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  • La retorica autoassolutoria sulle stragi in mare

    Di chi è la responsabilità delle innumerevoli vite umane stroncate da naufragi su barchette instabili e sovraffollate nella pericolosa traversata del Mar Mediterraneo, ormai diventato tomba di migliaia e migliaia di esseri umani?

    La Repubblica, nel suo importante ruolo di faro nell’orientamento dell’opinione pubblica nazionale, si fa carico delle necessità di esprimere il punto di vista della borghesia illuminata, ovvero tutta l’area della sinistra progressista e riformista (se ancora esiste qualcosa che così si possa definire), e alla domanda risponde senza dubbio alcuno, attraverso le parole di un Roberto Saviano secondo cui «quei morti di nessuno pesano sulle nostre coscienze», o attraverso non tanto i contenuti quanto il titolo scelto per le riflessioni di un Ilvo Diamanti, ovvero «dobbiamo avere pietà di noi». Si tratta di due esempi, ma si potrebbe continuare a lungo, citando i commenti indignati giornalisti, politici, semplici cittadini che si esprimono in rete per dire all’unisono, in un moto di indignazione, che noi dobbiamo vergognarci.

    Come per le reazioni alla recente condanna dell’Italia per i fatti della Diaz, è opportuno analizzare di quale retorica sono sintomi queste manifestazioni di indignazione e di quali valori tale retorica è veicolo nella costruzione del dibattito pubblico.

    Il leitmotiv delle reazioni di area progressista è la condivisione della colpa: «siamo tutti responsabili», «dobbiamo vergognarci», «questi morti pesano sulle nostre coscienze». Non si può notare una certa insistenza di un «noi» che, in mancanza di ulteriori specificazioni, comprende l’intera società italiana, europea o addirittura “occidentale”. Secondo questa retorica, ogni italiano deve sentirsi colpevole e responsabile per le morti che riempiono di cadaveri il Mar Mediterraneo. Un pensiero del genere non solo è non corrispondente a verità, ma è anche politicamente dannoso in quanto assume la funzione di strumento autoassolutorio: in conformità con la tradizione morale cattolica, si intende imporre un senso di colpa pervasivo che, in fondo, assolve tutti. Dal momento che, si sa, se «siamo tutti responsabili», se è colpa di tutti, non è più colpa di nessuno.

    Ma davvero questo è soltanto un prodotto della morale cattolica? La redistribuzione della colpa non ha anche una funzione politica, più o meno consapevolmente contemplata da chi si unisce al coro degli autoflagellanti? L’impressione è che i giornalisti scrivano «siamo tutti responsabili» per non dover fare i nomi dei responsabili, perché attribuendo la colpa «agli italiani» si può evitare di attribuirla a quegli italiani che responsabili sono davvero, forse per paura di inimicarsi quei lettori che hanno votato la Lega Nord perché inventasse il reato di clandestinità e la legge Bossi-Fini, o quei lettori che hanno sostenuto ciecamente forze politiche favorevoli alle espulsioni, o quei lettori (e quei partiti) che dietro le mani tese e il sorriso affabile sul volto nascondono le chiavi delle prigioni note come CIE. Invece è più facile dire che la responsabilità è di tutti, senza indagare troppo.

    La retorica autoassolutoria del «siamo tutti responsabili» funziona e bene, tanto che la usa pure Federica Mogherini, quale Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (ovvero il Ministro degli Esteri europeo) in occasione della riunione straordinaria tenutasi per discutere sulla gestione dei flussi migratori. Mogherini dice, infatti, che «la priorità è costruire un senso comune di responsabilità europea per quanto succede nel Mediterraneo». Che è un modo per dire “non è colpa mia”. Ovviamente, in quanto esponente di un partito che si erge a difesa del grande capitale, Mogherini non può certo attribuire le responsabilità a chi andrebbero attribuite. Per esempio, a quella classe dirigente americana che «è impegnata in una guerra continua nel tentativo di dominare le regioni ricche di petrolio del Medio Oriente, dell’Asia Centrale e del Nord Africa. Queste guerre hanno distrutto stati e intere comunità, con sofferenze umane indicibili, fomentato un abisso di odio e di terrore. Le classi dirigenti, i partiti politici e tutte le istituzioni ufficiali del capitalismo americano e europeo sono implicati in questo crimine storico, o perché difendono gli interessi imperialisti delle multinazionali e delle banche o per sostanziale acquiescenza» (da qui).

    Di tanto in tanto, ma ormai sempre più insistentemente, la responsabilità è attribuita agli scafisti, questi traghettatori di anime, definiti «nuovi schiavisti» «trafficanti di schiavi» secondo il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che vengono arrestati e i cui identikit finiscono in prima pagina sui maggiori quotidiani nazionali, perché è comodo trovare il capro espiatorio su cui far ricadere ogni disprezzo per ciò che avviene tra l’Africa e l’Europa. Come la precedente retorica autoassolutoria, anche questa è una strategia diversiva. Anche senza spingerci troppo lontano, è possibile rintracciare le reali cause delle stragi in mare già nella continuazione del discorso di Mogherini: «per l’Europa è impe­ra­tivo sal­vare tutti insieme delle vite umane, così come tutti insieme dob­biamo pro­teg­gere i nostri con­fini e com­bat­tere il traf­fico di esseri umani». Qualcuno dovrebbe spiegare a Mogherini (o forse lo sa già fin troppo bene) che le stragi avvengono a causa dei confini, che gli scafisti e il traffico di esseri umani non esisterebbe se “noi” non proteggessimo i “nostri” confini e che dunque non si può allo stesso tempo invocare la difesa dei confini e la necessità di prevenire le stragi. Le stragi si prevengono smettendo di “proteggere” le frontiere, abbandonando l’idea della sacralità dei confini, peraltro già sconsacrati dall’ordine neoliberista.

    In effetti, questo è chiedere troppo. Stiamo parlando di gente che scrive “noi” per riferirsi agli italiani e “nostri” per riferirsi ai confini. E quel pronome e quell’aggettivo, tanto cari ai nazionalismi, agli identitarismi e ai fascismi novecenteschi, già da soli bastano a rafforzare, piuttosto che abbandonare, la sacralità dei confini.

  • Letture da salotto

    La Corte europea dei diritti dell’uomo ha infine emesso, da Strasburgo, il verdetto riguardo ai fatti della scuola Diaz del luglio 2001 che ormai tutti conosciamo: secondo la Corte, quei fatti sono da qualificarsi come tortura e l’Italia è condannata perché il suo sistema giudiziario non comtempla un reato di tortura e di conseguenza non può punire adeguatamente i responsabili (come se li avesse mai puniti, anche solo inadeguatamente), nonché per il ritardo nell’applicazione della convenzione ONU contro la tortura. La reazione uniformemente suscitata presso le schiere della sinistra da salotto, diciamo pure l’ala progressista della politica borghese, è stata prontissima: da più parti sento dire che «dovremmo vergognarci». Sulle reti sociali è stata una giornata di continue intimazioni e inviti a vergognarsi, in cui da destra e da manca mi sono piovute come in un bombardamento incrociato sfilze di «mi vergogno di essere italiano» ed espressioni di vario disgusto masochista.

    Ma stiamo scherzando? Secondo costoro, sarei io che mi dovrei vergognare, io che, se non fosse per ovvie questioni anagrafiche, nel 2001 sarei stato a Genova, ma come vittima della trappola repressiva. Deve vergognarsi anche chi ha preso le manganellate, chi ha versato litri di sangue su pavimenti e muri di quella scuola? Dobbiamo vergognarci per la sentenza della Corte di Strasburgo? Di che cosa dovremmo vergognarci? Recita la frase stessa: «di essere italiani», perché è l’Italia ad essere condannata da quella sentenza. E quindi: nel codice penale italiano non è previsto il reato di tortura? Vergogniamoci! I poliziotti torturatori non sono stati né mai saranno condannati? Vergogniamoci! I torturatori e i loro mandanti hanno goduto di totale o parziale impunità e hanno addirittura fatto carriera nelle istituzioni? Vergogniamoci, tutti insieme, anche se noi siamo o saremmo stati le vittime. Prendiamo flagello e cilicio e andiamo a vergognarci fustigandoci davanti al tricolore, per ridare al Nostro Paese quella dignità di cui i torturatori della Diaz l’hanno privato! Vergogniamoci inginocchiati al cospetto della bandiera, ravviviamo l’italico spirito che alberga nei nostri cuori, vergogniamoci tutti insieme e non ci sentiremo più soli!

    Ecco, magari un po’ esagerando, ma in fin dei conti seppure in maniera meno estremizzata, questa è la lettura che viene data, e che traspare da quelle frasi scritte dalle schiere della sinistra da salotto. Una lettura, appunto, da salotto.

    Difficile dire se è più da salotto questa lettura oppure la patetica lamentela del presidente del PD, Matteo Orfini, che sbotta contro De Gennaro, all’epoca dei fatti capo della Polizia e oggi, dopo la nomina da parte del governo Letta, presidente di Finmeccanica: «vergognoso che De Gennaro sia presidente di Finmeccanica». Un coro di voci, per la verità poco unanime, si alza per sollevare dubbi sull’opportunità di tale carica. Oggi. Perché la Corte di Strasburgo qualifica i fatti della Diaz come tortura. Fino a ieri, invece, niente di grave: il sangue ovunque, le minacce e le mangenellate, i crani aperti, le costole rotte, sono meno scandalosi se non li riconosci come tortura. Come sempre per il PD, è solo una questione di etica borghese: basta non chiamarla “tortura” ed è tutto risolto.

    A proposito di letture da salotto, non si può ioltre fare a meno di notare la perspicacia (e la tenerezza) di chi, quando si parla del G8 di Genova, della Diaz, di Bolzaneto, di piazza Alimonda e della morte di Carlo Giuliani, tira fuori Berlusconi, Scajola e Fini, puntando il dito verso di loro. Giustamente, per carità. Ma è un po’ come prendersela col postino quando la posta non arriva. O forse costoro, da impavidi antiberlusconiani quali sono, si sono bevuti la favole di Berlusconi per le quali egli contava qualcosa e potesse realmente fare da bilancia sul piano internazionale? Davvero credono che ciò che è successo a Genova sia stato opera di un governo insediatosi pochi mesi prima di quegli eventi? Anzi, davvero credono sia stato opera di un governo, e non piuttosto di una governance globale neoliberista alle prese con un movimento crescente?

  • Al contrario – [1] Lo sbarco

    Questo è la prima parte di un breve racconto che sarà pubblicato a puntate su questo blog. Si tratta di un tentativo, modesto e parziale, di raccontare l’immigrazione. Di volta in volta, sono ben accetti, anzi caldeggiati, commenti e suggerimenti per la parte successiva.


    Ahmed osservò il traffico del porto scrutando fuori dalla finestra.
    Il porto di Qarqarish non era imponente. Una volta, lo era ancora meno. I lavori di ampliamento risalivano ad una trentina di anni prima, quando la crescita dei flussi e delle rotte commerciali aveva reso necessaria la realizzazione di una serie di nuovi moli e la creazione di uno spazio di smistamento retrostante che nulla aveva da invidiare al porto principale se non la sconfinatezza.
    ‎Ṭarābulus era uno dei maggiori porti del commercio mediterraneo, e lui, Ahmed Maghur, era in quel momento il funzionario responsabile dell’area portuale. Gli sbarchi li facevano avvenire in un piccolo porto, Qarqarish, a qualche chilometro dal porto principale ma facente parte dello stesso settore, seppur lontano da sguardi indiscreti. Meglio non mischiare merci e migranti. Qualcuno potrebbe avere malattie ormai qui debellate da tempo e il contagio si diffonderebbe rapidamente. Spesso li facevano sbarcare a Misrata, ma questa volta si trattava di uno sbarco consistente e al momento i centri di prima accoglienza contenevano una tale quantità di persone da scoppiare. Per questo avevano dirottato l’imbarcazione verso la capitale, al porto di Qarqarish. Il porto principale non era lontano: neanche tre chilometri a est, proseguendo lungo corso Al-Shat. Ma appunto, meglio non turbare le normali attività con sbarchi anomali e magari qualche complicazione legata al mantenimento dell’ordine pubblico. La banchina in corrispondenza di uno dei moli era stata circondata da transenne. Alcuni fotografi e qualche curioso si affacciavano da dietro le reti di protezione installate dal personale portuale intorno all’area di sbarco, su disposizione delle forze dell’ordine.

    Ayman Jibril attendeva da un paio d’ore, insieme a qualche decina di persone, tutte in disponibilità dalla notte precedente. La chiamata li aveva allertati verso le cinque del mattino, richiedendo la loro presenza per le operazioni di sbarco previste per le ore nove. Ayman era infermiere all’ospedale di ‎ Ṭarābulus. Per tre giorni alla settimana si metteva in disponibilità durante la notte per eventuali sbarchi, per spirito umanitario ma anche per racimolare qualche soldo. Ora attendeva accanto all’ambulanza, appoggiato alla grossa scritta “Isaaf”.
    Alla fine, probabilmente, lo sbarco effettivo sarebbe avvenuto quasi due ore dopo. Come al solito. Ti allertano prima non tanto perché sia necessaria la tua competenza né il tuo aiuto, quanto per mostrare che se vogliono farti svegliare alle cinque del mattino possono farlo. Lo fanno per confermare e mantenere una gerarchia già stabilita. È una questione di autorità.
    Da quando il Dipartimento per il Controllo dell’Immigrazione (Idāra Murāqaba al-Istīṭān) era passato sotto il Ministero degli Interni la vita era cambiata. Fino al governo precedente, esisteva un ministero indipendente dedicato interamente ai fenomeni migratori. Il governo attuale, per motivi elettorali e di “razionalizzazione della spesa pubblica” aveva smantellato tale ministero trasformandolo in un dipartimento accorpato al Ministero degli Interni, sotto la responsabilità e il controllo diretto delle forze di polizia. Ora, a quanto pareva, la questione era divenuta improvvisamente di competenza del Ministero degli Interni. E per fortuna non era del Ministero della Difesa, altrimenti sì che se ne sarebbero viste delle belle! Certo, a dirla tutta non è che le cose andassero sempre per il verso giusto. Ayman già storceva il naso per la subordinazione alle forze di polizia che faceva passare per problema di sicurezza pubblica una questione umanitaria, a questo si aggiungeva l’accordo con il Ministero della Difesa. L’immigrazione non era affare della Difesa, ma quelli erano riusciti lo stesso a metterci il naso.
    Per farla breve, la vita era cambiata perché si usavano militari in situazioni non militari, perché in alto avevano deciso che era meglio dichiarare lo stato d’emergenza. Appunto, una questione di autorità.

    Vito, anni 26, mediatore culturale, attendeva lo sbarco affiancato dalle forze di polizia. Era uno dei pochissimi civili a cui era consentito l’accesso all’area destinata alle operazioni di attracco e di sbarco. Fino a qualche anno prima, sarebbe stato attorniato da giornalisti e volontari delle associazioni non governative. Adesso percepiva i loro sguardi e i loro obiettivi fotografici confinati dietro la rete di protezione. Con la riforma del nuovo governo, erano le forze di polizia a decidere. I migranti venivano accolti da uno schieramento di forze dell’ordine dispiegato sulla banchina del porto e un primo smistamento era effettuato sulla base della provenienza. Il mediatore culturale serviva a questo: per confermare che la provenienza dichiarata da ciascun migrante fosse reale. In molti, infatti, mentivano sulla nazionalità, spacciandosi per baschi, catalani o sardi, sperando di ottenere più facilmente un riconoscimento dello stato di rifugiato politico. Nonostante tentassero di imitare l’accento della presunta comunità di provenienza, spesso la parlata li tradiva all’orecchio di un esperto o di un madrelingua. Vito era un madrelingua, la sua lingua era l’italiano. Era nato in un piccolo paese della Sicilia, aveva studiato a Palermo ed era emigrato. Per tre anni era stato attivista in un’associazione che si occupava dei diritti dei migranti, prestando soccorso durante gli sbarchi e nei primi momenti dell’accoglienza; a volte si era occupato anche delle condizioni di vita nei centri di detenzione temporanea, in cui avevano luogo le identificazioni per eventuali espulsioni. Poi, in virtù dei poteri conferiti dal nuovo governo, la polizia aveva deciso di allontanare le associazioni e gli attivisti dei movimenti, sostenendo che tra questi si nascondevano “elementi intenzionati a favorire la fuga degli immigrati irregolari durante le operazioni di sbarco”, potenzialmente “atti a turbare l’ordine pubblico e mettere a rischio la sicurezza dei cittadini”. Vito sapeva che erano tutte cazzate. Non la storia delle fughe, quelle avvenivano e per quanto lo riguardava potevano anche continuare ad avvenire. La cazzata era la motivazione addotta dal governo per legittimare l’allontanamento dei civili: le fughe erano minima cosa rispetto agli occhi dell’opinione pubblica. Vito sapeva per esperienza diretta che i migranti preferivano di gran lunga essere accolti da civili volontari piuttosto che da uomini in divisa, armati dalla testa ai piedi e bardati di casco e scudo. Aveva deciso di restare a contatto diretto coi migranti al momento dello sbarco, anche se questo ormai significava necessariamente lavorare al servizio delle forze dell’ordine, aveva ottenuto il posto e adesso stava sulla banchina a smentire i sedicenti sardi. Si chiedeva se fosse stata una scelta giusta e si diceva che almeno così poteva aiutarne qualcuno, che se un romano si fingeva sardo e poi lo scoprivano troppo tardi magari gli annullavano non solo lo stato di rifugiato politico ma anche tutto il resto e il poveretto doveva tornarsene al suo paese a fare la fame.

    Lo sbarco cominciò circa mezz’ora dopo le operazioni di trasbordo. Erano in trecentocinquantuno: duecentosettantasette uomini, sessantaquattro donne, dieci bambini. Venivano dalle coste siciliane, ma non erano tutti italiani. A bordo dell’imbarcazione si annoveravano diverse nazionalità: una maggioranza di italiani compreso un cospicuo gruppo di profughi sardi, un nutrito gruppo di norvegesi, molti francesi e svedesi, pochi olandesi e inglesi. Molti di loro avevano sopportato un lungo e tortuoso viaggio, spesso in clandestinità e in condizioni poco invidiabili, prima di raggiungere le coste siciliane da cui era partita la piccola imbarcazione che li avrebbe portati in prossimità delle coste africane.
    Le forze di polizia sul molo inaugurarono l’inizio delle operazioni di sbarco e accoglienza disponendosi a quadrato e formando un cordone schierato lungo tre lati del perimetro in modo da prevenire eventuali fughe via terra. Quattro agenti armati sorvegliavano le possibili vie di fuga attraverso il mare chiuso del porto.

    Ayman Jibril attendeva al suo posto, a debita distanza ma pronto a intervenire in caso di bisogno, secondo le disposizioni ricevute. Tale evenienza si verificava spesso, perché le condizioni del viaggio intrapreso dai migranti erano pessime sotto ogni punto di vista: stipati a centinaia nella stiva di barchette o su gommoni scoperti, anche per giorni sotto il sole cocente e l’azione continua dell’acqua salata, i passeggeri non di rado erano colpiti da malanni di ogni tipo, che in quella situazione potevano risultare letali. Frequenti erano morti per annegamento o per asfissia. Molte persone, specialmente di origine nordeuropea, al momento dello sbarco erano gravemente ustionate dal sole.
    All’azione distruttiva dei quattro elementi spesso si aggiungeva quella dovuta all’essere umano. Durante la traversata si generavano facilmente situazioni di tensione, che altrettanto facilmente sfociavano in risse, in un pericoloso groviglio di corpi sospesi sull’acqua a bordo di un’imbarcazione precaria e sovraffollata. Le conseguenze potevano essere devastanti. Una volta soccorsi da navi militari o, più raramente, mercantili, i migranti erano spesso oggetto di maltrattamenti da parte dei militari, che li ammassavano in stive di dimensioni di poco superiori a quelle in cui erano ammassati poche ore prima. Non mancavano episodi di violenza razzista di cui ufficiali e sottufficiali si facevano protagonisti o silenti complici. Al momento dello sbarco al porto, poteva essere necessario l’intervento del pronto soccorso e il trasporto in ambulanza, per guarire lesioni di entità più o meno grave che nella cartella clinica erano attribuite a “causa ignota”.

    Le donne sbarcavano per prime. Ayman notò due donne incinte mettere piede a terra. Erano entrambe giovanissime, di bassa statura, scure di capelli e di carnagione, dall’aspetto tipicamente mediterraneo. Lo stato di gravidanza era evidentemente avanzato, forse al penultimo o addirittura ultimo mese. Ayman cominciò a preparare la barella, sicuro che ce ne sarebbe stato bisogno, in attesa del permesso dell’autorità militare. Osservò il mediatore culturale, il siciliano, raggiungere le due donne appena sbarcate, con il consueto intento di porre qualche domanda. Prima che quello potesse presentarsi, una delle due perse l’equilibrio spossata dal viaggio e cadde per terra. Il mediatore volse automaticamente lo sguardo verso l’ambulanza. Ayman fece un passo accompagnando la barella in direzione della donna, ma dovette fermarsi. Un poliziotto aveva fatto cenno di fermarsi. Un medico militare in compagnia di un ufficiale di polizia si avvicinò alla donna ancora per terra e si chinò. Disse qualcosa al mediatore culturale, che tradusse prontamente. Dopo qualche minuto, ad Ayman e i suoi colleghi fu permesso di entrare nel perimetro definito dallo schieramento di forze dell’ordine, per prelevare la donna. Mentre la barella attraversava il cordone di polizia, alcuni sguardi tradirono disprezzo. Una voce anonima si alzò abbastanza da essere udita da Ayman: «questi sardi sembrano proprio degli gnomi». Era il tipico insulto razzista riservato ai sardi.
    Dunque le due donne incinte erano sarde. I poliziotti dovevano averlo intuito dal loro aspetto e la conferma era arrivata dal mediatore culturale, il cui unico ruolo, dal punto di vista delle forze dell’ordine, era confermare o smentire la provenienza dichiarata dai migranti. La provenienza doveva subito aver fatto insospettire l’ufficiale, perché il popolo sardo era oggetto di una nutrita serie di pregiudizi, tra cui l’idea che fossero bugiardi e inaffidabili. L’ufficiale doveva aver pensato che la caduta fosse una messinscena per poter andare in ospedale, luogo soggetto a minor controllo rispetto ad un campo di detenzione temporanea e dunque luogo da cui evadere più facilmente. Si era consultato con il medico militare che, con l’aiuto del mediatore culturale, aveva valutato che le condizioni di salute manifestate dalla donna erano da considerarsi reali e non il frutto di una buona capacità di recitazione.

    L’operazione di sbarco continuava, i migranti erano smistati in numero sempre maggiore, lungo il molo, in attesa di essere caricati sugli autobus della polizia. Un giovane italiano si inginocchiò al suolo a mani giunte, pronunciando tra le lacrime una parola: «Tripoli! Tripoli!». Così gli italiani chiamavano la città di Ṭarābulus.

  • Il “nuovo patriottismo” dell’UKIP in due esempi

    Il partito euroscettico UKIP, il più votato in UK alle ultime elezioni europee, è noto per la capacità che ha avuto, al pari di simili rigurgiti destrorsi continentali, di mascherare le proprie posizioni di estrema destra imponendo nel dibattito pubblico varie proposte radicali senza ricorrere ad argomenti apertamente razzisti o nostalgici del passato. Molto è stato scritto in proposito, tra cui un’interessante recensione sul fenomeno generale della “nuova internazionale nera” e, soprattutto dopo il trionfo elettorale dell’UKIP, altrettanti fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla natura di quest’ultimo. Resoconti di fuoriusciti, articoli d’inchiesta ed eventi giudiziari hanno rivelato inquietanti aspetti sulle tecniche di costruzione del consenso utilizzate dai partiti cosiddetti “populisti” che sarebbe più opportuno definire di “destra radicale”. Il successo di tali tecniche risiederebbe nel non dichiararsi apertamente razzisti o nostalgici del passato, evitando argomentazioni riconducibili a retoriche chia ramente identificabili.

    Come discusso altrove, il problema del razzismo è ridotto a una questione, puramente formale, di etica e di decoro borghese: è sufficiente dichiararsi contro e deprecare queste entità astratte che sono i razzisti, basta che nessuno si definisca razzista apertamente (pur continuando ad agire secondo le proprie posizioni) ed ecco eliminato il problema.

    Tuttavia, ogni tanto qualcosa traspare molto più di quanto si intenda lasciar trasparire. A titolo di esempio, sono significativi due casi, l’uno sul dichiararsi “apertamente razzisti”, l’altro sull’evitare di esternare sentimenti “nostalgici del passato”.

    Il primo esempio è il manifesto lanciato dall’UKIP per presentare i punti salienti del programma della forza politica. Nella seconda pagina del manifesto, che tratta di immigrazione, compare la frase seguente (traduzione mia, ndr): «Gli altri partiti si sono impegnati a favore dell’allargamento dell’UE a Turchia, Albania, Moldavia e molti altri paesi. Secondo le regole europee, tutti i loro cittadini saranno autorizzati a vivere e lavorare in UK». Agitare lo spauracchio di un’invasione di turchi, albanesi e moldavi, che sono nazionalità spesso oggetto di pregiudizi razzisti, non significa forse ammettere che francesi e tedeschi, ai quali è già concessa la regolare permanenza in UK, sono accettati molto più di buon grado? Non è questo dichiararsi apertamente razzisti? (Tralasciando il fatto che lo stesso utilizzo del concetto di “invasione” è fuorviante, una stortura utile esclusivamente a disinformare a fini razzisti.)

    Il secondo esempio è una dichiarazione rilasciata di recente da Peter Whittle, “Culture Spokesman” del partito, secondo il racconto di un giornalista. Whittle espone una «teoria emergente del patriottismo», un nuovo modo di intendere l’appartenenza nazionale. «Che c’è di male ad essere britannici?» si chiede il portavoce del partito prima di scagliarsi contro chi è «schiavo del senso di colpa per il passato coloniale britannico». Si tratta non solo di un’esternazione nostalgica, ma anche di un’accusa morale per coloro che, a detta di Whittle, non onorano né ricordano con i dovuti sentimenti di rispetto l’imperialismo e il colonialismo. Ovvero. Non si capisce poi come si possa accusare di essere schiave del senso di colpa per il passato coloniale quelle stesse istituzioni e autorità che cercano da sempre di insabbiare, censurare e rimuovere le tracce di tale passato. Il colonialismo britannico fu questo. L’imperialismo britannico fu questo. Le parole sono pietre.

  • Camminare con lentezza

    Cercavo da almeno due anni di ritagliare una finestra di libertà da impegni e scadenze per poter camminare, camminare fino a sentir male ai piedi. Camminare costringe a prendere il ritmo. Eppure non costringe, perché il ritmo puoi deciderlo tu, come puoi decidere di interromperlo in ogni momento. Non è lo stesso ritmo del viaggio in macchina, bicicletta, treno o aereo, né in qualità né in quantità. Non è lo stesso in quantità per evidenti motivi: è lento e per quanto rapidi si possa camminare, si sarà relativamente lenti rispetto ad un qualunque altro mezzo di trasporto. Non è lo stesso in qualità: la sua natura rende possibile un’ampia modulazione e prevede la possibilità di modificarlo o arrestarlo in qualunque momento. Si perde il ritmo fatto di sveglie, appuntamenti, impegni. Si perde il ritmo della città. Si prende un altro ritmo, determinato esclusivamente da te. Si perde l’eteronomia per l’autonomia. Si perde il ritmo prendendo il ritmo.

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    Prima di partire da Bologna, città eternamente splendida, alla volta di Roma, città splendidamente eterna, qualcosa era stato pianificato. La partenza fissata a Perugia, l’arrivo a Monterotondo, vicino Roma. In tale città potremmo dormire qui, per tale tappa impiegheremo tale durata, tale parte di percorso la tagliamo per di là… poche di queste previsioni si sono concretizzate. Perché l’idea, diciamo pure velleitaria e presuntuosa, di conoscere in anticipo tappe, tempi, sistemazione, è tutta figlia di quel ritmo eteronomo che camminando si perde, poco a poco, sostituendolo con un ritmo autonomo, che si adatta di volta in volta alle circostanze, che non può essere previsto perché è plasmato sull’attimo, su ogni singolo passo e ogni singola piccola coincidenza. Che bel frutteto, anticipiamo il pasto riempiendoci lo stomaco di frutta. Una fontanella, facciamo una lunga pausa non prevista. Che villaggio ospitale, restiamo qui una mezza giornata in più. Un campo, dormiamo qui invece di raggiungere il centro abitato. Sono scelte che non puoi prevedere. Naturalmente situazioni del genere di verificano nel corso di qualunque tipo di viaggio, tuttavia raramente finiscono per determinare del tutto la sua stessa struttura. Invece, a piedi succede esattamente questo, in continuazione.

    Passa qualche giorno prima che ci si renda conto che l’eteronomia ha lasciato il posto all’autonomia. Sorrido, come si fa teneramente di fronte a un bimbo ingenuo, ripensando all’attenzione che prestavo nel corso del primo giorno di cammino alle indicazioni preventivamente stampate da casa. Non sapevo ancora che il cammino si lascia seguire: è sufficiente camminare. E ripensando all’ansia di non trovare un posto in cui passare la notte. Non sapevo che spesso l’ospitalità delle persone in cui ci si imbatte è più squisita di quanto ci si aspetti, né che in mancanza di persone a cui chiedere, basta fermarsi lungo il cammino e dormire. E che dire della preoccupazione per la pioggia? Come consigliato da Luca Gianotti (autore di L’arte del camminare), è meglio occuparsi che preoccuparsi. E del ridicolo timore di non avere da mangiare a sufficienza? O di incontrare lungo la via chissà quale mostro del mondo animale? Molte di queste paranoie non sono che miti di città, che nascono, crescono e proliferano nella testa di persone immerse completamente nel ritmo eteronomo, incapaci di immaginarne uno diverso. Solo per fare qualche esempio, sarà difficile dimenticare lo stupore dipinto sui volti di chi, chiedendoci se avessimo mangiato, apprendeva che ci eravamo rimpinzati di frutta colta durante il cammino. Come sarebbe? State attenti! Con i frutti non si scherza! Potrebbero essere velenosi! Ma solo chi non conosce la frutta che come merce da acquistare al supermercato identificandola dall’etichetta opportunamente disposta sul prodotto può davvero risultare tanto preoccupato all’idea di mangiare qualcosa che di etichetta non ne ha. A distinguere un albero da frutto anche a una certa distanza, o a distinguerne uno dall’altro, si impara facilmente. La prima barriera è psicologica.

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    Un altro mito è quello dei cinghiali: state attenti ai cinghiali, i cinghiali vi mangeranno vivi, se ne incontrate uno scappate senza voltarvi indietro. Comprendo l’apprensione di chi è rassicurato dal paesaggio urbano e vive con terrore una passeggiata nel bosco, ma c’è da dire che l’incontro ravvicinato con un cinghiale è estremamente raro, soprattutto se si percorrono sentieri battuti e che molto spesso costeggiano terreni coltivati. E, anche quando se ne incontra uno, deve darsi il caso che sia una femmina in presenza dei suoi piccoli e che li veda minacciati, prima di manifestare aggressività. Normalmente, gli animali selvatici cercano di evitare il contatto con l’uomo.
    Un fatto curioso riscontrato nelle persone di città è più una rimozione che un mito: non esistono sentieri. Da un punto all’altro ci si sposta seguendo l’asfalto, nel peggiore dei casi esiste una strada sterrata. Tra una striscia di asfalto e l’altra non c’è niente di percorribile. In realtà, dato che la maggior parte si sposta in macchina, questo è del tutto comprensibile: per riprendere le parole di Wu Ming 2, quando ci si muove in macchina si è chiusi dentro una scatola. Non solo non esiste niente di percorribile aldilà della striscia di asfalto su cui rotolano gli pneumatici: è la quasi totalità della realtà esterna a non esistere.

    Il mezzo di trasporto influenza profondamente il modo di percepire la realtà circostante. In macchina, se si dispone di aria condizionata funzionante, addirittura la temperatura esterna diventa irrilevante. A piedi, si impara ad apprezzare piccole cose che diversamente sarebbe stato difficile immaginare di apprezzare a tal punto: l’ombra di un albero, un minuscolo corso d’acqua, una brezza rinfrescante, un albero di fichi sul ciglio del sentiero. In una giornata di cammino sotto il sole intenso lungo un percorso scarsamente ombreggiato, siamo stati per almeno mezz’ora a discutere della possibilità che una nuvola si avvicinasse e nascondesse la fonte del nostro momentaneo patimento termico, naso all’insù guardando il cielo e parlando della forma della nuvola che avrebbe dovuto salvare la nostra pelle sudata, della direzione del vento, dei movimenti e le mutazioni del bianco e dell’azzurro. Quando l’agognata nuvola ha esaudito i nostri desideri. Cambiano gli argomenti di discussione, cambiano le proporzioni del tempo loro dedicato, cambia la percezione della realtà. Chi vuole fare una passeggiata domenicale, spera di trovare una giornata di sole. Chi cammina per una settimana, spera di trovare il sole coperto che magari farebbe rinunciare alla passeggiata domenicale perché “c’è brutto tempo”.

    La lentezza del cammino permette di accorgersi di dettagli inesistenti per chi si sposta più rapidamente. Quello che per un conducente di macchina è un generico “paesaggio umbro”, il camminatore lo analizza, in senso etimologico, lo spezzetta, passo dopo passo, avverte le piccole differenze tra un sentiero e l’altro, tra un versante di una collina e l’altro. Ci si accorge subito delle altrimenti impercettibili differenze di microclima tra una valle e quella successiva, perché da una valle all’altra variano i tempi di maturazione dei frutti, con grande gioia del camminatore. Se poco prima gli alberi di fico e le more erano immature o del tutto assenti, svoltata quella curva che si arrampica sul costone sopraelevato apre ad una vallata in cui mele e pere lasciano il posto a fichi e more in abbondanza, come se il tempo accelerasse di un mese.

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    Il cammino è indicato da un codice di simboli che il camminatore impara ben presto a interpretare. Le città e le campagne traboccano di segni ben evidenti per chi li conosce, ma insignificanti se non invisibili per chiunque altro. Chissà quanti messaggi nascosti sono invisibili ai più. Strisce e simboli in giallo, o rosso e bianco, o giallo e blu, ci aiutavano nel seguire la via o nel riprenderla quando l’avevamo persa. Ci rincuoravano quando li vedevamo dopo molto tempo, ci infastidivano quando si facevano insistenti. Il cammino è un continuo dialogo coi simboli, tra i quali e il camminatore si stabilisce una rapporto contraddittorio fatto di fiducia ma anche di stizza. Il camminatore sa che quel simbolo è l’ultimo relitto dell’eteronomia che ha lasciato gradualmente spazio all’autonomia. Quel simbolo è utile perché gli indica una strada, è amichevole perché può aiutare a ritrovarla, ma al tempo stesso costringe il suo percorso entro una via più o meno definita. La scelta di seguire o meno il cammino indicato dipende tuttavia esclusivamente dal tipo di viaggio che si vuole intraprendere. In particolare, noi l’abbiamo seguito da Perugia a Spoleto, poi abbandonato per fare di testa nostra, poi ripreso in prossimità delle Marmore.

    Infine, c’è una cosa che rende il viaggio a piedi unico: l’inaspettata quantità di persone che si incontrano. Non si direbbe, ma soprattutto le campagne e i piccolissimi paesi traboccano di forme di vita umana. Il più delle volte saranno ben contente di dare aiuto, fornire indicazioni, offrire ristoro, cibo o acqua, regalare il piacere di una chiacchierata, raccontare storie e trasmettere conoscenze. Camminare significa creare una rete di relazioni, dare vita e voce a racconti e narrazioni. Questo aspetto, per me, è senza dubbio il più bello di questo modo di viaggiare.

  • 11 luglio: possiamo ancora vederci

    Non sovraccaricate le date, non sovraccaricate i luoghi. Attenti a Frankenhausen.

    Il vertice europeo sulla disoccupazione giovanile è stato rimandato a data da destinarsi, comunque dopo l’estate. Tra le strutture che hanno contribuito alla costruzione della mobilitazione prevista giorno 11 luglio in risposta a quel vertice, si vocifera il rinvio o l’annullamento della contestazione. Senza intento polemico, ma a sincero scopo propositivo, vorrei dire la mia.

    1 – Lasciare che data e luogo di una manifestazione continentale dipendano dalle scelte del potere, così che il potere possa determinarne lo spostamento a suo piacimento semplicemente annullando o spostando un vertice, è indice di non-autonomia. Se si vuole combattere solo la manifestazione simbolica e temporanea del potere, è sufficiente legittimarne le scelte, inseguendole nel tempo e nello spazio. È significativo che il vertice sia stato spostato sia nel tempo (almeno a novembre) sia nello spazio (da Torino a Bruxelles): è sintomo del fatto che un punto preciso del tempo (11 luglio) e dello spazio (Torino) era stato sovraccaricato di contenuti e aspettative, rendendo possibile lo spegnimento di quelle aspettative ad un semplice cenno di modifica.

    2 – Le motivazioni addotte dalle istituzioni per lo spostamento del vertice possono essere variamente interpretate. Da più parti giungono indizi che la scelta sia stata operata sulla base di considerazioni legate all’ordine pubblico, che avrebbero intimorito il PD, il governo e la questura di Torino. Il PD ha reso noto attraverso l’esponente torinese Esposito che intorno a quella data si temeva l’acuirsi di un clima di tensione già esistente e che, secondo le immancabili indiscrezioni dei servizi segreti, i teppisti di tutta l’Italia stavano cominciando a prepararsi per la guerriglia. Il governo non ha mai amato le contestazioni (non nasce nemmeno da un conflitto, da un competizione, seppur nella sua forma elettorale) e questo sarebbe stato il primo evento di rilevanza ad intaccare la sua purezza. La questura di Torino, pur minimizzando, lascia trasparire preoccupazione, considerando anche il fatto che una quantità insolita di forze dell’ordine era stata messa in allerta con disponibilità per tutto il mese di luglio.

    3 – Qualcuno potrebbe gridare vittoria: hanno spostato il vertice, abbiamo vinto. Eppure, spostare il vertice potrebbe essere stata una mossa astuta per esaurire la spinta propulsiva della chiamata alla mobilitazione. La reazione di alcuni è stata: «Ovviamente, se la notizia sarà confermata, viene meno la data di mobilitazione». Come se,senza quella manifestazione parziale, temporanea e simbolica del potere che è un vertice, non ci fosse nulla da contestare. In La rivoluzione che viene, David Graeber descrive come, spesso, i movimenti perdano un alto livello di mobilitazione perché ottengono troppo presto ciò che intendono ottenere, così presto da non rendersene conto: in questo caso, l’obiettivo di ostacolare il vertice europeo sulla disoccupazione giovanile è riuscito e quindi la mobilitazione non è più immediatamente necessaria. Questo è un problema di metodo ma anche di contenuto. Si tratta di un problema di metodo perché si subordina la mobilitazione al calendario. Si tratta di un problema di contenuto perché… siamo sicuri che quello che i movimenti vogliano davvero solo ostacolare un vertice? E se non è così, perché insistere su questo punto? La risposta è semplice: è un obiettivo di per sé capace di determinare la natura delle azioni di mobilitazione. Se l’obiettivo è bloccare, l’azione da condurre è il blocco, nelle sue varie forme possibili. Ovvero, è un obiettivo concreto e immediato, e la consapevolezza della possibilità concreta di influire sull’esistente è necessaria per la partecipazione delle masse. I movimenti non vogliono solo ostacolare un vertice, ma se in termini di “concretezza” insistono su questo punto particolare, ci si dimentica il resto, e quindi “niente vertice, niente mobilitazione”.

    4 – Tutti questi problemi sono riconducibili alla logica del grande evento sovraccaricato di significati e aspettative, in cui si gioca il tutto per tutto. All’assemblea che ha lanciato la data dell’11 luglio, non sono mancate spinte contrarie: qualcuno proponeva di «immaginarsi una giornata di blocchi e azioni diffuse dove la controparte se l’aspetta meno». È fuori di dubbio che per contrastare efficacemente bisogna agire dove il potere non se lo aspetta, ma ritrovarsi nella sede simbolica del potere è esattamente ciò che il potere si aspetta. Se il potere si manifesta simbolicamente a Torino, in risposta si dovrebbe creare contropotere, anche simbolico, altrove. O forse mancano luoghi di lotta, con forti rivendicazioni? Perché non a Taranto, simbolo della connivenza tra politica e capitale, distruttrice di persone e ambiente? Perché non a Napoli, capoluogo di una terra che è fabbrica di veleni? Perché non a Roma, sede di un’importante e cruciale lotta per il diritto alla casa? Perché non mille altre città, in cui fanno ormai parte della quotidianità sgomberi di spazi sociali e di occupazioni abitative, violazioni di diritti dei migranti, sfruttamento e precarizzazione delle vite, abusi in divisa, devastazioni dei territori? Qualcuno potrebbe dire che tutte queste istanze non riguardano la disoccupazione giovanile, ma non avevamo detto che non è solo un vertice ciò contro cui i movimenti lottano?

    5 – Che lo spostamento del vertice sia una vittoria dei movimenti o piuttosto una strategia per neutralizzare il conflitto, in entrambe le interpretazioni il potere mostra una debolezza, per sincero timore di contestazioni o semplicemente perché non ha assolutamente nulla da dire sulla disoccupazione giovanile e ambisce a prendere tempo. Bisogna sfruttare questa debolezza. Non ritiriamoci. Si era deciso Torino? Si era decisa la giornata dell’11 luglio? Si sono organizzati per mesi i preparativi per questa contestazione? Facciamola. Non diamo sollievo alla questura di Torino per il rientro dell’allerta, né al governo per aver evitato il confronto con il conflitto sociale.

    Vediamoci lo stesso, perché loro possono rimandare il vertice, ma le nostre rivendicazioni non sono rinviabili.

  • Il PD non è una risposta

    In un suo saggio tagliente e conciso, dal titolo A brief history of neoliberalism, nel 2005 David Harvey spiegava come la globalizzazione neoliberista, portartice di un individualismo sfrenato e del totalitarismo del mercato, non manchi di incontrare resistenze e reazioni alla sua azione plasmatrice e invadente, che si insinua (come solo i rapporti di classe e di produzione sanno fare) in ogni singolo ambito della vita umana. Le resistenze che il neoliberalismo incontra sono molteplici, perché molteplici sono le forme con cui il neoliberalismo si presenta con la funzione di restauratore del dominio di classe. Ci sono reazioni che si contrappongono alla globalizzazione nel solco dell’anticapitalismo, in maniera più o meno radicale, rispondendo all’individualismo con il mutualismo e la solidarietà. Ne esistono altre che rispondono allo sfibramento dei legami sociali richiamandosi ad altre forme di comunità, più identitarie: si va dai gruppi religiosi alle formazioni nazionaliste, alle narrazioni identitarie se non apertamente fasciste.

    Alla luce di questa distinzione (che non è affatto banale), è possibile classificare con una certa facilità le risposte elettorali alla crisi del neoliberismo (che è tuttavia anche una crisi nel neoliberismo) manifestatesi in occasione del voto europeo. La crescita della sinistra nella penisola iberica è un esempio di risposta solidale: in Spagna al 17,98% sommando Izquierda Unida e il neonato movimento Podemos, in Portogallo al 17,24% sommando il Bloco de Esquerda e il Partido Comunista Português. Un’altro esemio di risposta mutualistica e solidale è costituito dall’incredibile vittoria di Syriza in Grecia col 32,5% dei voti, un risultato nato e costruito dalle esperienze di movimento, dalle piazze, dal conflitto, dai laboratori di autogestione e collettivizzazione dal basso. Dall’altro lato, le risposte identitarie, che all’individualismo di mercato si contrappongono costruendo legami sociali sulla base dell’etnia, della tradizione, della nazione ed esprimendoli con il nazionalismo e la xenofobia. Questo è chiaramente il caso di partiti come il Front National (24,85%) in Francia, il UKIP (28%) in Gran Bretagna, l’alleanza di governo tra Fidesz e Jobbik (66,2%) in Ungheria. Ovunque i partiti di governo escono indeboliti, se non additittura desautorati del mandato popolare. Tranne in un paese: l’Italia.

    Un paese che, in un contesto in cui tutti come reazione alla crisi cercano di cambiare qualcosa spostandosi a destra o a sinistra radicalizzando le posizioni di conflitto, è l’unico a non radicalizzare alcun tipo di contrapposizione. Premia il governo, favorisce la stabilità della crisi e nella crisi. Uno sciame di Don Abbondio che, spaventati dall’oppressione, si rifugiano sotto le ali dell’oppressore, trovandole l’unico luogo sicuro. Un’eterno fenomeno italiano che consiste in una tendenza alla diluizione in chiave “moderata” di qualunque cosa.

    Il maggiore partito di governo, cioè il PD (destra) ha superato la soglia psicologica del 40%. Questo non solo è una vittoria interna, in quanto rafforza la posizione del PD nel governo rendendolo meno passibile di ricatti da parte degli altri due partiti alleati, annientati completamente dalla competizione elettorale; è anche una vittoria continentale, poiché il PD in Europa sarà il maggiore azionista del raggruppamento del PSE (32 eurodeputati contro i 23 della Spd tedesca e i 23 della PSOE spagnolo), nonché l’unico in Europa ad aver aumentato i consensi sia in termini percentuali sia in termini assoluti (dagli oltre 8 milioni di voti delle scorse politiche agli oltre 11 milioni di ieri) e l’unico partito di governo del PSE a non uscire indebolito dal voto. In altre parole, il PSE obbedirà più a Renzi che a Schulz, con conseguente spostamento a destra del raggruppamento (come se già non bastasse la brillante carriera dei suoi partiti aderenti, tutto in un modo o nell’altro promotori, nei propri paesi, di politiche di austerity e di rispetto incondizionato delle ricette neoliberiste) e stabilizzazione della governance europea.

    Ora, tornando al discorso iniziale, la domanda è: a quale dei due generi di risposta al neoliberismo appartiene il risultato ottenuto dal PD?

    Classificarlo come risposta mutualistica e solidale sarebbe un’operazione di pura propaganda, che solo un mentecatto o un bugiardo potrebbe compiere. D’altro canto, è vero che il PD, nella sua retorica e nella sua azione, si richiama a concetti come coesione sociale, responsabilità nazionale, superamento degli steccati, ma questi non vengono declinati in un’ottica nemmeno apparantemente di contrapposizione alla globalizzazione. Ci si potrebbe spremere per ore senza trovare la risposta a questa domanda. Perché la domanda è semplicemente sbagliata. Il fatto è, signori, che il PD non è una risposta al neoliberismo. Il PD è il neoliberismo.

     

    E di fronte all’aggressione neoliberista, come reagiscono gli elettori italiani? Con una risposta solidale? Con una risposta nazionalista? No: di fronte all’aggressione neoliberista, gli elettori italiani la acclamano.

  • Abusi in divisa: chi li rende possibili?

    Quando vai in piazza a fare il culo ai ragazzini delle superiori, lo stai facendo per un ente morale superiore. Quando durante un arresto dai un paio di calci nelle costole a un tossico di merda, lo fai perché è un momento necessario della sua rieducazione. Quando minacci le ragazze di stuprarle con il manganello d’ordinanza, lo fai perché deve essere chiaro chi è che comanda. Quando fai finta di non guardare il collega che riempie di botte il poverocristo in cella, lo fai perché non sei un infame. Quando sputi in faccia al negro di merda che hai preso con due canne in tasca, lo fai per lavarlo. Quando strappi il piercing dalle orecchie della zecca che hai di fronte, lo fai per dargli un contegno.

    Quelle riportate sono alcune frasi sfuse da un breve articolo. Non è così che sembrano ragionare molti esponenti delle forze dell’ordine? Non si ritengono, giustamente, preposti alla difesa dell’ordine costituito, che non è solo un ordine sociale e politico ma prima ancora un ordine morale, che di quello sociale e poitico è espressione e legittimazione teorica?

    Perché ragionano così? Sono semplicemente degli stronzi (il che in un certo numero di casi non è da escludere, soprattutto considerando che gli stronzi abbondano ed emergono nelle categorie a cui è garantita l’impunità) o esiste anche una influenza non indifferente proveniente dall’ambiente lavorativo e dai vertici che attraverso il proprio potere decisionale plasmano tale ambiente lavorativo?

    Come ha ricordato di recente Aldo Giannuli, «le cause sono nella storia stessa dei nostri corpi repressivi, mai veramente disintossicati dal ventennio fascista che, a sua volta, aveva trovato il precedente dell’epoca liberale che di liberale ebbe assai poco. E poi, anche la feroce rivalità fra carabinieri e polizia agisce da moltiplicatore di questa propensione alla violenza». I responsabili sono da ricercarsi nei politici che «danno carta bianca al loro braccio armato», nei vertici della polizia che «usano cinicamente i propri uomini per rafforzare il loro potere contrattuale nei confronti dei politici», nei quadri intermedi della polizia «che aizzano gli agenti, che li formano nello spirito del mazzieraggio irresponsabile, che li educano al disprezzo del cittadino», nei magistrati che «non hanno mai il coraggio di fare luce anche sui casi più gravi e che mandano regolarmente assolti poliziotti a carabinieri anche nel caso di omicidi, per la collusione fra le due corporazioni», nei giornalisti che «non sono capaci di una inchiesta sistematica su quello che accade nella polizia».

    Un’ulteriore considerazione si deve fare rispetto alle condizioni che addirittura precedono l’ingresso nei reparti delle forze dell’ordine. In particolare, in una dettagliata analisi sul fenomeno della violenza poliziesca in Italia con attenzione soprattutto per la Polizia di Stato, Salvatore Palidda fa notare, tra le altre cose, come la selezione, l’educazione e l’addestramento degli agenti non possono essere trascurati quando si cerca di indagare la natura di una tale propensione alla violenza. In primo luogo, «da circa 15 anni il reclutamento del personale nelle polizie italiane privilegia per legge i volontari che hanno svolto servizio militare nelle missioni all’estero, cioè nei diversi teatri di guerra», a dimostrazione del processo di militarizzazione delle polizie. In secondo luogo, in occasioni di gestione dell’ordine pubblico la frammentazione dei corpi di polizia produce scivolamenti verso un’estremizzazione della violenza, come già puntualizzato da Giannuli, ed un apparente disordine per cui «il personale di ogni unità segue sempre gli ordini del proprio capo che non sempre segue quelli del comandante della piazza», con conseguenze disastrose (e il G8 di Genova è solo un esempio).

    Per quanto riguarda la formazione professionale delle polizie, essa «è improntata soprattutto a una sorta di infarinatura giuridica del tutto superficiale, a qualche apprendimento tecnico e poi sempre all’apprendimento per “affiancamento” a chi ha più esperienza». Non c’è da stupirsi se questo genere di formazione generi un ambiente che «esaspera la tensione, l’aggressività, il rambismo se non addirittura il cameratismo fascista». E ancora, «perché il personale di polizia non è formato nelle scuole e università pubbliche insieme ai loro coetanei? Non sarebbe questo un momento di socializzazione forse più democratizzante di quanto lo siano i corsi nelle scuole di polizia che come raccontano tanti pare siano tenuti solo da docenti spesso di dubbia qualità accademica?»

    Anche se questo discorso potrebbe continuare a lungo, quanto detto finora è già sufficiente a rispondere alla domanda iniziale: gli abusi in divisa avvengono perché alcuni tutori dell’ordine sono semplicemente degli stronzi o esistono altri responsabili che generano situazioni in cui gli abusi sono incoraggiati (e non parlo degli incentivi diretti come le promozioni ottenute dai picchiatori in divisa, né della quasi certa impunità di cui godono le forze dell’ordine)? In altre parole: un tale ambiente è dovuto alla sola presenza di mele marce o alla struttura stessa della cesta che contiene tutte le mele?

    Per non andare troppo indietro nel tempo cercando i responsabili della mancata defascistizzazione dei corpi di polizia, basti sapere che la rivalità tra Carabinieri e Polizia che conduce alla progressione militare e “durista” è stata accentuata notevolmente dalla riforma dell’Arma dei Carabinieri (legge 78/2000) che le ha concesso più poteri e autonomia; che l’intoccabilità della struttura delle polizie esiste a causa di un gioco di favori tra politica e forze dell’ordine in cui la politica tutta ha sempre adottato riverenza e corteggiamento nei confronti delle gerarchie delle polizie; che l’impunità è dovuta in buona parte all’atteggiamento generale della magistratura; che le regole per la selezione e la formazione professionale sono stabilite per legge; che le strategie di addestramento sono una prassi che non viene messa in discussione; che le politiche repressive e securitarie riducono le questioni sociali essenzialmente a problemi di ordine pubblico, contribuendo a rafforzare il “potere contrattuale” delle polizie nell’interfacciarsi al cittadino e aumentando di conseguenza il rischio di abusi; che solidarizzare con le forze di polizia «senza se e senza ma» ogniqualvolta sia possibile, non mancare mai di esprimere incondizionato rispetto nei loro confronti, mai astenersi dal rivolger loro un plauso per il loro operato salvifico aumenta in tutti (anche tra i reparti) la convinzione che davvero «quando vai in piazza a fare il culo ai ragazzini delle superiori, lo stai facendo per un ente morale superiore».

    Insomma, rispondetevi da soli, senza farvi accecare da chi si lascia andare ad esternazioni di vuota solidarietà.

    Il problema non è soltanto che c’è chi utilizza la divisa come una seduta di psicoterapia andata male.

  • Mele marce un cazzo

    Al congresso del Sindacato autonomo di polizia (Sap), gli assassini di Federico Aldrovandi sono stati accolti da una platea già euforica e «caricata», stando alle parole di Massimo Montebove, portavoce del Sap, a causa dei discorsi che avevano preceduto il loro ingresso trionfale: si era parlato di poliziotti uccisi dalla mafia, di poliziotti condannati ingiustamente, di vittime del terrorismo e della criminalità.

    Questo spiega, a detta di alcuni, il lungo applauso che ha salutato l’arrivo in sala di Paolo Forlani, Luca Pollastri e Enzo Pontani, tre dei quattro agenti condannati dalla Corte di cassazione il 21 giugno del 2012 per l’omicidio di Federico Aldrovandi a tre anni e sei mesi (tre anni dei quali coperti dall’indulto). Chi spiega così l’accorato sostegno ai tre assassini, specifica che in ogni caso si è trattato di un applauso e di un apprezzamento che intendevano essere un gesto di solidarietà umana nei confronti di «persone che hanno avuto dei problemi».

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come il 12 aprile, quando il povero «cretino da sanzionare» (parole del capo della polizia Alessandro Pansa) ha calpestato deliberatamente una manifestante inerme già malmenata e distesa sull’asfalto, forse «per dare una mano ai suoi colleghi» o per «frenesia e frustrazione», come suggerisce il prefetto di Roma. La tesi del “cretino isolato” è veicolata non solo direttamente dagli uomini delle istituzioni e dagli uomini dell’ordine pubblico, ma anche indirettamente dal montaggio di certi video (esempio) da parte di quelle trasmissioni che intenderebbero denunciare le violenze (finendo spesso per alimentare il consumo di dissenso). Che senso ha zoomare e mostrare alla moviola il piede di un agente che calpesta una manifestante quando tutto intorno si assiste alla violenza gratuita dei manganelli che infieriscono sui corpi aggrovigliati di persone indifese? Che senso ha, se non condannare selettivamente lo scarpone legittimando implicitamente il manganello?

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come qualche giorno dopo, quando gli agenti in assetto anti-sommossa hanno sgomberato 200 famiglie in occupazione abitativa alla Montagnola a Roma (vedi), caricando, entrando negli appartamenti per gettare a terra i malcapitati e manganellarli, lasciandosi dietro feriti, bambini piangenti e nuclei familiari senza più un tetto (vedi). Anche di loro è stato detto fossero «frustrati» e dunque, poveretti, in qualche modo giustificati.

    Descrivere queste azioni come spinte da una frustrazione eccezionale in contrapposizione ad un equilibrio ordinario significa muoversi all’interno di una narrazione che ne addossa al singolo poliziotto, o qualunque altro membro delle forze dell’ordine a seconda del caso, tutta la responsabilità (si tratta della ben nota narrazione delle “mele marce”). Eppure, se si è capaci di giustificare le teste calde e le mele marce in quanto «persone che hanno avuto problemi» e che sono «frustrate» a causa della situazione personale o familiare che li circonda, questo tipo di retorica non riesce a fare altrettanto riguardo all’influenza che può esercitare l’ambiente lavorativo, perché ciò significherebbe ammettere che ad essere marce non sono le mele, bensì l’intera cesta.

    Il Sap vanta circa 20 mila aderenti a fronte di un numero complessivo dei membri della polizia di Stato pari a 105.000 unità effettive. Ciò significa che circa un poliziotto su cinque vi è iscritto (non solo vicino, proprio iscritto), e un numero indefinito di altri costituisce quell’area rosa costituita da simpatizzanti non aderenti, tipica di ogni organizzazione strutturata. Dunque, almeno un poliziotto su cinque si riconosce in un’organizzazione che ha attaccato personalmente (vi ricordate?) la madre di Federico Aldrovandi esponendo sotto il suo ufficio uno striscione in solidarietà agli assassini del figlio. Coloro che innumerevoli volte hanno parlato della necessità di «isolare i violenti», coi violenti solidarizzano.

    In quell’occasione, l’allora ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri osservò che «chi ha manifestato non rappresenta la maggioranza dei poliziotti» (li rappresentava invece lei che li mandava in anti-sommossa a reprimere le proteste degli studenti) e l’allora capo della Polizia Gianni De Gennaro definì l’azione un «fatto da condannare» (lui che di fatti da condannare se ne intende).

    Questa volta ancora un’unanime condanna morale da prima pagina: il presidente del consiglio Matteo Renzi , il ministro dell’Interno Angelino Alfano e il capo della Polizia Alessandro Pansa rivolgono i propri sentimenti di vicinanza e di solidarietà ai genitori di Federico, indignati e agghiacciati dall’accaduto. A tali manifestazioni di solidarietà si accodano una serie di voci provenienti soprattutto dal PD e da SEL. Chi, come Cecilia Strada, presidente di Emergency, invita i «poliziotti democratici» a «dire qualcosa» aspettandosi nette prese di posizione, ottiene timide e ambigue esternazioni da parte di altre organizzazioni di polizia, come quelle di Ruggero Strano (segretario generale Autonomi di polizia) secondo cui «gli applausi di oggi sono una cosa vergognosa» ma non bisogna dimenticare che «questa vicenda ha mietuto solo vittime, da una parte e dall’altra», ad ulteriore dimostrazione di quanto poco peso e voce in capitolo i poliziotti “democratici” abbiano tra i reparti della Polizia di Stato.

    Matteo Renzi si dice solidale con la madre di Federico Aldrovandi, sia a titolo personale sia a nome di tutto il governo. Ma se Renzi volesse essere solidale più che a parole (perché la solidarietà è tale solo se si fa carne) potrebbe cominciare a pensare di fare qualcosa in suo potere. Potrebbe pensare di invertire la rotta di chi lo ha preceduto, riformando il sistema di selezione e addestramento delle forze di polizia; riformando il sistema carcerario affinché non esistano mai, in nessun posto, celle zero e spazi in cui si assiste ad una sospensione dello stato di diritto; introducendo il reato di tortura; arginando le derive autoritarie e le politiche repressive; ponendo le basi per la costruzione di un ambiente in cui gli abusi in divisa non si verifichino; garantendo che eventuali abusi in divisa vengano puniti integralmente e con la rimozione degli incarichi di chi insabbia, copre e spalleggia assassini, torturatori e corruttori. Finora, chi doveva essere punito non è stato mai trovato oppure ha ricevuto apprezzamenti, riconoscimenti e promozioni. Se Renzi è solidale deve invertire questa tendenza.

    E invece gli assassini di Federico saranno reintegrati nonostante le vive proteste.

    E invece chi rompe una vetrina sta dentro 12 anni e chi ammazza di percosse gratuite sta dentro qualche mese (se va bene).

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come i tre «sadici», gli aguzzini del carcere di Poggioreale. Come i macellai della Diaz. Come i torturatori di Bolzaneto. Come quelli che dal cavalcavia lanciano sassi sui manifestanti. Come quelli che sparano ad altezza uomo lacrimogeni vietati dalle norme internazionali. Come quelli che infieriscono in strada sui corpi di semplici cittadini fino ad ammazzarli. Come quelli che seviziano i detenuti. Come quelli che sgomberano a manganellate i blocchi di protesta dei migranti. Come quelli che sanno che resteranno impuniti.

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come tutte le altre volte.

    Tutta quella gente applaudiva, in massa all’unisono e col cuore, degli assassini. Mele marce un cazzo.

    congresso sap

  • Perché Facebook chiude

    Forse non tutti sanno che a questo sito è associata un’omonima pagina sul colosso blu, la rete sociale più diffusa nei paesi del mondo occidentale. La funzione di questo comunicato è informare che, salvo colpi di scena repentini o efficaci opere di convincimento, tale pagina si avvia alla chiusura.
    Tuttavia, per chiarezza, trasparenza e un po’ anche per rispetto verso chi l’ha seguita, in maniera attiva, con vivo interesse e sincero supporto oppure più passivamente, ma con altrettanto interesse, è opportuno ricostruire il percorso che porta alla decisione drastica di chiudere un possibile spazio di confronto e condivisione tra le maglie di quella rete che è Facebook, tanto più se ciò fornisce l’opportunità di esternare alcune riflessioni sul ruolo che Facebook svolge nell’organizzazione della vita personale, sociale e politica (l’esigenza di ripercorrere la storia per comprendere il presente è proprio quello che intendeva suggerire Friedric Jameson con la celebre raccomandazione: «storicizzare sempre!»).

    Alla cortese attenzione di lettori e lettrici

    primo post
    Il primo post della pagina Facebook “Reo tempo”, quando ancora si chiamava “Cultura Libertà”.

    Questa pagina si è presentata fin dal primo giorno (era il 5 ottobre 2012, ma il primo post risale all’8 ottobre) come un esperimento. La sua inaugurazione seguiva di quasi un anno la pubblicazione di una trilogia di post (qui, qui e qui) dedicata all’analisi di Facebook come strumento di controllo sociale e come struttura totalizzante e alienante, con accenni indiretti alla filosofia anarcocapitalista che lo sostiene dal punto di vista economico e politico.

    Dato che la posizione rispetto a quello strumento era netta e di forte critica dalle pagine di questo blog (che all’epoca portava il nome di Cultura! Libertà!), l’apertura della pagina suscitò ilarità, non senza qualche bonaria disapprovazione. Per rimediare, il campo “informazioni relative alla pagina” fu aggiornato per spiegare che «questo è un esperimento» e che l’obiettivo posto era quello di «fare rete, costruire una comunità intorno alle discussioni sui temi proposti, liberare con il sapere critico i fatti e le idee che li imbrigliano». Era un tentativo, quindi, di fare breccia nelle maglie del gigante scardinandone la logica assoggettante, il ruolo sociale e la struttura che, come riportato all’inizio della presentazione, «lo rendono un mezzo intrinsecamente inadatto alla costruzione critica del sapere». A diciotto mesi di distanza è possibile affermare che l’esperimento non è riuscito, per mancato raggiungimento degli obiettivi e per alcune esternalità negative che ha collateralmente prodotto, discusse in seguito.

    Dati alla mano, l’incremento di interazioni di stampo tipicamente facebookiano (condivisioni “pure” e “mi piace”) non ha prodotto un parallelo incremento di interazioni più adatte alla liberazione di quel «sapere critico», come potrebbero essere i commenti (con i dovuti accorgimenti sulla reale funzione di indicatore di partecipazione costruttiva). Dopo un fisiologico boom iniziale, durato qualche giorno, la pagina ha visto un calo di visite e di partecipazione talmente brusco da portare a chiedersi, già dopo appena una settimana, se avesse senso continuare a tenerla in vita. Lo stesso dubbio si ripresentò dopo poco più di tre mesi dall’inaugurazione della pagina. Una settimana o tre mesi sono effettivamente periodi di breve durata, specialmente se si tratta del raggiungimento di propositi tanto ambiziosi.

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    Per ovviare a tale problema, in perfetto stile riformista l’obiettivo a lungo termine fu momentaneamente abbandonato per insistere su una serie di strategie il cui scopo sarebbe stato aumentare il livello di partecipazione a carattere propriamente facebookiano (numero di “mi piace” ricevuti dalla pagina, numero di “mi piace” o condivisioni dei singoli post) ovvero irrilevanti per l’obiettivo a lungo termine, nella speranza che l’incremento della platea avrebbe prodotto in seguito, per semplici motivi statistici, un incremento di partecipazione attiva, di elaborazione e condivisione di idee, di discussione critica.

    Così cominciò il periodo delle citazioni, con ritmi di diverse al giorno, in modo da saturare il traffico diretto alla pagina senza renderla produttore indesiderato di informazioni e notifiche. Molte citazioni piacevano (o meglio, erano “mipiaciute”) ed erano condivise, portando di tanto in tanto manciate di nuovi lettori che, cliccando “mi piace” sulla pagina, decidevano di tenersi aggiornati.

    Tuttavia, seppure l’obiettivo ultimo fosse temporaneamente passato in secondo piano rispetto alle incombenze presenti, rimaneva comunque chiaro che non era una pagina di citazioni che si voleva costruire. Alle citazioni si sostituirono piccole rassegne stampa selettive accompagnate da commenti critici che permettessero di mettere in luce particolari aspetti generalmente trascurati da chi legge una notizia. Il numero di “mi piace” cresceva lentamente ma costantemente, ogni nuovo lettore era terra conquistata.

    Fin qui il racconto mette in luce una cosa interessante: che per vivere e prosperare dentro una struttura non puoi che essere riformista. Anche ad un livello così banale, poco serio e stupido (ma ditelo a chi ci guadagna miliardi) come Facebook, la volontà di crescere al suo interno ha comportato inevitabilmente la rinuncia ad obiettivi primari, trasformandoli in obiettivi “a lungo termine”, e la loro sostituzione con obiettivi immediati che siano conformi alla struttura generale del dispositivo. Inoltre, e ho volontariamente marcato questo anche nel linguaggio dei precedenti paragrafi, con la concezione della pagina Facebook è cambiato anche il modo di gestirla: i contenuti del “produttore di informazioni e notifiche” che è la pagina sono stati rivolti ad una “platea” per aumentare il “traffico”. C’è stato uno spostamento, almeno inizialmente non conscio, dalla riflessione allo spettacolo, dal pensiero all’intrattenimento, dalla partecipazione attiva all’assorbimento passivo. C’è stato uno scivolamento pericoloso dal dissenso al consumo di dissenso.

    La quantità di contenuti, in virtù della necessità di tenere alto il traffico nella speranza di accrescere il pubblico di lettori (diventati spettatori), è stata spesso mantenuta artificialmente alta attraverso la pubblicazione di immagini, grafici e articoli, e le analisi più o meno approfondite che inizialmente li accompagnavano si sono sempre più ridotte fino a diventare brevi commenti o addirittura sparire del tutto, perché la mancanza di partecipazione critica non invita alla produzione di analisi. Questo ha trasformato la pagina in poco più che un aggregatore di notizie, lontanissimo da ciò che inizialmente ambiva ad essere.

    In aggiunta a questi problemi tutti interni alla struttura del dispositivo, si può menzionare almeno un’esternalità negativa. Il tempo e le energie spesi nella gestione della pagina Facebook dedicata al blog hanno paradossalmente provocato un calo di attività sul blog stesso. Ciò può essere ricondotto ad almeno due ragioni a cui qui e ora si farà riferimento come “spostamento del baricentro” e “canalizzazione alternativa”.

    Lo spostamento del baricentro è il cambiamento dello spazio di aggregazione dei lettori: se il fulcro dell’attività di dibattito tra i lettori prima era il blog, ora tale ruolo (seppur in un’altra forma, non di dibattito ma di notifica) è stato assunto indubitabilmente dalla pagina Facebook. Nei primi tempi ogni post era accompagnato dall’invito a commentare, eventualmente, sul blog (abitudine persa quando è stato evidente dai dati che un numero infimo di visite al blog proveniva dalla pagina Facebook producendo commenti in calce ai post sul blog) e tuttora la presentazione recita «non sarà esattamente un trasloco: semplicemente, gli articoli verranno inseriti anche in questa pagina, contestualmente alla loro pubblicazione, ma mantenendo una propria esistenza a prescindere da Facebook». Dal punto di vista informatico è ancora così, ma ciò che socialmente è avvenuto è un chiaro spostamento.

    Per canalizzazione alternativa si intende qui la tendenza ad investire tempo ed energie per la gestione della pagina Facebook sottraendone alla gestione del blog (con conseguente dirottamento anche degli obiettivi). Pare che questo fenomeno abbia un carattere generale: dove si assiste ad una crescita nell’uso dei social network, si osserva anche un calo nell’attività dei blog. Il motivo è semplice: i social network semplicemente distraggono.

    Queste due ragioni si alimentano reciprocamente: se il fulcro dei lettori si sposta contribuendo alla canalizzazione alternativa delle energie e della creatività, chi scrive avrà sempre meno motivi (meno commenti, meno dibattiti, meno stimoli e spunti di riflessione) per occuparsi di un fulcro abbandonato, e ciò costituirà per i lettori un motivo in più per abbandonarlo del tutto.

    Alla fine di questa lunga riflessione, ci si potrebe chiedere se non sia forse io, in realtà, semplicemente incapace di gestire questo particolare canale di espressione, questo potenziale veicolo di pensiero critico che è Facebook, e se non proietti forse la mia incapacità su Facebook accusandolo ingiustamente.

    Non è ovviamente da escludere, ma per il momento la mia opinione resta quella di tre anni fa: la natura di Facebook è alienante, totalizzante, antirivoluzionaria (non è questo il momento di spiegare in dettaglio ogni singolo attributo), la sua struttura è strumento di inevitabile controllo e di possibile repressione, rimane «un mezzo intrinsecamente inadatto alla costruzione critica del sapere».

    In che modo un “mi piace” apre la mente, produce e libera sapere critico?
    Chiudo questa pagina Facebook perché Facebook chiude.