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  • Le culture non esistono

    «La cultura araba non rispetta le donne», «la cultura araba è bigotta», «la cultura araba è teocratica». Sono tutte frasi che è facile sentire pronunciare e che sono sempre più comuni e socialmente accettate. Simili generalizzazioni riguardo ad altri gruppi umani sono appannaggio di una relativamente ristretta cerchia di razzisti dichiarati e militanti xenofobi, mentre opinioni dello stesso tipo rivolte agli arabi (o ai musulmani, giusto per intorbidare le acque visto che non è la stessa cosa) sono ormai non più prerogativa di pochi ma fanno parte del senso comune, di quelle verità socialmente costruite che si danno per scontate nel dibattito pubblico e nell’informazione di massa.

    Con spirito critico, intendo ragionare sulla logica fallace che sottende l’utilizzo di categorizzazioni come “cultura araba”, che possono essere efficaci nell’immediata comunicazione quotidiana ma hanno pesanti ripercussioni sul senso politico esplicito ed implicito dei discorsi che ne fanno usi poco attenti e circostanziati.

    Per parlare di categorizzazioni, iniziamo trattandone una particolare, che nel mondo contemporaneo storicamente è stata la categorizzazione per eccellenza: la razza. Il razzismo biologico come ipotesi scientifica, nonostante sia passato di moda, è duro a morire ed esistono ancora oggi suoi sostenitori nella comunità scientifica. Nella logica del metodo scientifico è legittimo chiedersi se le razze esistano e provare a dimostrarlo. Come spiegato impeccabilmente dal genetista Guido Barbujani in L’invenzione delle razze, la teoria che propone la divisione della specie umana in razze, nelle sue varie formulazioni e nelle diverse modellizzazioni che sono state proposte, è stata sottoposta ad analisi scientifica a più riprese, con tecnologie sempre più precise e sofisticate, ed è emerso che tale teoria semplicemente non funziona: non permette di produrre modelli che descrivano adeguatamente la realtà, dunque il suo valore scientifico è nullo e chiunque sostenga di poter dimostrare scientificamente il contrario lo fa in cattiva fede. Come riporta l’Enciclopedia Treccani (qui), «il concetto di razza umana è considerato destituito di validità scientifica, dacché l’antropologia fisica e l’evoluzionismo hanno dimostrato che non esistono gruppi razziali fissi o discontinui».

    Per una spiegazione esaustiva di come si è giunti a questa conclusione rimando al saggio di Barbujani, ma il principio è piuttosto semplice e si può riassumere facilmente. Per descrivere una razza, si dovrà elencare un insieme di caratteristiche condivise da tutti gli individui che la compongono e che permettano di dire con certezza di ogni individuo se è di quella razza oppure non lo è. Esiste nelle popolazioni una variabilità genetica data dalla presenza, in individui diversi, di versioni diverse dello stesso gene: tali differenze sono misurabili e si possono utilizzare per provare ad operare una categorizzazione su base genetica.

    Gli studi di genetica umana dicono che se si considerano singoli caratteri, o meglio singoli geni, essi sono sempre presenti in quasi tutte le popolazioni umane, anche se con frequenza diversa. Nessun gene può essere utilizzato per distinguere una popolazione umana dall’altra. Le popolazioni umane sono geneticamente molto simili le une alle altre, c’è invece una grande variabilità genetica tra gli individui. La variabilità genetica all’interno delle singole popolazioni, per esempio tra gli europei o gli italiani, è elevatissima. Mentre le differenze genetiche tra i tipi mediani delle diverse popolazioni, tra gli italiani e gli etiopi, per esempio, sono modeste e pressocché irrilevanti rispetto alla variabilità interna alle singole popolazioni. Questa differenza si può quantificare e il risultato è che, come misurato a partire dal 1970, l’85% della variabilità genetica umana è presente all’interno delle singole popolazioni, il 5% tra popolazioni del medesimo continente e il 10% tra popolazioni di diversi continenti. C’è maggiore differenza tra due italiani posti all’estremo di un profilo genetico, che non tra un italiano e un etiope posti al centro dei profili delle rispettive popolazioni. Insomma, definire le razze umane non è utile neanche al fine pratico di descrivere le differenze presenti nella specie umana. Anzi, sostiene Barbujani: «più si studiano nuovi geni, più si fa esile la speranza di trovare chiari confini fra gruppi umani a cui possiamo dare il nome di razze».

    Occorredunque tenere a mente queste tre importanti conclusioni interconnesse, che inficiano ogni fondamento del razzismo biologico:

    1. Assenza di geni assolutamente caratteristici di una particolare popolazione
    2. Grande variabilità genetica tra gli individui
    3. Variabilità interna alle popolazioni maggiore della variabilità tra le popolazioni

    Per dare un’idea più chiara ed intuitiva, se non bastassero i numeri, ricorrerò ad un banale esempio pratico. Prendiamo una popolazione qualunque, e supponiamo di voler descrivere la razza a cui appartengono gli individui di tale popolazione. Supponiamo di scegliere come primo criterio il colore dei capelli: ovviamente non è sufficiente, perché nella razza sarebbero inclusi tutti gli individui che hanno i capelli di quel colore, anche quelli che non appartengono a quella popolazione. Si deve dunque affinare la descrizione aggiungendo un’altra caratteristica, per esempio considerando la forma del naso. Non è sufficiente, perché innumerevoli individui nel mondo avranno sia i capelli di quel colore sia il naso di quella forma. Dunque è necessario affinare ancora la descrizione con altre caratteristiche, per escludere gli individui “presi nel mucchio”, cioè individui che, per come è definita la razza in questione, saranno casualmente inclusi anche se non c’entrano niente. Questi individui intrusi, qualunque sia la descrizione della razza, saranno sempre troppo numerosi, renderanno il modello inaccettabilmente poco preciso e costringeranno ad aggiungere ulteriori caratteristiche per affinare la descrizione. Finché, a un certo punto, l’elenco è talmente lungo e la descrizione talmente specifica che ad ogni caratteristica aggiunta cominciano ad essere esclusi individui che dovrebbero essere inclusi, perché insomma, si tratta di una popolazione che vogliamo descrivere come razza, ma non si può certo pretendere che gli individui che la compongono condividano veramente tutte quelle caratteristiche, neanche fossero fatti con lo stampino. Il numero di inclusi che dovrebbero essere esclusi è sempre troppo grande, il numero di esclusi che dovrebbero essere inclusi è sempre troppo piccolo. Questo rende conto della particolare configurazione della diversità umana, che si rifiuta di essere categorizzata in razze. L’unica soluzione scientifica è considerare la specie umana divisa in tante razze quanti sono gli individui.

    Tornando ora alla questione iniziale, dovrebbe esser chiaro il senso di questa lunga premessa: lo stesso identico ragionamento si può fare riguardo al concetto di cultura. Per definizione (qui) con “cultura” si intende «il complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche e scientifiche, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico». Ogni società nasce dall’incontro di interessi particolari, e in una visione di sinistra (in una qualunque visione di sinistra, dato che si tratta del minimo sindacale per poter sperare di essere considerata tale, come detto qui) non può che essere vista come campo di forze in cui si articola il conflitto tra innumerevoli interessi contrapposti. Se la cultura è il complesso di tutti quei comportamenti che caratterizzano la vita di una società, è espressione di tanta diversità quanto diversi sono gli interessi e i conflitti che la percorrono, con buona pace di chi sostiene che le culture siano monolitiche peccando di ingenuità o ignorando un fatto che si può riassumere con estrema facilità: la realtà è complessa, molto complessa. In ogni gruppo umano esistono interessi contrapposti, e che non sono mai solo bianco e nero. Ci sono progressisti e conservatori, ma tra i progressisti ci sono i riformisti e i rivoluzionari e tra i conservatori ci sono i moderati e i reazionari, poi tra i reazionari ci sono gli estremisti violenti armati e i reazionari istituzionali, e tra questi quelli più aperti su alcune questioni e quelli che lo sono meno, e tra quelli aperti ce ne sono che lo fanno per motivi di convenienza politica e compromesso e altri che lo fanno per sincera convinzione personale, mentre tra i rivoluzionari ci sono quelli disposti ad allearsi con altre forze popolari e quelli intransigenti, e tra gli intransigenti quelli che vogliono far subito la rivoluzione e quelli che vogliono preparare il terreno in attesa di tempi migliori… inutile continuare; questo esempio, che pure si limita esclusivamente alle posizioni politiche che si possono assumere all’interno di una stessa società, rende conto della straordinaria varietà possibile.

    Si possono prendere in prestito gli argomenti contro il razzismo biologico, riformulandoli per mettere alla prova la convinzione che la varietà del comportamento umano in società sia effettivamente organizzata in culture ben definite (in maniera oggettiva, aldilà delle impressioni e delle autorappresentazioni).

    Il primo argomento è che la descrizione generale di una cultura difficilmente può adattarsi bene a tutti i comportamenti individuali. Come nel caso delle razze, non esiste elenco di caratteristiche culturali che funzioni per tutti, senza essere violato dall’interno di quella specifica cultura da parte di individui che staranno pure agli estremi dello spettro di convinzioni, pratiche, modelli e valori, ma che di quella cultura fanno comunque innegabilmente parte. D’altra parte, non esistono elementi di una cultura che assolutamente non esistono nelle altre culture.
    Esiste invece una grande variabilità “culturale” tra gli individui in termini di credenze, modelli e valori, e in tutte le culture è rappresentato largamente lo spettro delle possibilità, in proporzioni che dipendono dal contesto storico entro cui la cultura si articola e si esprime.

    Nel caso della “cultura araba” o musulmana, come probabilmente in tutte le culture umane esistenti ed esistite, è possibile riscontrare la validità di queste osservazioni. Se «la cultura araba è teocratica», a che cultura appartengono tutti i musulmani laici che hanno preso parte ai processi di riappropriazione democratica e alle rivolte del 2011 e che combattono oggi contro il tentativo di gruppi come Daesh di imporre un ordine teocratico? E i tanti arabi atei che lottano per il riconoscimento sostanziale della libertà di non credere? Se «la cultura araba è violenta», che dire dei milioni di arabi a cui piacerebbe vivere senza alcuna violenza, come alla maggior parte degli esseri umani sulla faccia del pianeta? Se «la cultura araba non rispetta le donne», a che cultura appartengono le sempre più rumorose femministe arabe? E gli autonomisti curdi che con l’esperimento sociale del Rojava hanno invidiabilmente costruito una sostanziale parità di genere? E a che cultura appartenevano quei paesi mediorientali in cui negli anni Sessanta non esistevano limitazioni religiose alla libertà delle donne?

    Cosa significa questo? Che si deve accettare un fatto: la varietà esiste, anche nella “cultura araba”, ed esiste sempre una complessità irriducibile a semplificazioni con l’accetta. C’è maggiore differenza tra due individui di “cultura occidentale” posti all’estremo dello spettro di credenze e valori, che non tra un individuo medio di “cultura occidentale” e un individuo medio di “cultura araba”. Per esempio, io mi sento (e spero di essere) molto più simile a un non credente di sinistra tunisino che non a un cattolico conservatore siciliano; così come mi sento molto più vicino ad un anarchico inglese che non ad un fascista italiano. Come le presunte razze, le presunte culture presentano limiti ontologici e implicano un salto logico che non è razionalmente giustificabile.

    (Il fatto che confutando chi sostiene la superiorità di alcune culture si finisca facilmente per utilizzare gli stessi argomenti adatti a confutare chi sostiene la superiorità di alcune razze dovrebbe suggerire qualcosa sulla funzione sociale e politica assunta dal razzismo culturale. Ontologicamente ed eticamente, non c’è nulla di diverso tra credere che esistano razze superiori e credere che esistano culture superiori. Se la prima opzione è meno socialmente accettabile è più per una ragione storica che intellettuale: in generale, il razzismo biologico disgusta perché innesca un meccanismo riflesso che richiama la memoria condivisa del Demonio nazista, non perché è stato dimostrato che è scientificamente infondato. Diversamente, sostenere l’inferiorità di certe culture è considerato socialmente accettabile. Per capire cosa intendo dire, provate a sostituire la parola «arabi» con la parola «ebrei» in tutti i luoghi comuni che si dicono sugli arabi. Converrete con me che molta meno gente sarebbe disposta ad ascoltarvi senza storcere il naso.)

    Qualcuno potrà legittimamente chiedersi se non sia questa un’opera di sapiente mistificazione della realtà ordita dai buonisti apologeti in difesa del politicamente corretto volta a nascondere l’evidenza che le società del mondo arabo qualche problema in materia di diritti delle donne innegabilmente ce l’hanno, così come qualche problema con la laicità dello Stato e le libertà individuali e sociali. Osservazione sensata, se non fosse che qui nessuno sta negando che questi problemi esistano, bensì che siano dovuti alla “cultura araba”. Non serve a molto affidarsi alla mera evidenza empirica senza un’elaborazione intellettuale, perché altrimenti dovremmo credere che un legnetto dritto immerso nell’acqua si spezza e diventa più corto. Se ogni cultura comprende una diversità che spazia tra gli estremi dello spettro di credenze, convinzioni, modelli e valori, il prevalere di certe credenze, convinzioni, modelli e valori nell’articolarsi della vita sociale è da attribuirsi allo sviluppo storico, al contesto sociopolitico, piuttosto che alla cultura in sé (che invece contiene tutte le sfumature possibili, dominanti e non).

    I fascismi novecenteschi europei non erano dovuti alla cultura occidentale più di quanto i movimenti socialisti fossero dovuti alla stessa cultura: se negli anni Trenta i fascismi trionfarono fu per cause materiali ben individuabili, per i rapporti sociali di forza, non certo per un’impalpabile e astratta ineluttabilità intrinseca alla cultura occidentale. Analogamente, lo stesso vale per l’attuale mondo arabo: se, per esempio, esiste una creatura mostruosa come l’ISIS, è perché le condizioni politiche, economiche e militari lo hanno permesso. La “cultura araba” non spiega l’esistenza dell’ISIS, ma solo le forme della sua esistenza. Se l’ISIS fosse sorto in una cultura diversa, non sarebbe stato meno mostruoso e non avrebbe avuto meno difficoltà ad affermarsi (l’esempio dei fascismi europei è calzante). Ancora, il peso del contesto storico è esemplificato dalla condizione delle donne in Afghanistan, che negli anni Sessanta potevano uscire di casa, guidare, iscriversi all’università ed è ovvio che queste libertà sono state perse a causa degli avvicendamenti squisitamente geopolitici che hanno segnato la storia del paese, mentre il popolo è in maggioranza musulmano dagli inizi dell’Islam e l’occupazione sovietica non ha certo annullato secoli di cultura musulmana popolare.

    Due studentesse di medicina afgane discutono di anatomia umana con la loro professoressa, a Kabul nel 1962

    Quello che avviene quando si attribuiscono alla cultura gli eventi sociali politici economici è uno scambio dialettico tra struttura e sovrastruttura, che porta a non riconoscere che la cultura non è causa dei comportamenti, ma è i comportamenti (le cui cause sono squisitamente materiali e risiedono nei rapporti forza, produzione e dominio esistenti nelle società).

    Insomma, nessuno nega l’esistenza e la gravità dei problemi che affliggono purtroppo buona parte del mondo arabo. Si tratta di contestualizzare e di analizzare la complessità del reale, senza sostenere l’esistenza di culture monolitiche, in cui la diversità e i conflitti sono neutralizzati. Non si tratta di politicamente corretto: ciò che opprime, reprime, soffoca e limita le libertà individuali e sociali va combattuto, sempre, in quanto tale, in ogni cultura. Per questo motivo, si deve lottare contro tutto ciò che nella “cultura araba” è autoritario, violento e repressivo e per farlo occorre non neutralizzare i conflitti, ma anzi riconoscerli per sostenere ciò che al contrario è liberante ed emancipatore. Se di una cultura si considera arbitrariamente solo ciò che non piace e se ne fa una questione di cultura, allora tutte le culture sono conservatrici (se arbitrariamente si è scelto di vederne solo la componente conservatrice) o progressiste (se arbitrariamentre si è scelto di vederne solo la componente progressista). Chi invece riconosce il conflitto con le sue contraddizioni e ambiguità, riconosce che la cultura protestante ha prodotto le chiese strutturate autoritarie e istituzionali dei luterani ma anche i movimenti zwingliani e anabattisti; la cultura cattolica ha prodotto la Santa Inquisizione ma anche frati francescani che difendevano i diritti dei popoli colonizzati e la teologia della liberazione; la cultura marxista ha prodotto lo stalinismo ma anche il socialismo libertario; la cultura francese moderna ha prodotto l’assolutismo ma anche l’età dei lumi; la cultura illuminista ha prodotto la democrazia ma anche il capitalismo; la Rivoluzione francese ha prodotto i giacobini ma anche Napoleone; e così via.

    Ecco perché, anche se il nazismo è nato ed cresciuto nella “cultura occidentale”, non viene detto che la “cultura occidentale” sia nazista. Anzi, oggi viviamo nella stessa cultura ma non ci sono nazisti al potere: non è cambiata la cultura, ma il contesto sociopolitico entro cui tale cultura è espressa. Non si capisce per quale motivo lo stesso non debba valere per la “cultura araba” quando si dice che è teocratica o che non rispetta i diritti delle donne. Ecco perché non esiste nessuno scontro di civiltà.

    Infine, soprattutto, chi da questa sponda critica la “cultura araba” perché teocratica, bigotta, intollerante, discriminatoria, sessista, dovrebbe prima di tutto guardarsi in casa (anche se mi rendo conto che avere i fascisti in giardino non è assolutamente un buon motivo per astenersi dal criticarli quando sono nel giardino del vicino); inoltre rendersi conto che il modo migliore per combattere quanto di teocratico, bigotto, intollerante, discriminatorio, sessista esiste nella “cultura araba” è proprio evitare di immaginare una “cultura araba” in quanto tale. Per esempio, attualmente la concreta opposizione agli autoritarismi nel mondo arabo è quasi interamente composta da musulmani o gruppi in tutto e per tutto interni al mondo arabo. Parlando di “cultura araba” si comprendono nello stesso campo semantico, mentale e di riflesso anche politico, tanto l’autoritarismo quanto la maggioranza di coloro che lo stanno combattendo. Se l’obiettivo è sconfiggere l’estremismo autoritario, a che serve un concetto di “cultura” così definito, che traccia una immaginaria linea di confine in base alla quale l’autoritarismo e chi lo combatte stanno sullo stesso lato? Se si vuole migliorare le condizioni di vita del genere umano, le linee di divisione non vanno tracciate tra le culture, ma tra oppressi o oppressori.

  • Decostruire la “razionalità” del razzismo

    La Conversazione tra un razzista e un non so (qui) che Grillo ha pubblicato e diffuso il 19 giugno, è un concentrato di luoghi comuni e pregiudizi che intenderebbe mostrare la razionalità del discorso razzista e l’irrazionalità di chi, invece, al razzismo in tutte le sue forme si oppone (figura a cui Grillo attribuisce l’epiteto di “non so”, a riprova della sua convinzione che chi si oppone al razzismo non abbia le idee chiare, sia confuso e indeciso, addirittura ignavo e incapace di prendere posizione, nonché poco razionale). Tale conversazione fornisce una serie di argomentazioni tipicamente attribuite all’una o all’altra parte, con l’obiettivo di sostenere, con autoironia da parte di Grillo, la parte del razzista. Lo scopo dell’analisi di tali argomentazioni, condotta qui di seguito, è mostrare che non si tratta affatto di autoironia.

    Razzista: Io sono un razzista
    Non so: Io invece non so, anzi no.

    Come già accennato, è chiara la netta distinzione tra il primo personaggio, sicuro delle proprie posizioni (quelle che i “buonisti” certamente pagati dal PD, corrotti e collusi con il sistema, definirebbero “razziste”) e il secondo, che fin da subito appare come la parte debole della conversazione, incapace di addurre argomentazioni forti e convincenti, suggerendo di non essere lui stesso debole e poco convinto delle ragioni che fornisce.

    Razzista: Chi entra nel mio Paese deve essere identificato

    Perché? Il motivo non viene enunciato né suggerito. Anzi, né ora né nel seguito della conversazione verrà mai spiegato per quale motivo chiunque entri in un paese debba essere sottoposto a identificazione. Si sappia che la motivazione legalitaria autoassolutoria “perché così vuole la legge” non è sufficiente, perché dimentica che la legge è un prodotto sociale e non un principio assoluto, e si sappia che in certi paesi tali richieste sono considerate vessazioni se non violazioni dei diritti civili. In ogni caso, il motivo non è spiegato, perché il “non so”, invece di chiedere delucidazioni in merito, decide ingenuamente (perché così è appositamente costruito il personaggio) di cambiare discorso e di etichettare l’interlocutore subito come razzista.

    Non so: Perché sei un razzista. Io accoglierei tutti. Sono tutti esseri umani
    Razzista: E chi paga 1050 euro al mese cadauno? Mia madre prende la metà, la pensione minima, dopo aver lavorato e pagato tasse dirette e indirette per 30 anni.
    Non so: Ne fai una questione di soldi, ma quanto abbiamo rubato noi a questi popoli? Li abbiamo depredati delle loro risorse come potenze coloniali e ancora oggi. Non si possono mischiare diritti umani e denaro. A chi ti chiede aiuto devi tendere la mano.

    Pur senza opportune verifiche e ulteriori analisi che comunque altrove andrebbero condotte, accettiamo per buona la cifra riportata. Il motivo per cui si spende denaro per ciascun migrante è intrinsecamente legata a come è gestito il fenomeno dell’immigrazione: i centri di identificazione ed espulsione, gli apparati repressivi, lo smistamento e il trasporto coatto di migranti da un centro all’altro, la gestione militare dei fenomeni migratori, il sistema carcerario e l’amministrazione di una giustizia discriminatoria costano. Se queste cose non esistessero, non esisterebbero i costi aggiuntivi di cui la collettività si sobbarca per l’accoglienza di ciascun migrante (aggiuntivi rispetto a quelli che sono naturalmente dovuti, per costituzione e per banale applicazione delle convenzioni internazionali sui diritti umani, nei confronti di qualunque persona). Ma il “non so” non spiega che se l’immigrazione costa è proprio perché è gestita di proposito come un affare da cui trarre il massimo del profitto economico (che non si ferma a questi meccanismi, ma continua nelle condizioni di sfruttamento estremo in cui i migranti, essendo ricattabili, sono costretti a lavorare una volta arrivati). Invece, il “non so” prende per buono il fatto che l’immigrazione sia un costo, e parla, non a torto, delle responsabilità coloniali che “noi” (vedi qui sull’uso del noi in questi casi) abbiamo nei confronti dei popoli depredati. Questo discorso è sviluppato in una catena di frasi fatte (“non si possono mischiare diritti umani e denaro”; “a chi ti chiede aiuto devi tendere la mano”) che si risolve in un ingenuo richiamarsi a principi di carità cristiana (quella carità cristiana in nome dei quali quegli stessi popoli sono stati soggiogati, ma lasciamo perdere: dopo tutto lui è un “non so”, non ci si devono certo aspettare analisi acute e puntuali).

    Razzista: L’Africa ha 1,1 miliardi di persone, in Italia non ci starebbero neppure se messe in piedi una contro l’altra. L’Italia è già oggi una delle Nazioni con la più alta densità di popolazione del mondo. Chi dovrebbe decidere chi può rimanere visto che non possiamo accogliere tutti?

    L’Africa (ma perché proprio l’Africa?) ha 1,1 miliardi di persone. Ovviamente non potrebbero mai stare tutte in Italia. Ma chi ha mai detto che 1,1 miliardi di persone dovrebbero stare tutte in Italia? Quest’affermazione, neanche pienamente sottintesa: 1) agita lo spauracchio di un’invasione che non c’è (qui qualche dato), uno spauracchio che può far paura solo ad un elettorato xenofobo, consapevolmente o meno; 2) ingigantisce le proporzioni dei flussi migratori, che interessano esigue percentuali delle popolazioni di origine dei migranti: immaginare che tutti gli africani si stiano attualmente muovendo verso l’Italia o che siano intenzionati a farlo è pura falsità; 3) insinua che essere a favore dell’accoglienza significhi essere a favore dello spostamento di 1,1 miliardi di africani in Italia, cioè di una cosa che non succederà mai, a prescindere dalle scelte politiche nella gestione dei flussi migratori, per il semplice motivo che non è così che funzionano i flussi migratori.

    Non so: Basta identificare i profughi che hanno diritto di asilo dai clandestini che sono molti di più.

    Questa frase del “non so” è un capolavoro, sia per la natura del personaggio che la pronuncia sia per i contenuti. Infatti, non soltanto il “non so”, cioè colui che dovrebbe almeno provare a opporsi razionalmente e lucidamente alle argomentazioni dell’altro, accetta senza battere ciglio l’improbabile teoria dell’interlocutore secondo cui in assenza di controllo dei flussi 1,1 miliardi di africani si riverserebbero in Italia (non in Europa, proprio in Italia), ma anche spiega che c’è un modo per evitare questo: identificare i profughi, consentendo loro l’ingresso in Italia in virtù del rispetto del diritto d’asilo, distinguendoli dai clandestini, che resterebbero fuori. Poco importa il fatto che, per definizione, profugo è «colui che è costretto ad abbandonare la sua terra, il suo paese, la sua patria in seguito a eventi bellici, a persecuzioni politiche o razziali, oppure a cataclismi» (cito il dizionario) e clandestino è chi, «straniero, per varie ragioni non sono in regola, in tutto o in parte, con le norme nazionali sui permessi di soggiorno» e che dunque una netta distinzione tra le due condizioni può non essere possibile, perché niente esclude che le due figure si sovrappongano nella stessa persona.

    Razzista: In Italia per il riconoscimento ci vuole più di un anno contro il limite di un mese posto come regola a livello internazionale, nel frattempo il clandestino rimane in assoluta libertà senza identità. Si preoccupano dell’Isis quando potremmo avere decine di affiliati all’Isis al giorno in più dovuti agli sbarchi di cui nessuno sa nulla. Nessuno controlla.

    Ammiccamenti continui alla retorica e ai contenuti razzisti qui sono evidenti. Secondo il razzista, “il clandestino rimane in assoluta libertà senza identità”, ma davvero si può parlare di libertà, per di più assoluta, in una condizione di estrema ricattabilità, visto che mancano i documenti e dunque si rischia in ogni momento l’espulsione? Il razzista poi passa alle insinuazioni, formulate su basi nulle ma anche qui avallando teorie del tutto campate per aria, che tra i migranti che sbarcano disperati dopo una traversata in cui rischiano la vita si annidino pericolosi membri del terrorismo internazionale targato ISIS. Perché si sa, i terroristi sono degli sprovveduti che per arrivare in Europa son costretti a salire clandestinamente sui barconi. Poco importa il fatto che gli attentati terroristici verificatisi in Europa sono sempre (non saprei trovare neanche un’eccezione) stati organizzati e messi in atto non da stranieri, ma da persone di nazionalità europee. Agitare ancora questo spauracchio significa associare arbitrariamente l’immagine del migrante a quella del terrorista. Il passaggio tra questa frase e la precedente indica una cosa: che per il razzista è del tutto inutile la distinzione tra profugo e clandestino, perché anche volendo accogliere solo i profughi, ci saranno sempre clandestini tra i piedi, visto che l’identificazione richiede più di un anno.

    Non so: E allora cosa dovremmo fare? Lasciarli morire in mare? Sei disumano.
    Razzista: Bisogna avere una vera organizzazione di accoglienza, non lasciarli prostituire, in particolare i minorenni come succede alla stazione Termini, o consegnarli alle mafie che li usano come schiavi o lasciarli senza strutture igieniche a bivaccare nei parchi e nelle stazioni. O appollaiati sugli scogli come quelli davanti a noi?

    Degno di nota è qui il fatto che il razzista non risponde alla domanda del “non so”: dovremmo lasciarli morire in mare? Ma poi chi, tutti i migranti o solo i clandestini? Non è chiaro. In ogni caso, il razzista che intende identificare ed espellere i clandestini accettando, forse, i profughi, parla della necessità di costruire una vera organizzazione di accoglienza (non si capisce bene a chi dovrebbe essere destinata) per evitare che questi stranieri fastidiosi bivacchino nei parchi, giacché arrecano danno al decoro urbano e a volte si spingono a livelli di disturbo tali da permettersi (addirittura!) di appollaiarsi sugli scogli perché schiacciati da forze dell’ordine italiane da un lato e francesi dall’altra, dal momento che ogni Stato li respinge.

    Non so: Per accogliere in modo degno queste persone dobbiamo avere strutture che funzionano e dare loro la possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro. E’ elementare.
    Razzista: Le strutture sono nelle mani delle mafie e dei partiti come è avvenuto a Roma con Mafia Capitale e per inserirli nel mondo del lavoro ci vogliono due requisiti: una professionalità e la conoscenza della lingua italiane. A me sembra che di solito chi entra in Italia non possieda nessuno di questi due requisiti. E soprattutto in Italia il lavoro non c’è, le giovani generazioni di italiani dopo il diploma o la laurea emigrano all’estero.

    Finalmente il razzista si è accorto, cosa che invece aveva mancato di fare all’inizio della conversazione, che se si pagano “1050 euro al mese” per ogni migrante la causa è da ricercarsi nelle strutture mafiose che gestiscono il fenomeno dell’immigrazione. Non contento di aver svelato l’origine dei costi dell’immigrazione, si lancia a capofitto in una serie di considerazioni sull’inserimento dei migranti nel mondo del lavoro, affermando che i migranti che entrano in Italia di solito non posseggono una professionalità. Ovvero? Ma poi, stiamo parlando dei migranti in generale, dei cosiddetti clandestini o dei profughi? Perché, per esempio, se stiamo parlando dei profughi, davvero si vuole subordinare l’accoglienza ad una non meglio precisata “professionalità”? O, ancora più insensatamente, alla conoscenza della lingua italiana? “Mi dispiace, lei è un profugo siriano, ha rischiato la vita per venire fin qui, sta scappando da una guerra civile con centinaia di migliaia di vittime e che ha smembrato città e famiglie, ma non parla l’italiano e quindi prego da questa parte, la riaccompagno alla frontiera e non faccia troppe storie”. Per non parlare dell’ormai ridicola idea che la presenza dei migranti diminuisca le opportunità di lavoro per gli italiani (perché sì, in un mondo razzista esistono lavori “per gli italiani”).

    Non so: Oltre a razzista sei anche nazionalista. Perché uno dovrebbe essere costretto a parlare la nostra lingua? Forse tu parli lo swahili?
    Razzista: E’ un discorso di integrazione. Se non comunicano non possono relazionarsi. Si creano delle isole sociali, dei ghetti. Per chi entra in Italia senza conoscere l’italiano e vuole ottenere la residenza deve essere obbligatorio l’insegnamento della nostra lingua con un esame finale.

    Le isole sociali, i ghetti e l’emarginazione non hanno nulla a che vedere con la padronanza della lingua italiana, ma a questo punto spiegare questo sarebbe un buco nell’acqua. Il razzista invoca la necessità di un esame di lingua italiana per chi vuole ottenere la residenza. Ma cosa c’entra la residenza non è dato sapere, dato che una minuscola parte dei migranti che giungono in Italia sono intenzionati a restarci.

    Razzista: Vorrei aggiungere che prima di entrare in Italia, e non dopo, per ognuna di queste persone dovrebbe essere prevista una visita medica accurata per verificare se sono portatori di malattie e, in questo caso, curarli, sia per loro che per evitare che malattie scomparse da decenni ricompaiano, come la scabbia, la malaria o la tbc.

    Ormai il razzista ci ha preso gusto e non gli basta più lo spauracchio del terrorismo internazionale e dell’invasione di africani: soffiando sul fuoco della propaganda razzista, comincia con la paranoia delle malattie che verrebbero portate nella civile e cristiana Europa da rozzi barbari infetti. I cui rispettivi paesi d’origine, magari, non sono ancora riusciti a debellare certe malattie perché le case farmaceutiche dei “paesi civilizzati” in questo non trovano sufficiente interesse economico o possibilità di profitto, ma ciò non riguarda i migranti che riescono ad arrivare vivi in Italia, dal momento che le malattie veramente gravi uccidono chi è ammalato ben prima che questi metta piede sul suolo italiano e che tutti i casi di allarmismo sono stati poi sistematicamente smentiti dai fatti (dalla fantomatica emergenza tubercolosi al caso di vaiolo e all’ebola): come spiegato brevemente qui, «che gli immigrati portino malattie a rischio per l’Italia è una realtà infondata. In realtà molte malattie riemergono dal passato e sono globali». E, soprattutto, «viaggiano in aereo» e non sui barconi. E c’è anche da aggiungere che questa paranoia sarebbe molto più sensata rispetto alla circolazione delle merci, che possono veicolare topi, insetti o altri animali portatori di malattie esotiche, ma è risaputo che la circolazione delle merci non si tocca, in nome delle intoccabili sacre leggi di mercato.

    Non so: – allontanandosi gesticolando – Razzista. fascista, nazista, negriero, egoista, bastardo, figlio di puttana, pezzo di m…a
    Razzista: Ma cosa ho detto di così irragionevole?

    E così, con le imprecazioni a casaccio del “non so” sotto lo sguardo divertito del razzista, si conclude la conversazione. Il razzista, con sorriso beffardo, sa di aver vinto la partita e si chiede cosa possa mai aver detto di tanto irragionevole da suscitare una tale reazione da parte dell’interlocutore che fino a quel momento si era mostrato tranquillo (ma anche un po’ scemo, detto tra noi). I ruoli dunque si riconfermano: la reazione finale del “non so” lo contraddistingue come irrazionale, mentre il razzista è dotato di capacità argomentative che lo fanno campione di razionalità.

    A dire la verità, Grillo parla non di razionalità o irrazionalità, ma di ragionevolezza e irragionevolezza: il primo binomio pertiene alla logica, il secondo al buon senso (o al senso comune, che spesso razionale non è affatto). Razionale è chi, conforme alla ragione, conduce un discorso o attua un comportamento secondo un rigore logico; ragionevole è che si lascia guidare dalla ragione ed è pertanto equilibrato, coscienzioso, discreto, equo. Il razzista della conversazione si chiede, perplesso, cosa abbia detto di tanto irragionevole. Dunque ha la pretesa che le sue argomentazioni siano considerate non tanto razionali, quanto ragionevoli. Ovvero equilibrate, discrete, giudiziose ed equidistanti. A Ventimiglia equidistante dalle forze di polizia che schiacciano i profughi in una morsa di disperazione e chi vuole semplicemente attraversare il confine tra un paese e l’altro; nei centri di detenzione equidistante dai carcerieri e i carcerati; nel dibattito pubblico equidistante tra chi dice che i migranti sono da annegare tutti e chi dice che sono persone da salvare. Insomma, di fronte a maltrattamenti, violazioni, sfruttamento e discriminazione, il ragionevole razzista della conversazione ci dice che si deve essere equilibrati e discreti, non alzare la voce, non indignarsi, non odiare con tutto il cuore istituzioni, persone e atti che seminano odio, segregano e discriminano, si ergono a difesa dei confini lasciando morire migliaia di persone. Se qualcuno pensa di poter argomentare in buona fede che Grillo non è un cazzo di razzista di merda dopo questa volta è veramente solo un coglione.

  • Il “nuovo patriottismo” dell’UKIP in due esempi

    Il partito euroscettico UKIP, il più votato in UK alle ultime elezioni europee, è noto per la capacità che ha avuto, al pari di simili rigurgiti destrorsi continentali, di mascherare le proprie posizioni di estrema destra imponendo nel dibattito pubblico varie proposte radicali senza ricorrere ad argomenti apertamente razzisti o nostalgici del passato. Molto è stato scritto in proposito, tra cui un’interessante recensione sul fenomeno generale della “nuova internazionale nera” e, soprattutto dopo il trionfo elettorale dell’UKIP, altrettanti fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla natura di quest’ultimo. Resoconti di fuoriusciti, articoli d’inchiesta ed eventi giudiziari hanno rivelato inquietanti aspetti sulle tecniche di costruzione del consenso utilizzate dai partiti cosiddetti “populisti” che sarebbe più opportuno definire di “destra radicale”. Il successo di tali tecniche risiederebbe nel non dichiararsi apertamente razzisti o nostalgici del passato, evitando argomentazioni riconducibili a retoriche chia ramente identificabili.

    Come discusso altrove, il problema del razzismo è ridotto a una questione, puramente formale, di etica e di decoro borghese: è sufficiente dichiararsi contro e deprecare queste entità astratte che sono i razzisti, basta che nessuno si definisca razzista apertamente (pur continuando ad agire secondo le proprie posizioni) ed ecco eliminato il problema.

    Tuttavia, ogni tanto qualcosa traspare molto più di quanto si intenda lasciar trasparire. A titolo di esempio, sono significativi due casi, l’uno sul dichiararsi “apertamente razzisti”, l’altro sull’evitare di esternare sentimenti “nostalgici del passato”.

    Il primo esempio è il manifesto lanciato dall’UKIP per presentare i punti salienti del programma della forza politica. Nella seconda pagina del manifesto, che tratta di immigrazione, compare la frase seguente (traduzione mia, ndr): «Gli altri partiti si sono impegnati a favore dell’allargamento dell’UE a Turchia, Albania, Moldavia e molti altri paesi. Secondo le regole europee, tutti i loro cittadini saranno autorizzati a vivere e lavorare in UK». Agitare lo spauracchio di un’invasione di turchi, albanesi e moldavi, che sono nazionalità spesso oggetto di pregiudizi razzisti, non significa forse ammettere che francesi e tedeschi, ai quali è già concessa la regolare permanenza in UK, sono accettati molto più di buon grado? Non è questo dichiararsi apertamente razzisti? (Tralasciando il fatto che lo stesso utilizzo del concetto di “invasione” è fuorviante, una stortura utile esclusivamente a disinformare a fini razzisti.)

    Il secondo esempio è una dichiarazione rilasciata di recente da Peter Whittle, “Culture Spokesman” del partito, secondo il racconto di un giornalista. Whittle espone una «teoria emergente del patriottismo», un nuovo modo di intendere l’appartenenza nazionale. «Che c’è di male ad essere britannici?» si chiede il portavoce del partito prima di scagliarsi contro chi è «schiavo del senso di colpa per il passato coloniale britannico». Si tratta non solo di un’esternazione nostalgica, ma anche di un’accusa morale per coloro che, a detta di Whittle, non onorano né ricordano con i dovuti sentimenti di rispetto l’imperialismo e il colonialismo. Ovvero. Non si capisce poi come si possa accusare di essere schiave del senso di colpa per il passato coloniale quelle stesse istituzioni e autorità che cercano da sempre di insabbiare, censurare e rimuovere le tracce di tale passato. Il colonialismo britannico fu questo. L’imperialismo britannico fu questo. Le parole sono pietre.

  • I CIE e la sagra del legalitarismo violento

    Il 17 febbraio il consiglio comunale di Torino ha approvato a maggioranza (vedi) una mozione con cui, per la prima volta, il comune di una grande città italiana si impegna a chiedere alle istituzioni nazionali la chiusura di un Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE) nel più breve tempo possibile. La mozione riguarda un impegno relativo in particolar modo al CIE di Corso Brunelleschi, ma invita ad una riflessione più generale sui sistemi di gestione dell’immigrazione nell’intero paese: contiene riferimenti alla «inqualificabile violazione dei diritti umani» e alla «restrizione delle libertà fondamentali» e chiede che sia messa in discussione la legislazione in materia di immigrazione e abrogata quella attuale, comunemente nota come Bossi-Fini.

    I voti contrari alla mozione sono venuti da Forza Italia, Nuovo Centro Destra, Lega Nord, Movimento Cinque Stelle.

    Sia chiaro che non c’è nulla di cui stupirsi per la presenza dell’ultimo, specie se l’argomento in questione è costituito dalle politiche migratorie. È nota a tutti la controversia nata in seno al M5S quando due deputati in Parlamento si schierarono per la depenalizzazione del reato di clandestinità, così come è noto il successivo sviluppo della vicenda, che portò ad un referendum tra una porzione degli iscritti per decidere che posizione prendere riguardo alla votazione in Senato. Come tutti i giornali non mancarono di far sapere, in quell’occasione il M5S adottò la posizione contraria a quella “caldamente suggerita” dal bivertice, votando a favore della depenalizzazione. Tuttavia, in pochi notarono che gli elementi a disposizione non lasciavano presagire nulla di buono: lo spirito generale di quella votazione, che traspariva dal comunicato ufficiale, vedeva la depenalizzazione del reato di clandestinità come non intesa ad intaccare l’impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni e inoltre non in un’ottica di rispetto dei diritti, ma di convenienza economica e logistica (qui l’analisi). A dimostrazione di ciò, al momento della discussione in Senato i deputati del M5S applaudirono in blocco il discorso del collega Enrico Cappelletti secondo cui il reato di clandestinità è un fallimento perché «dalla sua introduzione i flussi migratori sono aumentati costantemente» e perché «non dà la certezza di un allontanamento effettivo» (leggi).

    Meno nota al pubblico nazionale è la lunga serie di dichiarazioni dell’esponente più in vista del M5S torinese, Vittorio Bertola, che in passato gli hanno procurato più volte accuse di essere razzista, come quando diffondeva bufale propagandate in rete sui “privilegi” dei Rom e degli immigrati o quando sosteneva, nei giorni successivi al pogrom contro il campo nomadi di Torino, che la violenza è certo sbagliata ma c’è da dire che se la sono cercata (riassumendo all’osso).

    Insomma, che sul tema degli immigrati il M5S sia controverso e che lo sia a Torino non è cosa nuova.

    Ora, per quale motivo il Movimento Cinque Stelle si trova a votare insieme a nazionalisti, razzisti e fascisti contro la chiusura dei CIE? Per rispondere a questa domanda, ci viene incontro lo stesso movimento, che in una pagina (questa) scritta da Bertola spiega dettagliatamente cosa non condivide della mozione approvata dal consiglio comunale di Torino.

    Bertola è d’accordo con la chiusura del CIE di corso Brunelleschi, a cui fa riferimento la mozione. In un’ottica di rispetto dei diritti basilari e di costruzione di una società fondata sui valori dell’antirazzismo e della solidarietà, i motivi da lui addotti sono discutibili, anche se il risultato, cioè la contrarietà al CIE, è condivisibile (esattamente come per la depenalizzazione del reato di clandestinità). Bertola, in linea con il sopracitato senatore Cappelletti, sostiene che «i CIE sostanzialmente non funzionino rispetto allo scopo per cui sono stati istituiti»: erano ideati per l’espulsione, ma l’espulsione tarda ad arrivare e spesso non avviene, il tutto sulle spalle dei contribuenti. Tra l’altro, le persone rinchiuse «diventano per forza di cose più furiose e antisociali di prima». Questa affermazione implica un’intrinseco accostamento della figura dell’immigrato con la figura dell’antisociale e una sua conseguente stigmatizzazione. L’immigrato è ricondotto ad uno stereotipo veicolato da una propaganda neanche troppo velatamente razzista: l’immigrato furioso, l’immigrato animale, l’immigrato antisociale che mina le basi della sicurezza e della convivenza civile. Non è scritto esplicitamente ma è logica conseguenza di un tale accostamento, forse neanche fatto di proposito ma frutto del linguaggio tossico cui siamo tutti stati abituati da mezzi di informazione e altri strumenti dell’egemonia culturale. Inoltre, continua Bertola, il CIE di corso Brunelleschi e il meccanismo dei CIE in generale costituiscono un problema di decoro urbano: non solo sono inefficaci e costosi, ma anche provocano «disturbo anche a chi ci abita attorno».

    Ciò con cui Bertola non è d’accordo è invece la parte a suo dire ricca di contenuti ideologici (come se non fosse ideologica la convinzione razzista che l’immigrato sia intrinsecamente antisociale e furioso, o la concezione di decoro borghese che intende sottrarre alla vista le evidenze della violenza oppressiva di classe, di razza o di genere). Ovvero, la parte della mozione secondo cui:

    • «i CIE sono inoltre eticamente ingiusti perché comportano una restrizione della libertà personale senza reato sanzionando la mera irregolarità amministrativa, oltre ad essere degradanti della dignità umana»;
    • «sono urgenti una modifica del sistema degli ingressi, delle procedure di identificazione, della disciplina del soggiorno e delle espulsioni, una corretta applicazione della normativa europea sull’accoglienza che innalzi gli standard attualmente praticati, una riforma della legge sulla cittadinanza, una legge per l’introduzione del diritto di voto amministrativo, una legge organica sul diritto di asilo»;
    • «ogni competenza in materia deve spettare al solo giudice togato».

    Secondo Bertola, non si può definire «inqualificabile violazione dei diritti umani» un sistema che priva gli immigrati della libertà di movimento, perché «la detenzione degli immigrati clandestini fino a 18 mesi, su provvedimento anche amministrativo, è semplicemente quanto previsto dalla direttiva europea sui rimpatri». È evidente che una motivazione del genere sia nel classico stile giustizialista e legalitario del M5S, che vede la legalità come valore assoluto e non come prodotto sociale. Per mostrare come l’Italia non costituisca un’eccezione, Bertola riporta dunque una carta dei centri di detenzione per migranti, che a mia volta riporto di seguito.

    map_18-1_L_Europe_des_camps_2011_v11_EN[clicca per ingrandire]

    Continua così la spiegazione: «in un Paese serio, che fa leggi non per dar fiato alla bocca e fare un titolo sul giornale ma per regolare la convivenza di tutti, una persona che non è autorizzata a stare lì deve venire espulsa; e poiché per forza di cose chi tenta di entrare non ha intenzione di farsi espellere, è quasi sempre necessario farlo con la forza.

    Si può benissimo discutere su quali sono le condizioni per espellere qualcuno […]; si può, anzi si deve garantire un trattamento migliore e più umano per le persone soggette alla procedura di espulsione, che non può essere trascinata per mesi e mesi. Ma non si può prescindere da un sistema di trattenimento e accompagnamento forzato alla frontiera di chi va espulso, e dunque non si può fare a meno di qualcosa che funzioni come un CIE».

    “Non si può fare a meno” è un’affermazione che ricorda il motto di Margaret Thatcher in nome del quale vennero imposte le misure di ristrutturazione economica più violente dal secondo dopoguerra, furono poste le basi per la globalizzazione neoliberista e la restaurazione del dominio di classe. Se non si può fare a meno delle espulsioni, perché si può fare a meno dell’austerità, delle privatizzazioni, dei tagli allo stato sociale? Perché, almeno a parole, è questo che dicono molti esponenti del M5S. Evidentemente nel discorso politico del M5S i diritti dei migranti non sono degni della stessa attenzione che si riserva ai diritti di tutti gli altri (e questo è esemplificato limpidamente dall’apertura del comunicato di Bertola: «Bene, direte voi, allora di cosa si parla? Lavoro? Casa? Inquinamento? Traffico? Beh, non proprio: questa settimana l’urgenza individuata da PD e SEL è la chiusura dei CIE»).

    Non mancano, ovviamente, accuse alla “sinistra” (che Bertola identifica con PD e SEL): esattamente come quando si rivendica l’antifascismo contestando il fascismo si ricevono accuse di essere fascisti (il classico “fascismo degli antifascisti”), in questo caso la rivendicazione di pari diritti fondamentali a dispetto di nazionalità e provenienza, ovvero una rivendicazione antirazzista, viene tacciata di razzismo. Bertola spiega così il perché: «Se non si vogliono i CIE di fatto si sta dicendo che non si vuole espellere mai nessuno, e che si vuole una immigrazione incontrollata e senza limiti. Ma una immigrazione di questo tipo serve solo a qualcuno: a chi detiene il potere economico, a cui fanno comodo grandi masse di immigrati tenuti ai margini della società e disposti a lavorare a condizioni inaccettabili per gli italiani, creando una guerra tra poveri che permette di distruggere tutti i diritti sociali conquistati in cent’anni di lotte, e che offre facili capri espiatori della crisi economica alla gente comune, evitando che essa se la prenda con chi veramente la sfrutta».

    Per quanto Bertola non lo ammetterebbe mai, tale visione è ideologica. Innanzitutto considera l’immigrazione il frutto di una sorta di complotto internazionale ordito dai poteri forti, e non un fenomeno naturale parte da sempre della storia umana. Inoltre risponde ad una logica razzista, simile a quella che, forse inconsapevolmente, diffuse Il Fatto Quotidiano parlando dello sfruttamento dei migranti in agricoltura quasi come fosse un fenomeno naturale (vedi): se gli immigrati sono disposti a lavorare in condizioni di sfruttamento inaccettabili ciò non è certo dovuto ad una qualche caratteristica intrinseca del lavoratore straniero ma proprio alla loro ricattabilità e questa è dovuta al rischio di espulsione. Sostenere la necessità delle espulsioni dicendo che queste proteggerebbero i diritti degli immigrati è un controsenso. La guerra tra poveri la alimenta chi favorisce la marginalizzazione, specie lungo la linea del colore (vedi).

    Infine, la chiusa è interessante: «Spiace che a portare avanti questa trappola siano i partiti cosiddetti di sinistra, ma delle due l’una: o non hanno capito niente del mondo globalizzato, o sono venduti al potere».

    A quest’ultima frase forse è meglio non aggiungere ulteriori commenti. Ai posteri l’ardua sentenza su chi abbia capito di più del mondo globalizzato tra chi intende chiudere le frontiere e chi invece vuole garantire il rispetto dei diritti a prescindere da sesso, religione, razza, provenienza.

     

    «Come mostra questa mappa, tutti i Paesi europei hanno centri di detenzione per gli immigrati clandestini, sia nella fase di prima accoglienza e identificazione che nella fase di partenza per il rimpatrio; Germania, Danimarca, Svizzera e Irlanda li tengono direttamente in carcere. A questo punto, o il Parlamento Europeo e tutti gli altri Paesi europei sono degli inqualificabili violatori dei diritti umani, o c’è qualcosa che non va nel ragionamento della mozione».

    Caro Bertola, la prima che hai detto. Anche io ho una mappa da farti vedere.

    map_europe[clicca per ingrandire]

  • Espulsioni a 5 stelle

    Il 13 gennaio, 24.932 iscritti al M5S (ovvero un terzo del totale) si sono espressi sul reato di clandestinità, la cui abrogazione sarà votata domani in Senato dagli eletti. In 15.839 hanno votato per la sua abrogazione, 9.093 per il mantenimento. Ovvero, il 63,53% contro il 36,47%. In realtà, contata l’astensione, il 19,71% contro l’11,31%.

    Auspicabilmente, i parlamentari del M5S voteranno secondo l’esito di questa votazione, e se quelli del Partito Democratico voteranno davvero, nonostante ci sia poco da fidarsi visti i loro trascorsi, come dicono di votare, il reato di clandestinità in Italia sarà abolito. Niente salti di gioia da parte del mondo antirazzista, ovviamente giacché molta è la strada ancora da percorrere per il pieno rispetto dei diritti, per una società integrata multiculturale e solidale, per l’abbattimento dei pregiudizi e delle discriminazioni. Niente salti di gioia, ma molta soddisfazione nell’area dei movimenti sociali. Attenzione però a non lasciarsi prendere dall’entusiasmo, dimenticando di cosa, di chi e con chi stiamo parlando.

    A quelli che dicono «dopo questo voto le cose finalmente cambiano», «la base è migliore di Beppe Grillo» e dopo lo scetticismo degli ultimi mesi o anni cominciano a pensare al M5S come un possibile strumento parlamentare nella lotta contro la xenofobia o vedono possibili aperture da parte del M5S perché questo si affianchi al movimento contro il razzismo e per i diritti dei migranti, andrebbero tuttavia ricordate un paio di cose.

    La votazione telematica è stata introdotta da una presentazione, scritta dai due senatori Andrea Cioffi e Maurizio Buccarella, che indirettamente ripercorre la vicenda verificatasi a ottobre quando i due furono rimproverati da Grillo e Casaleggio per aver proposto su iniziativa personale un emendamento che avrebbe depenalizzato il reato di clandestinità introdotto con l’entrata in vigore del regime Bossi-Fini. La votazione è stata anche preceduta da un messaggio inviato privatamente a tutti gli iscritti al M5S aventi diritto, poi reso pubblico e diffuso. Questi due documenti espongono il punto di vista dei senatori incriminati e ora democraticamente impegnati a far valere la propria posizione in materia di immigrazione. In particolare, ecco cosa dicono:

    «I promotori di quell’emendamento lo proposero […] al fine di sgravare da procedimenti penali inutili un sistema ingolfato e nell’ottica di una riduzione dei costi (efficienza, efficacia, economicità). Nessuna visione ideologica, ma un approccio pragmatico e di buon senso. L’eventuale abrogazione del reato, infatti, non intacca l‘impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni, richieste di asilo, flussi di entrata».

    «Con l’approvazione si avrebbero soltanto risultati positivi in termini di risparmio di denaro pubblico e snellimento dei tempi della giustizia rimanendo intatte tulle le altre disposizioni e norme relative alla procedura d’espulsione. Depenalizzare significa quindi mantenere il procedimento amministrativo di espulsione per sanzionare coloro che violano le norme sull’ingresso e il soggiorno nello Stato».

    Da questi due testi, si evince che:
    -la depenalizzazione del reato di clandestinità non è proposta in un’ottica di rispetto dei diritti, ma secondo criteri di convenienza economica e logistica;
    -il mantenimento dell’impianto generale della Bossi-Fini è non ideologico e di buon senso;
    -la depenalizzazione del reato di clandestinità non è finalizzata ad intaccare l’impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni.

    Dovrebbe essere chiaro dunque che, se lo spirito manifestato da questi due membri è condiviso dal resto degli eletti (ma il dibattito nato in seno al gruppo parlamentare a ottobre farebbe pensare addirittura che la linea proposta sia troppo progressista rispetto alle attuali norme sull’immigrazione), almeno a livello parlamentare, gli orizzonti entro cui si muove il M5S restano le espulsioni.

    Questo mostra come si possa coerentemente essere a favore dell’abrogazione del reato di clandestinità e allo spirito repressivo e disumano dell’attuale legislazione in materia. Mostra anche come, parlando il burocratese, si sia riusciti a far passare come grande prova di democrazia il fatto che domani in Senato non verrà votato ciò che piace a Grillo e Casaleggio, ma ciò che ha deciso la base, mentre la realtà dei fatti è che il bivertice del M5S ha trovato il modo di prendere due piccioni con una fava: non intaccare lo spirito attuale della Bossi-Fini potendo allo stesso tempo dire «dimostriamo finalmente che non siamo io e Grillo a comandare», scavalcando apparentemente a sinistra il PD per riprendere terreno elettorale perso in quell’area. Infine, mostra per l’ennesima volta cosa sia il “buon senso non ideologico” a cui la retorica pentastellata fa continuamente riferimento.

    «L’eventuale abrogazione del reato, infatti, non intacca l‘impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni» è stato sapientemente rassicurato a chi stava per votare, quasi a tranquillizzarlo sullo stato di salute della Bossi-Fini. Ovviamente, nessuno può sapere con che spirito quel 19,71% ha votato a favore dell’abrogazione del reato di clandestinità, se l’abbia fatto in un’ottica antirazzista, di integrazione, di rispetto dei diritti o piuttosto in una prospettiva che in generale mantiene lo stato di cose presente e tratta le persone come merci, parlando di efficienza e costi invece che di diritti. Certo è che almeno qualcuno avrà votato a favore dell’abrogazione proprio perché prontamente rassicurato.

    Ah, un ultima cosa: il M5S non permette agli immigrati ancora privi di cittadinanza di iscriversi (quindi neanche di candidarsi).

  • Il razzismo è strutturale

    Il razzismo non è figlio dell’ignoranza. Finalmente qualcuno lo fa presente (qui), interrompendo il flusso di frasi fatte, condanne unanimi e luoghi comuni che ha invaso il dibattito pubblico in seguito all’uscita razzista di Calderoli sul ministro Kyenge, paragonandola ad un orango.

    Come ben dice Iside Gjergji, il razzismo non è figlio dell’ignoranza, perché altrimenti sarebbe un problema risolvibile con la scolarizzazione; non è causato dalla scarsa informazione su tradizioni, culture e religioni delle popolazioni immigrate, perché altrimenti basterebbe seguire un corso di formazione, guardare un documentario, leggere una rivista sull’argomento; non è un prodotto della paura xenofoba, che piuttosto ne è una conseguenza. Aggiungo che non è neanche un problema intimamente legato all’esistenza di confini che «esisterà finché questi esisteranno», come mi è capitato di sentire affermare, perché molti gruppi etnici soggetti a discriminazione i confini non li hanno mai attraversati.

    «Il razzismo nasce dall’ignoranza» è il commento più quotato, e non è che una versione modificata di «il fascismo nasce dall’ignoranza», con cui in passato mi sono imbattuto (per esempio qui nei commenti): a entrambe queste affermazioni è sottesa la convinzione che la conoscenza sia di per sé capace di influire sul reale e di incidere sui rapporti di forza esistenti nella società, ma tale convinzione non considera la natura dei processi che producono i fenomeni sociali, riducendola ad una dimensione individuale per la quale il razzismo smetterebbe di esistere se tutti andassero in vacanza dall’altra parte del mondo. In altre parole, è completamente assente una visione organica del fenomeno, sostituita invece da presupposti individualistici e atomizzanti. Ciò si riflette sulla capacità di definire il concetto di razzismo in relazione al contesto storico, in quanto le due visioni sono dotate di differente “potenza di analisi”: evidentemente, per l’individualista la tratta atlantica degli schiavi e le leggi razziali sono esistite perché gli schiavisti e i nazifascisti erano «ignoranti».

    Veicolare l’idea che il razzismo sia fondamentalmente un problema di coscienza individuale contribuisce, direttamente o indirettamente, all’affermazione di una linea di pensiero ormai diffusa, che è stata normalizzata e naturalizzata (percepita come accettabile nel dibattito pubblico e naturale nell’immaginario collettivo), per cui il problema del razzismo è una questione, puramente formale, di etica e di decoro borghese: è sufficiente dichiararsi contro e deprecare queste entità astratte che sono i razzisti, basta che nessuno si definisca razzista apertamente (pur continuando ad agire secondo le proprie posizioni) ed ecco eliminato il problema. In questo modo, si legittima il classico incipit «non sono razzista, però» che non lascia presagire mai nulla di buono, ma anche si legittimano le contraddizioni, per esempio, di un Partito Democratico che si indigna per l’insulto di Calderoli ma promuove il razzismo in altre forme (vedi).

    Lo sdoganamento del razzismo ha permesso la normalizzazione di questo tipo di atteggiamenti e posizioni a tal punto che troppe persone non riescono più a distinguere le argomentazioni razziste all’interno di un discorso né addirittura si rendono conto di adottarle e farle proprie, offendendosi e indignandosi se ciò viene fatto notare. Tale sdoganamento ha una serie di responsabili, dalle testate giornalistiche e i mezzi d’informazione televisivi con il loro linguaggio sempre attento a sottolineare l’etnia di una persona anche quando del tutto irrilevante, alle pulsioni legalitarie per cui «le regole vanno rispettate», passando per la condanna degli antirazzisti bollati come “razzisti al contrario”: alle accuse di xenofobia si sono sostituite quelle di xenofilia, mostrando un cambiamento nella percezione di cosa sia socialmente accettabile e cosa non lo sia.

    Tutto questo mostra che nelle questioni dell’immigrazione e delle minoranze etniche si siano imposte, in una situazione di egemonia culturale, la retorica nazionalista e la narrazione identitaria care all’estrema destra, che ha puntualmente sfruttato politicamente il fenomeno, alimentandolo per costruire le basi della propria affermazione: come descritto da Guido Caldiron (intervistato qui), «una delle caratteristiche della “nuova estrema destra” è l’aver saputo imporre nel dibattito pubblico varie proposte radicali senza ricorrere ad argomenti apertamente razzisti o nostalgici del passato». Il risultato è che le destre populiste xenofobe stanno trovando margini di azione politica in tutta Europa.

    Torniamo ora alla questione iniziale. Se il razzismo non è più narrato ricorrendo apertamente al concetto di “razza”, ormai scientificamente smontato e politicamente obsoleto, occorre ridefinirlo per poterlo comprendere. Banalmente (ma forse no), è innanzitutto discriminazione: trattare le persone in maniera diversa in virtù della loro identità, classificare le persone in base al loro essere. Questa definizione permette di riconoscere il razzismo anche in affermazioni che non si richiamano al concetto di razza, come «lo stato italiano deve pensare prima agli italiani».
    L’obiettivo di questo articolo non è tracciare una genesi e risalire alle origini storiche del fenomeno: certamente l’odio per lo straniero, le proclamazioni di superiorità, la discriminzione basata sulla diversità razziale, etnica o culturale non sono recenti e nel corso della storia hanno assunto diversi significati e sono stati declinati in varia maniera, essendo di volta in volta espressioni del contesto storico funzionali ai sistemi sociali ed economici entro cui si sviluppavano.

    Qual è il significato del razzismo nel contesto attuale?
    Prima di tutto è parte di una tendenza più ampia, che consiste nella discriminazione su base identitaria. La discriminazione implica il riconoscimento di disuguaglianze che fungono da elementi intorno a cui si articola la sua legittimazione. Il razzismo dunque richiede, per poter esistere e diffondersi, che le persone siano educate alla disuguaglianza, considerandola naturale, e che siano disposte a discriminare, ovvero ad attribuire diritti diversi a persone diverse, a conferma della stessa disugualianza.
    A ben vedere, questo è esattamente una breve descrizione di ciò che accade nel sistema economico capitalistico, in cui esiste una disuguaglianza economica, ritenuta naturale, che si traduce in una disuguaglianza di diritti per cui chi produce è escluso dalle scelte connesse alla produzione, e tale esclusione è ritenuta anch’essa naturale.
    Allora non è una tendenza, ma una componente strutturale del sistema economico, che è intrinsecamente gerarchico, autoritario ed escludente. E in un sistema escludente l’esclusione appare normale, è un boccone facile da digerire: se il modo di produzione esclude quotidianamente e sistematicamente, ci si abitua all’idea, e allora perché non escludere su base razziale? Perché non su base di genere? Perché non su base religiosa?

    A questo “dispositivo psicologico” della discriminazione si aggiunga il vantaggio economico del razzismo: esso è funzionale al sistema di sfruttamento. Permette di formare e mantenere un sottoinsieme della classe lavoratrice in condizioni di ricattabilità e a bassissimo costo, con la comodità che tale suddivisione interna agli sfruttati può essere perpetuata senza l’uso di forza militare, ma semplicemente costruendo una narrazione razzista che assecondi una preesistente assuefazione alla marginalizzazione.
    «Le razze non esistono, ma l’organizzazione del lavoro finisce per riprodurle e per imporre gerarchie lungo la linea del colore» (da qui). In altre parole, la questione di razza facilmente si tramuta in questione di classe: le politiche italiane sull’immigrazione mostrano un chiaro esempio di questa possibilità, favorendo indirettamente lo sfruttamento dei migranti in agricoltura (qui il rapporto di Amnesty).

    Secondo questa stessa direzione, la discriminazione di razza spesso si rivela una forma di discriminazione di classe, che più che essere basata su caratteri etnici o razziali, trova in queste una legittimazione di facciata, mentre i criteri profondi di pregiudizio sono di carattere sociale (per esempio nel sempreverde «rubano»). In una società intrinsecamente gerarchica e discriminatoria, è prevedibile che chiunque discrimini chi nella gerarchia sta più in basso, e puntualmente ciò accade, ad esempio quando i poveri discriminano i poverissimi perché «loro sono sempre i primi della lista per l’assegnazione delle case popolari».

    In definitiva, il razzismo implica la discriminazione, che implica la disuguaglianza.
    Il razzismo e il capitalismo si rafforzano e si compenetrano, si nutrono l’uno dell’altro: il primo è funzionale al secondo, il secondo legittima il primo.
    Condannare il razzismo ma non il sistema di sfruttamento è un po’ come condannare le violenze poliziesche della Diaz ma non l’intero apparato militare che, dispiegato durante quel G8, le ha generate.

  • Contro l’Ancien Régime

    Alla fine ho dato forma al mio motto. Non so in verità se avrei preferito evitare di ingabbiarmi lasciandomi andare a presentazione di me e del blog che, si sa, spesso lasciano il tempo che trovano, perchè una persona, un carattere, una mente, una vita, un pensiero, non si possono giudicare in qualche riga e assolutamente non si possono riassumere.

    Comunque, Contro l’Ancien Régime è una pagina ancora incompleta. È stata scritta stanotte per effetto di un raptus espressivo che minava seriamente alla base la mia concentrazione per affrontare lo studio. Come molti noteranno, non è ancora una pagina di presentazione del blog né di me stesso. Ma datemi un po’ di tempo.


    I borghesi hanno fatto la Rivoluzione Francese ma sembrano avere dimenticato che ciò che ha fatto della Francia une Grande Nation è stato il trinomio «Liberté, Égalité, Fraternité». Appena ne hanno avuto la possibilità, hanno abbandonato il cappello frigio dei sanculotti giacobini per sostituirlo con un ben più sontuoso cilindro di feltro nero da abbinare al panciotto e a dorati gemelli da camicia. Hanno inventato il mito del realizzarsi, si sono industriati come mai prima nella storia moderna per il progresso e la crescita economica in nome di una storiella, molto in voga all’epoca, che parlava di una mano invisibile. Hanno armato migliaia di uomini per reprimere le azioni e soffocare le voci di chi alla storiella non credeva o non poteva crederci, di fronte all’evidenza lampante della sua fallacità; hanno mandato quegli uomini con fucili e manganelli contro le folle affamate esattamente come poco tempo prima i Re e i Principi ne avevano mandati contro di loro; poi li hanno mandati in terre lontane, a imporre con la forza la nuova religione del dio denaro a popoli increduli e indifesi; alla fine non era più rimasto niente e li hanno mandati ad ammazzarsi tra di loro, come carne da macello. Non contenti di questo, hanno cominciato a monetizzare oggetti e concetti di ogni tipo, anche i più impensabili: dall’aria all’acqua, dalle parole alla musica, dalla scienza alla conoscenza, dalla vita alla morte, dall’immaginazione alla coscienza; e una volta monetizzati, comprarli è stato per loro facile come rubare le caramelle a un bambino.

    Non è molto diverso dall’Ancien Régime. Quale Liberté, quale libertà di scelta consapevole posso vantare di avere se quando compro qualcosa non c’è alcuna trasparenza tra il marchio e il consumatore? Se quando voto democraticamente indicando qualcuno le decisioni le prende qualcun altro? Se non posso scegliere che lavoro fare per contribuire allo sviluppo civile e alla vita collettiva? Se non c’è reale partecipazione in scelte decisionali i cui effetti ricadono sulla testa di tutti? Che libertà ho, di fare cosa? Libertà di religione? È uno strumento di controllo sociale e limita la libertà nella misura in cui si basa su dogmi. Libertà di parola? Gli sgherri manzoniani sono pronti in ogni momento a manganellare o a censurarti se ti lasci sfuggire verità scomode. Libertà di scegliere che lavoro fare? Appartengo ad una generazione precaria sul piano lavorativo e sul piano esistenziale. Libertà di pensiero? «Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate», diceva una canzone, «e in cambio pretendete» la libertà di indossare vestiti firmati, di avere l’ultimo modello del cellulare, di aggiornare il vostro profilo di Facebook, di seguire i reality show, di accendere la televisione per contare, sorridendo beffardi dentro di voi, quante disgrazie sono capitate oggi ad altri.

    Dov’è l’Égalité quando l’economia è controllata da un’oligarchia dispotica e strutturata nel modo più vicino al totalitarismo che l’Occidente abbia saputo produrre dopo i Fascismi del Novecento? Quando la ricchezza è distribuita con un’asimmetria impressionante, per cui un decimo della popolazione sfrutta nove decimi delle risorse, mentre i restanti nove decimi della popolazione sono costretti a patire la fame, la sete, la miseria, le malattie nonostante che l’esistente sarebbe sufficiente per tutti? Dov’è la ragionevolezza dei padri illuministi della Rivoluzione, in tutto questo?

    Che Fraternité posso dire di vedere in un mondo in cui si riesce a giudicare una persona, pur fatta di una sua individualità, basandosi sul colore della sua pelle o sulla forma dei suoi occhi, annullando così completamente ogni possibile forma di comunicazione e comprensione? Dov’è la fratellanza tra i popoli quando si sganciano bombe su civili inermi, e tra le persone quando alcune vengono rinchiuse per anni in lager di detenzione per scontare la pena per il reato di essere clandestini? E dov’è ancora quando, una volta usciti dai lager, li si infila in un bastimento come capi di bestiame per riportarli nell’inferno da cui provenivano? E, nell’eventualità che riuscissero a evitare questa triste sorte, dov’è la fratellanza e l’umanità quando, restando, non trovano che insulti e discriminazioni?

    Non ci sono dubbi, questo è ancora l’Ancien Régime.