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  • I CIE e la sagra del legalitarismo violento

    Il 17 febbraio il consiglio comunale di Torino ha approvato a maggioranza (vedi) una mozione con cui, per la prima volta, il comune di una grande città italiana si impegna a chiedere alle istituzioni nazionali la chiusura di un Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE) nel più breve tempo possibile. La mozione riguarda un impegno relativo in particolar modo al CIE di Corso Brunelleschi, ma invita ad una riflessione più generale sui sistemi di gestione dell’immigrazione nell’intero paese: contiene riferimenti alla «inqualificabile violazione dei diritti umani» e alla «restrizione delle libertà fondamentali» e chiede che sia messa in discussione la legislazione in materia di immigrazione e abrogata quella attuale, comunemente nota come Bossi-Fini.

    I voti contrari alla mozione sono venuti da Forza Italia, Nuovo Centro Destra, Lega Nord, Movimento Cinque Stelle.

    Sia chiaro che non c’è nulla di cui stupirsi per la presenza dell’ultimo, specie se l’argomento in questione è costituito dalle politiche migratorie. È nota a tutti la controversia nata in seno al M5S quando due deputati in Parlamento si schierarono per la depenalizzazione del reato di clandestinità, così come è noto il successivo sviluppo della vicenda, che portò ad un referendum tra una porzione degli iscritti per decidere che posizione prendere riguardo alla votazione in Senato. Come tutti i giornali non mancarono di far sapere, in quell’occasione il M5S adottò la posizione contraria a quella “caldamente suggerita” dal bivertice, votando a favore della depenalizzazione. Tuttavia, in pochi notarono che gli elementi a disposizione non lasciavano presagire nulla di buono: lo spirito generale di quella votazione, che traspariva dal comunicato ufficiale, vedeva la depenalizzazione del reato di clandestinità come non intesa ad intaccare l’impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni e inoltre non in un’ottica di rispetto dei diritti, ma di convenienza economica e logistica (qui l’analisi). A dimostrazione di ciò, al momento della discussione in Senato i deputati del M5S applaudirono in blocco il discorso del collega Enrico Cappelletti secondo cui il reato di clandestinità è un fallimento perché «dalla sua introduzione i flussi migratori sono aumentati costantemente» e perché «non dà la certezza di un allontanamento effettivo» (leggi).

    Meno nota al pubblico nazionale è la lunga serie di dichiarazioni dell’esponente più in vista del M5S torinese, Vittorio Bertola, che in passato gli hanno procurato più volte accuse di essere razzista, come quando diffondeva bufale propagandate in rete sui “privilegi” dei Rom e degli immigrati o quando sosteneva, nei giorni successivi al pogrom contro il campo nomadi di Torino, che la violenza è certo sbagliata ma c’è da dire che se la sono cercata (riassumendo all’osso).

    Insomma, che sul tema degli immigrati il M5S sia controverso e che lo sia a Torino non è cosa nuova.

    Ora, per quale motivo il Movimento Cinque Stelle si trova a votare insieme a nazionalisti, razzisti e fascisti contro la chiusura dei CIE? Per rispondere a questa domanda, ci viene incontro lo stesso movimento, che in una pagina (questa) scritta da Bertola spiega dettagliatamente cosa non condivide della mozione approvata dal consiglio comunale di Torino.

    Bertola è d’accordo con la chiusura del CIE di corso Brunelleschi, a cui fa riferimento la mozione. In un’ottica di rispetto dei diritti basilari e di costruzione di una società fondata sui valori dell’antirazzismo e della solidarietà, i motivi da lui addotti sono discutibili, anche se il risultato, cioè la contrarietà al CIE, è condivisibile (esattamente come per la depenalizzazione del reato di clandestinità). Bertola, in linea con il sopracitato senatore Cappelletti, sostiene che «i CIE sostanzialmente non funzionino rispetto allo scopo per cui sono stati istituiti»: erano ideati per l’espulsione, ma l’espulsione tarda ad arrivare e spesso non avviene, il tutto sulle spalle dei contribuenti. Tra l’altro, le persone rinchiuse «diventano per forza di cose più furiose e antisociali di prima». Questa affermazione implica un’intrinseco accostamento della figura dell’immigrato con la figura dell’antisociale e una sua conseguente stigmatizzazione. L’immigrato è ricondotto ad uno stereotipo veicolato da una propaganda neanche troppo velatamente razzista: l’immigrato furioso, l’immigrato animale, l’immigrato antisociale che mina le basi della sicurezza e della convivenza civile. Non è scritto esplicitamente ma è logica conseguenza di un tale accostamento, forse neanche fatto di proposito ma frutto del linguaggio tossico cui siamo tutti stati abituati da mezzi di informazione e altri strumenti dell’egemonia culturale. Inoltre, continua Bertola, il CIE di corso Brunelleschi e il meccanismo dei CIE in generale costituiscono un problema di decoro urbano: non solo sono inefficaci e costosi, ma anche provocano «disturbo anche a chi ci abita attorno».

    Ciò con cui Bertola non è d’accordo è invece la parte a suo dire ricca di contenuti ideologici (come se non fosse ideologica la convinzione razzista che l’immigrato sia intrinsecamente antisociale e furioso, o la concezione di decoro borghese che intende sottrarre alla vista le evidenze della violenza oppressiva di classe, di razza o di genere). Ovvero, la parte della mozione secondo cui:

    • «i CIE sono inoltre eticamente ingiusti perché comportano una restrizione della libertà personale senza reato sanzionando la mera irregolarità amministrativa, oltre ad essere degradanti della dignità umana»;
    • «sono urgenti una modifica del sistema degli ingressi, delle procedure di identificazione, della disciplina del soggiorno e delle espulsioni, una corretta applicazione della normativa europea sull’accoglienza che innalzi gli standard attualmente praticati, una riforma della legge sulla cittadinanza, una legge per l’introduzione del diritto di voto amministrativo, una legge organica sul diritto di asilo»;
    • «ogni competenza in materia deve spettare al solo giudice togato».

    Secondo Bertola, non si può definire «inqualificabile violazione dei diritti umani» un sistema che priva gli immigrati della libertà di movimento, perché «la detenzione degli immigrati clandestini fino a 18 mesi, su provvedimento anche amministrativo, è semplicemente quanto previsto dalla direttiva europea sui rimpatri». È evidente che una motivazione del genere sia nel classico stile giustizialista e legalitario del M5S, che vede la legalità come valore assoluto e non come prodotto sociale. Per mostrare come l’Italia non costituisca un’eccezione, Bertola riporta dunque una carta dei centri di detenzione per migranti, che a mia volta riporto di seguito.

    map_18-1_L_Europe_des_camps_2011_v11_EN[clicca per ingrandire]

    Continua così la spiegazione: «in un Paese serio, che fa leggi non per dar fiato alla bocca e fare un titolo sul giornale ma per regolare la convivenza di tutti, una persona che non è autorizzata a stare lì deve venire espulsa; e poiché per forza di cose chi tenta di entrare non ha intenzione di farsi espellere, è quasi sempre necessario farlo con la forza.

    Si può benissimo discutere su quali sono le condizioni per espellere qualcuno […]; si può, anzi si deve garantire un trattamento migliore e più umano per le persone soggette alla procedura di espulsione, che non può essere trascinata per mesi e mesi. Ma non si può prescindere da un sistema di trattenimento e accompagnamento forzato alla frontiera di chi va espulso, e dunque non si può fare a meno di qualcosa che funzioni come un CIE».

    “Non si può fare a meno” è un’affermazione che ricorda il motto di Margaret Thatcher in nome del quale vennero imposte le misure di ristrutturazione economica più violente dal secondo dopoguerra, furono poste le basi per la globalizzazione neoliberista e la restaurazione del dominio di classe. Se non si può fare a meno delle espulsioni, perché si può fare a meno dell’austerità, delle privatizzazioni, dei tagli allo stato sociale? Perché, almeno a parole, è questo che dicono molti esponenti del M5S. Evidentemente nel discorso politico del M5S i diritti dei migranti non sono degni della stessa attenzione che si riserva ai diritti di tutti gli altri (e questo è esemplificato limpidamente dall’apertura del comunicato di Bertola: «Bene, direte voi, allora di cosa si parla? Lavoro? Casa? Inquinamento? Traffico? Beh, non proprio: questa settimana l’urgenza individuata da PD e SEL è la chiusura dei CIE»).

    Non mancano, ovviamente, accuse alla “sinistra” (che Bertola identifica con PD e SEL): esattamente come quando si rivendica l’antifascismo contestando il fascismo si ricevono accuse di essere fascisti (il classico “fascismo degli antifascisti”), in questo caso la rivendicazione di pari diritti fondamentali a dispetto di nazionalità e provenienza, ovvero una rivendicazione antirazzista, viene tacciata di razzismo. Bertola spiega così il perché: «Se non si vogliono i CIE di fatto si sta dicendo che non si vuole espellere mai nessuno, e che si vuole una immigrazione incontrollata e senza limiti. Ma una immigrazione di questo tipo serve solo a qualcuno: a chi detiene il potere economico, a cui fanno comodo grandi masse di immigrati tenuti ai margini della società e disposti a lavorare a condizioni inaccettabili per gli italiani, creando una guerra tra poveri che permette di distruggere tutti i diritti sociali conquistati in cent’anni di lotte, e che offre facili capri espiatori della crisi economica alla gente comune, evitando che essa se la prenda con chi veramente la sfrutta».

    Per quanto Bertola non lo ammetterebbe mai, tale visione è ideologica. Innanzitutto considera l’immigrazione il frutto di una sorta di complotto internazionale ordito dai poteri forti, e non un fenomeno naturale parte da sempre della storia umana. Inoltre risponde ad una logica razzista, simile a quella che, forse inconsapevolmente, diffuse Il Fatto Quotidiano parlando dello sfruttamento dei migranti in agricoltura quasi come fosse un fenomeno naturale (vedi): se gli immigrati sono disposti a lavorare in condizioni di sfruttamento inaccettabili ciò non è certo dovuto ad una qualche caratteristica intrinseca del lavoratore straniero ma proprio alla loro ricattabilità e questa è dovuta al rischio di espulsione. Sostenere la necessità delle espulsioni dicendo che queste proteggerebbero i diritti degli immigrati è un controsenso. La guerra tra poveri la alimenta chi favorisce la marginalizzazione, specie lungo la linea del colore (vedi).

    Infine, la chiusa è interessante: «Spiace che a portare avanti questa trappola siano i partiti cosiddetti di sinistra, ma delle due l’una: o non hanno capito niente del mondo globalizzato, o sono venduti al potere».

    A quest’ultima frase forse è meglio non aggiungere ulteriori commenti. Ai posteri l’ardua sentenza su chi abbia capito di più del mondo globalizzato tra chi intende chiudere le frontiere e chi invece vuole garantire il rispetto dei diritti a prescindere da sesso, religione, razza, provenienza.

     

    «Come mostra questa mappa, tutti i Paesi europei hanno centri di detenzione per gli immigrati clandestini, sia nella fase di prima accoglienza e identificazione che nella fase di partenza per il rimpatrio; Germania, Danimarca, Svizzera e Irlanda li tengono direttamente in carcere. A questo punto, o il Parlamento Europeo e tutti gli altri Paesi europei sono degli inqualificabili violatori dei diritti umani, o c’è qualcosa che non va nel ragionamento della mozione».

    Caro Bertola, la prima che hai detto. Anche io ho una mappa da farti vedere.

    map_europe[clicca per ingrandire]

  • Contro il consumo di dissenso

    Tutta la vita delle società nelle quali regnano le condizioni moderne di produzione si annuncia come un cumulo immenso di spettacoli. […] Nello spettacolo, immagine dell’economia imperante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole riuscire a nient’altro che a se stesso.

    Guy Debord, La società dello spettacolo

    Ho smesso anni fa di guardare la televisione. Le uniche trasmissioni che mi sembravano interessanti erano quelle di satira o quelle di inchiesta. Ogni tanto mi capitava di seguire dei dibattiti televisivi, ormai comunemente chiamati con l’espressione, in realtà non sinonima ma forse più azzeccata, di talk show: letteralmente, lo “spettacolo della conversazione”. Certe volte, scremavo il palinsesto selezionando qualche intervista, di quelle a quattr’occhi: un numero di intervistati già superiore a uno aumentava esponenzialmente la possibilità che l’intervista si trasformasse in una rissa come quelle dei cosiddetti talk show, in cui non si capiva una parola che fosse una, mancavano gravemente frasi di senso compiuto che esprimessero concetti elaborati dall’inizio alla fine e di “conversazione” non c’era traccia. In effetti, anche il formato dell’intervista singola, sicuramente comodo e per lo spettatore perché facile da seguire per la sua linearità e la mancanza di continue interruzioni, poteva rivelarsi fin troppo comodo per l’intervistato, qualora quest’ultimo si fosse preventivamente accordato con l’intervistatore sulle domande, al fine di eliminare il rischio di imbarazzanti e fastidiosi incidenti di percorso poco convenienti per l’immagine e il prestigio (se esistente). Sempre, ovviamente, che non fosse l’intervistatore ad autocensurarsi, per puro autocompiacimento o suo naturale servilismo.

    Dicevo, guardavo programmi di satira e di inchiesta. Poi, a un certo punto, mi sono reso conto di quanto fosse una perdita di tempo. Report, Presa diretta, Servizio pubblico, mettiamoci addirittura pure Le Iene (ahahah, Le Iene!), e tutte quelle altre trasmissioni dello stesso genere (di cui davvero non saprei fare i nomi, perché, come già spiegato, non guardo la televisione) hanno una funzione sociale che non è fare inchiesta, ma dire al pubblico ciò che vuole sentirsi dire. E ciò che il pubblico vuole sentirsi dire è esattamente ciò che queste trasmissioni gli hanno insegnato a volersi sentir dire.

    Di che parlano stasera? Dell’omicidio di Aldrovandi? Si saranno affrettati a precisare che si tratta di mele marce e non di parte integrante e fisiologica di un sistema poliziesco, penitenziario e giudiziario marcio fino al midollo, perché ci sono tanti esponenti delle forze dell’ordine in cui dobbiamo riporre la nostra fiducia e che fanno bene il proprio lavoro, anche quando il lavoro fatto bene consiste nel manganellare chi non è d’accordo con l’ultima decisione del governo. Dell’ostentazione di ricchezza da parte dell’alta borghesia italiana? Si premureranno di evitare una qualunque analisi economica e sociologica di classe, parlando di ricchezza come se questa piovesse spontaneamente dal cielo e astenendosi dall’affrontare la questione da un punto di vista strutturale, assicurandosi di non mettere al repentaglio il potere nemmeno sfiorandolo con le parole.

    Queste trasmissioni mostrano immagini, raccontano storie e dicono cose che fanno audience, perché si sono ritagliati un pubblico mirato, la loro fetta di mercato dell’informazione, accontentando i bassi istinti di masse pronte a indignarsi davanti allo schermo e stando ben attente a scongiurare la possibilità che queste non si indignino nella vita reale, quando lo schermo è spento. Una sublimazione, come i “due minuti d’odio” in 1984 di George Orwell: quando i due minuti si concludono, la dose quotidiana di rabbia e indignazione è già stata provata, assunta come una droga. Perché affidare al caso il momento del prossimo moto di indignazione quando possiamo avere la certezza che domani, alla prossima sessione dei due minuti d’odio, ne assumeremo la nostra dose quotidiana? In questo modo i sentimenti, ivi compresi rabbia e indignazione, sono sottoposti ad un controllo sociale. Tutto è scandito temporalmente. Tutto è ordinato. Non è ammessa indignazione che superi i limiti della poltrona davanti allo schermo.

    Questa fetta di mercato è mercato di consumo e questo consumo è consumo di dissenso. I consumatori sono il pubblico, un pubblico che guarda le trasmissioni e che quasi gode di indignarsi: i più incalliti non se ne perdono una puntata e non aspettano altro, per tutta la settimana, che il grande momento in cui potranno sentirsi cittadini attivi e informati per il solo fatto di sapersi indignare a comando.

    Qualcuno potrebbe chiedersi se non è la stessa cosa leggere le notizie o le inchieste sui giornali: del resto, se uno si indigna può indignarsi allo stesso modo davanti allo schermo del televisore come davanti a una pagina di giornale e quello che succede dopo dipende dall’indignato. In una certa misura questo è vero, con alcune differenze rilevanti.

    Prima di tutto, la televisione è il mezzo della spettacolarizzazione per eccellenza. Il pubblico sa in anticipo che a una certa ora di un certo giorno andrà in onda una certa trasmissione, tutti si riuniscono sapendo che si indigneranno. In generale, tale desiderio di indignazione sarà soddisfatto molto più efficacemente da un’inchiesta televisiva incalzante accompagnata da una colonna sonora che trasporti emotivamente lo spettatore, per consentirgli di godere al meglio della scossa civica che lo pervade. Difficilmente un articolo giornalistico possiede questa capacità e questa immediatezza.

    In secondo luogo, questi programmi fanno ormai parte, come accennato poco sopra, di un vero e proprio mercato di consumo del dissenso: alimentare il consumo di dissenso è la loro ragion d’essere e la loro funzione sociale, molto più che la comunicazione di informazioni in sé. Questo è vero anche per i giornali, ma consultare le notizie, specialmente online, da la possibilità di approfondire e confrontare senza accettare passivamente un singolo punto di vista calato dall’alto, nonché di guardare notizie scelte da me e non da qualcun altro con il semplice scopo di fare audience.

    Quindi, siccome il giorno dopo non succede mai un cazzo, per me guardare questo tipo di trasmissioni è una perdita di tempo, perché a me non va di indignarmi e avere il sangue amaro per due ore o anche più a lungo. In fin dei conti, che senso ha indignarsi e basta? Non faccio meglio io che non guardo e salto i due minuti d’odio? In 1984 era Winston, che li disertava, il vero dissidente.

  • L’apparenza inganna: Papa Francesco non è progressista come lo dipingono

    Riporto un articolo di Kate Smurthwaite pubblicato su The Independent con il titolo A wolf in Pope’s clothing? Francis is not the progressive man he has been made out to be
    (traduzione mia)

    index

    Diciamolo sinceramente, dal punto di vista comunicativo Papa Benedetto è stato un incubo per la Chiesa Cattolica. La sua tendenza a dire la cosa peggiore al momento peggiore ha reso il Principe Philip una volpe, al confronto.
    Dunque cattolici e apologeti della religione hanno fatto salti di gioia di fronte alle recenti dichiarazioni concilianti di Papa Francesco rispetto all’omosessualità, alla contraccezione, all’aborto e addirittura alla possibilità che a noi atei sia riservato l’ingresso in quel posto che non crediamo esistere.
    Eppure, questa comprensione papale è reale o semplicemente Francesco è uno spin doctor migliore del suo predecessore?
    La prima cosa sospetta è che i cattolici duri e puri non sono irritati dalle parole di Francesco. La settimana scorsa ho dibattuto di questo sulla radio Voice of Russia con Peter D. Williams di Catholic Voices, un signore che si oppone ai matrimoni omosessuali e ha paragonato l’aborto alla tratta transaltantica degli schiavi. Gli ultimi commenti di Papa Francesco non lo hanno né scosso né cambiato le sue opinioni. Al contario, egli fa notare con disinvoltura che si tratta di parole concilianti che non sono segnale di alcun cambiamento nelle politiche o nella dottrina.
    Qualunque speranza che quelle dichiarazioni avrebbero anticipato un cambiamento reale – una Chiesa Cattolica aperta a matrimoni omosessuali, adozione da parte di omosessuali, sacerdozio femminile – è stata brutalmente infranta pochi giorni dopo, quando un prete australiano è stato scomunicato per le sue opinioni tolleranti rispetto agli stessi identici argomenti.
    La contraccezione e l’aborto sono la più importante questione di diritti umani al mondo. È la mia opinione basata su dati concreti. Assicurare i diritti riproduttivi delle donne è di gran lunga il modo più efficiente di sollevare le donne, le famiglie e le comunità da povertà, mancanza di istruzione e problemi sanitari.
    Anche solo un piccolo passo come permettere alle organizzazioni cattoliche di beneficienza la distribuzione di contraccettivi avrebbe un enorme impatto. Ma è veramente sperare troppo. Quando le speranze di tutti si erano accese, il giorno dopo Francesco ha sollecitato un gruppo di ginecologi a rifiutare di praticare l’aborto.
    La storia più terribile di tutte risale però a luglio quando Papa Francesco ha introdotto una nuova legislazione vaticana. Di nuovo, un fatto superficiale – l’innalzamento della pena massima per abusi su minori da 10 a 12 anni – incontra le reazioni entusiastiche della stampa.
    In primo luogo, si dovrebbe tuttavia ricordare che le organizzazioni delle vittime di abusi non sono affatto così soddisfatte dal cambiamento: «la gerarchia ecclesiastica», dicono, «non ha bisogno di nuove regole sugli abusi, ma di seguire leggi secolari assodate da tempo».
    In secondo luogo, Francesco ha colto l’occasione per itrodurre una legge che prevede fino a otto anni di carcere per chiunque sia colto a trafugare o diffondere informazioni concernenti «gli interessi fondamentali» dello Stato Vaticano. Introdurre di soppiatto una legge dietro un’altra legge acchiappa-titoli rendendo così più difficile per gli insider soffiate sulla corruzione vaticana? I più furbi tra gli spin doctor ne sarebbero orgogliosi.
    Sarà anche stato freddo con la stampa, inflessibile, sessista e omofobo, ma con Papa Benedetto XVI almeno sapevamo con cosa avevamo a che fare.

  • Espulsioni a 5 stelle

    Il 13 gennaio, 24.932 iscritti al M5S (ovvero un terzo del totale) si sono espressi sul reato di clandestinità, la cui abrogazione sarà votata domani in Senato dagli eletti. In 15.839 hanno votato per la sua abrogazione, 9.093 per il mantenimento. Ovvero, il 63,53% contro il 36,47%. In realtà, contata l’astensione, il 19,71% contro l’11,31%.

    Auspicabilmente, i parlamentari del M5S voteranno secondo l’esito di questa votazione, e se quelli del Partito Democratico voteranno davvero, nonostante ci sia poco da fidarsi visti i loro trascorsi, come dicono di votare, il reato di clandestinità in Italia sarà abolito. Niente salti di gioia da parte del mondo antirazzista, ovviamente giacché molta è la strada ancora da percorrere per il pieno rispetto dei diritti, per una società integrata multiculturale e solidale, per l’abbattimento dei pregiudizi e delle discriminazioni. Niente salti di gioia, ma molta soddisfazione nell’area dei movimenti sociali. Attenzione però a non lasciarsi prendere dall’entusiasmo, dimenticando di cosa, di chi e con chi stiamo parlando.

    A quelli che dicono «dopo questo voto le cose finalmente cambiano», «la base è migliore di Beppe Grillo» e dopo lo scetticismo degli ultimi mesi o anni cominciano a pensare al M5S come un possibile strumento parlamentare nella lotta contro la xenofobia o vedono possibili aperture da parte del M5S perché questo si affianchi al movimento contro il razzismo e per i diritti dei migranti, andrebbero tuttavia ricordate un paio di cose.

    La votazione telematica è stata introdotta da una presentazione, scritta dai due senatori Andrea Cioffi e Maurizio Buccarella, che indirettamente ripercorre la vicenda verificatasi a ottobre quando i due furono rimproverati da Grillo e Casaleggio per aver proposto su iniziativa personale un emendamento che avrebbe depenalizzato il reato di clandestinità introdotto con l’entrata in vigore del regime Bossi-Fini. La votazione è stata anche preceduta da un messaggio inviato privatamente a tutti gli iscritti al M5S aventi diritto, poi reso pubblico e diffuso. Questi due documenti espongono il punto di vista dei senatori incriminati e ora democraticamente impegnati a far valere la propria posizione in materia di immigrazione. In particolare, ecco cosa dicono:

    «I promotori di quell’emendamento lo proposero […] al fine di sgravare da procedimenti penali inutili un sistema ingolfato e nell’ottica di una riduzione dei costi (efficienza, efficacia, economicità). Nessuna visione ideologica, ma un approccio pragmatico e di buon senso. L’eventuale abrogazione del reato, infatti, non intacca l‘impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni, richieste di asilo, flussi di entrata».

    «Con l’approvazione si avrebbero soltanto risultati positivi in termini di risparmio di denaro pubblico e snellimento dei tempi della giustizia rimanendo intatte tulle le altre disposizioni e norme relative alla procedura d’espulsione. Depenalizzare significa quindi mantenere il procedimento amministrativo di espulsione per sanzionare coloro che violano le norme sull’ingresso e il soggiorno nello Stato».

    Da questi due testi, si evince che:
    -la depenalizzazione del reato di clandestinità non è proposta in un’ottica di rispetto dei diritti, ma secondo criteri di convenienza economica e logistica;
    -il mantenimento dell’impianto generale della Bossi-Fini è non ideologico e di buon senso;
    -la depenalizzazione del reato di clandestinità non è finalizzata ad intaccare l’impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni.

    Dovrebbe essere chiaro dunque che, se lo spirito manifestato da questi due membri è condiviso dal resto degli eletti (ma il dibattito nato in seno al gruppo parlamentare a ottobre farebbe pensare addirittura che la linea proposta sia troppo progressista rispetto alle attuali norme sull’immigrazione), almeno a livello parlamentare, gli orizzonti entro cui si muove il M5S restano le espulsioni.

    Questo mostra come si possa coerentemente essere a favore dell’abrogazione del reato di clandestinità e allo spirito repressivo e disumano dell’attuale legislazione in materia. Mostra anche come, parlando il burocratese, si sia riusciti a far passare come grande prova di democrazia il fatto che domani in Senato non verrà votato ciò che piace a Grillo e Casaleggio, ma ciò che ha deciso la base, mentre la realtà dei fatti è che il bivertice del M5S ha trovato il modo di prendere due piccioni con una fava: non intaccare lo spirito attuale della Bossi-Fini potendo allo stesso tempo dire «dimostriamo finalmente che non siamo io e Grillo a comandare», scavalcando apparentemente a sinistra il PD per riprendere terreno elettorale perso in quell’area. Infine, mostra per l’ennesima volta cosa sia il “buon senso non ideologico” a cui la retorica pentastellata fa continuamente riferimento.

    «L’eventuale abrogazione del reato, infatti, non intacca l‘impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni» è stato sapientemente rassicurato a chi stava per votare, quasi a tranquillizzarlo sullo stato di salute della Bossi-Fini. Ovviamente, nessuno può sapere con che spirito quel 19,71% ha votato a favore dell’abrogazione del reato di clandestinità, se l’abbia fatto in un’ottica antirazzista, di integrazione, di rispetto dei diritti o piuttosto in una prospettiva che in generale mantiene lo stato di cose presente e tratta le persone come merci, parlando di efficienza e costi invece che di diritti. Certo è che almeno qualcuno avrà votato a favore dell’abrogazione proprio perché prontamente rassicurato.

    Ah, un ultima cosa: il M5S non permette agli immigrati ancora privi di cittadinanza di iscriversi (quindi neanche di candidarsi).

  • Odio il capodanno

    Visto che oggi è il mio compleanno e che la qui seguente celebre riflessione di Gramsci è stata nei giorni scorsi ritualmente diffusa senza curarsi del fatto che contiene esattamente la spiegazione del motivo per cui non dovrebbe affatto essere diffusa con qualche particolare attenzione in più nel giorno di capodanno piuttosto che in un qualsiasi altro, io oggi la ripropongo qui. Credo di essere immune da critiche per questa scelta, giacché del compleanno a me non importa granché, perché credo davvero di dover fare ogni giorno i conti con me stesso. E perché i “buoni propositi”, il più delle volte privi di significative conseguenze sulla realtà dei fatti, che si ama sbandierare ai quattro venti ad ogni anno nuovo, io spero davvero di averli ogni giorno.

     

    Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è Capodanno.

    Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.

    Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati cosí invadenti e cosí fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa la film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.

    Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.

    (Antonio Gramsci, 1° Gennaio 1916, l’Avanti!, edizione torinese, rubrica “Sotto la Mole”)

  • “Quando non c’erano i forconi”: domande sulla fertilità del terreno

    Questo blog non ha mai pubblicato un pezzo scritto altrove e neanche il suo predecessore Cultura Libertà era solito farlo.
    Tuttavia, dopo il successo (in termini di visualizzazioni e condivisioni) della riflessione sui forconi dal titolo Fascismo in sé e fascismo per sé e l’evidente perplessità che gli ultimi eventi hanno suscitato nel dibattito politico tra e sui movimenti sociali su scala nazionale, stavolta ce n’è bisogno.
    Ecco di seguito il contributo del blog La pentola d’oro, che è tra l’altro il blog che, due anni fa, fece avvicinare e interessare il sottoscritto a ciò che stava accadendo in Italia e che è passato, in certi ambienti, forse un po’ troppo sotto silenzio rispetto a quanto abvrebbe dovuto. In fondo alla pagina si trova un breve commento.

    Quando non c’erano i #forconi

    Ho abbandonato da tempo questo blog al suo destino, ma mi sembra che possa essere utile recuperarlo per rievocare dei ricordi, ricordi punzecchiati dagli eventi recenti e dal dibattito che ne è seguito. Parlo ovviamente dei famigerati forconi e della reazione che hanno suscitato in molti siti di movimento. La discussione sulla necessità di intervenire o meno è a dir poco accesa, e ha prodotto un fiume di articoli con cui è praticamente impossibile restare al passo.

    Ebbene, a me i forconi non hanno fatto venire in mente gli eventi di Piazza Statuto del 1962, per niente, e invece mi hanno portato alla mente fatti ben più vicini nel tempo, ma per contrasto. Era il 2011, mese di maggio, quando in Spagna le piazze erano abitate notte e giorno da migliaia di persone, a loro volta ispirate dalle piazze tunisine ed egiziane, e negli Stati Uniti si preparava quel ciclo di lotte che ha portato, due anni dopo, tra le altre cose all‘incredibile elezione di una socialista nel consiglio comunale di una metropoli come Seattle.

    Dalle nostre parti, a maggio, quell’onda anomala era arrivata in modo appena percepibile, un singhiozzo d’acqua di laguna. Eppure i numeri complessivi delle sconclusionate piazze “indignate” italiane non erano diversi da quelli visti in questi giorni. Sottraete alle mobilitazioni odierne i fasci e i personaggi in odore di criminalità organizzata, e avrete all’incirca i numeri delle acampade nostrane, con l’indiscutibile di più di una distribuzione più capillare, non relegata (sempre nella formula manifestazioni meno fasci) a Torino e a pochi altri sprazzi.

    C’erano indubbiamente molta confusione, molta ingenuità e disorganizzazione; ignoranza e populismo, anche, a volte. Ma fascisti non ce n’erano. Non c’erano realtà organizzate che stavano cercando di costruire un fronte sociale reazionario, né imprenditori in Jaguar, né mafiosi, né padroncini vari con in cuore il sogno delle giunte sudamericane. Non c’erano neanche i media, e questo è un punto da tenere a mente.

    A Bologna – parlo di quello che è successo qui perché, visto il carattere davvero spontaneo di quelle piccole mobilitazioni, avere un’idea esaustiva di quello che accadeva altrove non era facile – in piazza c’erano studenti universitari e medi, giovani precari, disoccupati, operai, migranti, senzatetto, poveri di ogni tipo. Tra le azioni che avevamo, nel nostro piccolo, compiuto, c’erano iniziative di solidarietà verso i rifugiati che dormivano ai giardini della Montagnola, assemblee di rudimentale auto-coscienza sulle problematiche di genere, gruppi di discussione su temi come precarietà e reddito minimo, sostegni ai presidi anti-sfratto e alle lotte per il diritto all’abitare, assemblee nelle quali erano invitati a portare le loro testimonianze militanti No Tav e operai in lotta.

    Il tutto in piazza Maggiore, con un sistema di amplificazione raffazzonato mettendo insieme pezzi dati in prestito da persone comuni e con le cene nelle quali ognuno portava qualcosa, compresi i senzatetto, che quando potevano prendevano qualche merendina in più alla mensa della Caritas. A volte erano degli sconosciuti passanti a portarci qualche panino e un pacco di biscotti. Avevamo persino trovato il modo di fare delle vere e proprie tavolate comuni.

    Avevamo una piccola biblioteca di strada e una mostra fotografica, appesa ai muri esterni di Palazzo d’Accursio, e avevamo adornato il monumento ai partigiani di piante vive, che con le loro radici dovevano opporsi alle corone di fiori morenti deposte dalle autorità. Gli spazzini venivano a salutare quelli di noi ancora svegli nel cuore della notte, e poi passavano oltre, senza neanche scendere dal furgoncino. Piazza del Nettuno, nonostante il caos di pentole, cartelli, coperte, teli anti-pioggia, a detta sempre degli stessi spazzini, non era mai stata più pulita.

    Noi, poi, avevamo l’assemblea, una cosa che non si è vista, che io sappia, nelle proteste di questi giorni. Tra i forconi bolognesi, per lo meno, so di per certo che l’unico vago scimmiottamento di questa pratica è stato portato da un pittoresco personaggio locale, e non certo dai promotori. Da noi, l’assemblea prendeva le decisioni, ed era davvero aperta e libera da scelte predeterminate, persino troppo. È vero, assomigliava a un raduno di fricchettoni fuori tempo massimo, ma tanto quanto i gruppi che oggi vanno a minacciare i negozianti, tra cui quelli di una libreria di sinistra, sembrano squadracce fasciste.

    Militanti politici se ne videro, certo. Erano diversi i/le compagn* che passavano e che avevano voglia di “sporcarsi le mani”. Pochissimi, però, in confronto ai numeri che contavano allora le realtà di movimento bolognesi. Meno ancora le realtà organizzate che erano intervenute, per così dire, mettendoci la faccia. Molt* di noi scrutavano l’orizzonte in attesa di quella stragrande maggioranza di realtà di movimento, con le loro analisi avanzate e la loro capacità organizzativa, che ci ignoravano, insieme al 90% di giornali, radio e tv, anche locali. Continuarono a ignorarci, lanciandoci persino addosso il sospetto di cripto-fascismo, oggi tanto stigmatizzato quando pure in piazza ci sono i fascisti veri. Quel movimento confuso, sconclusionato, ignorante – ma lo eravamo poi tanto? – finì come era iniziato, senza analisi sociologiche o dilanianti discussioni a dirimerne le ambivalenze, quelle sì, proficue.

    Ora, perché a due anni di distanza, con i forconi ci si comporta così diversamente? Perché d’improvviso quel movimento che di spontaneo ha davvero poco, che risponde a parole d’ordine reazionarie, che picchia e minaccia, che applaude Forza Nuova e fischia la Fiom, diventa un terreno d’intervento così imprescindibile? Non dico che sia sbagliato intervenire, laddove in piazza ci sono i poveri che Revelli descrive, ma perché ora sì e allora no? Non è che il fatto che su quelle proteste siano accesi tutti i riflettori del paese c’entra qualcosa? Non è che il senso comune di sinistra è finito anche un po’ perché in passato è stato ignorato, considerato troppo spurio e irrecuperabile?

    È vero, c’è un grande lavoro di rialfabetizzazione da fare e c’era anche allora. Ma allora c’era gente comune – non militanti politici o lavoratori della cultura, ma studenti, operai, disoccupati, lavoratori sepolti nel sotterraneo del nero, senzatetto e migranti – che in piazza, invece della bandiera italiana, spontaneamente, perché sembrava loro un bisogno, portava una biblioteca.

    tratto da qui

    Non partecipai attivamente a quelle piazze, due anni fa, ma sono tanto, tanto, tanto d’accordo con te. Allora mi ero entusiasmato pure io all’idea di ricomporre una dimensione umana ancor prima che sociale, e non riuscivo a spiegarmi perché tanta puzza sotto il naso da parte di un buon numero di strutture di movimento. “Occupare le piazze da noi non funziona”, “non possiamo investire energie in un progetto del genere, è troppo rischioso”, “non è mica come l’anno scorso, quando c’era una macrovertenza (politiche gelminiane) intorno a cui costruire la mobilitazione”. Questo mi si rispondeva quando chiedevo perché non provarci, perché non essere presenti, condividendo tutte quelle parole d’ordine, idee, pratiche, accumulate in anni e anni di militanza e di esperienza. I movimenti sociali decisero di non rischiare, decisero che non era terreno fertile su cui intervenire.

    Ora invece spunta fuori che è stando nelle piazze, anche quando non le si è convocate, che si riesce a incidere sul reale. Spunta fuori che non è “troppo rischioso” cercare di conquistare certe simpatie (che è anche vero, ma perché due anni fa lo era?). Spunta fuori che della macrovertenza ce ne possiamo anche infischiare, l’importante è la radicalità diffusa, nelle pratiche prima che nei contenuti.

    Quegli stessi che decisero che non valeva la pena investire energie sulle piazze diffuse del 2011, ora hanno deciso che questo è terreno fertile. Del resto, è la merda a fare fertile il terreno.

  • Fascismo in sé e fascismo per sé

    «Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del nemico. E chi parla del nemico è lui stesso il nemico» (Bertold Brecht)

    Ben rivelando quel senso di inadeguatezza interpretativa e pragmatica che pervade, per ammissione o sotterraneamente, le strutture di movimento italiane, il fenomeno dei “forconi” ha fatto emergere la necessità di confrontarsi con il reale. In questi giorni è in corso un vivo (e vivace) dibattito tra le realtà di movimento che prescinde dalle narrazioni dominanti. E prescinde da esse da entrambi le parti che si sono delineate fin dalle prime analisi, a dispetto di quanto dicano alcuni attori di tale dibattito.

    Il dibattito in questione verte sostanzialmente intorno a una domanda vecchia come il cucco: come dovrebbero porsi le forze di sinistra nei confronti di una espressività politica, anche radicale nella prassi, derivante da una composizione sociale non tradizionalmente riconducibile alla sinistra? Come sfruttare le ambivalenze frutto della crisi?

    In realtà, la stessa identica domanda era stata formulata a suo tempo da un certo Carlo di Treviri, il cui cognome poco importa, seppure in termini all’apparenza diversi. Nella sua opera Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte egli si dedicò all’analisi della presa del potere da parte del futuro Napoleone III e individuò la base politica di tale potere nel richiamo, cui corrispose una nota risposta, a quella componente sociale che Carlo chiamava “sottoproletariato”. Bonaparte si erige a capo del sottoproletariato, ne è il principe, lo aggrega e lo lambisce con retorica unificatrice, infine prende il potere e instaura una dittatura.

    La tendenza di quest’omone barbuto ad attribuire al sottoproletariato la responsabilità di quello che molti in seguito considerarono l’evento anticipatore delle avventure fasciste e autoritarie del secolo successivo fin da subito fece molto discutere. Se alcuni, come un certo Leone di cui neanche importa il cognome, ebbero l’ardire di affermare che «attraverso il fascismo fu il capitalismo in grado di mobilitare masse di piccoli borghesi impazziti e fasce di sottoproletariato impoverito e demoralizzato», altri, per esempio un certo Michele, insistettero sull’importanza di tutto quello spettro sociale che compone ciò che Carlo definiva sottoproletariato e sostennero che non è accettabile escludere dai discorsi e dall’azione politica chi già è escluso di per sé dal punto di vista sociale ed economico.

    Perché tutto questo ricapitolare e citare autori privi di cognome?
    Forse perché i discorsi di questi giorni riguardano la stessa cosa.

    Com’è possibile che ogni volta che qualcuno dice «non vogliamo bandiere» si scopre che ciò che non vuole sono i comunisti? E com’è possibile che quando c’è la bandiera rossa i “forconi” cacciano via dalla piazza chi la porta, mentre quando c’è lo striscione dei fascisti applaudono? Cosa vuol dire accettare chiunque prescindendo dall’appartenenza politica? (Ma non è lo stesso discorso sviscerato per mesi sul M5S?)

    Come prendere le dichiarazioni di un portavoce della protesta, Andrea Zunino, secondo cui «è curioso che 5 o 6 tra i più ricchi del mondo siano ebrei» e che un modello da seguire è l’Ungheria nazionalista, reazionaria e autoritaria di Viktor Orbàn («Lui sì che sta liberando davvero il suo Paese»)?

    Come rapportarsi con chi dice «a me vanno bene tutti gli italiani, i cittadini che scendono in piazza», ponendo neanche troppo sottilmente discriminanti di nazionalità sulla composizione di piazza, almeno nella retorica e nelle parole d’ordine? E con chi, convinto di essere scevro da condizionamenti ideologici, afferma di comprendere «il disoccupato che si lamenta perché al marocchino arrivato col barcone danno la casa e mille euro mentre lui deve dormire in macchina», noncurante del fatto di stare diffondendo propaganda razzista strumentale?

    Chi si appella al “popolo italiano” è di destra, ma anche tanto. E può anche negarlo, prima o poi si scopre. Non esiste un razzismo di sinistra.
    Chi si appella al “popolo italiano” è di destra, ma anche tanto. E può anche negarlo, prima o poi si scopre. Non esiste un razzismo di sinistra.

    Come accogliere le esternazioni aggressive del tipo «Bruciate i libri!»?

    C’è chi dice, giustamente, che è troppo semplice liquidare il fenomeno dei “forconi” come movimento sommovimento di destra o addirittura fascista. Vero, ma a chi dice che «non si può fare di tutta l’erba un fascio» bisognerebbe ricordare che lo stesso si poteva dire del fascismo delle origini. Il semplice considerare, in un mondo globalizzato e nel pieno di una crisi neoliberista, il discriminante della nazionalità italiana come elemento unificatore è alquanto sospetto: tutti, ci dicono, facciamo parte dello stesso popolo, il popolo italiano uno e indivisibile, abbandoniamo dunque le differenze. Eppure, provate a sostituire il termine “fascisti” col termine “italiani”: considerare l’annullamento e l’appiattimento delle differenze una grande vittoria è un concetto preoccupante.

    Finirà lo spettacolo del fascista liberale, nazionalista, democratico e magari popolare: ci saranno solo dei fascisti. Questa individuazione è un segno di forza e di vita. È una vittoria. Una grande vittoria. Un titolo d’orgoglio. Il fascismo è destinato a rappresentare nella storia della politica italiana una sintesi tra le tesi indistruttibili dell’economia liberale e le nuove forze del mondo operaio. È questa sintesi che può avviare l’Italia alla sua fortuna.
    (Mussolini, “Il Popolo d’Italia”, 4 novembre 1921)

    Non sono tutti di destra, ma i dispositivi all’interno dei quali agiscono sono già di destra e fascisti in senso lato. Qualcuno dice che siamo di fronte al rifiuto di ogni forma di rappresentanza e quindi non esiste alcun dispositivo gerarchico o accentratore. Tuttavia, il fatto che non ci sia un dispositivo per sé non vuol dire che non ce ne sia uno in sé: il più delle volte non abbiamo a che fare con strutture organizzate, ma delle strutture che pretendono di esprimere una qualche forma di rappresentanza di questa composizione si sono già affacciate, perché la sete dell’uomo forte unificatore e della figura totalizzante è una tentazione facile da realizzare. Dice Wu Ming (in un altro contesto, non sui forconi):

    Il più grave problema di questo Paese, storicamente, è l’ignavia della piccola borghesia, che è la più becera d’Europa e oscilla perennemente tra l’indifferenza a tutto e la disponibilità a qualunque avventura autoritaria. Avventura «vicaria», naturalmente, vissuta per interposto Duce che sbraita. Giusto un brivido ogni tanto, per interrompere il tran tran, godersi l’endorfina e tornare al proprio posto.

    E questi sono gli orizzonti politici di Mariano Ferro, leader siciliano del Movimento dei forconi, che così ha risposto a chi chiedeva perché non si stessero organizzando per manifestare a Roma:

    Bisogna vivere qualche altro giorno di passione e far salire l’adrenalina degli italiani.

    C’è un “coordinamento nazionale” rappresentato da persone del calibro di Danilo Calvani, ex Lega Nord, che usa il “noi” esclusivo per rassicurare sulla disponibilità di fior di quattrini, a quanto pare, per pagare i treni per la marcia su Roma.
    Il dispositivo che guida e imbriglia i forconi, anche se non riconosciuto magari dalla maggioranza di coloro che hanno deciso di prendervi parte, è stato storicamente sperimentato a più riprese ogni qual volta se ne sia presentata la necessità. E si tratta di un dispositivo reazionario, che neutralizza il conflitto anziché portare la sua espressione verso un avanzamento.

    enti
    Disponibili a cacciare il governo con mazze e pietre, previo consenso degli enti.

    A chi fa affidamento sulle “ambivalenze” nella lettura degli eventi questi giorni e dell’espressione di dissenso e malcontento popolare, occorre ricordare che circa un anno fa c’era anche qualcuno che parlava di “proficue ambivalenze del M5S” e si è visto quanto aveva ragione.

    Infatti, se si volge lo sguardo alla lettura che ne viene data, si riconosce una narrazione che non aumenta il livello di conflitto, ma lo neutralizza. Ciò non accade solo ad opera della narrazione dominante propagandata da media mainstream, che dopo aver definito per alcuni giorni fascisti tout court i soggetti protagonisti di questi eventi sono passati ad accusare l’area antagonista per ravvivare la sempreverde criminalizzazione dei movimenti sociali: il discorso delle ambivalenze da sfruttare per spostarle a sinistra viene utilizzato paradossalmente per attaccare la sinistra (identificandola, eventualmente, con Renzi, e questo la dice lunga).
    Sparsamente, vengono prodotte analisi di movimento che affermano, riferendosi al concetto di “sinistra”, che «quella storia, piaccia o non piaccia, è finita» ed esprimono la necessità di «farla finita con l’idea di sinistra». Se sperano, così facendo, di spostare i forconi a sinistra, hanno già fallito in partenza. Perché, per farlo e nel farlo, hanno rinunciato a questa scomoda idea di “sinistra”.

    Questi che parlano di sporcarsi le mani, di parlare un linguaggio comprensibile, di riuscire a riconquistarsi l’appoggio degli sfruttati e dei proletarizzati, di ricostruire partendo dal reale la coscienza di classe degli stessi, sono gli stessi che hanno scelto di impostare un evento che poteva essere particolarmente proficuo sulle parole d’ordine “assedio” e “sollevazione”, marginalizzando dal movimento reale quella variegata composizione di classe di cui si sta parlando, la quale è totalmente sorda se non allergica a quel genere di retorica.

    Questa, diranno, è la realtà con cui ci dobbiamo confrontare. Non è perfetta perché niente può esserlo. Già quasi due anni fa, in calce a queste brevi considerazioni sul neonato “Movimento dei forconi”, un commentatore faceva notare: «Ok, i fascisti. Ok. Ma se fossimo vissuti in Francia nel 1789, come avremmo commentato?». Ma presìdi che minacciano, hanno dubbi legami con neofascisti e mafia, si lasciano trasportare dal primo capetto che passa, diffondono falsità razziste, alimentano il frame della casta, urlano “bruciamo i libri”, aggrediscono chi fa domande, assaltano le camere del lavoro, insultano gli operai in sciopero, sono affascinati dall’idea di una giunta militare… vogliamo chiamarli semplicemente “non perfetti”? Insomma, ci vuole tanto a riconoscerli?

    Sono quelle stesse masse che acclamarono Luigi Bonaparte, che accordarono consenso alle derive autoritarie degli anni Venti, che costituirono la base sociale della reazione. Inconsapevolmente, se vogliamo. Magari non fascismo per sé, ma comunque fascismo in sé.

  • Il disimpegno francese sul TAV visto da La Repubblica

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    Chi ieri pomeriggio ha aperto la prima pagina del sito de La Repubblica ha trovato a grandi lettere il titolo

    verticetav

    da cui si evince una volontà politica di entrambi i governi francese e italiano di confermare l’impegno nel progetto di costruzione della linea TAV.
    Tralasciando l’inaccuratezza dell’informazione data (visto che non si è trattato di un vertice specifico sulla questione TAV, come potrebbe sembrare da un titolo come quello proposto nonché dall’organizzazione dei contenuti dell’articolo, che la mette esageratamente in risalto rispetto al resto degli argomenti discussi da Letta e Hollande), cerchiamo di capire in che misura si può parlare di TAV come «priorità per entrambi i governi» italiano e francese.

    Dalla lettura dell’articolo emerge un solo dato in merito alle misure che i due governi intendono adottare in collaborazione, e dunque in merito ai contenuti di tale vertice spacciato per vertice TAV. E tale dato è: “…da Italia e Francia è stato confermato l’impegno ad adottare il prima possibile le misure necessarie per ottenere il cofinanziamento comunitario. Partendo, nel 2014, dalla presentazione alla Commissione europea di una domanda congiunta per avere il massimo sostegno finanziario nel periodo 2014-2020 (finanziamenti già in parte promessi da Bruxelles lo scorso 17 ottobre)”.

    A parte le richieste di finanziamenti all’UE da sostenere congiuntamente, non si parla di reali finanziamenti.

    E infatti Hollande, appena qualche mese fa, ha rinviato di 15 anni quella che secondo i giornali nostrani sarebbe una “priorità”: dal punto di vista politico, per Hollande significa lavarsene le mani, ovvero ammettere la mancanza di volontà politica di occuparsi del progetto e quindi di sostenerlo.

    In conclusione La Repubblica è riuscita a trasformare l’intenzione di una domanda congiunta di finanziamenti in parte promessi in impegno concreto, addirittura “prioritario”, del governo Hollande sulla questione TAV, ignorando deliberatamente che sul fronte francese il governo ha rinviato il progetto.
    Il titolo dell’articolo non è falso, ma di certo fuorviante, e tale ambiguità è data sia dall’omissione di un dato importante, sia dal peso dato al fatto che Hollande e Letta dicano di essere d’accordo, a prescindere da ciò che poi realmente fanno.

    Il motivo per cui tale scelta editoriale è stata operata è banale: ieri a Roma, durante il vertice Letta-Hollande, c’era un presidio cui hanno aderito i movimenti per il diritto alla casa e al reddito, nonché il movimento NoTAV. Occorreva criminalizzare il dissenso, e quale strategia adottare se non il richiamo al movimento NoTAV e a tutto ciò che ormai esso evoca nel lettore infarcito di narrazioni tossiche, quali violenza, estremismo, terrorismo? Definire il vertice come prevalentemente accentrato sulla questione TAV era necessario ad innescare il frame dominante e a richiamare tutta una sfera semantica che automaticamente le è associata: citare il TAV era necessario per rimandare alla contrapposizione con il movimento NoTAV.

    Ma la trappola editoriale de La Repubblica non è l’unica messa in moto ieri: è stata tesa anche una trappola di altra natura, in via Giubbonari a Roma.
    Infatti, dal presidio a Campo de Fiori si è staccato un corteo che è stato circondato dalla celere, in assetto antisommossa. La polizia ha anche bloccato tutte le possibili vie di uscita dalla piazza, trasformando il flusso di persone verso le vie laterali in una calca senza la possibilità di indietreggiare né avanzare, che è stata prontamente caricata. Una tale gestione della situazione non può che essere definita una provocazione: non si può pretendere di schierare la celere, circondare i manifestanti, bloccare ogni uscita per poi stupirsi se si verificano scontri. Lo scontro è voluto, cercato, progettato ad hoc da chi gestisce in questa maniera l’ordine pubblico (cosa a cui, tra l’altro, il dissenso non dovrebbe essere ridotto). Inoltre, è facile cercare lo scontro quando si è bardati, protetti, addestrati ed equipaggiati militarmente.

    Insomma, complimenti a La Repubblica e complimenti alla questura di Roma.

    EDIT:

    Qui un video per chiarire ancora meglio chi cercava lo scontro ieri a Roma.

  • Esperimento letterario [2]

    Tra-tra-tac. …«le forze dell’ordine in assetto anti-sommossa hanno dato inizio allo sgombero dei locali. Le forze dell’ordine hanno bloccato la via all’altezza del bar, deviato il traffico e fatto irruzione nei locali occupati. Ventiquattro persone sono state denunciate per occupazione di proprietà privata». Tra-tra-tac. Che cazzo è questo rumore? Il ventilatore? È difettoso, accidenti. Non è possibile studiare con questo caldo: uno si distrae facilmente e si trova a leggere i giornali del giorno prima, tra l’altro rovinandosi gli occhi con la luce del monitor. «Molti abitanti del quartiere sostengono che il laboratorio con i suoi eventi rendesse vivo il quartiere. “Non creavano alcun fastidio, non facevano casino e non si ubriacavano ma anzi animavano un po’ il quartiere dopo una certa ora”». Tra-tra-tac. «Alcuni ritengono addirittura illogico lo sgombero dei locali: “Mi sembra che non meritassero un trattamento del genere”». Tra-tra-tac. Studia. Studia. Non leggere i giornali. Non essere curioso. Studia, al massimo interrompi per vedere se magari riesci ad aggiustare quel cazzo di ventilatore. «“Era doveroso ed obbligatorio sgomberarlo” sostiene un abitante della zona». Doveroso per chi? Che domande, per chi ha il dovere di sgomberare! Tra-tra-tac. Basta, vado a dormire. L’unica cosa che serve leggere è il libro che ho davanti. Se non ci riesco, tanto vale andare a dormire. E domani aggiusto quel cazzo di ventilatore.

    «Dopo lo sgombero dell’edificio, situato nel centro storico, stamane una cinquantina di giovani attivisti ha organizzato un sit-in di protesta davanti al municipio. La tensione è salita quando sono giunti sul luogo gli uomini delle forze dell’ordine, in quanto la manifestazione non era stata autorizzata. Gli agenti, in assetto anti-sommossa, hanno proceduto a una carica di alleggerimento per mantenere l’ordine e si è verificato qualche tafferuglio. Alla fine, dopo circa mezz’ora, si contano due agenti feriti». È ora di andare a mensa. Non dimenticare la tessera. Ma come potrei dimenticarla? È sempre sullo stesso angolo del tavolo, e prima di uscire faccio sempre lo stesso gesto: sollevare il braccio sopra la superficie del tavolo, abbassarlo finché le dita della mano toccano la tessera, ritrarre il braccio all’indietro facendo scorrere la tessera sul tavolo. Il pollice opponibile penserà al resto.

    Ci vogliono dieci minuti per arrivare a mensa a piedi. Meglio impiegarne cinque. Camminare spediti, per recuperare il tempo perso ieri sera a leggere i giornali. Che l’esame è vicino. Se c’è qualcuno di conosciuto lungo il percorso, salutare con un cenno senza fermarsi. Non posso permettermi di perdere altri minuti. Non c’è molta gente per strada oggi, forse perché è sabato e a pranzo si è già a casa. I negozi però sono aperti, le vetrine colorate, anche se probabilmente stanno per chiudere, che i commercianti dovranno mangiare pure loro. Ecco la mensa. Accelerare il passo. È come se stessi scappando.

    Vassoio blu. Forchetta, coltello, bicchiere. Scelta del pasto. Ringraziare e prendere posto.
    –Come va?– un faccione sorridente mi si para davanti, con l’evidente intenzione di sedersi al posto di fronte al mio.
    –Bene, vuoi stare qui?
    –Certo. Allora, che mi racconti?– e che cosa posso raccontare? La mia vita è interessante? Ieri sono stato tutta la sera su un libro che il caldo mi impediva di leggere. Ho fatto altro per la maggior parte del tempo, ho letto notizie casuali dagli aggregatori automatici che si trovano su internet. Cercare una risposta che non consenta di parlare dello studio e impedisca l’innesco di una serie di frasi di circostanza. Tentar non nuoce:
    –Ho letto che ci sono stati dei tafferugli nella tua città.
    Sguardo interrogativo.
    –Dove l’hai letto?
    –Sul giornale, stamattina.
    –Non ne sapevo niente. Come mai?
    –Hanno sgomberato quel posto occupato, nel centro storico.
    Frena, frena. Parola proibita, occupato. Ormai è troppo tardi.
    –Occupato da chi?
    –A quanto ho capito, un gruppo di ragazzi l’aveva rimesso a nuovo. Ci facevano feste e altre attività. Non ho trovato molto, ho letto per caso qualcosa ieri sera, mentre studiavo, immagina la mia attenzione.
    Studiare, altro passo falso. Probabilmente la discussione è terminata, si sta per tornare alla normalità, con scambio di battute che assecondi la routine.
    –Ah, ti capisco. Ieri faceva proprio caldo: non si riusciva a studiare!
    Tutto secondo copione, per il resto del pranzo. Salutare, uscire da mensa, accelerare il passo. Come se stessi scappando, ma dalla parte giusta?

  • Esperimento letterario [1]

    Prendi il vassoio. Il blu, non il bianco. Il bianco ha i bordi meno rialzati e poi se uno sceglie la frutta questa rotola via alla minima inclinazione. Prendere la forchetta. Prendere il coltello. Gesti meccanici come quelli di una macchina. Il bicchiere a destra. Capovolgerlo e poggiarlo sul vassoio. Chi c’è oggi a mensa? Che domande, sempre gli stessi. Ah, eccoli. Staranno parlando di com’è andata la lezione e magari di cosa fare oggi pomeriggio. Che domande, cosa potranno mai fare? Studiare per il prossimo esame. Poggiare il vassoio sulla corsia di metallo. Farlo scorrere di un metro, per lasciare spazio al vassoio di quello in fila dietro. Qualche passo in avanti, scavalcando quattro persone ma lasciandosi il vassoio a tenere il posto. Cosa c’è oggi da mangiare? Niente di nuovo. Che stupido, oggi è venerdì. C’è il fritto, ovvio. E la pasta al tonno come primo. Indicare la pasta. Sorridere. Mi porgono il piatto con un movimento automatico. Riconoscono la mia faccia: saranno anni che la vedono quasi tutti i giorni. Il mio nome no, non lo conoscono, e io non conosco il loro. Alzare la mano scuotendo la testa, in segno di diniego, ma ancora sorridendo. Il fritto è troppo pesante, stavolta fa caldo e non è proprio il massimo. Come se lo fosse quando fa freddo. Indicare piuttosto uno dei contorni. Cosa c’è per contorno? Che domande, ci sono le patate. Indicare le patate. Ringraziare, sollevare il vassoio dalla corsia, voltarsi. E affrontare la mensa.

    –Allora, come va? Cosa fai in questo periodo?– Ci vediamo tutti i giorni, cosa vuol dire “in questo periodo”? Ma davvero vuole saperlo, davvero riceverà una risposta?
    –Ho appena dato un esame, ma…
    –E com’è andata? Non ti senti più libero ora?
    –…ma non posso riposarmi: oggi inizio a studiare per il prossimo, manca poco tempo.
    –Ah, non dirlo a me. In dieci giorni tre esami, devo dare.
    –Perché hanno fissato degli appelli così ravvicinati?
    –Ce n’erano altri dopo, ma io voglio dare tutto al primo appello disponibile.
    –Ah… ho capito.
    Una voce proveniente da destra sovrasta il brusio generato dalla moltitudine indistinta di frasi di circostanza. Intere discussioni di circostanza.
    –No, non è un diritto! Se uno non lo merita, non lo merita, punto!
    Di che stanno parlando? Che domande, di una lezione di stamattina. Discutono del principio secondo cui la formazione universitaria debba essere accessibile a tutti. L’osservazione di qualche collega deve aver innescato il dibattito, magari ponendo una domanda dalla risposta scontata per chi è molto disinvolto in materia.
    –…però se dici così sei antidemocratico. E va bene, sono antidemocratico! Se essere per la meritocrazia significa essere contro la democrazia, allora sono contro la democrazia. C’è bisogno di competenza, non di elemosine caritatevoli.
    –Ma quali elemosine? Quello ha solo fatto una domanda su una parte della lezione che non aveva capito! Una lezione è una lezione, ogni domanda è legittima…
    –Sarà legittima quanto vuoi. Per quanto mi riguarda, poteva chiedere qualunque cosa. Tu non sai quanto ho goduto!
    –Che… goduto per cosa?
    –Come sarebbe “per cosa”? Non aveva capito nessuno! Nes-su-no, tranne me. Ah, quanto ho goduto!
    Basta. Correre ai ripari. Alzarsi, ritirata, abbandonare l’arena.
    –Buono studio, ci vediamo.

    Contro la democrazia, che discorsi assurdi. Queste non sono più semplici discussioni di circostanza. L’impressione è che le discussioni di circostanza normalmente coprano come un velo, una patina, la superficie viva del mostro. Quanti saranno d’accordo? Ma consapevolmente o inconsapevolmente? Che domande, sono stati abituati così, è connaturato alla struttura di questo posto. Loro lo pensano veramente. Quando chiedono “allora, come va?”; quando si interessano, “cosa fai in questo periodo?”; quando informano, “in dieci giorni tre esami”. Quando entrano a mensa, scelgono il vassoio, lo spingono lungo la corsia di metallo, indicano il pasto desiderato, prendono posto ai tavoli. In ogni momento, sanno che la meritocrazia è meglio della democrazia. È il leitmotiv, il filo conduttore, la chiave di volta che tiene insieme tutta la baracca.

    –Grazie, buonasera.
    Controllare la data di scadenza del prestito. Due mesi. Poco male, meno della metà del tempo e l’esame sarà passato. È così che passa il tempo: passando gli esami. Colazione, studio, lezione. Mensa. Lezione, studio, mensa. Letto.
    Ventotto, ventinove, trenta. Trenta e lode, trenta, ventinove.
    Una gamma poco vasta di numeri, una varietà molto scarsa di luoghi e azioni. Studio cose interessanti. E la mia vita è interessante? A che età si comincia a considerare interessante una vita monotona? Rispetto delle scadenze, aderenza ai parametri di valutazione: la chiave per il prestigio accademico e per il successo professionale. A chi suscita interesse? A me interessa? Che domande, certo che mi interessa, soprattutto di questi tempi. Il lavoro mica lo regalano, conviene rientrare nei criteri richiesti dal mercato.