primo “lancio di pietre e bottiglie” diretti verso gli agenti impreparati), la polizia interviene direttamente con le maniere forti con l’obiettivo di porre fine alla festa. Lo fa caricando coi manganelli e armata di taser, aizzando i cani e colpendo nella folla con proiettili di gomma, sparando continuamente per oltre venti minuti granate stordenti anti-sommossa e gas lacrimogeni in direzione del fiume.

    Il panico provocato conduce a un movimento scomposto di persone verso il fiume, in cui cadono almeno in quattordici, complice anche il temporaneo accecamento dovuto ai gas lacrimogeni. Tra queste persone, c’è Steve Maia Caniço, che dall’acqua non è mai più uscito.

    Il giorno successivo, le persone vicine a Steve si rendono conto della sua spIl giorno successivo, Steve non si presenta a lavoro (è animatore scolastico) né risponde al telefono. Presto le persone vicine a Steve si rendono conto della sua sparizione, denunciano la scomparsa, parecchio inquietante dal momento che Steve non sa nuotare, e cominciano le ricerche. Allo stesso tempo, fin da subito non possono fare a meno di puntare il dito contro il comportamento irresponsabile e provocatorio della polizia, che risponde minimizzando e negando qualunque responsabilità. Per oltre un mese le ricerche proseguono, i muri della città di Nantes cominciano a tappezzarsi di scritte “Où est Steve?” (“Dov’è Steve?“), poi le scritte cominciano a comparire ovunque in Francia, la questione è ormai sulle cronache nazionali, oggetto anche di interrogazioni parlamentari, e di giorno in giorno i vertici della polizia si affannano a giustificare l’operato delle forze dell’ordine e motivare la legittimità dell’intervento, inventano versioni stravaganti dell’accaduto, smentite da tutte le testimonianze indipendenti, per coprire le proprie responsabilità, cercano di mettere i bastoni tra le ruote alle ricerche nella speranza che la scomoda verità non venga a galla. Nel centro cittadino, l’acqua delle fontane si dipinge di rosso sangue, le statue delle piazze (numerose perché Nantes è quell’estate città della cultura) portano tutte il lutto al braccio, reggono cartelli che chiedono di Steve.

    Dopo un mese, di fronte all’insistenza di un movimento dal basso che chiede di conoscere la verità sulla scomparsa Steve, dopo la negazione assoluta si apre uno spiraglio e le autorità si trovano costrette ad assicurare che sarà lanciata un’inchiesta (comunque non da un tribunale come per un qualunque presunto omicidio, ma dal suddetto IGPN, un organo interno alla polizia in cui i poliziotti si proteggono tra di loro dandosi pacche sulle spalle).

    Dopo qualche settimana, quando personale e mezzi destinati alla ricerca di Steve sono già stati sospesi dalle autorità, a scandagliare il fiume e le rive sono rimasti ormai solo i suoi cari e le decine di volontari e volontarie organizzatesi autonomamente, che continuano imperterriti fino al ritrovamento del corpo di Steve “in stato di estrema decomposizione”, il 28 luglio 2019, non lontano da dove era caduto la notte del 21 giugno.

    Il primo riflesso del questore di Nantes è di vietare ogni assembramento e manifestazione. Nel frattempo, l’inchiesta interna dell’IGPN ricostruisce l’accaduto in modo alquanto singolare e discordante da tutte le testimonianze non legate alla polizia, e stabilisce che “non risulta alcun legame tra l’intervento della polizia e la scomparsa di Steve”, come se Steve si fosse buttato in acqua alle 4 di notte solo per caso durante le cariche. Queste affermazioni deliranti sono riprese da Edouard Philippe, Primo Ministro francese che al dolore della vicenda aggiunge lo sconcerto per la vigliaccheria istituzionale. Nel frattempo, il ministro dell’Interno Cristopher Castaner non batte ciglio: nonostante tale comportamento gli costi il disprezzo di una porzione sempre crescente della popolazione, ormai è abituato a negare tutta l’evidenza delle violenze in divisa che imperversano in Francia, ha decorato con medaglie e onori migliaia di ufficiali come ricompensa per la repressione senza precedenti del movimento dei “gilets jaunes” (è il caso, per esempio, di B. Félix, responsabile dell’uccisione di Zineb Redouane a Marsiglia, colpita da un lacrimogeno in pieno volto mentre stava chiudendo la finestra di casa durante una manifestazione a cui neanche partecipava; di D. Caffin, responsabile di un brutale pestaggio di manifestanti chiusi in un fast food senza vie di fuga; di R. Souchi, responsabile della carica di polizia che ha schiacciato e calpestato Geneviève Legay durante una manifestazione a Nizza) e lo stesso farà con l’ufficiale G. Chassaing, responsabile della carica che avrebbe portato alla scomparsa di Steve. Lo stesso presidente Emmanuel Macron stabilisce involontariamente un legame tra l’atteggiamento della polizia e la morte di Steve: “l’inchiesta deve essere condotta fino alla fine, ma non bisogna dimenticare il contesto di violenze in cui ha vissuto il nostro paese”. Macron si riferisce alle contestazioni esplose fin dalla sua elezione in un crescendo che ha portato al movimento dei gilet gialli e alla loro repressione senza precedenti dal maggio del Sessantotto: lo fa per spiegare il dispiegamento sproporzionato di forze dell’ordine per ripulire un lungofiume da una folla danzante, ma al tempo stesso, inquadrando la vicenda in un più ampio contesto di violenze, contestazione e repressione, smentisce involontariamente la versione ufficiale dell’IGPN e del Primo Ministro che tra l’intervento delle forze dell’ordine e la scomparsa di Steve nega qualsiasi legame.

    L’estremo centro neoliberale fa in nome della stabilità letteralmente le stesse identiche cose che farebbe un qualunque estremista di destra, ma ancora ha più mezzi materiali e soprattutto ideologici per imporre la violenza del proprio modello sociale, un modello che non colpisce neanche più soltanto quelli che storicamente sono i bersagli della reazione ma pure praticamente qualunque forma di vita: chi balla, chi è contento per la partita, chi difende l’ecosistema planetario dall’aggressione industriale. Si dovrebbe cominciare a vedere che è proprio il vivente, anche al di là di ogni possibile presa di coscienza, a contrapporsi al sistema di potere globale. Per dirla con Bruno Latour: “Sotto i capitalisti, i lavoratori, e sotto i lavoratori, appaiono i viventi”.

    Così è morto Steve, per aver ballato, per essere stato vivente.

    Qualcuno potrebbe pensare che Steve è morto perché era nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non è così: Steve era nel posto giusto, al lungofiume in festa con gli amici, al momento giusto, durante un concerto che inaugura l’estate. Ad essere fuori posto era la polizia, con la sua presenza non inutile ma dannosa e omicida, con la sua violenza non “sproporzionata” ma proprio ingiustificabile in tutto e per tutto, la cui natura mortifera e deleteria risulta sempre più evidente e con sempre maggiore lucidità da parte di movimenti ovunque nel mondo, dagli Stati Uniti a Hong Kong alla Francia.

    Justice pour Steve significa Justice pour Adama, Justice pour Théo, Justice for George Floyd, Justice for Breonna Taylor, BlackLivesMatter, I Can’t Breathe

    P.S. Se qualcuno si stesse chiedendo com’è andata la Festa della Musica quest’anno, la risposta è riassunta in due video: il primo viene da Nantes, il secondo da Parigi. Tutto questo è diventato normale nella democratica Francia.

      
      
  • La perruque e le pratiche interstiziali nel vissuto delle lotte

    Nel 1976, in One piece at a time, Johnny Cash canta l’aneddoto di un operaio che riesce a portar via dalla fabbrica in cui lavora, giorno dopo giorno, uno ad uno nella lunchbox ovvero quella che gli operai milanesi chiamerebbero schiscetta, tutti i pezzi necessari a costruirsi un’automobile per sé. D’altronde, come dice rassicurante il testo, il padrone non sentirà certo la mancanza di qualche bullone, e ancora meno se saranno spariti nel giro di anni. Così facendo, l’operaio della canzone si riappropria di una parte del proprio lavoro, che per contratto sarebbe tenuto a destinare esclusivamente al proprio padrone. Il risultato sarà un’automobile unica al mondo.

    Esistono molti modi in cui il lavoro salariato, ridotto a strumento di produzione soprattutto nelle condizioni di lavoro della fabbrica, è capace di riappropriarsi del proprio lavoro e in generale della propria umanità: rallentamenti della produzione, produzione personale a fini commerciali, sabotaggi, picchetti, scioperi, manifestazioni spontanee in fabbrica, espulsione fisica degli ufficiali giudiziari o sequestro dei dirigenti, distruzione delle attrezzature, occupazioni delle fabbriche sono tra i più conosciuti. La disobbedienza è presente in numerose forme di elusione delle regole. Certamente tra le attività di questo tipo la meno nota, il fenomeno che nei paesi francofoni prende vari nomi tra cui travail en perruque (letteralmente “lavoro imparruccato”), travail en sous-sol (“lavoro sotterraneo”), travail de la main gauche (“lavoro della mano sinistra”), travail masqué (“lavoro mascherato”), è forse il più poetico (nel senso etimologico del termine: poetico innanzitutto perché creativo) e di un grande e profonda tenerezza. Nel lavoro en perruque, l’operaio produce, ma si tratta di una produzione molto particolare: anche se avviene sul posto di lavoro, con gli strumenti di lavoro e durante il tempo di lavoro, gli oggetti prodotti sono del tutto indipendenti dagli obiettivi produttivi del padrone. Così, c’è chi in una fabbrica di automobili si mette a produrre sottovasi e piedistalli, o chi in un cantiere navale forgia giocattoli e utensili, tutto ovviamente a spese del padrone il più delle volte ignaro. Originariamente, l’espressione di lavoro en perruque si riferiva probabilmente al camuffamento della natura del lavoro, che aveva tutte le sembianze di un normale e regolare lavoro di fabbrica senza tuttavia esserlo. Il lavoro en perruque può essere di natura utilitaristica ma anche di natura meramente artistica. Se Denis Poulot, ex-operaio che certamente nel suo ambiente aveva potuto osservare il fenomeno da vicino, spiega nel 1870 nell’opera Il sublime che «fare una parrucca è lavorare per sé», ridurre frettolosamente quest’attività tutta particolare ad un lavoro per sé significa non prendere in considerazione molte delle sue implicazioni sociali, psicologiche e anche politiche.

    Oggetti prodotti en perruque allo stabilimento Renault St Ouen

    Questa pratica può essere interpretata in alcuni casi come una forma di resistenza al lavoro alienato, attraverso la riappropriazione del sapere professionale. Un esempio di lavoro en perruque è stato ripreso di recente dal documentario in quattro puntate Le temps des ouvriers, dove Robert Kosmann, operaio e militante sindacale per anni alla fabbrica Renault di Saint Ouen, ne parla mostrando alcune delle opere finite: si tratta di statuette di omini o altri animali, carriole in miniatura, un gioco a incastro a forma di elefantino. Tutti oggetti usciti da una fabbrica di automobili, e senza che le leggi di mercato, il padrone o chi per lui abbiano deciso alcunché sulla loro natura, qualità, forma o funzione. «C’è un aspetto di rivolta e di trasgressione, anche per coloro che non sono militanti né sindacalisti. Il mio collega portoghese, Pedro Da Silva, ha fatto da sé tutti gli attrezzi che poi ha usato per costruire casa sua. Non ha mai voluto scioperare, non ha mai criticato il sistema di fabbrica, non ha mai criticato i capi… ma quando cominciava a lavorare alla perruque aveva un sorriso grande così perché aveva infranto la regola. La perruque è ambigua: non si può dire che sia soltanto resistenza all’ordine costituito, solo una forma di danneggiamento del sistema, perché una fabbrica non è esclusivamente lotta di classe e non è esclusivamente del padrone, dipende dai momenti, dai periodi, dalle giornate, dalle mattine a seconda di come ti svegli, insomma diciamo che è la vita».

    La vita, infatti, è così: per quanto i rapporti sociali e i sistemi di dominio e di oppressione siano pervasivi, collateralmente si produce sempre qualcosa di inutile per il sistema produttivo, qualcosa che potrebbe essere un ingranaggio rotto. La diversità e la complessità delle forme di vita devia inesorabilmente dalle norme imposte. Ciò è vero al di là di qualunque presa di coscienza: come racconta lo stesso Kosmann, « Questa modesta produzione in tutto e per tutto, era un’esigenza, un divertimento e non aveva pretese all’epoca»
    In certi contesti, il fenomeno è stato talmente massiccio da avere permesso la creazione di veri e propri archivi come quello di Jan Middelbos, definito scherzosamente “artista anarco-parrucchiere”, o quello degli “oggetti di sciopero”, che a tale fenomeno deve molto.

    La pratica del lavoro en perruque, oltre ad assumere varie forme secondo le inclinazioni e le condizioni di ciascuno, ha preso diverse denominazioni a seconda dei paesi in cui si è affermata, che richiamano di volta in volta differenti suoi aspetti differenti, secondo le sensibilità culturali e sociali specifiche del contesto. Negli Stati Uniti, si chiama homer, indicando che la produzione viene deviata dal suo obiettivo ufficiale, la vendita sul mercato, verso scopi che hanno a che fare con la vita domestica. In Gran Bretagna è noto come pilfering, che riunisce in un doppio senso le nozioni di taccheggio, per l’uso non regolamentare di tempo, attrezzi e materiali, e di sviolinata, perché il lavoro è fatto di soppiatto distraendo e ingannando la gerarchia incaricata di controllare il lavoro. Esistono poi nomi locali di cui sono esempi pinaille a Belfort, in Francia, e bricole in Bretagna. E in Italia? Dal gigantesco ma imperfetto archivio che è internet, in Italia non risulta niente di simile. Non esiste il fenomeno? Non se ne parla? Oppure non è mai stato studiato ed approfondito a livello analitico? La questione resta aperta e purtroppo anche qui non sarà dipanato il dubbio. Certo è che sarebbe alquanto singolare che un fenomeno del genere, se esistente, fosse sfuggito alla sensibilità del pensiero operaista che in Italia si tanto è sviluppato. Altra questione, emersa nella stesura di questo scritto, verte sul come chiamare una pratica simile: “taccheggio operaio”, “furtarello” o “lavoretto” sono tutte traduzioni possibili, ma non danno sufficiente dignità a questa pratica. Ma torniamo alle implicazioni psicologiche e sociali.

    Quando al lavoro parziale e alienante della catena di montaggio si oppone la produzione artigianale, in cui si concepisce e si realizza ogni dettaglio, si lavora per se stessi, per ritrovare la propria creatività, la propria personalità, anche la propria manualità e il proprio sapere tecnico. A tal proposito si può prendere in prestito all’antropologia tedesca il concetto di Eigensinn definito dallo storico Alf Lüdtke, che nell’ambito della scuola di pensiero nota come “Storia della vita quotidiana”, si è molto soffermato sulle dinamiche di oppressione come pratica sociale che si articola a vari livelli nel vissuto delle persone. L’Eigensinn è una delle pratiche di dominio dal basso di cui è costellata la storia popolare. Tradotto con “senso di sé”, “ostinazione”, “individualismo”, “autonomia” o “dignità operaia” secondo l’orientamento ideologico e la sensibilità di quante e quanti hanno applicato o rielaborato il concetto, consiste nei molteplici modi in cui gli individui possono combinare la loro posizione dominata con la loro dignità personale o la loro autostima; modi, per dirla con le parole del sociologo francese Michel Verret, in cui i subalterni riescono a rendere “vivibile” questa posizione dominata, in tutti i luoghi della loro esistenza. La presa in mano degli strumenti di lavoro per fini estranei alla produzione di fabbrica è un esempio lampante di Eigensinn: è facile capire il “senso di sé” di un operaio che usa il proprio tempo, strappato alla tirannia dei turni di fabbrica, per produrre oggetti completamente inutili e inutilizzabili dal padrone come omini, animaletti, pupazzetti vari, o, quando utili, prodotti comunque alla faccia del padrone e in barba alle regole del padrone.

    Due pupazzetti prodotti en perruque da Robert Kossmann e colleghi

    Questa attività non è però importante soltanto dal punto di vista della soddisfazione di un’esigenza psicologica individuale, perché la sua natura è capace non solo di ridefinire il modo in cui si percepiscono i rapporti di produzione, ma anche di rimodellare le relazioni sociali e a volte di aprire nuovi spazi nel campo del possibile e dell’immaginabile. Ciò che caratterizza la perruque è allo stesso tempo la sua inutilità, la sua gratuità e la sua funzione di affermazione rispetto all’organizzazione produttiva e di legame creativo con gli altri individui. Andiamo con ordine.

    Negli anni Settanta, in pieno fermento sociale, negli anni in cui il movimento operaio non manca di dare prove significative della propria capacità ad autorganizzarsi (per esempio con il controllo operaio della Lip a Besançon – purtroppo in italiano non si trova niente tranne questo parziale resoconto) e di autonomia operaia si sente molto parlare sia in Francia che in Italia, si parla di “riappropriazione degli oggetti” come forma di resistenza operaia alla razionalizzazione e si fornisce la perruque come esempio di riappropriazione.

    Del lavoro en perruque ci sono stati usi conflittuali dichiarati, durante agitazioni sindacali, scioperi, occupazioni di fabbriche. Per esempio, nel 1952 gli operai dello stabilimento Renault a Billancourt fabbricarono dei pannelli in lamiera dai bordi taglienti per scoraggiare eventuali attacchi della polizia francese durante le manifestazioni contro il generale americano Ridgway venuto a Parigi durante la guerra di Corea. A Gijón, nelle Asturie, nel 2000 i lavoratori portuali che occupavano i cantieri navali di cui si minacciava la chiusura si sono contraddistinti per la costruzione di piccoli mortai artigianali e scudi in lamiera forniti di feritoie che garantivano la visibilità, permettendo ad una formazione a testuggine di avanzare senza troppi rischi verso la guardia civile spagnola e lanciare pietre e fuochi d’artificio di piccolo calibro. Ancora nelle Asturie, nel 2012 i minatori in sciopero hanno adottato tecniche simili.

    In questo senso, il lavoro en perruque è stato una pratica selvaggia, nel senso che sfugge alle regole convenzionali, si sviluppa al di fuori di ogni organizzazione ufficiale e ha un carattere spontaneo e incontrollabile.

    Gli usi apertamente conflittuali del lavoro en perruque costituiscono delle eccezioni rispetto alla normalità contraddittoria e ambivalente descritta da Robert Kosmann, ma per essere “selvaggia” questa pratica non deve necessariamente prendere forme simili: intrinsecamente, la perruque incarna un sistema di valori che ne fanno una sorta di anti-merce.

    La perruque fa parte del circuito del dono che sovverte le logiche di mercato della produzione capitalistica finalizzata al profitto e guidata da motivazioni fondamentalmente egoistiche. La produzione en perruque non è mai destinata alla vendita: se il prodotto viene destinato alla vendita cessa di essere perruque e la sua produzione diventa lavoro clandestino. La perruque è l’antitesi assoluta della forma-merce. Ecco perché una delle forme privilegiate che assume è il regalo che è, insieme all’ospitalità e ai servizi resi, una delle tre forme fondamentali dell’economia del dono.
    In particolare, la cosiddetta perruque de conduite sarà un regalo, offerto dai compagni di lavoro per il pensionamento di un collega, che è, secondo lo spirito del dono, un modo di coltivare e nutrire il legame attraverso il bene. Se ha questa proprietà di nutrire e mantenere il legame, è perché nel dono offerto si dà qualcosa di sé: il tempo, la tecnica manuale, l’attenzione, la progettazione, la dedica. Ciò che il pensionato avrà in casa è quindi più di un semplice oggetto materiale: vi sarà contenuto qualcosa di chi gliel’ha data. Troviamo in questo caso e negli oggetti del dono in generale, un concetto di “spirito” proprio del pensiero animista, che attribuisce alle cose prodotte dall’uomo come agli esseri della natura una sostanza spirituale che le rende profondamente connesse al resto del mondo. Si tratta di un pensiero lontano anni luce dall’immaginario della modernità capitalistica, che tende a ridurre il rapporto con il mondo a quello della manipolazione tecnica per stabilire un controllo su di esso e soddisfare così una smodata voglia di conquista: la forma-merce, fondata sul valore di scambio più che sul valore d’uso, neutralizza totalmente la proprietà animistica del dono, perché permette di scambiare le cose senza che nulla fluisca tra le persone fuorché il denaro, che è anonimo mezzo di scambio. Questo è stato alla base di ciò che il grande sociologo tedesco Max Weber ha definito il “disincanto del mondo”: con l’universalizzazione e la radicalizzazione della forma-merce, le cose hanno perso la loro anima, hanno smesso di cantare e il mondo è diventato infinitamente triste. Come diceva Jacques Godbout, pensatore a cui si deve l’esplorazione psicanalitica della forma-dono in contrapposizione alle implicazioni della forma-merce, se vogliamo far rivivere il mondo, siamo condannati a reinventare una qualche forma di animismo.

    Scarpette da 8,5 cm realizzate in una fabbrica francese occupata tra novembre e dicembre 1995.

    Il lavoro en perruque è stato criticato da una parte del pensiero rivoluzionario perché costituirebbe una distrazione individualista che allontana la classe operaia dall’impegno per la lotta collettiva. A tali scuole di pensiero manca forse la consapevolezza di quanto le pratiche “interstiziali”, cioè quelle che si sviluppano ai margini dei meccanismi di oppressione, incidano sul vissuto delle persone contribuendo in maniera a volte determnante alla definizione di immaginari alternativi condivisi. Il fatto che questo genere di pratiche non sia una semplice distrazione dai pretesi obiettivi della soggettività rivoluzionaria ma che costituisca l’espressione di una condizione fondamentale alla realizzazione di qualunque presa di coscienza collettiva è mostrato dal funzionamento del processo di produzione en perruque: “Il fresatore sarà al servizio dell’elettricista che chiederà al tornitore di fare un pezzo sulla sua macchina” (Robert Kosmann, Perruque et bricole ouvrier). L’operaio dunque, dovendosi servire per la sua perruque di strumenti anche diversi da quelli che gli sono attribuiti nella divisione ufficiale del lavoro di fabbrica, non può che uscire dall’alienazione e interagire in modo alternativo con le macchine, i saperi, gli altri operai. In fabbrica, e fuori dalla regolamentazione ufficiale, anche i favori tra operai vengono gestiti in modo tale da rendere possibile una diversa configurazione delle relazioni sociali, uscendo qui e ora dai modi capitalisti e incidendo sul vissuto delle persone. Così, si possono intessere reti di mutuo scambio sotto forma di servizi resi, secondo il principio di reciprocità che alimenta la solidarietà dei lavoratori, senza la quale non sarebbe possibile alcuna lotta contro il capitalismo.

    Allarghiamo adesso lo sguardo. In effetti, si potrebbe considerare il lavoro en perruque come un caso particolare di sabotaggio: i mezzi di produzione non sono resi inservibili, ma ci si serve dei mezzi di produzione per scopi diversi da quelli per cui sono stati concepiti nel sistema di fabbrica e in generale nel modo di produzione capitalistico, con un risultato momentaneo equivalente (la produzione ufficiale è interrotta o rallentata) e un risultato a lungo termine piuttosto simile (riduzione del plusvalore estratto, ovvero diminuzione del profitto da parte del padrone). Un sabotaggio, ma in forma creativa. Come non pensare alla moltitudine di pratiche di questo tipo anche al di fuori del sistema di fabbrica? Quante volte la creatività è esplosa insieme alla rabbia sociale negli ultimi anni? Quante volte vi abbiamo assistito? L’idea del movimento Occupy nel 2011 era partita dall’immaginazione creativa della rivista di critica pubblicitaria Adbusters. Dal ciclo di lotte delle Primavere arabe in poi, la creatività ha fatto irruzione nelle pratiche dei movimenti in ogni angolo del mondo, che al blocco dei flussi (occupazioni, scioperi, blocchi stradali, blocchi ferroviari), che è un modo di sabotare il funzionamento del sistema economico, hanno abbinato forme di comunicazione creativa, produzione artistica, costruzione alternativa degli spazi.

    Certo, potrebbe essere dovuto alla logica pubblicitaria pervasiva propria di tutta società dello spettacolo, per cui anche chi produce immagini sovversive produce spettacoli nel formato proprio del sistema, ma potrebbe anche essere un sintomo della necessità di uscire dal sentimento di aridità emotiva prodotto dall’alienazione in tutte le attività che un individuo compie nel corso della propria giornata in una società capitalistica moderna. La società dello spettacolo è per Guy Debord così come per Christopher Lasch, una società che tende a ridurre gli individui, sia nella sfera della produzione che in quella del consumo, sia sul posto di lavoro che nelle attività del tempo libero, alla passività e alla dipendenza, scoraggiando l’iniziativa e l’autosufficienza e inducendo uno stato d’animo da spettatore che li condanna all’impotenza. Quelle immagini che conosciamo, provenienti dall’Iraq in rivolta, dal sollevamento libanese, dalla Francia delle rotonde occupate, dall’insurrezione in Ecuador, dall’ostinazione del movimento di Hong Kong, dai colori dell’improvvisa onda sociale cilena, ci mostrano persone tutt’altro che passive e dipendenti, più attrici che spettatrici, e più creatrici di quanto non sembri. La reazione del potere dinnanzi a queste situazioni è stata quasi immediatamente di incredulità: com’è possibile che le masse abbiano sabotato tutto senza motivo? In un certo senso, nella logica del potere, queste rivolte sono inutili, perché non rivendicano nulla di politicamente preciso dal punto di vista del linguaggio politico convenzionale: vogliono solo vivere e continuare a vivere, sembrano essere inarrestabili. Inutili, gratuite, selvagge, assetate di vissuto. Quelle immagini potrebbero essere delle perruques della società dello spettacolo.

    Una strada di Santiago de Chile lunedì 11 novembre 2019.

    Cosa succede quando si esce dalla passività a cui le masse sono ridotte nella società del consumo? Cosa succede se produciamo immagini e spettacoli fuori dai processi di produzione ordinari? Cosa succede se produciamo spettacoli en perruque, magari inutili, senza rispettare le regole, nei tempi interstiziali di altri spettacoli molto più conformi alle norme sociali? La risposta resta la stessa che per il lavoro in fabbrica: la perruque serve a rompere il sentimento di alienazione, cerca di dare un senso alla vita quotidiana in condizioni di oppressione, e lo fa in maniera individuale attraversando direttamente la mente, le mani, la pelle, insomma l’esperienza di chi vive l’oppressione. Non è ancora una presa di coscienza collettiva, né una strategia che abolisce lo stato di cose presente, ma riconosce implicitamente l’oppressione ed è una strategia di sopravvivenza in condizioni di subordinazione e dipendenza. Rischia di rendere sopportabile l’oppressione portando a sentimenti rinunciatari? Sì, ma fornisce chiavi per sentimenti opposti.

    Ricapitolando, il fenomeno della perruque racchiude un insieme di comportamenti conflittuali che appartengono alla tradizione della resistenza operaia alla razionalizzazione della produzione: sono comportamenti oggettivamente conflittuali, anche se non necessariamente animati da una coscienza politica. La perruque è prodotta per sentire la macchina sotto il proprio controllo, e anche se spesso non è veramente così o lo è per brevi periodi irregolari che non intaccano il modello produttivo generale e quindi non costituisce un esempio di controllo operaio con la riappropriazione materiale dei mezzi di produzione, perlomeno ne è un’anticipazione psicologica, che contribuisce alla definizione di un’immaginario collettivo in cui soggiogare la macchina è possibile. Chissà che non sia possibile oggi, per sfuggire alla macchina capitalistica, considerare alla stregua di perruque tutte quelle innumerevoli azioni quotidiane, spesso spontanee, non in linea con la logica capitalistica a cui non diamo generalmente alcun peso politico. Certe cose sono conflittuali a prescindere da una presa di coscienza: il conflitto è intrinseco, inscritto nella posizione che esse assumono in quella rete di relazioni che è il mondo e che chiamiamo realtà. Non c’è contraddizione tra il desiderio immediato di appropriarsi della macchina e il principio rivoluzionario che quella stessa macchina vorrebbe trasformarla completamente: occorre superare questa falsa dicotomia.

    Miklós Haraszti, fresatore alla fabbrica di trattori “Stella Rossa” in Ungheria negli anni ’70, parla in Salaire aux pièces – Ouvrier dans un pays de l’Est (Seuil, 1976) del sogno di una società in cui il lavoro è liberato come di «una Grande Parrucca realizzata su macchine subordinate dai nostri esperti alla doppia esigenza delle nostre reali necessità e delle nostre libertà nei loro confronti. Sarebbe il crepuscolo della tecnologia dei cronometri. Produrremmo solo ciò di cui i lavoratori en perruque associati a noi avrebbero bisogno e che ci permetterebbe di restare uniti nel lavoro en perruque. E lo produrremmo in maniera mille volte più efficiente di tutto ciò che si produce oggi».
    Sembrano altre parole per descrivere ciò che altri hanno chiamato “comunismo”: una libera associazione di lavoratori per far fronte ad esigenze che partono dai lavoratori stessi. Chissà che la Rivoluzione non si possa immaginare come una Grande Perruque?

    Come l’operaio di One piece at a time, possiamo prenderci un pezzo alla volta ciò che desideriamo, fuori dalle regole e dalle logiche dominanti. Per costruire qualcosa di diverso, però, invece che una Cadillac.

    Nota: Nella stesura di questo testo, ho attinto ampiamente a diverse fonti, ma per l’elaborazione del significato delle perruque come opposizione intrinseca al sistema produttivo capitalistico e alla tirannia del valore di scambio, mi sono soprattutto basato su questa analisi.