Tag: informazione

  • Perché Facebook chiude

    Forse non tutti sanno che a questo sito è associata un’omonima pagina sul colosso blu, la rete sociale più diffusa nei paesi del mondo occidentale. La funzione di questo comunicato è informare che, salvo colpi di scena repentini o efficaci opere di convincimento, tale pagina si avvia alla chiusura.
    Tuttavia, per chiarezza, trasparenza e un po’ anche per rispetto verso chi l’ha seguita, in maniera attiva, con vivo interesse e sincero supporto oppure più passivamente, ma con altrettanto interesse, è opportuno ricostruire il percorso che porta alla decisione drastica di chiudere un possibile spazio di confronto e condivisione tra le maglie di quella rete che è Facebook, tanto più se ciò fornisce l’opportunità di esternare alcune riflessioni sul ruolo che Facebook svolge nell’organizzazione della vita personale, sociale e politica (l’esigenza di ripercorrere la storia per comprendere il presente è proprio quello che intendeva suggerire Friedric Jameson con la celebre raccomandazione: «storicizzare sempre!»).

    Alla cortese attenzione di lettori e lettrici

    primo post
    Il primo post della pagina Facebook “Reo tempo”, quando ancora si chiamava “Cultura Libertà”.

    Questa pagina si è presentata fin dal primo giorno (era il 5 ottobre 2012, ma il primo post risale all’8 ottobre) come un esperimento. La sua inaugurazione seguiva di quasi un anno la pubblicazione di una trilogia di post (qui, qui e qui) dedicata all’analisi di Facebook come strumento di controllo sociale e come struttura totalizzante e alienante, con accenni indiretti alla filosofia anarcocapitalista che lo sostiene dal punto di vista economico e politico.

    Dato che la posizione rispetto a quello strumento era netta e di forte critica dalle pagine di questo blog (che all’epoca portava il nome di Cultura! Libertà!), l’apertura della pagina suscitò ilarità, non senza qualche bonaria disapprovazione. Per rimediare, il campo “informazioni relative alla pagina” fu aggiornato per spiegare che «questo è un esperimento» e che l’obiettivo posto era quello di «fare rete, costruire una comunità intorno alle discussioni sui temi proposti, liberare con il sapere critico i fatti e le idee che li imbrigliano». Era un tentativo, quindi, di fare breccia nelle maglie del gigante scardinandone la logica assoggettante, il ruolo sociale e la struttura che, come riportato all’inizio della presentazione, «lo rendono un mezzo intrinsecamente inadatto alla costruzione critica del sapere». A diciotto mesi di distanza è possibile affermare che l’esperimento non è riuscito, per mancato raggiungimento degli obiettivi e per alcune esternalità negative che ha collateralmente prodotto, discusse in seguito.

    Dati alla mano, l’incremento di interazioni di stampo tipicamente facebookiano (condivisioni “pure” e “mi piace”) non ha prodotto un parallelo incremento di interazioni più adatte alla liberazione di quel «sapere critico», come potrebbero essere i commenti (con i dovuti accorgimenti sulla reale funzione di indicatore di partecipazione costruttiva). Dopo un fisiologico boom iniziale, durato qualche giorno, la pagina ha visto un calo di visite e di partecipazione talmente brusco da portare a chiedersi, già dopo appena una settimana, se avesse senso continuare a tenerla in vita. Lo stesso dubbio si ripresentò dopo poco più di tre mesi dall’inaugurazione della pagina. Una settimana o tre mesi sono effettivamente periodi di breve durata, specialmente se si tratta del raggiungimento di propositi tanto ambiziosi.

    Schermata 2014-04-05 a 03.14.39Schermata 2014-04-04 a 23.58.41Schermata 2014-04-05 a 01.14.43

    Per ovviare a tale problema, in perfetto stile riformista l’obiettivo a lungo termine fu momentaneamente abbandonato per insistere su una serie di strategie il cui scopo sarebbe stato aumentare il livello di partecipazione a carattere propriamente facebookiano (numero di “mi piace” ricevuti dalla pagina, numero di “mi piace” o condivisioni dei singoli post) ovvero irrilevanti per l’obiettivo a lungo termine, nella speranza che l’incremento della platea avrebbe prodotto in seguito, per semplici motivi statistici, un incremento di partecipazione attiva, di elaborazione e condivisione di idee, di discussione critica.

    Così cominciò il periodo delle citazioni, con ritmi di diverse al giorno, in modo da saturare il traffico diretto alla pagina senza renderla produttore indesiderato di informazioni e notifiche. Molte citazioni piacevano (o meglio, erano “mipiaciute”) ed erano condivise, portando di tanto in tanto manciate di nuovi lettori che, cliccando “mi piace” sulla pagina, decidevano di tenersi aggiornati.

    Tuttavia, seppure l’obiettivo ultimo fosse temporaneamente passato in secondo piano rispetto alle incombenze presenti, rimaneva comunque chiaro che non era una pagina di citazioni che si voleva costruire. Alle citazioni si sostituirono piccole rassegne stampa selettive accompagnate da commenti critici che permettessero di mettere in luce particolari aspetti generalmente trascurati da chi legge una notizia. Il numero di “mi piace” cresceva lentamente ma costantemente, ogni nuovo lettore era terra conquistata.

    Fin qui il racconto mette in luce una cosa interessante: che per vivere e prosperare dentro una struttura non puoi che essere riformista. Anche ad un livello così banale, poco serio e stupido (ma ditelo a chi ci guadagna miliardi) come Facebook, la volontà di crescere al suo interno ha comportato inevitabilmente la rinuncia ad obiettivi primari, trasformandoli in obiettivi “a lungo termine”, e la loro sostituzione con obiettivi immediati che siano conformi alla struttura generale del dispositivo. Inoltre, e ho volontariamente marcato questo anche nel linguaggio dei precedenti paragrafi, con la concezione della pagina Facebook è cambiato anche il modo di gestirla: i contenuti del “produttore di informazioni e notifiche” che è la pagina sono stati rivolti ad una “platea” per aumentare il “traffico”. C’è stato uno spostamento, almeno inizialmente non conscio, dalla riflessione allo spettacolo, dal pensiero all’intrattenimento, dalla partecipazione attiva all’assorbimento passivo. C’è stato uno scivolamento pericoloso dal dissenso al consumo di dissenso.

    La quantità di contenuti, in virtù della necessità di tenere alto il traffico nella speranza di accrescere il pubblico di lettori (diventati spettatori), è stata spesso mantenuta artificialmente alta attraverso la pubblicazione di immagini, grafici e articoli, e le analisi più o meno approfondite che inizialmente li accompagnavano si sono sempre più ridotte fino a diventare brevi commenti o addirittura sparire del tutto, perché la mancanza di partecipazione critica non invita alla produzione di analisi. Questo ha trasformato la pagina in poco più che un aggregatore di notizie, lontanissimo da ciò che inizialmente ambiva ad essere.

    In aggiunta a questi problemi tutti interni alla struttura del dispositivo, si può menzionare almeno un’esternalità negativa. Il tempo e le energie spesi nella gestione della pagina Facebook dedicata al blog hanno paradossalmente provocato un calo di attività sul blog stesso. Ciò può essere ricondotto ad almeno due ragioni a cui qui e ora si farà riferimento come “spostamento del baricentro” e “canalizzazione alternativa”.

    Lo spostamento del baricentro è il cambiamento dello spazio di aggregazione dei lettori: se il fulcro dell’attività di dibattito tra i lettori prima era il blog, ora tale ruolo (seppur in un’altra forma, non di dibattito ma di notifica) è stato assunto indubitabilmente dalla pagina Facebook. Nei primi tempi ogni post era accompagnato dall’invito a commentare, eventualmente, sul blog (abitudine persa quando è stato evidente dai dati che un numero infimo di visite al blog proveniva dalla pagina Facebook producendo commenti in calce ai post sul blog) e tuttora la presentazione recita «non sarà esattamente un trasloco: semplicemente, gli articoli verranno inseriti anche in questa pagina, contestualmente alla loro pubblicazione, ma mantenendo una propria esistenza a prescindere da Facebook». Dal punto di vista informatico è ancora così, ma ciò che socialmente è avvenuto è un chiaro spostamento.

    Per canalizzazione alternativa si intende qui la tendenza ad investire tempo ed energie per la gestione della pagina Facebook sottraendone alla gestione del blog (con conseguente dirottamento anche degli obiettivi). Pare che questo fenomeno abbia un carattere generale: dove si assiste ad una crescita nell’uso dei social network, si osserva anche un calo nell’attività dei blog. Il motivo è semplice: i social network semplicemente distraggono.

    Queste due ragioni si alimentano reciprocamente: se il fulcro dei lettori si sposta contribuendo alla canalizzazione alternativa delle energie e della creatività, chi scrive avrà sempre meno motivi (meno commenti, meno dibattiti, meno stimoli e spunti di riflessione) per occuparsi di un fulcro abbandonato, e ciò costituirà per i lettori un motivo in più per abbandonarlo del tutto.

    Alla fine di questa lunga riflessione, ci si potrebe chiedere se non sia forse io, in realtà, semplicemente incapace di gestire questo particolare canale di espressione, questo potenziale veicolo di pensiero critico che è Facebook, e se non proietti forse la mia incapacità su Facebook accusandolo ingiustamente.

    Non è ovviamente da escludere, ma per il momento la mia opinione resta quella di tre anni fa: la natura di Facebook è alienante, totalizzante, antirivoluzionaria (non è questo il momento di spiegare in dettaglio ogni singolo attributo), la sua struttura è strumento di inevitabile controllo e di possibile repressione, rimane «un mezzo intrinsecamente inadatto alla costruzione critica del sapere».

    In che modo un “mi piace” apre la mente, produce e libera sapere critico?
    Chiudo questa pagina Facebook perché Facebook chiude.

  • Contro il consumo di dissenso

    Tutta la vita delle società nelle quali regnano le condizioni moderne di produzione si annuncia come un cumulo immenso di spettacoli. […] Nello spettacolo, immagine dell’economia imperante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole riuscire a nient’altro che a se stesso.

    Guy Debord, La società dello spettacolo

    Ho smesso anni fa di guardare la televisione. Le uniche trasmissioni che mi sembravano interessanti erano quelle di satira o quelle di inchiesta. Ogni tanto mi capitava di seguire dei dibattiti televisivi, ormai comunemente chiamati con l’espressione, in realtà non sinonima ma forse più azzeccata, di talk show: letteralmente, lo “spettacolo della conversazione”. Certe volte, scremavo il palinsesto selezionando qualche intervista, di quelle a quattr’occhi: un numero di intervistati già superiore a uno aumentava esponenzialmente la possibilità che l’intervista si trasformasse in una rissa come quelle dei cosiddetti talk show, in cui non si capiva una parola che fosse una, mancavano gravemente frasi di senso compiuto che esprimessero concetti elaborati dall’inizio alla fine e di “conversazione” non c’era traccia. In effetti, anche il formato dell’intervista singola, sicuramente comodo e per lo spettatore perché facile da seguire per la sua linearità e la mancanza di continue interruzioni, poteva rivelarsi fin troppo comodo per l’intervistato, qualora quest’ultimo si fosse preventivamente accordato con l’intervistatore sulle domande, al fine di eliminare il rischio di imbarazzanti e fastidiosi incidenti di percorso poco convenienti per l’immagine e il prestigio (se esistente). Sempre, ovviamente, che non fosse l’intervistatore ad autocensurarsi, per puro autocompiacimento o suo naturale servilismo.

    Dicevo, guardavo programmi di satira e di inchiesta. Poi, a un certo punto, mi sono reso conto di quanto fosse una perdita di tempo. Report, Presa diretta, Servizio pubblico, mettiamoci addirittura pure Le Iene (ahahah, Le Iene!), e tutte quelle altre trasmissioni dello stesso genere (di cui davvero non saprei fare i nomi, perché, come già spiegato, non guardo la televisione) hanno una funzione sociale che non è fare inchiesta, ma dire al pubblico ciò che vuole sentirsi dire. E ciò che il pubblico vuole sentirsi dire è esattamente ciò che queste trasmissioni gli hanno insegnato a volersi sentir dire.

    Di che parlano stasera? Dell’omicidio di Aldrovandi? Si saranno affrettati a precisare che si tratta di mele marce e non di parte integrante e fisiologica di un sistema poliziesco, penitenziario e giudiziario marcio fino al midollo, perché ci sono tanti esponenti delle forze dell’ordine in cui dobbiamo riporre la nostra fiducia e che fanno bene il proprio lavoro, anche quando il lavoro fatto bene consiste nel manganellare chi non è d’accordo con l’ultima decisione del governo. Dell’ostentazione di ricchezza da parte dell’alta borghesia italiana? Si premureranno di evitare una qualunque analisi economica e sociologica di classe, parlando di ricchezza come se questa piovesse spontaneamente dal cielo e astenendosi dall’affrontare la questione da un punto di vista strutturale, assicurandosi di non mettere al repentaglio il potere nemmeno sfiorandolo con le parole.

    Queste trasmissioni mostrano immagini, raccontano storie e dicono cose che fanno audience, perché si sono ritagliati un pubblico mirato, la loro fetta di mercato dell’informazione, accontentando i bassi istinti di masse pronte a indignarsi davanti allo schermo e stando ben attente a scongiurare la possibilità che queste non si indignino nella vita reale, quando lo schermo è spento. Una sublimazione, come i “due minuti d’odio” in 1984 di George Orwell: quando i due minuti si concludono, la dose quotidiana di rabbia e indignazione è già stata provata, assunta come una droga. Perché affidare al caso il momento del prossimo moto di indignazione quando possiamo avere la certezza che domani, alla prossima sessione dei due minuti d’odio, ne assumeremo la nostra dose quotidiana? In questo modo i sentimenti, ivi compresi rabbia e indignazione, sono sottoposti ad un controllo sociale. Tutto è scandito temporalmente. Tutto è ordinato. Non è ammessa indignazione che superi i limiti della poltrona davanti allo schermo.

    Questa fetta di mercato è mercato di consumo e questo consumo è consumo di dissenso. I consumatori sono il pubblico, un pubblico che guarda le trasmissioni e che quasi gode di indignarsi: i più incalliti non se ne perdono una puntata e non aspettano altro, per tutta la settimana, che il grande momento in cui potranno sentirsi cittadini attivi e informati per il solo fatto di sapersi indignare a comando.

    Qualcuno potrebbe chiedersi se non è la stessa cosa leggere le notizie o le inchieste sui giornali: del resto, se uno si indigna può indignarsi allo stesso modo davanti allo schermo del televisore come davanti a una pagina di giornale e quello che succede dopo dipende dall’indignato. In una certa misura questo è vero, con alcune differenze rilevanti.

    Prima di tutto, la televisione è il mezzo della spettacolarizzazione per eccellenza. Il pubblico sa in anticipo che a una certa ora di un certo giorno andrà in onda una certa trasmissione, tutti si riuniscono sapendo che si indigneranno. In generale, tale desiderio di indignazione sarà soddisfatto molto più efficacemente da un’inchiesta televisiva incalzante accompagnata da una colonna sonora che trasporti emotivamente lo spettatore, per consentirgli di godere al meglio della scossa civica che lo pervade. Difficilmente un articolo giornalistico possiede questa capacità e questa immediatezza.

    In secondo luogo, questi programmi fanno ormai parte, come accennato poco sopra, di un vero e proprio mercato di consumo del dissenso: alimentare il consumo di dissenso è la loro ragion d’essere e la loro funzione sociale, molto più che la comunicazione di informazioni in sé. Questo è vero anche per i giornali, ma consultare le notizie, specialmente online, da la possibilità di approfondire e confrontare senza accettare passivamente un singolo punto di vista calato dall’alto, nonché di guardare notizie scelte da me e non da qualcun altro con il semplice scopo di fare audience.

    Quindi, siccome il giorno dopo non succede mai un cazzo, per me guardare questo tipo di trasmissioni è una perdita di tempo, perché a me non va di indignarmi e avere il sangue amaro per due ore o anche più a lungo. In fin dei conti, che senso ha indignarsi e basta? Non faccio meglio io che non guardo e salto i due minuti d’odio? In 1984 era Winston, che li disertava, il vero dissidente.

  • Il disimpegno francese sul TAV visto da La Repubblica

    Articoli correlati: Gli operai Alcoa visti da La Repubblica, Gli studenti di Verdi15 visti da La Repubblica

    Chi ieri pomeriggio ha aperto la prima pagina del sito de La Repubblica ha trovato a grandi lettere il titolo

    verticetav

    da cui si evince una volontà politica di entrambi i governi francese e italiano di confermare l’impegno nel progetto di costruzione della linea TAV.
    Tralasciando l’inaccuratezza dell’informazione data (visto che non si è trattato di un vertice specifico sulla questione TAV, come potrebbe sembrare da un titolo come quello proposto nonché dall’organizzazione dei contenuti dell’articolo, che la mette esageratamente in risalto rispetto al resto degli argomenti discussi da Letta e Hollande), cerchiamo di capire in che misura si può parlare di TAV come «priorità per entrambi i governi» italiano e francese.

    Dalla lettura dell’articolo emerge un solo dato in merito alle misure che i due governi intendono adottare in collaborazione, e dunque in merito ai contenuti di tale vertice spacciato per vertice TAV. E tale dato è: “…da Italia e Francia è stato confermato l’impegno ad adottare il prima possibile le misure necessarie per ottenere il cofinanziamento comunitario. Partendo, nel 2014, dalla presentazione alla Commissione europea di una domanda congiunta per avere il massimo sostegno finanziario nel periodo 2014-2020 (finanziamenti già in parte promessi da Bruxelles lo scorso 17 ottobre)”.

    A parte le richieste di finanziamenti all’UE da sostenere congiuntamente, non si parla di reali finanziamenti.

    E infatti Hollande, appena qualche mese fa, ha rinviato di 15 anni quella che secondo i giornali nostrani sarebbe una “priorità”: dal punto di vista politico, per Hollande significa lavarsene le mani, ovvero ammettere la mancanza di volontà politica di occuparsi del progetto e quindi di sostenerlo.

    In conclusione La Repubblica è riuscita a trasformare l’intenzione di una domanda congiunta di finanziamenti in parte promessi in impegno concreto, addirittura “prioritario”, del governo Hollande sulla questione TAV, ignorando deliberatamente che sul fronte francese il governo ha rinviato il progetto.
    Il titolo dell’articolo non è falso, ma di certo fuorviante, e tale ambiguità è data sia dall’omissione di un dato importante, sia dal peso dato al fatto che Hollande e Letta dicano di essere d’accordo, a prescindere da ciò che poi realmente fanno.

    Il motivo per cui tale scelta editoriale è stata operata è banale: ieri a Roma, durante il vertice Letta-Hollande, c’era un presidio cui hanno aderito i movimenti per il diritto alla casa e al reddito, nonché il movimento NoTAV. Occorreva criminalizzare il dissenso, e quale strategia adottare se non il richiamo al movimento NoTAV e a tutto ciò che ormai esso evoca nel lettore infarcito di narrazioni tossiche, quali violenza, estremismo, terrorismo? Definire il vertice come prevalentemente accentrato sulla questione TAV era necessario ad innescare il frame dominante e a richiamare tutta una sfera semantica che automaticamente le è associata: citare il TAV era necessario per rimandare alla contrapposizione con il movimento NoTAV.

    Ma la trappola editoriale de La Repubblica non è l’unica messa in moto ieri: è stata tesa anche una trappola di altra natura, in via Giubbonari a Roma.
    Infatti, dal presidio a Campo de Fiori si è staccato un corteo che è stato circondato dalla celere, in assetto antisommossa. La polizia ha anche bloccato tutte le possibili vie di uscita dalla piazza, trasformando il flusso di persone verso le vie laterali in una calca senza la possibilità di indietreggiare né avanzare, che è stata prontamente caricata. Una tale gestione della situazione non può che essere definita una provocazione: non si può pretendere di schierare la celere, circondare i manifestanti, bloccare ogni uscita per poi stupirsi se si verificano scontri. Lo scontro è voluto, cercato, progettato ad hoc da chi gestisce in questa maniera l’ordine pubblico (cosa a cui, tra l’altro, il dissenso non dovrebbe essere ridotto). Inoltre, è facile cercare lo scontro quando si è bardati, protetti, addestrati ed equipaggiati militarmente.

    Insomma, complimenti a La Repubblica e complimenti alla questura di Roma.

    EDIT:

    Qui un video per chiarire ancora meglio chi cercava lo scontro ieri a Roma.

  • La tristemente diffusa opinione sugli insegnanti come lavoratori privilegiati

    Post correlati: Il popolino del web 3, Sarà che sono un pippaiolo

    «Più sfruttamento, meno lamento»: può essere considerato sia un’incitazione, come si vedrà, sia un’amara descrizione della realtà.
    Due giorni fa, Gianni Riotta ha avuto la brillante idea di chiedere pubblicamente: «I professori dicono di non poter lavorare un’ora in più al giorno. Secondo voi hanno ragione o torto?». Lasciando da parte, nonostante la grave distorsione della sostanza dei fatti, la parzialità e l’incompletezza della domanda posta (giacché non dice che queste ore di lavoro sarebbero prestate senza un corrispettivo aumento della retribuzione, né che i professori protestano per tale gratuità e non strettamente per il carico di lavoro, né che si sta riferendo ai docenti di scuole elementari, medie e superiori e non quelli universitari), che possiamo giustificare tirando per i capelli la necessità di sintesi, visto che ci troviamo su Twitter dove il massimo è 140 caratteri, trascurando, dicevo, questa pecca nella formulazione della domanda, c’è anche un altro elemento molto importante: Gianni Riotta chiede di parlare di un argomento serio a una platea (circa 80 mila persone ricevono automaticamente i suoi messaggi e chiunque in rete può leggerli) che difficilmente sa essere seria. Si tratta di una platea particolare, che si sente obbligata a commentare e dire la propria, anche quando a voce non saprebbe cosa dire (c’è chi l’ha chiamata psicologia della stronzata), ed ecco che risponde pappagallescamente con luoghi comuni e con disgustose opinioni ottenute acriticamente per sentito dire.

    Riporto di seguito alcune delle risposte ottenute dal “popolo della rete”, quello che secondo la Repubblica, il Corriere della Sera e Beppe Grillo (to’ che strana accoppiata) è informato, attivo, consapevole, critico, non dimentica e fa esplodere la rabbia sul web e dilagare il tam tam su internet.


     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    La cosa più triste è che molte di queste persone si dichiarano “di sinistra”, o almeno, così pare da ciò che pubblicano e condividono sui loro profili, dagli argomenti cui si interessano, dai canali con cui sono in contatto. Questo dovrebbe bastare a mostrare come lo spirito critico abbia abbandonato tutte le teste, tanto a destra quanto nella cosiddetta sinistra, al tempo del pensiero unico.

    Da tutti questi commentori, di cui quelli mostrati sono una piccolissima porzione, ne emerge uno specifico che mi ha colpito particolarmente e da cui deriva un’altra amarissima conclusione.
    Il personaggio risponde alla domanda di Riotta:

     

     

     

     

     

    Di fronte a cotanta superficialità, io non posso che rispondergli di informarsi meglio prima di sputare sentenze, perché il suo commento si basa su due assunzioni: la prima è che si stia parlando di una protesta per l’aumento delle ore, cosa non esattamente vera, la seconda richiama l’opinione diffusa che i professori siano una categoria lavorativa privilegiata, che lavora pochissimo e con stipendi d’oro.
    Ecco cosa risponde quando faccio notare l’erroneità delle prima assunzione:

     

     

     

     

     

    Ed ecco come reagisce invece al secondo appunto, quando osservo perentorio che «evidentemente il luogo comune degli insegnanti che non fanno nulla durante l’anno e un cazzo durante le vacanze ha fatto proseliti»:

     

     

     

     

     

    Bene, a questo punto uno si dice: tutte queste persone stanno parlando di cose che non conoscono, riferiscono per sentito dire, si mettono in coda tra le fila di quella buona parte della società che bistratta gli insegnanti non riconoscendone l’importantissimo ruolo sociale; che li considera dei fannulloni, senza sapere che le 18 ore che saranno aumentate a 24 settimanali sono solo nominali, che in queste ore non sono comprese né pagate quelle a casa per correggere i compiti e preparare la lezione, né i consigli di classe, i collegi dei docenti, gli scrutini, i ricevimenti, le ore di servizio volontario per coprire supplenze e buche, le ore di disponibilità durante mensa e intervallo; che si tratta dei lavoratori laureati che guadagnano meno, che avanzano solo per anzianità e restano comunque pagati poco fino a fine carriera; che le 18 o 24 ore di cattedra non sono affatto leggere ma si svolgono in classi pollaio affollate oltre i limiti consentiti dalle norme di sicurezza e in edifici il più delle volte fatiscenti e pericolosi, non costruiti secondo le norme antisismiche e di sicurezza generale; che altro che «devono stare seduti ad insegnare e basta», qua si tratta di formare persone, non macchine tutte uguali, perché l’educazione, tanto meno è diversificata, tanto più è indottrinamento.

     

     

     

     

     

    Uno, dicevo, quando legge certi commenti pensa tra sé queste cose: stanno parlando così perché non sanno cosa significa lavorare in quelle condizioni, in situazioni di sfruttamento in cui praticamente la maggior parte del lavoro non viene retribuito e in cui, di conseguenza, un’ulteriore aggiunta di 6 ore settimanali gratuite non è che l’ennesima vessazione ed elemento di sfruttamento. Invece no. Ad un altro commentatore che gli rimproverava di «parlare senza sapere un cazzo», il nostro risponde:

     

     

     

     

     

    Quindi lo sa. Lo sa! È sfruttato e chiede di essere ancora più sfruttato, condannando le lamentele e le proteste contro lo sfruttamento. Chissà in giro quanti ce n’è come lui.

     

     

     

     

     

    E così si chiude una triste finestra sul panorama del “popolo della rete”.

  • Critica della tolleranza

    «La distanza di sicurezza tra pensiero repressivo e azione repressiva si è pericolosamente accorciata» Herbert Marcuse, Critica della tolleranza

    Quando si legge un libro ben scritto, di frequente ci si imbatte in semplici frasi o in più complesse manifestazioni del pensiero in grado di esprimere l’universale, lo spirito del tempo, quella sensazione che tutti avvertono ma che solo gli scrittori coraggiosi osano mettere nero su bianco.

    Questo tipo di affermazioni è quello comunemente noto come aforisma, cioè una breve successione di parole che nella sua brevità riesce a cogliere la profondità del tutto, la sua densità e il suo significato: è una successione di simboli, i quali non sono intrinsecamente importanti, ma importante è la funzione che esplicano, quella di veicolare messaggi.

    Le parole sono importanti, diceva qualcuno, perché esse sono il mezzo per raggiungere il significato, diceva qualcun altro; non solo questo, ma anche: le parole sfidano la realtà e possono precederla e nutrirla, giacché per noi la realtà non è che una percezione, e avere coscienza di un pezzo di realtà e parole per descriverlo significa astrarre, distruggere e dividere la realtà stessa. Per questo il linguaggio è strumento potenzialmente rivoluzionario: distrugge e crea. Imponendo il linguaggio si impone una visione della realtà: lo sanno (o forse semplicemente lo fanno) bene i giornalisti, i politici, i tecnocrati del XXI secolo. Ma lo sapeva altrettanto bene Herbert Marcuse.

    La sua invettiva di neanche cinquanta pagine Critica della tolleranza meriterebbe quasi tutta d’esser citata: praticamente è un unico lungo aforisma, che sfidando la realtà permette di riconoscerla, illuminando il lettore, come un grande pensatore sa fare.

    La tolleranza che Marcuse critica è la tolleranza pura o astratta, quella senza eccezioni e condizioni, o come si direbbe oggi “senza se e senza ma”: una tolleranza siffatta «trattiene dal prender posizione, ma nel far così attualmente protegge il meccanismo già stabilito della discriminazione». Tanti sono gli esempi quotidiani del fenomeno in questione, da quelli che non sono “né di destra né di sinistra” a quelli che non sono “né razzisti né antirazzisti”. Le posizioni di costoro sono, come si rifletteva per il grillismo, «passive, deboli, in realtà non-posizioni che derivano direttamente dall’omologazione e dalla rassicurazione che dà l’imitazione di opinioni dominanti». Per dirla con Gramsci, «L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera». Si è anche parlato spesso, su questo blog, di come la pretesa velleitaria di porsi “oltre le ideologie” sia in effetti essa stessa un’ideologia o un prodotto ideologico.

    La tolleranza che ingrandì la portata e il contenuto della libertà fu sempre partigiana, intollerante verso i protagonisti dello status quo repressivo. La tolleranza necessaria per un processo di liberazione «non può essere indiscriminata ed eguale nei contenuti, non può proteggere le parole false e i fatti sbagliati che dimostrano che essi contraddicono e vanno contro alle possibilità di liberazione. Tale tolleranza indiscriminata è giustificata nei dibattiti innocui, nella conversazione, nella discussione accademica; ma la società non può esser priva di discriminazioni dove la pacificazione dell’esistenza, la libertà e la felicità stesse sono in pericolo: qui, alcune cose non possono venir dette, alcune idee non possono venir espresse, alcune politiche non possono esser proposte, alcuni comportamenti non possono esser permessi senza fare della tolleranza uno strumento per la continuazione della schiavitù».

    La democrazia totalitaria non teme la libertà di parola e di pensiero: «l’opposizione e il dissenso sono tollerati a meno che essi non sfocino nella violenza e/o nell’esortazione e nell’organizzazione della sovversione violenta. La supposizione sottesa è che la società stabilita è libera e che ogni miglioramento accadrebbe nel normale corso degli eventi, preparato, definito e collaudato nella discussione libera ed eguale, sull’aperta piazza del mercato delle idee». Le premesse nascoste in questa supposizione sono «l’espressione e sviluppo di pensiero indipendente, libero dall’indottrinamento, dalla manipolazione, dall’autorità esterna», ed essendo che esse non si verificano, «qualunque miglioramento posa succedere nel normale corso degli eventi e senza sovversione è probabile che sia un miglioramento nella direzione determinata dagli interessi particolari che controllano il tutto».

    Il motivo per cui la democrazia totalitaria non ha bisogno di un’ampia censura è che le parole e i pensieri potenzialmente rivoluzionari sono censurati a monte, nella mente degli individui, da una capillare opera di indottrinamento che comincia nell’infanzia (Marcuse nota come i liberali, storicamente paladini dell’idea di tolleranza, la ritenessero applicabile, parola di John Stuart Mill, «soltanto agli esseri umani nella maturità delle proprie facoltà», indirettamente rendendo accettabile l’indottrinamento).

    Perché avvenga piuttosto il contrario, è necessario che le persone siano «capaci di decidere e di scegliere sulla base delle proprie conoscenze, con accesso alle fonti autentiche dell’informazione, perché la loro valutazione sia il risultato d’un pensiero autonomo. […] Ma con la concentrazione del potere politico ed economico e l’integrazione degli opposti in una società che usa la tecnologia come strumento di dominio, il dissenso effettivo è bloccato laddove potrebbe liberamente emergere: nella formazione dell’opinione, nell’informazione e nella comunicazione. Sotto la guida dei mezzi monopolistici viene creata una mentalità per la quale giusto e sbagliato, vero e falso sono predefiniti ovunque concernono gli interessi vitali della società».

    «Il significato delle parole è rigidamente stabilito. Parole diverse possono esser dette e ascoltate, ma, sulla scala di massa, esse vengono immediatamente valutate nei termini del linguaggio pubblico, un linguaggio che determina a priori la direzione in cui si muove il ragionamento logico». Anche qui gli esempi non mancano: quante volte si assiste a dei veri e propri corti circuiti quando si parla di “anarchia”, “uguaglianza”, “rivoluzione”?

    L’imparzialità è innegabilmente uno strumento indispensabile per prendere delle decisioni nel processo democratico, ma nella democrazia totalitaria l’obiettività svolge un’altra funzione: «incoraggiare un’attitudine mentale che tenda a scoraggiare la differenza tra vero e falso, informazione e indottrinamento, giusto e sbagliato. Infatti, la decisione tra opinioni opposte è già stata presa prima che la presentazione e la discussione fossero iniziate».

    Per finire (altrimenti mi faccio prendere la mano e cito davvero tutta l’opera), per Marcuse il discorso sulla tolleranza porta a riesaminare la distinzione tradizionale tra azione violenta e azione non-violenta. Anche nelle civili società occidentali, la violenza è quotidiana: «è praticata dalla polizia, nelle prigioni e negli istituti per malati di mente, nella lotta contro le minoranze razziali, è portata fino nei paesi arretrati. Ma trattenersi dalla violenza di fronte alla violenza immensamente superiore è una cosa, rinunciare a priori a rispondere colla violenza alla violenza, in campo etico o in quello psicologico è un’altra. […] In termini di etica, ambedue le forme di violenza [rivoluzionaria e reazionaria] sono inumane e dannose –ma da quando in qua la storia è fatta in accordo alle norme etiche?– Cominciare ad applicarle laddove i ribelli oppressi lottano contro gli oppressori, quelli che non hanno niente contro i possidenti, è servire la causa della violenza reale».

    «Se quelli che soffrono a causa di questa legge e di quest’ordine e lottano contro di esso usano violenza, non dànno inizio a una catena di violenze ma cercano di spezzare quella stabilita. Da quando verranno puniti conosceranno il rischio, e quando lo corrono volontariamente, nessuna terza persona, e ultimi di tutti l’educatore e l’intellettuale, ha il diritto di predicar loro che se ne astengano».

  • Sarà che sono un pippaiolo

    post correlati: Il popolino del web 3

    Scrive Eveblissett (sul suo blog) che «di solito in circostanze drammatiche il non sapere che dire è una reazione quasi normale, umana. Nella socialvetrina, invece, il non sapere che dire è vietato, diventa un fallimento, una sconfitta per l’ego. E quindi, si dice e l’importante è che qualcosa si dica, anche se è una stronzata».

    Tutto questo mi ricorda qualcosa. Premesso che io non sono un frequentatore di Twitter di lunga durata, perché è da appena un anno che ho aperto un profilo presso il più diffuso servizio di microblogging, e dunque non ho avuto l’occasione di conoscerlo quando era ancora un ambiente virtuale “di nicchia” con certe prerogative che lo rendevano appetibile come strumento di comunicazione e di informazione da parte dei movimenti, riconosco che qualcosa nell’ultimo anno è cambiato: già poco tempo dopo la mia iscrizione si erano verificati degli eventi che, a chi li sapesse leggere opportunamente, lasciavano presagire cambiamenti significativi.

    Il primo evento precisamente collocabile (nonostante alcuni indizi fossero rilevabili anche da prima) risale al 14 novembre 2011: a partire da quella data, Fiorello dagli schermi televisivi lancia davanti a milioni di telespettatori (uno share bulgaro, intorno al 40%) la sua trasmissione dal titolo proposto sotto forma di hashtag #ilpiùgrandespettacolodopoilweekend. L’effetto immediato è analogo a quello sperimentato negli Stati Uniti in precedenza: molti personaggi famosi aprono un profilo su Twitter, seguiti inevitabilmente ciascuno dai propri fan.

    Le ricerche su Google della parola Twitter hanno un picco in corrispondenza dello show di Fiorello

    Come riporta questa analisi sulla crescita di Twitter nella cybersfera italiana, ciò ha comportato non solo un incremento nel numero utenti, ma anche nel numero di tweet giornalieri (pare che l’Italia sia il paese in cui, in relazione al numero di utenti, ne vengono scambiati di più al secondo), nel tipo di trending topic (che ora riflettono gli interessi di un pubblico più vasto) e, secondo me, anche nel linguaggio e nel’utilizzo del social network. Infatti, un tale aumento numero di tweet non è un semplice incremento di attività, ma un sintomo di cambiamento nell’uso dello strumento: personalmente, ho idea che l’effetto Fiorello abbia condotto molti utenti di Facebook a iscriversi a Twitter mantenendo le abitudini che avevano e continuando a esprimersi come nell’altro social network, ignari del fatto che, per una lunga serie di motivi, le due cose sono concettualmente diverse.

    E così, dopo sole due settimane dalla propagazione virale dell’amore viscerale per Twitter, Wu Ming si ritirava dal campo con le mani ai capelli, non senza prima aver fatto una buona analisi e autocritica sul fenomeno, in seguito a violente reazioni di indignazione da parte di questo nuovo “popolo di Twitter” in risposta al loro rifiuto di partecipare alla Colletta alimentare organizzata da Comunione e Liberazione.

    Poi è stata la volta del movimento NoTav. Il “popolo di Twitter” ha trasformato l’appellativo di «pecorella» rivolto a un carabiniere da parte di un manifestante come pretesto per screditare il movimento e additarlo come violento. Grazie a questo tipo di ragionamenti fatti au trou du cul (per dirlo con un francesismo) il potere abbassa l’asticella che segna il limite di tollerabilità di azioni e pensieri, ed è l’unico a guadagnarci veramente.

    Poi è venuto il 25 aprile, ed è nato l’hashtag #liberocommercio in supporto alla decisione del governo di permettere l’apertura dei negozi anche in occasione del giorno della Liberazione. Ho intrattenuto personalmente uno scambio di battute con alcuni dei sostenitori, chiedendo loro in che modo un lavoratore dipendente da qualche datore che avesse deciso di tenere aperto potesse partecipare alle celebrazioni della giornata senza prendersi delle ferie. Mi è stato risposto che solo i fascisti obbligavano i negozi a restar chiusi e che «il dipendente ha scelto di essere dipendente. Proprio per questo dipende dalle decisioni di qualcun altro. Fine». Ora, mi pare evidente che simili stronzate sono dicibili solo in un ambiente in cui si scrivono luoghi comuni e frasi fatte a palate.

    Il manifstante mentre si rivolge al carabiniere

    Per non parlare di #bloccare2giugno, un hashtag che non ho seguito ma che a quanto pare è stato inquinato abbastanza da suscitare il fastidio e il disgusto di diversi utenti di lunga data, tra cui Scalva, che ha deciso di abbandonare per un po’ di tempo il social network per evitare il ripetersi di spiacevoli fraintendimenti. La sua dipartita è stata salutata da un hashtag di grande successo, #occupyscalva, che è stato in classifica sotto gli occhi increduli di giornalisti e utenti che in gran parte non hanno capito un cazzo di quello che fosse successo.

    Ma insomma, con tutto questo pippone che cosa voglio dire? Che la mia previsione dicembrina si è realizzata pienamente. Tornando a Eveblissett, che lamentava il fatto che « Twitter non è più aggregatore di info ma “scazzatoio”», in riferimento sia alle polemiche sulla parata del 2 giugno sia, immagino, sullo spirito di “classe del liceo” di cui aveva già parlato in precedenza, non posso che riportarla:

    «I giornali potranno fare proclami su qual è l’ultima battuta del popolo di Twitter o su qual è stato il motivo della lite online tra Fiorello e la Guzzanti, chi è più stronzo tra i personaggi dell’ultima serie televisiva secondo il popolo della Rete, quanto il web è incazzato e indignato per la violazione delle decisioni referendarie di giugno, se preferisce Vendola o Di Pietro, se Lady Gaga o Madonna. Tutto grazie alla nuova ondata di utenti freschi che ridarà aria ai polmoni del web italiano, che stava per diventare un frame troppo trito e ritrito per essere credibile, troppo poco di moda per fare notizia. Tutto grazie al popolino del web».

    Mi scuso per i contenuti che forse risulteranno quasi incomprensibili a chi non usa Twitter (sarà che sono un pippaiolo). Ma di questo passo rischia di diventare incomprensibile anche a me che lo uso. O meglio, tristemente comprensibile, proprio come avevo previsto.

  • «Tutti gli uomini hanno due occhi»

    Immaginatevi una persona. Sì, una persona qualunque: non importa il sesso, l’etnia, le origini, il credo religioso o il colore degli capelli. Una persona qualunque, che sta lì davanti a voi e pronuncia distintamente la seguente affermazione: «Tutti gli uomini hanno due occhi».
    Saranno tutti d’accordo, innegabilmente, sul fatto che il contenuto dell’affermazione è generalmente corretto (tolta qualche rara eccezione), nel senso di aderente alla realtà dei fatti.
    Aggiungiamo ora dei dettagli alla situazione: questa persona qualunque sta correndo, e mentre corre pronuncia l’affermazione che abbiamo già avuto occasione di riportare: «Tutti gli uomini hanno due occhi». Il contenuto dell’affermazione è cambiato? No. Il suo grado di aderenza alla realtà è cambiato? No. L’affermazione si rivela, dunque, corretta a prescindere dall’azione compiuta da chi la pronuncia.
    Aggiungiamo ancora qualcosa: un contesto. Questa persona sta correndo nel bosco perché è in fuga da qualcuno, e mentre corre urla «Tutti gli uomini hanno due occhi». Cambia qualcosa nel contenuto della sua affermazione? No. Il suo grado di aderenza alla realtà è cambiato? Di nuovo no. E non sarebbe cambiato nemmeno se questa persona fosse stata inseguita non da qualcun altro ma da un rinoceronte, un unicorno o da un prodotto della sua fantasia.
    Abbiamo capito quindi qualcosa: che l’aderenza del contenuto di un’affermazione alla realtà si misura attraverso il confronto con la realtà, poco importa l’identità di chi afferma. Tanto che questa persona è una persona qualunque e ciascuno se la sarà immaginata in una maniera diversa, eppure tutti siamo d’accordo sul fatto che non si sta sbagliando quando afferma che «Tutti gli uomini hanno due occhi».
    Bene, ora sostituite la frase «Tutti gli uomini hanno due occhi» con «La TAV è un’opera inutile» e immaginate la persona qualunque come volete, seduta, che cammina, che corre, che lancia un sasso e carica la polizia o che prende manganellate e scappa dalla polizia. Il grado di aderenza della sua affermazione alla realtà dipenderà dalla realtà, non dalla violenza praticata o ricevuta. Non è la violenza che determina se il contenuto di una frase o di un’idea è vera o falsa.

    NO TAV!

  • Il feticismo dei post-it

    Dedico le mie parole a tutti coloro che hanno condannato ciecamente le violenze (ostiniamoci ad etichettarle così, almeno ci capiamo, care anime belle) dello scorso 15 ottobre rivendicando la natura pacifica della manifestazione, anche se in realtà non ho intenzione di parlare direttamente di quei fatti. Ho scelto voi come interlocutori perché ritengo che il movimento (sì, mi ostino anche ad utilizzare questa parola per esprimere qualche cosa che forse in realtà non esiste) italiano debba rivedere le sue strategie per ritrovare la vitalità e l’efficacia che aveva un tempo e che prima del 15 ottobre era riuscito ad esprimere l’ultima volta verso la fine del 2003, quando era già agonizzante: e siccome voi fate parte del movimento tanto quanto me e io credo nella forza del dialogo e nelle armi della democrazia, vi dico da pari come la penso.

    Non mi va di rifare discorsi che sono già stati fatti sulla questione violenza-nonviolenza e che hanno prodotto un’immensa mole di materiale su cui riflettere. Ai fini dell’argomento che mi accingo ad esporre è però necessario rimarcare come la violenza sia da considerarsi, senza esprimere giudizi morali, uno strumento come tanti altri: può essere lo strumento del potere che si difende, del capitale che sfrutta, della mafia che minaccia, dell’autonomo che lancia il sampietrino, e come ogni altro strumento può essere usato bene o male, da intendersi come efficacemente o meno. Per esempio, i fatti dimostrano che la violenza del 15 ottobre è stata poco efficace per il raggiungimento degli obiettivi che ci si proponeva di raggiungere (a parte quello immediato di alcuni: esprimere un disagio, lanciare un segnale di rabbia e frustrazione).

    Ma sarebbe stata efficace la strategia che auspicavano quei tanti che intendevano recarsi a Roma per esprimere coloratamente o coloritamente la loro “indignazione”? Fa davvero paura al potere un corteo di centinaia di migliaia di persone, anche di un milione di persone, se queste camminano insieme, piantano tende, intonano cori? O fa forse più paura una folla di qualche decina di persone che minaccia di chiudere il proprio conto in banca?

    A chi condanna la violenza a priori vorrei ricordare che quando la violenza l’hanno praticata in Tunisia e in Egitto andava a tutti bene, anche ai giornalisti de La Repubblica che una settimana fa invitavano alla delazione di massa di coloro che potevano aver preso parte al respingimento delle cariche della polizia in piazza San Giovanni. Ma certo, in Egitto sono sporchi e con la pelle scura, in più parlano arabo e sono musulmani, quindi la violenza la possono usare perché sono degli animali, perchè sono violenti: questo è il messaggio implicato nella morale di certa informazione perbenista. Tanto che quando, in primavera, la protesta stava migrando dal mondo arabo alla più civile Europa (prima in Croazia poi in Spagna), i giornali occidentali inizialmente hanno pensato bene di non parlarne.

    A chi si illude di cambiare le cose solo accampandosi in una piazza a oltranza, come al Cairo, ricordo che l’occupazione di piazza Tahrir è stato un evento riuscito e di grande successo, efficace e non solo simbolico, grazie a successive ondate di scioperi che hanno paralizzato l’Egitto per settimane prima e durante la lotta di piazza.

    A chi ripete meccanicamente, come un bambolotto parlante, lo slogan «no alla violenza», vorrei ricordare cos’è la nonviolenza: una pratica attiva di resistenza a leggi o decisioni che si ritengono ingiuste. In altre parole: disobbedienza civile. E vorrei ricordare sempre a costoro che Gandhi, con le cui parole si riempiono la bocca e adornano gli striscioni, in India non ha vinto standosene seduto davanti alle forze di occupazione inglese o prendendo manganellate insieme a migliaia di persone, ma boicottando il sale inglese e permettendo agli autoctoni di riappropriarsi di un bene comune da sottrarre alle grinfie dell’Impero.

    Questo quindi si deve fare: ripartire dai beni comuni, dalla loro socializzazione, dal consumo critico. Ciascuno è importante. Inutile protestare contro la finanza con indosso un paio di scarpe fabbricate da bambini bengalesi, dei jeans scoloriti a costo di compromettere la salute degli operai che li hanno raschiati, una maglietta prodotta da lavoratori cinesi sottopagati, il tutto pubblicizzato attraverso i più infimi sistemi di controllo mentale magari da aziende quotate in borsa, la borsa che tanto si critica. Vano sputare nel piatto da cui si mangia: bisogna imparare a mangiare da un altro piatto. E dopodiché, invitare altri a mangiare dal nostro.

    Sia chiaro che non sto proponendo la ricetta che ci libererà dal male, ma semplicemente un poco di coerenza e un poco di riflessione sul significato della nostra azione politica: il consumo critico è solo un modo per tirarsi fuori dal problema, ma non ancora di far parte della soluzione. Il consumo critico da solo non basta. Neanche gli scioperi da soli bastano. Le acampadas da sole non bastano. Tutti questi eventi devono essere espressione di un’unica Lotta, con la maiuscola, che le unifica tutte (io direi che è quella contro l’Ancien Régime). Senza la coscienza della necessità di tale unificazione, ogni singolo tassello sarà troppo piccolo per formare un’immagine sensata.

    Avete tutti una scelta, a questo punto: o, in virtù del vostro “pacifismo nonviolento” continuate ad aderire ad appelli online, raccolte di firme e petizioni, mandate i vostri post-it a La Repubblica e affiggete i vostri striscioni e le vostre lenzuola per far contenta L’Unità (che poi in fondo, cosa cazzo sperano di ottenere?) oppure vi inventate un altro modo di praticare la nonviolenza. Anzi: la praticate e basta, niente feticismo dei post-it.

  • La manovra di Ferragosto e la shock economy

    Da più parti e alle persone più inaspettate sento pronunciare commenti e apprezzamenti del tipo «per una volta mi trovo a dire che il Governo mi è piaciuto!» che dimostrano definitivamente quale sia la percezione della crisi nell’immaginario collettivo costruito sapientemente dietro controllo mediatico: la crisi viene percepita come se fosse un fenomeno naturale e una calamità inevitabile. Se un terremoto colpisce il territorio abruzzese o una tromba d’aria devasta la costa ionica del catanese, che colpa può averne il governo, la burocrazia o chiunque altro? Lo stesso ragionamento, grazie ai martellamenti continui del pensiero unico attraverso ogni canale di informazione, si impossessa automaticamente della mente di tanti, che di fronte a una crisi finanziaria si convincono di avere a che fare con una crisi sismica. Ma come potrebbe questo non accadere dal momento che è proprio l’inevitabilità il carattere di una crisi che tutti ci dicono piovere dall’alto?

    Bene, voglio svelarvi un segreto: la crisi non è inevitabile né imprevedibile, è connaturata al sistema economico liberista e dunque è inevitabile solo finché non si mette in discussione il sistema stesso e si parla del liberismo come se fosse lo stato di natura (eppoi certo che la crisi sembra un fenomeno naturale!). Mi sembra invece che la manovra di Ferragosto decretata dal governo non faccia altro che ribadire la sua supremazia, o meglio la sua unicità nel panorama politico, visto che l’opposizione (tre volte virgolettata) ormai non fa più neanche ridere (Bersani: «è ora che la crisi la paghi chi non l’ha mai pagata!» ma senza dire chi, perchè il Pd ha paura).

    Beatificazione del contratto di Mirafiori, liberalizzazioni (finirà come l’Argentina?) in barba allo spirito referendario (ma tanto lo sapevamo che sarebbe finita così!), festività accorpate o addossate alle domeniche per guadagnare qualche giorno di produttività nei prossimi anni (ma il turismo in Italia vive dei ponti), dal prossimo anno si lavorerà il 25 aprile e il primo maggio (ma proprio quest’ultima cosa, siamo sicuri che l’abbiano chiesta l’UE e la BCE?)

    Non voglio entrare nei dettagli, perchè so di non averne le competenze necessarie, mi piuttosto dico: tutti contenti della manovra, ma nessuno pensa alla shock economy? In tanti sono disperati ma rassegnati, perchè «tutti dovremo fare qualche sacrificio». Ma se una banca fallisce, perchè il sacrificio lo devo fare io e non chi l’ha fatta fallire? E comunque, mai sentito parlare di shock economy? Si approfitta di un disastro (le cui cause peraltro in questo caso hanno un nome e un cognome) per far passare leggi e norme che non avrebbero mai il consenso popolare; dopodiché quelle norme rimarranno in vigore, per quanto possano sostenere i difensori dell’austerity, in buona o cattiva fede. O vi risulta che le leggi antiterrorismo degli anni di piombo siano state ritirate? E le straordinarie misure di sicurezza repressive della war on terrorism? Sono ancora là. E i cittadini del New Orleans che dopo l’uragano Katrina scoprono che non avranno mai più scuole e ospedali pubblici? Si può continuare a lungo l’elenco di episodi in cui il potere ha approfittato di situazioni di crisi per approvare delle scelte che mai la popolazione accetterebbe.

    Allo stesso tempo mi chiedo se non sarebbe più socialmente giusto e più sensato ed efficace far pagare l’ICI alla Chiesa Cattolica; tassare i patrimoni sopra il milione di euro; combattere l’evasione fiscale; tagliare drasticamente le spese militari; ritirare i soldati italiani dall’Afghanistan e dalla Libia; abolire tutte le province.

    Ma questo la «losca confraternita dei borghesi produttori di profitto» (sic!) non lo farà mai.