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  • Decostruire la “razionalità” del razzismo

    La Conversazione tra un razzista e un non so (qui) che Grillo ha pubblicato e diffuso il 19 giugno, è un concentrato di luoghi comuni e pregiudizi che intenderebbe mostrare la razionalità del discorso razzista e l’irrazionalità di chi, invece, al razzismo in tutte le sue forme si oppone (figura a cui Grillo attribuisce l’epiteto di “non so”, a riprova della sua convinzione che chi si oppone al razzismo non abbia le idee chiare, sia confuso e indeciso, addirittura ignavo e incapace di prendere posizione, nonché poco razionale). Tale conversazione fornisce una serie di argomentazioni tipicamente attribuite all’una o all’altra parte, con l’obiettivo di sostenere, con autoironia da parte di Grillo, la parte del razzista. Lo scopo dell’analisi di tali argomentazioni, condotta qui di seguito, è mostrare che non si tratta affatto di autoironia.

    Razzista: Io sono un razzista
    Non so: Io invece non so, anzi no.

    Come già accennato, è chiara la netta distinzione tra il primo personaggio, sicuro delle proprie posizioni (quelle che i “buonisti” certamente pagati dal PD, corrotti e collusi con il sistema, definirebbero “razziste”) e il secondo, che fin da subito appare come la parte debole della conversazione, incapace di addurre argomentazioni forti e convincenti, suggerendo di non essere lui stesso debole e poco convinto delle ragioni che fornisce.

    Razzista: Chi entra nel mio Paese deve essere identificato

    Perché? Il motivo non viene enunciato né suggerito. Anzi, né ora né nel seguito della conversazione verrà mai spiegato per quale motivo chiunque entri in un paese debba essere sottoposto a identificazione. Si sappia che la motivazione legalitaria autoassolutoria “perché così vuole la legge” non è sufficiente, perché dimentica che la legge è un prodotto sociale e non un principio assoluto, e si sappia che in certi paesi tali richieste sono considerate vessazioni se non violazioni dei diritti civili. In ogni caso, il motivo non è spiegato, perché il “non so”, invece di chiedere delucidazioni in merito, decide ingenuamente (perché così è appositamente costruito il personaggio) di cambiare discorso e di etichettare l’interlocutore subito come razzista.

    Non so: Perché sei un razzista. Io accoglierei tutti. Sono tutti esseri umani
    Razzista: E chi paga 1050 euro al mese cadauno? Mia madre prende la metà, la pensione minima, dopo aver lavorato e pagato tasse dirette e indirette per 30 anni.
    Non so: Ne fai una questione di soldi, ma quanto abbiamo rubato noi a questi popoli? Li abbiamo depredati delle loro risorse come potenze coloniali e ancora oggi. Non si possono mischiare diritti umani e denaro. A chi ti chiede aiuto devi tendere la mano.

    Pur senza opportune verifiche e ulteriori analisi che comunque altrove andrebbero condotte, accettiamo per buona la cifra riportata. Il motivo per cui si spende denaro per ciascun migrante è intrinsecamente legata a come è gestito il fenomeno dell’immigrazione: i centri di identificazione ed espulsione, gli apparati repressivi, lo smistamento e il trasporto coatto di migranti da un centro all’altro, la gestione militare dei fenomeni migratori, il sistema carcerario e l’amministrazione di una giustizia discriminatoria costano. Se queste cose non esistessero, non esisterebbero i costi aggiuntivi di cui la collettività si sobbarca per l’accoglienza di ciascun migrante (aggiuntivi rispetto a quelli che sono naturalmente dovuti, per costituzione e per banale applicazione delle convenzioni internazionali sui diritti umani, nei confronti di qualunque persona). Ma il “non so” non spiega che se l’immigrazione costa è proprio perché è gestita di proposito come un affare da cui trarre il massimo del profitto economico (che non si ferma a questi meccanismi, ma continua nelle condizioni di sfruttamento estremo in cui i migranti, essendo ricattabili, sono costretti a lavorare una volta arrivati). Invece, il “non so” prende per buono il fatto che l’immigrazione sia un costo, e parla, non a torto, delle responsabilità coloniali che “noi” (vedi qui sull’uso del noi in questi casi) abbiamo nei confronti dei popoli depredati. Questo discorso è sviluppato in una catena di frasi fatte (“non si possono mischiare diritti umani e denaro”; “a chi ti chiede aiuto devi tendere la mano”) che si risolve in un ingenuo richiamarsi a principi di carità cristiana (quella carità cristiana in nome dei quali quegli stessi popoli sono stati soggiogati, ma lasciamo perdere: dopo tutto lui è un “non so”, non ci si devono certo aspettare analisi acute e puntuali).

    Razzista: L’Africa ha 1,1 miliardi di persone, in Italia non ci starebbero neppure se messe in piedi una contro l’altra. L’Italia è già oggi una delle Nazioni con la più alta densità di popolazione del mondo. Chi dovrebbe decidere chi può rimanere visto che non possiamo accogliere tutti?

    L’Africa (ma perché proprio l’Africa?) ha 1,1 miliardi di persone. Ovviamente non potrebbero mai stare tutte in Italia. Ma chi ha mai detto che 1,1 miliardi di persone dovrebbero stare tutte in Italia? Quest’affermazione, neanche pienamente sottintesa: 1) agita lo spauracchio di un’invasione che non c’è (qui qualche dato), uno spauracchio che può far paura solo ad un elettorato xenofobo, consapevolmente o meno; 2) ingigantisce le proporzioni dei flussi migratori, che interessano esigue percentuali delle popolazioni di origine dei migranti: immaginare che tutti gli africani si stiano attualmente muovendo verso l’Italia o che siano intenzionati a farlo è pura falsità; 3) insinua che essere a favore dell’accoglienza significhi essere a favore dello spostamento di 1,1 miliardi di africani in Italia, cioè di una cosa che non succederà mai, a prescindere dalle scelte politiche nella gestione dei flussi migratori, per il semplice motivo che non è così che funzionano i flussi migratori.

    Non so: Basta identificare i profughi che hanno diritto di asilo dai clandestini che sono molti di più.

    Questa frase del “non so” è un capolavoro, sia per la natura del personaggio che la pronuncia sia per i contenuti. Infatti, non soltanto il “non so”, cioè colui che dovrebbe almeno provare a opporsi razionalmente e lucidamente alle argomentazioni dell’altro, accetta senza battere ciglio l’improbabile teoria dell’interlocutore secondo cui in assenza di controllo dei flussi 1,1 miliardi di africani si riverserebbero in Italia (non in Europa, proprio in Italia), ma anche spiega che c’è un modo per evitare questo: identificare i profughi, consentendo loro l’ingresso in Italia in virtù del rispetto del diritto d’asilo, distinguendoli dai clandestini, che resterebbero fuori. Poco importa il fatto che, per definizione, profugo è «colui che è costretto ad abbandonare la sua terra, il suo paese, la sua patria in seguito a eventi bellici, a persecuzioni politiche o razziali, oppure a cataclismi» (cito il dizionario) e clandestino è chi, «straniero, per varie ragioni non sono in regola, in tutto o in parte, con le norme nazionali sui permessi di soggiorno» e che dunque una netta distinzione tra le due condizioni può non essere possibile, perché niente esclude che le due figure si sovrappongano nella stessa persona.

    Razzista: In Italia per il riconoscimento ci vuole più di un anno contro il limite di un mese posto come regola a livello internazionale, nel frattempo il clandestino rimane in assoluta libertà senza identità. Si preoccupano dell’Isis quando potremmo avere decine di affiliati all’Isis al giorno in più dovuti agli sbarchi di cui nessuno sa nulla. Nessuno controlla.

    Ammiccamenti continui alla retorica e ai contenuti razzisti qui sono evidenti. Secondo il razzista, “il clandestino rimane in assoluta libertà senza identità”, ma davvero si può parlare di libertà, per di più assoluta, in una condizione di estrema ricattabilità, visto che mancano i documenti e dunque si rischia in ogni momento l’espulsione? Il razzista poi passa alle insinuazioni, formulate su basi nulle ma anche qui avallando teorie del tutto campate per aria, che tra i migranti che sbarcano disperati dopo una traversata in cui rischiano la vita si annidino pericolosi membri del terrorismo internazionale targato ISIS. Perché si sa, i terroristi sono degli sprovveduti che per arrivare in Europa son costretti a salire clandestinamente sui barconi. Poco importa il fatto che gli attentati terroristici verificatisi in Europa sono sempre (non saprei trovare neanche un’eccezione) stati organizzati e messi in atto non da stranieri, ma da persone di nazionalità europee. Agitare ancora questo spauracchio significa associare arbitrariamente l’immagine del migrante a quella del terrorista. Il passaggio tra questa frase e la precedente indica una cosa: che per il razzista è del tutto inutile la distinzione tra profugo e clandestino, perché anche volendo accogliere solo i profughi, ci saranno sempre clandestini tra i piedi, visto che l’identificazione richiede più di un anno.

    Non so: E allora cosa dovremmo fare? Lasciarli morire in mare? Sei disumano.
    Razzista: Bisogna avere una vera organizzazione di accoglienza, non lasciarli prostituire, in particolare i minorenni come succede alla stazione Termini, o consegnarli alle mafie che li usano come schiavi o lasciarli senza strutture igieniche a bivaccare nei parchi e nelle stazioni. O appollaiati sugli scogli come quelli davanti a noi?

    Degno di nota è qui il fatto che il razzista non risponde alla domanda del “non so”: dovremmo lasciarli morire in mare? Ma poi chi, tutti i migranti o solo i clandestini? Non è chiaro. In ogni caso, il razzista che intende identificare ed espellere i clandestini accettando, forse, i profughi, parla della necessità di costruire una vera organizzazione di accoglienza (non si capisce bene a chi dovrebbe essere destinata) per evitare che questi stranieri fastidiosi bivacchino nei parchi, giacché arrecano danno al decoro urbano e a volte si spingono a livelli di disturbo tali da permettersi (addirittura!) di appollaiarsi sugli scogli perché schiacciati da forze dell’ordine italiane da un lato e francesi dall’altra, dal momento che ogni Stato li respinge.

    Non so: Per accogliere in modo degno queste persone dobbiamo avere strutture che funzionano e dare loro la possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro. E’ elementare.
    Razzista: Le strutture sono nelle mani delle mafie e dei partiti come è avvenuto a Roma con Mafia Capitale e per inserirli nel mondo del lavoro ci vogliono due requisiti: una professionalità e la conoscenza della lingua italiane. A me sembra che di solito chi entra in Italia non possieda nessuno di questi due requisiti. E soprattutto in Italia il lavoro non c’è, le giovani generazioni di italiani dopo il diploma o la laurea emigrano all’estero.

    Finalmente il razzista si è accorto, cosa che invece aveva mancato di fare all’inizio della conversazione, che se si pagano “1050 euro al mese” per ogni migrante la causa è da ricercarsi nelle strutture mafiose che gestiscono il fenomeno dell’immigrazione. Non contento di aver svelato l’origine dei costi dell’immigrazione, si lancia a capofitto in una serie di considerazioni sull’inserimento dei migranti nel mondo del lavoro, affermando che i migranti che entrano in Italia di solito non posseggono una professionalità. Ovvero? Ma poi, stiamo parlando dei migranti in generale, dei cosiddetti clandestini o dei profughi? Perché, per esempio, se stiamo parlando dei profughi, davvero si vuole subordinare l’accoglienza ad una non meglio precisata “professionalità”? O, ancora più insensatamente, alla conoscenza della lingua italiana? “Mi dispiace, lei è un profugo siriano, ha rischiato la vita per venire fin qui, sta scappando da una guerra civile con centinaia di migliaia di vittime e che ha smembrato città e famiglie, ma non parla l’italiano e quindi prego da questa parte, la riaccompagno alla frontiera e non faccia troppe storie”. Per non parlare dell’ormai ridicola idea che la presenza dei migranti diminuisca le opportunità di lavoro per gli italiani (perché sì, in un mondo razzista esistono lavori “per gli italiani”).

    Non so: Oltre a razzista sei anche nazionalista. Perché uno dovrebbe essere costretto a parlare la nostra lingua? Forse tu parli lo swahili?
    Razzista: E’ un discorso di integrazione. Se non comunicano non possono relazionarsi. Si creano delle isole sociali, dei ghetti. Per chi entra in Italia senza conoscere l’italiano e vuole ottenere la residenza deve essere obbligatorio l’insegnamento della nostra lingua con un esame finale.

    Le isole sociali, i ghetti e l’emarginazione non hanno nulla a che vedere con la padronanza della lingua italiana, ma a questo punto spiegare questo sarebbe un buco nell’acqua. Il razzista invoca la necessità di un esame di lingua italiana per chi vuole ottenere la residenza. Ma cosa c’entra la residenza non è dato sapere, dato che una minuscola parte dei migranti che giungono in Italia sono intenzionati a restarci.

    Razzista: Vorrei aggiungere che prima di entrare in Italia, e non dopo, per ognuna di queste persone dovrebbe essere prevista una visita medica accurata per verificare se sono portatori di malattie e, in questo caso, curarli, sia per loro che per evitare che malattie scomparse da decenni ricompaiano, come la scabbia, la malaria o la tbc.

    Ormai il razzista ci ha preso gusto e non gli basta più lo spauracchio del terrorismo internazionale e dell’invasione di africani: soffiando sul fuoco della propaganda razzista, comincia con la paranoia delle malattie che verrebbero portate nella civile e cristiana Europa da rozzi barbari infetti. I cui rispettivi paesi d’origine, magari, non sono ancora riusciti a debellare certe malattie perché le case farmaceutiche dei “paesi civilizzati” in questo non trovano sufficiente interesse economico o possibilità di profitto, ma ciò non riguarda i migranti che riescono ad arrivare vivi in Italia, dal momento che le malattie veramente gravi uccidono chi è ammalato ben prima che questi metta piede sul suolo italiano e che tutti i casi di allarmismo sono stati poi sistematicamente smentiti dai fatti (dalla fantomatica emergenza tubercolosi al caso di vaiolo e all’ebola): come spiegato brevemente qui, «che gli immigrati portino malattie a rischio per l’Italia è una realtà infondata. In realtà molte malattie riemergono dal passato e sono globali». E, soprattutto, «viaggiano in aereo» e non sui barconi. E c’è anche da aggiungere che questa paranoia sarebbe molto più sensata rispetto alla circolazione delle merci, che possono veicolare topi, insetti o altri animali portatori di malattie esotiche, ma è risaputo che la circolazione delle merci non si tocca, in nome delle intoccabili sacre leggi di mercato.

    Non so: – allontanandosi gesticolando – Razzista. fascista, nazista, negriero, egoista, bastardo, figlio di puttana, pezzo di m…a
    Razzista: Ma cosa ho detto di così irragionevole?

    E così, con le imprecazioni a casaccio del “non so” sotto lo sguardo divertito del razzista, si conclude la conversazione. Il razzista, con sorriso beffardo, sa di aver vinto la partita e si chiede cosa possa mai aver detto di tanto irragionevole da suscitare una tale reazione da parte dell’interlocutore che fino a quel momento si era mostrato tranquillo (ma anche un po’ scemo, detto tra noi). I ruoli dunque si riconfermano: la reazione finale del “non so” lo contraddistingue come irrazionale, mentre il razzista è dotato di capacità argomentative che lo fanno campione di razionalità.

    A dire la verità, Grillo parla non di razionalità o irrazionalità, ma di ragionevolezza e irragionevolezza: il primo binomio pertiene alla logica, il secondo al buon senso (o al senso comune, che spesso razionale non è affatto). Razionale è chi, conforme alla ragione, conduce un discorso o attua un comportamento secondo un rigore logico; ragionevole è che si lascia guidare dalla ragione ed è pertanto equilibrato, coscienzioso, discreto, equo. Il razzista della conversazione si chiede, perplesso, cosa abbia detto di tanto irragionevole. Dunque ha la pretesa che le sue argomentazioni siano considerate non tanto razionali, quanto ragionevoli. Ovvero equilibrate, discrete, giudiziose ed equidistanti. A Ventimiglia equidistante dalle forze di polizia che schiacciano i profughi in una morsa di disperazione e chi vuole semplicemente attraversare il confine tra un paese e l’altro; nei centri di detenzione equidistante dai carcerieri e i carcerati; nel dibattito pubblico equidistante tra chi dice che i migranti sono da annegare tutti e chi dice che sono persone da salvare. Insomma, di fronte a maltrattamenti, violazioni, sfruttamento e discriminazione, il ragionevole razzista della conversazione ci dice che si deve essere equilibrati e discreti, non alzare la voce, non indignarsi, non odiare con tutto il cuore istituzioni, persone e atti che seminano odio, segregano e discriminano, si ergono a difesa dei confini lasciando morire migliaia di persone. Se qualcuno pensa di poter argomentare in buona fede che Grillo non è un cazzo di razzista di merda dopo questa volta è veramente solo un coglione.

  • I CIE e la sagra del legalitarismo violento

    Il 17 febbraio il consiglio comunale di Torino ha approvato a maggioranza (vedi) una mozione con cui, per la prima volta, il comune di una grande città italiana si impegna a chiedere alle istituzioni nazionali la chiusura di un Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE) nel più breve tempo possibile. La mozione riguarda un impegno relativo in particolar modo al CIE di Corso Brunelleschi, ma invita ad una riflessione più generale sui sistemi di gestione dell’immigrazione nell’intero paese: contiene riferimenti alla «inqualificabile violazione dei diritti umani» e alla «restrizione delle libertà fondamentali» e chiede che sia messa in discussione la legislazione in materia di immigrazione e abrogata quella attuale, comunemente nota come Bossi-Fini.

    I voti contrari alla mozione sono venuti da Forza Italia, Nuovo Centro Destra, Lega Nord, Movimento Cinque Stelle.

    Sia chiaro che non c’è nulla di cui stupirsi per la presenza dell’ultimo, specie se l’argomento in questione è costituito dalle politiche migratorie. È nota a tutti la controversia nata in seno al M5S quando due deputati in Parlamento si schierarono per la depenalizzazione del reato di clandestinità, così come è noto il successivo sviluppo della vicenda, che portò ad un referendum tra una porzione degli iscritti per decidere che posizione prendere riguardo alla votazione in Senato. Come tutti i giornali non mancarono di far sapere, in quell’occasione il M5S adottò la posizione contraria a quella “caldamente suggerita” dal bivertice, votando a favore della depenalizzazione. Tuttavia, in pochi notarono che gli elementi a disposizione non lasciavano presagire nulla di buono: lo spirito generale di quella votazione, che traspariva dal comunicato ufficiale, vedeva la depenalizzazione del reato di clandestinità come non intesa ad intaccare l’impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni e inoltre non in un’ottica di rispetto dei diritti, ma di convenienza economica e logistica (qui l’analisi). A dimostrazione di ciò, al momento della discussione in Senato i deputati del M5S applaudirono in blocco il discorso del collega Enrico Cappelletti secondo cui il reato di clandestinità è un fallimento perché «dalla sua introduzione i flussi migratori sono aumentati costantemente» e perché «non dà la certezza di un allontanamento effettivo» (leggi).

    Meno nota al pubblico nazionale è la lunga serie di dichiarazioni dell’esponente più in vista del M5S torinese, Vittorio Bertola, che in passato gli hanno procurato più volte accuse di essere razzista, come quando diffondeva bufale propagandate in rete sui “privilegi” dei Rom e degli immigrati o quando sosteneva, nei giorni successivi al pogrom contro il campo nomadi di Torino, che la violenza è certo sbagliata ma c’è da dire che se la sono cercata (riassumendo all’osso).

    Insomma, che sul tema degli immigrati il M5S sia controverso e che lo sia a Torino non è cosa nuova.

    Ora, per quale motivo il Movimento Cinque Stelle si trova a votare insieme a nazionalisti, razzisti e fascisti contro la chiusura dei CIE? Per rispondere a questa domanda, ci viene incontro lo stesso movimento, che in una pagina (questa) scritta da Bertola spiega dettagliatamente cosa non condivide della mozione approvata dal consiglio comunale di Torino.

    Bertola è d’accordo con la chiusura del CIE di corso Brunelleschi, a cui fa riferimento la mozione. In un’ottica di rispetto dei diritti basilari e di costruzione di una società fondata sui valori dell’antirazzismo e della solidarietà, i motivi da lui addotti sono discutibili, anche se il risultato, cioè la contrarietà al CIE, è condivisibile (esattamente come per la depenalizzazione del reato di clandestinità). Bertola, in linea con il sopracitato senatore Cappelletti, sostiene che «i CIE sostanzialmente non funzionino rispetto allo scopo per cui sono stati istituiti»: erano ideati per l’espulsione, ma l’espulsione tarda ad arrivare e spesso non avviene, il tutto sulle spalle dei contribuenti. Tra l’altro, le persone rinchiuse «diventano per forza di cose più furiose e antisociali di prima». Questa affermazione implica un’intrinseco accostamento della figura dell’immigrato con la figura dell’antisociale e una sua conseguente stigmatizzazione. L’immigrato è ricondotto ad uno stereotipo veicolato da una propaganda neanche troppo velatamente razzista: l’immigrato furioso, l’immigrato animale, l’immigrato antisociale che mina le basi della sicurezza e della convivenza civile. Non è scritto esplicitamente ma è logica conseguenza di un tale accostamento, forse neanche fatto di proposito ma frutto del linguaggio tossico cui siamo tutti stati abituati da mezzi di informazione e altri strumenti dell’egemonia culturale. Inoltre, continua Bertola, il CIE di corso Brunelleschi e il meccanismo dei CIE in generale costituiscono un problema di decoro urbano: non solo sono inefficaci e costosi, ma anche provocano «disturbo anche a chi ci abita attorno».

    Ciò con cui Bertola non è d’accordo è invece la parte a suo dire ricca di contenuti ideologici (come se non fosse ideologica la convinzione razzista che l’immigrato sia intrinsecamente antisociale e furioso, o la concezione di decoro borghese che intende sottrarre alla vista le evidenze della violenza oppressiva di classe, di razza o di genere). Ovvero, la parte della mozione secondo cui:

    • «i CIE sono inoltre eticamente ingiusti perché comportano una restrizione della libertà personale senza reato sanzionando la mera irregolarità amministrativa, oltre ad essere degradanti della dignità umana»;
    • «sono urgenti una modifica del sistema degli ingressi, delle procedure di identificazione, della disciplina del soggiorno e delle espulsioni, una corretta applicazione della normativa europea sull’accoglienza che innalzi gli standard attualmente praticati, una riforma della legge sulla cittadinanza, una legge per l’introduzione del diritto di voto amministrativo, una legge organica sul diritto di asilo»;
    • «ogni competenza in materia deve spettare al solo giudice togato».

    Secondo Bertola, non si può definire «inqualificabile violazione dei diritti umani» un sistema che priva gli immigrati della libertà di movimento, perché «la detenzione degli immigrati clandestini fino a 18 mesi, su provvedimento anche amministrativo, è semplicemente quanto previsto dalla direttiva europea sui rimpatri». È evidente che una motivazione del genere sia nel classico stile giustizialista e legalitario del M5S, che vede la legalità come valore assoluto e non come prodotto sociale. Per mostrare come l’Italia non costituisca un’eccezione, Bertola riporta dunque una carta dei centri di detenzione per migranti, che a mia volta riporto di seguito.

    map_18-1_L_Europe_des_camps_2011_v11_EN[clicca per ingrandire]

    Continua così la spiegazione: «in un Paese serio, che fa leggi non per dar fiato alla bocca e fare un titolo sul giornale ma per regolare la convivenza di tutti, una persona che non è autorizzata a stare lì deve venire espulsa; e poiché per forza di cose chi tenta di entrare non ha intenzione di farsi espellere, è quasi sempre necessario farlo con la forza.

    Si può benissimo discutere su quali sono le condizioni per espellere qualcuno […]; si può, anzi si deve garantire un trattamento migliore e più umano per le persone soggette alla procedura di espulsione, che non può essere trascinata per mesi e mesi. Ma non si può prescindere da un sistema di trattenimento e accompagnamento forzato alla frontiera di chi va espulso, e dunque non si può fare a meno di qualcosa che funzioni come un CIE».

    “Non si può fare a meno” è un’affermazione che ricorda il motto di Margaret Thatcher in nome del quale vennero imposte le misure di ristrutturazione economica più violente dal secondo dopoguerra, furono poste le basi per la globalizzazione neoliberista e la restaurazione del dominio di classe. Se non si può fare a meno delle espulsioni, perché si può fare a meno dell’austerità, delle privatizzazioni, dei tagli allo stato sociale? Perché, almeno a parole, è questo che dicono molti esponenti del M5S. Evidentemente nel discorso politico del M5S i diritti dei migranti non sono degni della stessa attenzione che si riserva ai diritti di tutti gli altri (e questo è esemplificato limpidamente dall’apertura del comunicato di Bertola: «Bene, direte voi, allora di cosa si parla? Lavoro? Casa? Inquinamento? Traffico? Beh, non proprio: questa settimana l’urgenza individuata da PD e SEL è la chiusura dei CIE»).

    Non mancano, ovviamente, accuse alla “sinistra” (che Bertola identifica con PD e SEL): esattamente come quando si rivendica l’antifascismo contestando il fascismo si ricevono accuse di essere fascisti (il classico “fascismo degli antifascisti”), in questo caso la rivendicazione di pari diritti fondamentali a dispetto di nazionalità e provenienza, ovvero una rivendicazione antirazzista, viene tacciata di razzismo. Bertola spiega così il perché: «Se non si vogliono i CIE di fatto si sta dicendo che non si vuole espellere mai nessuno, e che si vuole una immigrazione incontrollata e senza limiti. Ma una immigrazione di questo tipo serve solo a qualcuno: a chi detiene il potere economico, a cui fanno comodo grandi masse di immigrati tenuti ai margini della società e disposti a lavorare a condizioni inaccettabili per gli italiani, creando una guerra tra poveri che permette di distruggere tutti i diritti sociali conquistati in cent’anni di lotte, e che offre facili capri espiatori della crisi economica alla gente comune, evitando che essa se la prenda con chi veramente la sfrutta».

    Per quanto Bertola non lo ammetterebbe mai, tale visione è ideologica. Innanzitutto considera l’immigrazione il frutto di una sorta di complotto internazionale ordito dai poteri forti, e non un fenomeno naturale parte da sempre della storia umana. Inoltre risponde ad una logica razzista, simile a quella che, forse inconsapevolmente, diffuse Il Fatto Quotidiano parlando dello sfruttamento dei migranti in agricoltura quasi come fosse un fenomeno naturale (vedi): se gli immigrati sono disposti a lavorare in condizioni di sfruttamento inaccettabili ciò non è certo dovuto ad una qualche caratteristica intrinseca del lavoratore straniero ma proprio alla loro ricattabilità e questa è dovuta al rischio di espulsione. Sostenere la necessità delle espulsioni dicendo che queste proteggerebbero i diritti degli immigrati è un controsenso. La guerra tra poveri la alimenta chi favorisce la marginalizzazione, specie lungo la linea del colore (vedi).

    Infine, la chiusa è interessante: «Spiace che a portare avanti questa trappola siano i partiti cosiddetti di sinistra, ma delle due l’una: o non hanno capito niente del mondo globalizzato, o sono venduti al potere».

    A quest’ultima frase forse è meglio non aggiungere ulteriori commenti. Ai posteri l’ardua sentenza su chi abbia capito di più del mondo globalizzato tra chi intende chiudere le frontiere e chi invece vuole garantire il rispetto dei diritti a prescindere da sesso, religione, razza, provenienza.

     

    «Come mostra questa mappa, tutti i Paesi europei hanno centri di detenzione per gli immigrati clandestini, sia nella fase di prima accoglienza e identificazione che nella fase di partenza per il rimpatrio; Germania, Danimarca, Svizzera e Irlanda li tengono direttamente in carcere. A questo punto, o il Parlamento Europeo e tutti gli altri Paesi europei sono degli inqualificabili violatori dei diritti umani, o c’è qualcosa che non va nel ragionamento della mozione».

    Caro Bertola, la prima che hai detto. Anche io ho una mappa da farti vedere.

    map_europe[clicca per ingrandire]

  • Espulsioni a 5 stelle

    Il 13 gennaio, 24.932 iscritti al M5S (ovvero un terzo del totale) si sono espressi sul reato di clandestinità, la cui abrogazione sarà votata domani in Senato dagli eletti. In 15.839 hanno votato per la sua abrogazione, 9.093 per il mantenimento. Ovvero, il 63,53% contro il 36,47%. In realtà, contata l’astensione, il 19,71% contro l’11,31%.

    Auspicabilmente, i parlamentari del M5S voteranno secondo l’esito di questa votazione, e se quelli del Partito Democratico voteranno davvero, nonostante ci sia poco da fidarsi visti i loro trascorsi, come dicono di votare, il reato di clandestinità in Italia sarà abolito. Niente salti di gioia da parte del mondo antirazzista, ovviamente giacché molta è la strada ancora da percorrere per il pieno rispetto dei diritti, per una società integrata multiculturale e solidale, per l’abbattimento dei pregiudizi e delle discriminazioni. Niente salti di gioia, ma molta soddisfazione nell’area dei movimenti sociali. Attenzione però a non lasciarsi prendere dall’entusiasmo, dimenticando di cosa, di chi e con chi stiamo parlando.

    A quelli che dicono «dopo questo voto le cose finalmente cambiano», «la base è migliore di Beppe Grillo» e dopo lo scetticismo degli ultimi mesi o anni cominciano a pensare al M5S come un possibile strumento parlamentare nella lotta contro la xenofobia o vedono possibili aperture da parte del M5S perché questo si affianchi al movimento contro il razzismo e per i diritti dei migranti, andrebbero tuttavia ricordate un paio di cose.

    La votazione telematica è stata introdotta da una presentazione, scritta dai due senatori Andrea Cioffi e Maurizio Buccarella, che indirettamente ripercorre la vicenda verificatasi a ottobre quando i due furono rimproverati da Grillo e Casaleggio per aver proposto su iniziativa personale un emendamento che avrebbe depenalizzato il reato di clandestinità introdotto con l’entrata in vigore del regime Bossi-Fini. La votazione è stata anche preceduta da un messaggio inviato privatamente a tutti gli iscritti al M5S aventi diritto, poi reso pubblico e diffuso. Questi due documenti espongono il punto di vista dei senatori incriminati e ora democraticamente impegnati a far valere la propria posizione in materia di immigrazione. In particolare, ecco cosa dicono:

    «I promotori di quell’emendamento lo proposero […] al fine di sgravare da procedimenti penali inutili un sistema ingolfato e nell’ottica di una riduzione dei costi (efficienza, efficacia, economicità). Nessuna visione ideologica, ma un approccio pragmatico e di buon senso. L’eventuale abrogazione del reato, infatti, non intacca l‘impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni, richieste di asilo, flussi di entrata».

    «Con l’approvazione si avrebbero soltanto risultati positivi in termini di risparmio di denaro pubblico e snellimento dei tempi della giustizia rimanendo intatte tulle le altre disposizioni e norme relative alla procedura d’espulsione. Depenalizzare significa quindi mantenere il procedimento amministrativo di espulsione per sanzionare coloro che violano le norme sull’ingresso e il soggiorno nello Stato».

    Da questi due testi, si evince che:
    -la depenalizzazione del reato di clandestinità non è proposta in un’ottica di rispetto dei diritti, ma secondo criteri di convenienza economica e logistica;
    -il mantenimento dell’impianto generale della Bossi-Fini è non ideologico e di buon senso;
    -la depenalizzazione del reato di clandestinità non è finalizzata ad intaccare l’impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni.

    Dovrebbe essere chiaro dunque che, se lo spirito manifestato da questi due membri è condiviso dal resto degli eletti (ma il dibattito nato in seno al gruppo parlamentare a ottobre farebbe pensare addirittura che la linea proposta sia troppo progressista rispetto alle attuali norme sull’immigrazione), almeno a livello parlamentare, gli orizzonti entro cui si muove il M5S restano le espulsioni.

    Questo mostra come si possa coerentemente essere a favore dell’abrogazione del reato di clandestinità e allo spirito repressivo e disumano dell’attuale legislazione in materia. Mostra anche come, parlando il burocratese, si sia riusciti a far passare come grande prova di democrazia il fatto che domani in Senato non verrà votato ciò che piace a Grillo e Casaleggio, ma ciò che ha deciso la base, mentre la realtà dei fatti è che il bivertice del M5S ha trovato il modo di prendere due piccioni con una fava: non intaccare lo spirito attuale della Bossi-Fini potendo allo stesso tempo dire «dimostriamo finalmente che non siamo io e Grillo a comandare», scavalcando apparentemente a sinistra il PD per riprendere terreno elettorale perso in quell’area. Infine, mostra per l’ennesima volta cosa sia il “buon senso non ideologico” a cui la retorica pentastellata fa continuamente riferimento.

    «L’eventuale abrogazione del reato, infatti, non intacca l‘impianto generale della Bossi-Fini in materia di espulsioni» è stato sapientemente rassicurato a chi stava per votare, quasi a tranquillizzarlo sullo stato di salute della Bossi-Fini. Ovviamente, nessuno può sapere con che spirito quel 19,71% ha votato a favore dell’abrogazione del reato di clandestinità, se l’abbia fatto in un’ottica antirazzista, di integrazione, di rispetto dei diritti o piuttosto in una prospettiva che in generale mantiene lo stato di cose presente e tratta le persone come merci, parlando di efficienza e costi invece che di diritti. Certo è che almeno qualcuno avrà votato a favore dell’abrogazione proprio perché prontamente rassicurato.

    Ah, un ultima cosa: il M5S non permette agli immigrati ancora privi di cittadinanza di iscriversi (quindi neanche di candidarsi).

  • Mi paga il PD

    Negli ultimi tempi si è parlato molto di Grillo. A dirla tutta, in pochi hanno parlato: molti hanno urlato, altrettanti ne hanno chiacchierato per cambiare i soliti argomenti come la meteorologia, il calcio e la farfalla di Belen o semplicemente per ingannare il tempo. Pochi rompicoglioni hanno provato a intavolare analisi lucide e ragionate sul personaggio e sul fenomeno, partorendo discorsi più o meno fruttuosi e interessanti. Anche su questo blog se n’è discusso.

    Ma non è questo l’argomento che sta per essere affrontato, anche perché, e qui lo dichiaro apertamente, per un intervallo di tempo di durata indefinita ma lunga la questione non sarà ripresa, almeno non direttamente. I motivi sono molteplici e vanno dalla nausea al rischio di alimentare una troppo facile caduta, a sinistra, dall’antiberlusconismo all’antigrillismo. Prima di inaugurare il temporaneo silenzio stampa, però, la mia coscienza mi impone di sciogliere le mie remore e fare chiarezza su un punto particolare.

    Nel corso delle mie lunghe vicissitudini, infatti, un interrogativo mi si presentava con insistenza, ogniqualvolta il mio interlocutore fosse uno di quei cittadini  cui ormai comunemente si è soliti riferirsi con l’appellativo di “grillini”. La domanda, il più delle volte retorica, era riconducibile alla seguente: «ma ti paga il PD?». Ebbene, amici e amiche, lettrici e lettori, so di essere in procinto di deludere molti di voi, ma non posso più convivere col mio segreto, non posso più tenervi all’oscuro della verità che è arrivato il momento di rivelarvi una volta per tutte: sì, mi paga proprio il PD.

    Mi ha pagato il tesoriere in persona, Antonio Misiani, accreditandomi di volta in volta una certa somma (un esempio di finanziamento dai partiti ai semplici cittadini come me, quindi qualcosa che dovrebbe ergersi a esempio per tutti i grillini).

    Il pezzo sul marchio, per esempio, mi è valso 64,34 € più un bonus di 11,98 € per non aver ricordato ai lettori quanto il PD faccia pena come progetto politico; gli interventi su Giap mi hanno fruttato la bellezza di 172,50 € per la visibilità ottenuta; i commenti su Facebook di meno, perché non visibili a tutti; tutte le argomentazioni da me espresse sono valse un gettone aggiuntivo di 25,00 € se contenenti almeno un riferimento al fascismo. Per non parlare  di quelle volte in cui l’evidenza a favore delle mie specifiche ragioni lasciava interdetto il grillino di turno tanto da togliergli la parola o fargli preferire la fuga dal dibattito, seppur esposto per questo al pubblico ludibrio: quelle volte mi sono fatto 35,00 € a botta, spesso senza neanche troppa fatica. L’analisi O noi o i nazisti è costata alle casse del PD la cifra di 399,99 € in tutto, di cui 129,99€ soltanto per il finale della terza parte, in cui si fa notare la mancanza di reale democrazia interna e si osa addirittura fare analogie con il fascismo.

    Sono somme piuttosto esigue, irrisorie se volete, roba da poco, lo so. E io sono un pezzente, penserete voi. Sticazzi. È roba da poco ma comunque più di quanto basta per arredarsi una stanza con mobili Ikea nuovi, lasciando forse qualcosa di resto per l’ultimo album di Guccini, e l’idea di una stanza nuova mi solleticava da un po’, così come mi piaceva il Maestro.

    Insomma, volevo dirvi questa cosa e ve l’ho detta. Com’è risaputo, la rete è piena di pennivendoli e rompicoglioni al soldo del PD, che vanno in giro a disseminare fastidiosi dubbi: io sono uno di questi. Pardon, sono stato, visto che quando si saprà che ho svelato il complotto difficilmente il tesoriere mi riaffiderà un incarico. Scusami Antonio, ci eravamo tanto amati.

    (A proposito di complotti, se il M5S paga bene, sarei interessato a disseminare in giro anche quelli.)

     

    P.S. Potreste starvi chiedendo quanto mi è stato corrisposto per la pubblicazione della recensione di Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu, che ha avuto un inaspettato successo, ma la risposta è che non mi è stato corrisposto nulla. E poi quel pezzo non è su Grillo, quante volte ve lo devo dire.

  • VOTA DADA

    «Dada non significa nulla»
    Tristan Tzara, Manifesto Dada

    Alla fine della settimana corrente, gli italiani saranno chiamati, nella maniera più colorata, gioiosa, pacifica e civile possibile, a festeggiare il compleanno di mio fratello. Nell’attesa, molti amici, ritenendomi chissà quale esperto di compleanni, chiedono indicazioni di voto.

    A me non è mai piaciuto dare questo tipo di suggerimenti per poi dichiararmi sistematicamente deluso e gridare al tradimento dello spirito originario, ed è per questo che rispondo a tutti di essere ben disposto a dar piuttosto indicazioni di non voto: non nel senso di promuovere attivamente l’astensione, ma in quello di fornire elementi per costruire una visione critica, attività più comunemente nota come “rompere i coglioni” oppure, con una variante cara soprattutto agli elettori di centro-sinistra, “fare polemica”.

    Non è mia intenzione intavolare di seguito la solita «sterile polemica» sul fatto che il Movimento Cinque Stelle ricalchi le stesse pulsioni psicologiche e antropologiche sottese al primo fascismo degli anni Venti, che Rivoluzione Civile non sia affatto un partito rivoluzionario bensì uno schieramento socialdemocratico, seppur l’unico probabilmente presente nel prossimo Parlamento, che il Partito Democratico sia un partito di destra liberale moderata, che Giannino esattamente come il PD non possa essere considerato opzione votabile da una persona di sinistra (e sono ancora turbato dalla scoperta che queste persone effettivamente esistono). Propongo di dare per scontati tutti i contenuti di queste fastidiosissime polemiche.

    Invece, ci si potrebbe chiedere se i principali problemi che ci troviamo a fronteggiare, e che condannano la nostra società alla genuflessione innanzi agli eterei, universali, assoluti, divini e impalpabili valori del mercato e della concorrenza, siano in qualche modo risolvibili dall’interno del Parlamento, o perlomeno dall’interno del prossimo, quello votato tra fiumi di spumante stappato in occasione del natale di mio fratello. A ben vedere, la risposta è “no”, giacché qualunque voto, direttamente o indirettamente, sarà un voto per il sobrio professore, per il tecnico disinteressato, per il servitore dello Stato (leggi qui per saperne di più).

    Come fare dunque? Essendo io, come dicevo prima, poco esperto in compleanni, mi rivolgo a un amico che sembra sapere il fatto suo:

    «Non rimane», risponde dopo aver scolato il suo boccale di birra scura «che seguire le regole dell’attuale democrazia e, in mancanza di un partito che mi rappresenti fra i due schieramenti che possono davvero decidere qualcosa, votare. Ma non un partito qualsiasi, quello è qualunquismo ed è pericoloso: bisogna avere dei criteri ben definiti, ed io condivido ora i miei, che possono essere riassunti in ciò che chiamo voto DADA.

    «Il punto principale è quello estetico: devi trarre soddisfazione dall’avere tracciato una “X” su quel simbolo e non su di un altro. Secondariamente, va considerato l’impatto del voto: idealmente il partito che stai votando non deve poter usufruire del tuo voto esattamente come i big che non hai votato, vale a dire che più è lontano dalla soglia di sbarramento meglio è. Meno importante ma non banale è il fattore random: non fissarti su di un solo partito, selezionane due o tre (fino a sei per gli estimatori del dado) e lascia che sia il caso a decidere».

    Insomma, vota dada. Tanto, questa volta, davvero ogni voto è inutile.

    Dada non significa nulla. Il voto è dada. Il voto non significa nulla.

  • O noi o i nazisti – «Questo movimento è ecumenico»: la concezione del popolo

    Questo articolo è la quarta di quattro parti di un’analisi del Movimento Cinque Stelle dal titolo O noi o i nazisti
    «L’antifascismo non mi compete»: anti-antifascismo del M5S
    «Da te non me l’aspettavo»: quando Grillo non urla
    «Questa è la democrazia»: il movimento come Stato
    «Questo movimento è ecumenico»: la concezione del popolo

    Confrontandosi con un sostenitore del M5S, la maggior parte delle critiche espresse sulle idee provoca un impasse: generalmente la risposta è che quella particolare idea non è che un’opinione personale e non deve essere considerata propria di tutto il movimento. Allora uno, per prevenire simili risposte, prova a criticare un’idea espressa sull’organo di movimento, il sito… che però è anche il sito personale di Grillo, quindi si torna al punto di partenza del semplicissimo diagramma di flusso: quella è un’idea di Grillo, non di tutto il movimento.

    Insomma, il problema è sempre lo stesso: è inutile cercare un’opinione di tutto il movimento, perché tale opinione non esiste. Questo concetto è stato espresso nella prima parte di questa analisi.
    Se mancano reali convergenze unificanti, non è sui contenuti che gli aderenti possono contare come collante; infatti ciò che li tiene insieme è Grillo, non un contenuto. Questo è stato argomentato nella seconda parte.
    Il risultato di tale mancanza è la vuotezza del concetto di democrazia propagandato, che si appella a un’inesistente e velleitaria volontà generale. Questo discorso è stato affrontato nella terza parte.
    In quest’ultima parte, si tratta della visione di fondo implicata dalla concezione grillina di democrazia.

    Lo sgretolamento dell’identità politica, espresso dal rifiuto delle “ideologie”, riflette quello dell’identità sociale, provocato dal crollo della coscienza di classe prodotto dall’atomizzazione di massa con i processi capitalistici degli ultimi decenni, che hanno realizzato il sogno dell’individualismo. Così come le “ideologie”, intese come sistemi onnicomprensivi, sono crollate frammentandosi in semplici “idee”, intese come singole soluzioni a problemi circoscritti, allo stesso modo le classi sociali, orfane della coscienza di classe, sono diventate categorie inadeguate frammentandosi in singoli individui. Il M5S intende dichiaratamente rapprentare i singoli individui con le singole idee, mettendo da parte qualsiasi appartenenza politica tradizionale o comunque pregressa.

    Questa volontà trova la sua spiegazione solo se inquadrata in una particolare visione, in cui, come osserva Giuliano Santoro (qui), «non esistono parzialità, differenze di classe, conflitti. Il popolo è la massa omogenea e pacificata unita in nome di chissà quale identità». Affidarsi alla “volontà generale” senza dotarsi anche di limitazioni oltre cui tale volontà sia da considerarsi inaccettabile non è democrazia, ma populismo, ovvero un atteggiamento volto ad assecondare le aspettative del popolo, indipendentemente da ogni valutazione del loro contenuto, della loro opportunità: se la maggioranza degli attivisti e degli elettori del M5S diventasse, per dire, omofobo da un giorno all’altro, per il movimento non ci sarebbe alcun problema: l’importante è rappresentare “i cittadini”, a prescindere da chi sono e cosa vogliono.

    In questo contesto, infatti, le azioni politiche dei comitati locali rispecchiano le posizioni dominanti in un luogo specifico in un momento specifico, e in certi casi questo risulta evidentemente contraddittorio dal punto di vista complessivo. Per esempio, il comitato di Parma ha manifestato per la chiusura di Casapound (vedi) perché «viola i principi della Costituzione italiana e leggi della Repubblica come il divieto di istigazione all’odio razziale e apologia di fascismo», ma quello di Bolzano contro la sua chiusura (vedi) asserendo che si trattava di «un gruppo di ragazzi che non solo hanno le carte in regola ma anche, fino ad ora, organizzato serate su temi diversi e interessanti, senza segni di apologia». Come è possibile? Semplice: si tratta di due comitati diversi. A causa della vuotezza di contenuti del M5S, il fatto che due comitati del M5S adottino posizioni l’una l’opposto dell’altra non genera assolutamente nessuna incoerenza.
    Oppure: il mese scorso, i consiglieri bolognesi del M5S hanno votato un OdG del PdL in cui si esprime cieca solidarietà a Casapound, senza se e senza ma, ancor prima di conoscere in dettaglio le dinamiche dell’accaduto (vedi).
    O ancora: a Pontedera il comitato locale si è rifiutato di partecipare a una manifestazione in solidarietà a bambini stranieri aggrediti da militanti di Casapound durante una cerimonia di premiazione all’insegna dell’integrazione (vedi).
    Di recente, il gruppo milanese ha votato a malincuore contro finanziamenti per il giorno della memoria (vedi), perché così avevano stabilito le consultazioni online. È evidente che, dal loro punto di vista, sono stati ineccepibili e trasparenti: personalmente avrebbero agito diversamente, «ma noi eletti siamo solo portavoce» e non gliene si può fare una colpa.

    Finora, per “cittadini” si è intesa la “totalità degli individui che vivono in Italia”, e la retorica del M5S tende a dipingerlo come rappresentanza di quest’ultima. In realtà, questo è falso.
    Non tutti sanno che l’iscrizione al M5S è permessa solo a italiani: il Non statuto recita all’articolo 5 che «il movimento è aperto ai cittadini italiani maggiorenni». I “cittadini” che il M5S vuole rappresentare, quindi, sono gli “individui con cittadinanza italiana”. Qui il cerchio si chiude: il rifiuto della rappresentanza di interessi “di classe” si accompagna all’accettazione della rappresentanza “di nazionalità”; questo discorso è puramente ideologico e ricalca e richiama vari tipi di rappresentanza storici, in primis quella nazionalista, che divide gli interessi politici degli individui non in base alle loro condizioni materiali ma a concetti astratti e arbitrari come la cittadinanza e la nazionalità.
    Ecco dunque che, dimenticando ed escludendo gli stranieri, anche di seconda generazione, e tutte quelle persone prive formalmente di cittadinanza, come gli immigrati senza documenti, il M5S inserisce delle limitazioni al concetto di rappresentanza “totale”, rivelandosi in questo un movimento ideologico al pari della politica da cui vanta di distinguersi.

    Un’ultima cosa: c’è anche da chiedersi il senso della pubblicazione di quegli stralci del dialogo tra Grillo e Di Stefano da parte di Casapound Italia, resi praticamente uno spot elettorale con tanto di slogan alla fine («La prossima volta che voti, falli piangere»): visto che il M5S si presenta come una forza indipendente per le prossime elezioni politiche, tale scelta si rivelerebbe un boomerang per i candidati dell’estrema destra, che si troverebbero a pubblicizzare un avversario, se non fosse motivata dalla consapevolezza che Grillo è benvisto da una consistente porzione dell’elettorato (anche se in contrazione) e che una sua uscita a favore di Casapound, da parte di lui che non si è mai dichiarato favorevole a nessun’altra forza politica, non può che fungere da sponsorizzazione nel contesto dell’invasione del campo politico da parte della cultura aziendale. In altre parole, Casapound spera di ottenere visibilità tramite il marchio Grillo (di cui si parla qui), conosciuto, apprezzato, familiare, affidabile per molti: si tratta quindi di una strategia di marketing che mira a intercettare il voto di chi trova credibile Grillo, non necessariamente votandolo. Un possibile corollario è che molti neofascisti “delusi” negli ultimi anni si sarebbero rivolti al M5S e che questo video serva a farli tornare sulla retta via.

    «Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me»

    Nota a margine: grazie Giap

  • O noi o i nazisti – «Da te non me l’aspettavo»: quando Grillo non urla

    Questo articolo è la seconda di quattro parti di un’analisi del Movimento Cinque Stelle dal titolo O noi o i nazisti
    «L’antifascismo non mi compete»: anti-antifascismo del M5S
    «Da te non me l’aspettavo»: quando Grillo non urla
    «Questa è la democrazia»: il movimento come Stato
    «Questo movimento è ecumenico»: la concezione del popolo

    COMUNICAZIONE DI SERVIZIO: il secondo link citato nel testo, “stranamente”, è stato rimosso; per fortuna qualcuno ha pensato di recuperarlo, per cui la copia del testo originale la trovate qui.

    Non si deve pensare che la posizione espressa da Grillo nei confronti del movimento neofascista non abbia suscitato reazioni di indignazione da parte di esponenti, anche con ruoli rappresentativi, nel M5S. Queste reazioni hanno addirittura comportato le dimissioni, ad oggi, di due consiglieri eletti a Carpi (vedi) e a Roma (vedi).

    Dichiarazioni di stupore costellano i post di attivisti delusi, commenti increduli inondano le pagine dedicate ai commenti. «Ma come? Lui non antifascista? Grillo?», «Stavolta mi hai davvero deluso», «Da te non me l’aspettavo». Questa ondata di incredulità mista a indignazione è indice della scarsa profondità di analisi di parte dell’elettorato grillino proveniente da sinistra: infatti, non c’era nessun motivo di ritenere che Grillo fosse antifascista o che si interessasse al problema, visto che nel M5S la cosa non è mai stata accennata.

    La domanda che si pone è la seguente: perché tanti attivisti ed elettori delusi provenienti da sinistra, che credevano di militare in un movimento antifascista, dando per scontata la cosa? La spiegazione si compone di due elementi.

    La prima plausibile motivazione va ricercata proprio nella “liquidità” del M5S, di cui si è già parlato ampiamente (qui): per fare in modo che tutti possano riconoscervisi, il M5S riduce al minimo i contenuti politici, perché per ogni presa di posizione esiste una fetta di cittadinanza che non è d’accordo. In altre parole, il grado del consenso è inversamente proporzionale al livello dei contenuti e il M5S, avendo l’ambizione di rappresentare i cittadini in generale e in maniera trasversale, punta al più largo consenso possibile.

    Il secondo motivo è che il consenso per Grillo deriva in larga parte da impulsi irrazionali, catalizzati dallo stile comunicativo, dal tipo di linguaggio e dalla teatralità del personaggio, come sapientemente indagato da Giovanna Cosenza, professoressa di semiotica all’Università di Bologna (l’analisi è suddivisa in cinque parti). Grillo –si osserva– «non afferma, esclama; non parla, grida fino a perdere la voce; non suda, s’inzuppa; non gesticola, si scompone». Inoltre, «sul palco non si limita a camminare, ma lo percorre a grandi falcate da un lato all’altro, o addirittura corre; non si limita a rivolgersi agli spettatori, ma si piega a novanta gradi, s’abbassa, si sporge oltre eventuali sbarre e transenne, come se volesse tuffarsi nel pubblico». Un buon comunicatore non può ovviamente trascurare l’espressione del volto come suo sommo strumento: «mobilissima, sempre pronta a trasformare ogni emozione in maschera di teatro, sempre capace di passare in un lampo dal comico al tragico, dall’euforico al disforico e viceversa».

    Queste considerazioni non sono affatto banali. Se in tanti “cadono dalle nuvole” quando vengono rilasciate certe dichiarazioni, non c’è da stupirsi: erano praticamente ipnotizzati dall’affabilità, la convinzione e l’entusiasmo di Grillo, talmente presi dalla sua foga da non fermarsi a riflettere un attimo: così come il movimento millanta la democrazia diretta, la partecipazione immediata, anche l’adesione al M5S da parte dei sostenitori è priva di intermediazione, stereotipata, incondizionata. Non passa dal cervello, ma dal cuore.

    Tante cose che Grillo afferma durante gli spettacoli o i comizi farebbero accapponare la pelle se le dicesse in maniera non spettacolare, da uomo normale. Se Grillo in un’intervista dicesse serio rivolgendosi a un poliziotto «vuoi dare una passatina a un marocchino che rompe i coglioni? Lo prendi, lo carichi in macchina senza che ti veda nessuno, lo porti un po’ in caserma e poi gli dai, magari, due schiaffetti» una buona parte dell’opinione pubblica che normalmente lo sostiene gli si scaglierebbe contro. Il problema è che Grillo ha veramente pronunciato questa frase (vedi), e come questa altre, a cui in molti non hanno dato peso perché in quel momento si trattava di uno spettacolo comico e satirico, non di una dichiarazione politica.

    Il fatto è che in questo caso show comico e comizio politico sono indistinguibili, e con questa scusa ci si può permettere di lasciarsi andare a considerazioni paurose; l’indistinguibilità e l’assenza di confine tra il Grillo comico e il Grillo politico sono gli strumenti di difesa più utilizzati dai sostenitori: «ma lasciatelo stare, lui stava scherzando, non fatene una tragedia!» ricorda, come fosse ieri, il modo con cui si giustificavano le uscite grottesche di Berlusconi.

  • O noi o i nazisti – «L’antifascismo non mi compete»: anti-antifascismo del M5S

    Questo articolo è la prima di quattro parti di un’analisi del Movimento Cinque Stelle dal titolo O noi o i nazisti
    «L’antifascismo non mi compete»: anti-antifascismo del M5S
    «Da te non me l’aspettavo»: quando Grillo non urla
    «Questa è la democrazia»: il movimento come Stato
    «Questo movimento è ecumenico»: la concezione del popolo

    Mentre i delegati del M5S all’Assemblea regionale siciliana restituiscono (vedi) gran parte dello stipendio ai cittadini (per quanto questa espressione sia discutibile) riscuotendo notevole successo nell’opinione pubblica, Beppe Grillo in persona, interrogato sulla sua posizione in merito all’antifascismo da Simone Di Stefano, candidato neofascista alla presidenza del Lazio, ha dato la seguente risposta: «questo è un problema che non mi compete»

    [youtube http://www.youtube.com/watch?v=pb2cX46I9HM]

    Una tale affermazione conferma il carattere velleitariamente postideologico del fenomeno del grillismo, che lo pone come una struttura formale priva di contenuto politico: intende esplicitamente (si legga, per esempio, il Non statuto) dare forma a metodi, non ad obiettivi, e il rispetto del principio formale della partecipazione è l’unica esigenza trasversale e realmente condivisa all’interno del movimento, mentre non esiste un’idea altrettanto trasversale sulla direzione politica da esprimere attraverso tale partecipazione.

    Così, la scelta tra fascismo e antifascismo, come tra razzismo e antirazzismo o tra sessismo e antisessismo, è considerata non solo inutile, ma del tutto priva di senso. Nel porsi in questa maniera, Grillo ottiene però l’effetto di schierarsi di fatto: non agire contro i fascisti significa infatti esserne complice, e non accettare la definizione di antifascista significa essere “anti-antifascista” (tra l’altro è la stessa definizione che si dànno molti militanti dell’estrema destra italiana).

    Il motivo di questa apparentemente mancata presa di posizione è che l’identità che il marchio a cinque stelle vuole attribuirsi e su cui il relativo movimento basa la propria retorica e propaganda riguarda l’idea di “novità” (qui un’analisi più approfondita): il nuovo che spazza via il vecchio. Questo riguarda non solo i personaggi del panorama peninsulare e gli attori dell’agire politico degli ultimi decenni, ma anche le posizioni e le ideologie a cui tradizionalmente i partiti si richiamavano. Così, essere antifascisti è una cosa da vecchi politicanti. (Se qualcuno pensa che simili distinzioni e categorie appartengano al passato, vada pure a rivedere i nomi di Samb Modou e Diop Mor.)

    Qualcuno potrebbe obiettare, come stanno facendo tantissimi sostenitori di Grillo in queste ore, inondando le sezioni per i commenti di qualunque sito che ne parli, che si sta «enfatizzando una sciocchezza detta da Beppe», che si sta «dando peso alle notizie dei media» facendo il gioco dei «giornalisti asserviti al potere della casta» o che semplicemente è inutile cercare di strumentalizzare un’opinione personale espressa da Grillo, per quanto egli stesso si sia definito “capo politico” del M5S. In realtà, reazioni del genere confermano i timori emersi discutendo con quel grillino citato nell’introduzione (qui): pur non essendo un movimento fascista, il M5S è compatibile con il fascismo, perché non si pone vincoli ideologici.

    Sia chiaro, quindi, che problema non è se Grillo sia simpatizzante dei neofascisti o meno; il problema è che ciò sarebbe plausibile e, come per lui, lo sarebbe per qualunque altro appartenente al M5S: anzi, Grillo afferma «se un ragazzo di Casapound volesse entrare nel M5S, coi requisiti per entrarci, ci entra». È evidente che l’antifascismo non è un requisito; del resto, chi ha mai detto che lo fosse? L’uscita di Grillo non è un errore di comunicazione o un’inopportuna presa di posizione che sarebbe stato meglio non manifestare: è qualcosa che si inserisce perfettamente nel contesto in cui si colloca, nel quale è un evento fisiologico, non patologico.

    Nota a margine: da più parti, si contesta il fatto che il video pubblicato e diffuso da Casapound sia stato «manipolato» (cioè tagliato in alcuni punti) per screditare Grillo e strumentalizzare l’intera vicenda a fini «destabilizzanti». Per evitare che queste sterili contestazioni si verifichino anche qui, fornisco la versione completa del video. E dico “sterili” perché, per quanto possano cercare di arrampicarsi sugli specchi, il discorso non cambia di una virgola.

  • O noi o i nazisti

    Articoli correlati: Sono stato grillino anch’io, Vuoti da riempire, Un marchio a 5 stelle [1], Un marchio a 5 stelle [2], Un marchio a 5 stelle [3]

    «Se noi non entriamo a quel punto arrivano le Albe dorate, gente che emula Hitler. Entrano i nazisti in parlamento con il passo dell’oca»
    Beppe Grillo in una dichiarazione del 15-12-12

    «Sembri un delegato del Movimento Cinque Stelle»
    Beppe Grillo a un candidato di Casapound Italia, movimento neofascista italiano

    In calce a un articolo (qui) che esprimeva il disappunto per la mancanza definizione politica del Movimento Cinque Stelle e la conseguente ipotetica compatibilità con omofobi e fascisti, circa sei mesi fa un grillino scrisse: «non riesco a capire se si abbia veramente paura di un M5S omofobo, o si tratti di un più comprensibile principio di precauzione».
    Dopo le ultime vicende, che saranno citate più avanti, risulta chiaramente che l’incapacità del mio interlocutore di comprendere il problema non solo sia il prodotto di una banale semplificazione della realtà, ma che addirittura il suo dubbio non abbia neanche senso: infatti, parlando di una qualche compatibilità tra Grillo, il M5S, l’omofobia e il fascismo, non si è ormai più nel campo delle ipotesi, bensì in quello della realtà fattuale. Ovvero: tale compatibilità è stata dichiaratamente espressa, senza ambiguità.

    Occorre tuttavia astenersi dall’additare immediatamente come “fascista” Grillo e il movimento da lui fondato, giacché si commetterebbe lo stesso errore di semplificazione e valutazione affrettata diffuso in diversi ambienti politici. Si propone dunque di seguito un’analisi il più possibile ragionata, che cerchi di considerare i presupposti e il contesto culturale in cui si sviluppa il fenomeno del grillismo, nonché le implicazioni teoriche e pratiche di quei presupposti.

    Il contesto è la crisi di rappresentanza e il presunto svuotamento delle categorie politiche tradizionali, due problemi a cui il M5S risponde chiaramente: al primo con l’idea di rappresentare i cittadini, categoria contrapposta al ceto politico, al secondo con l’asserzione di essere “né di destra né di sinistra” e per il superamento delle contrapposizioni ideologiche storiche.

    In questa prospettiva, se prima vedevo il grillismo come un contenitore vuoto riempito da ciò che più abbonda nella società, ovvero da tendenze che lo rendevano “passivamente” di destra, ora mi ricredo, in parte, su alcuni punti, e lo riconosco come una forza “attivamente” di destra, cioè per definizione politica anziché per omissione, riguardo ad alcune questioni.

    L’analisi del M5S sarà articolata in quattro parti:

    «L’antifascismo non mi compete»: anti-antifascismo del M5S
    «Da te non me l’aspettavo»: quando Grillo non urla
    «Questa è la democrazia»: il movimento come Stato
    «Questo movimento è ecumenico»: la concezione del popolo

  • Un marchio a 5 stelle [3]

    Articoli correlati: Sono stato grillino anch’io, Vuoti da riempire

    Qui la prima parte e la parte introduttiva, qui la seconda parte.

    Distruggere la concorrenza. La cosa che più colpisce in tantissimi grillini è la cieca convinzione che il M5S sia l’unica alternativa possibile, l’unica via percorribile. Questa è una componente fondamentale della retorica di Grillo e degli attivisti del suo movimento: «senza di noi ci sarebbero i nazisti», «o con noi o con i ladri», «chi ci critica non dà alternative serie», e così via. Tale convinzione è alimentata parallelamente da una scarsissima profondità di analisi e memoria storica: a sentirli, pare che portare un panettiere o un salumiere in consiglio comunale sia una rivoluzione, ma dimenticano che il PCI portava gli operai in parlamento; pare che le mobilitazioni contro le grandi opere non ci sarebbero state senza l’appoggio decisivo del M5S, ma dimenticano che, per esempio, il movimento NoTav e quello contro il nucleare sono esperienze decennali; pare che nessun partito politico abbia mai destinato parte degli stipendi degli eletti ad attività diverse da quelle connesse alle tasche private dei singoli, ma dimenticano, per esempio, Rifondazione comunista; pare che i referendum contro la privatizzazione dell’acqua siano stati una vittoria politica del M5S, ma dimenticano quello che fu il popolo di Genova; insomma, esattamente come il blog di Beppe Grillo, anche il M5S si vanta di essere «il primo», e ciò fa parte della strategia finalizzata a renderlo appetibile agli occhi dei cittadini (smemorati): se tutto il resto non esiste e non è mai esistito, rimane solo il M5S.

    Il primo metodo adottato dal marchio M5S per eliminare la concorrenza consiste dunque nel proporsi come unica vera via: tutte le altre alternative sono dimenticate o bollate come «poco serie».

    Il secondo modo è espandersi invadendo “nicchie” simili nel panorama dei marchi: per tutelarsi dalla “contraffazione”, Grillo ha registrato anche simboli simili a quello del M5S che potrebbero essere adottati da “cloni” che si dicano forza alternativa, come ad esempio “Pirati a 5 stelle” (vedi). Come se la Nike detenesse diritti non solo per lo “swoosh” ma anche per i simboli simili apposti sulla merce contraffatta (in realtà ciò non avviene, perché per la multinazionale la diffusione del logo è un vantaggio a prescindere dal profitto diretto derivante dalla vendita dei singoli prodotti: bisogna ricordare che l’opera di costruzione del marchio è qualcosa di trascendente, e che se circolano simboli che imitano il logo della Nike, è tutta pubblicità gratuita per il “logo madre” che ne trarrà il vantaggio; ciò non accade per il M5S perché, diversamente dalla Nike, il suo spirito include l’idea di unicità, sopra menzionata, che sarebbe compromessa da una sfilza di loghi di imitazione).

    A questo punto, è chiaro il motivo per cui il dissenso provoca reazioni come quella del comunicato di dieci giorni fa: Beppe Grillo è un marchio. In quanto marchio, ambisce invariabilmente all’egemonia e al monopolio non solo commerciale ma anche culturale.

    Qualcuno, come Favia, che si proponga come innovatore dall’interno del movimento priva Grillo del suo ruolo: l’innovatore è lui e non deve esserlo nessun altro. In quest’ottica, la cacciata di Favia è dettata più da motivi di natura aziendale che da problemi politici: quello di Favia è un dissenso che si manifesta prima di tutto come rottura dell’incanto maturato attraverso il branding intorno al marchio di Grillo. Infatti l’espulsione, prima che politica è legale: a Favia viene fatto divieto di utilizzare il logo a cinque stelle o di riferirsi al M5S o alla figura di Grillo (vedi). Il problema quindi non è nelle azioni politiche di Favia, il disaccordo non è sui programmi, il vero problema è che la figura di Grillo deve rimanere immacolata, intaccata, unica nell’impersonare l’idea.

    Come la Nike che, quando la figura di Michael Jordan diventò troppo ingombrante e si configurò come marchio in competizione con gli altri, compreso quello della Nike stessa, decise di mollarlo, allo stesso modo Grillo, nel momento in cui emerge qualche “marchio” come Favia che rischia di scalfire parte della sua fetta di “mercato delle idee” (ma non solo idee…) imperniata sul concetto del “nuovo”, fa di tutto per eliminare la concorrenza, lo boicotta, lo ostacola, lo ripugna, lo espelle, anche se è diretta emanazione del suo marchio. Anzi, proprio perché è diretta emanazione, e dunque condivide il retroterra culturale e gli elementi particolari del carattere aziendale, appena si fa strada un barlume di indipendenza e autonomia questo mette in pericolo l’egemonia del marchio.

    Del resto, se è vero che Grillo è un marchio, e che il marchio è espressione della globalizzazione neoliberista e strumento delle multinazionali, è anche vero, come ha sostenuto Noam Chomsky, che «una multinazionale è più vicina al totalitarismo di qualunque altra istituzione umana».