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  • L’incredibilmente poco credibile solidarietà dell’ENI alla famiglia Regeni

    Un articolo del 1 marzo 2016 su La Repubblica riporta le dichiarazioni di Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’ENI, interpellato da Amnesty Inernational in merito al caso Regeni e alle polemiche sugli affari d’oro che la compagnia sta facendo in Egitto con il beneplacito del Presidente della Repubblica egiziano Abd al-Fattah al-Sisi nonostante si tratti di un dittatore insediatosi al potere tramite colpo di Stato militare e accusato di sistematiche violazioni dei diritti umani.

    La richiesta di Amnesty International e della famiglia Regeni all’ENI è di sfruttare la sua posizione di interlocutore privilegiato con il governo egiziano, in virtù degli accordi commerciali sull’energia, per esercitare pressioni affinché le autorità egiziane conducano una seria inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. «Aiutateci, vista la vostra presenza nel Paese e gli accordi commerciali, a spingere le autorità egiziane a chiarire al più presto le circostanze dell’omicidio e ad accertarne le responsabilità».

    La pronta riposta dell’ENI è stata: «Le risposte che la famiglia Regeni attende sono risposte importanti anche per noi, perché il rispetto di ogni persona è alla base del nostro operare e perché siamo impegnati nello sviluppo. Abbiamo fiducia nel lavoro che si sta facendo da parte dei governi egiziano e italiano».

    Come è evidente a chiunque, da questa risposta si evincono tre cose. Uno: che la verità sul caso Regeni è importante per l’ENI. Due: che il rispetto di ogni persona è alla base della sua politica aziendale. Tre: che l’ENI ha motivo di riporre fiducia nelle indagini in corso per appurare la verità. Ciascuna di questre tre frasi è falsa.

    1. «Le risposte che la famiglia Regeni attende sono risposte importanti anche per noi»

    Nelle settimane che hanno seguito il ritrovamento del corpo di Giulio Regeni (avvenuto il 4 febbraio 2016), le autorità egiziane nonostante l’imbarazzo hanno rassicurato l’Italia, preoccupata per gli interessi di importanti aziende italiane in Egitto, che il caso diplomatico non avrebbe compromesso gli investimenti e gli accordi commerciali. In risposta, l’Italia, come sottolineato da un funzionario, ha ribadito che «nessuno da parte italiana vuol mettere in discussione le intese sulle quali stiamo lavorando: dal punto di vista tecnico, l’omicidio e le relazioni economiche sono due questioni scollegate». E infatti, il ministero del Petrolio e delle Risorse Minerarie egiziano ha approvato l’assegnazione all’ENI del “contratto di sviluppo di Zohr” che garantisce la possibilità dell’ENI di sfruttare «il più grande giacimento di gas mai rinvenuto nel Mediterraneo», al largo delle coste egiziane, confermando l’avvio dei lavori per l’estrazione (l’inizio della produzione è previsto entro la fine del 2017) in vista di una produzione a regime di circa 75 milioni di metri cubi standard di gas al giorno (equivalenti a circa 500 mila barili di olio equivalente al giorno) entro il 2019. Il 26 febbraio l’ENI ha annunciato con soddisfazione «nuovi successi esplorativi in Egitto»: «recentemente Eni ha annunciato di aver completato con le autorità egiziane il processo autorizzativo per lo sviluppo del giacimento di Zohr».

    Claudio Descalzi, amministratore delegato ENI, in cordiale compagnia di Al-Sisi, dittatore egiziano
    Claudio Descalzi, amministratore delegato ENI (al centro) in cordiale compagnia di Al-Sisi, dittatore egiziano (a destra)

    Qualcuno potrebbe obiettare: e questo cosa c’entra? Non può Claudio Descalzi, a prescindere dalle frequentazioni che intrattiene e dagli affari commerciali che cura in Egitto, manifestare vicinanza umana nei confronti della famiglia di Giulio Regeni e ritenere importanti le risposte dovute a chi chiede verità e giustizia?

    Certo, può farlo in quanto Claudio Descalzi; ma bisogna ricordare che Claudio Descalzi ha rilasciato questa dichiarazione in qualità di amministratore delegato, e dunque rappresentando non tanto il proprio interesse di singolo cittadino, quanto piuttosto l’interesse dell’azienda di cui è amministratore delegato (infatti dice «importanti per noi»). Quando dice che le risposte che la famiglia Regeni attende sono importanti, Claudio Descalzi non parla a nome di Claudio Descalzi, ma a nome dell’ENI. E per l’ENI tali risposte non sono in alcun modo importanti, giacché l’ENI in quanto azienda ha un unico interesse strutturale: il profitto. Un profitto di cui è stato limpidamente ammesso che non sarà intaccato dagli sviluppi di questa torbida vicenda. E soprattutto, da questa posizione emerge che l’ENI non ha intenzione di esercitare pressioni sulle autorità egiziane perché si faccia luce sulla verità di quanto è accaduto: le risposte che la famiglia Regeni attende sono importanti, ma l’ENI non c’entra nulla.

    2. «Il rispetto di ogni persona è alla base del nostro operare»

    Per l’ENI fare affari con dittatori e assassini, e dunque legittimarli, non è cosa nuova.

    Il sito ufficiale riporta una lista dei paesi in cui l’azienda opera attualmente, con in cima Arabia Saudita, Iran, Libia, Egitto, Kazakistan, Turchia, Nigeria, tutti paesi i cui governi si macchiano di violenze sistematiche nei confronti di almeno una parte della popolazione, con scarso rispetto dei diritti umani, come denunciato da Amnesty International e l’Osservatorio per i Diritti Umani presso l’ONU. Avere a che fare con certi soggetti riconoscendoli come validi interlocutori per discutere di affari significa dar loro legittimità politica, per quanto, si potrebbe dire, l’ENI non è coinvolta direttamente nelle violazioni perpetrate dai regimi in questione.

    Eppure, anche volendo scagionare l’ENI dall’accusa di non rispettare indirettamente i più basilari diritti, ci si troverebbe presto di fronte a un problema: l’ENI stessa direttamente viola basilari diritti. Come quelli sindacali, quando a Zhanaozen, in Kazakistan, per sei mesi gli operai di un industria petrolifera del gruppo ENI scioperarono per chiedere migliori condizioni di lavoro e l’unica cosa che ottennero, a parte il rifiuto di ogni trattativa, il licenziamento degli operai sindacalmente più attivi, le minacce e le aggressioni fisiche, furono le pallottole della polizia che uccise dodici di loro, nel contesto di una repressione generale dei lavoratori del petrolio che fece almeno un centinaio di morti; o quelli alla salute e all’autodeterminazione, dal momento che in Nigeria l’ENI e le sue consociate, come tutte le altre compagnie petrolifere presenti su quel territorio, sono responsabili di devastazione ambientale, avendo contaminato con fuoriuscite dagli oleodotti falde acquifere, corsi d’acqua, foreste, formazioni a mangrovie e campi coltivati dai quali le comunità locali traggono il proprio sostentamento; nello stesso Paese l’ENI pratica il gas flaring, un processo fortemente inquinante per l’atmosfera; tutto questo è stato fatto scontrandosi con le popolazioni pocali del Delta del Niger la cui protesta è stata repressa nel sangue da milizie private aziendali o dall’esercito regolare nigeriano dietro lauto compenso delle compagnie petrolifere. La quantità di operazioni irrispettose dell’ambiente, della salute e dei diritti di interi popoli è tale da costituire materiale sufficiente per un costante lavoro di aggiornamento e controinformazione condotto da un sito apposito. Si ha ben ragione di nutrire qualche dubbio sull’affermazione di Descalzi secondo cui «il rispetto di ogni persona è alla base» delle azioni dell’ENI.

    Un pescatore locale circondato da pozze di petrolio. Le comunità locali denunciano che fra ENI e le altre ditte del petrolio la zona è costantemente soggetta a inquinamento da perdite dagli oleodotti. I petrolieri raramente si preoccupano di ripulire i danni. Non sanno perché sia successo, né come, né di quanto petrolio si tratti. Succede tutto «a loro insaputa».

    Fa un certo effetto leggere uno degli slogan pubblicitari dell’ENI, che recita «l’energia è una bella storia», proprio accanto ad un’articolo di Nicholas Newman pubblicato sul sito ENI dal titolo Un esercito sostenibile, che elogia le virtù del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, «il più grande consumatore di energia e petrolio al mondo» ma anche impegnato, ultimamente, a ridurre le spese, risparmiare energia e investire maggiormente nelle energie alternative». Si va dalla sperimentazione di «motori adattativi» per ottimizzare il consumo di carburante all’uso di sistemi di propulsione ibridi per i veicoli militari. Tra le altre cose, «vengono anche testate docce che riciclano l’acqua per successivi usi, per lavarsi o lavare i panni. Dispositivi che possono essere alimentati da batterie solari o celle a combustibile compatte riescono a far funzionare i climatizzatori, le comunicazioni, i computer e i sistemi elettrici ausiliari sul campo, migliorando la qualità della vita e la sicurezza».

    Forse l’articolo di riferisce alla qualità della vita dei pazienti dell’ospedale MSF di Kunduz, in Afghanistan, bombardati e uccisi il 3 ottobre 2015 dagli aerei NATO, o forse alla sicurezza dei pazienti dell’ospedale di Erbin, in Siria, colpiti il 23 novembre 2015 da missili sulla cui provenienza nessuno ha fatto luce. L’esercito elogiato dall’articolo dell’ENI è coinvolto in decine di missioni militari in tutto il mondo, che provocano morte, sfollati, distruzione anche per assicurarsi il controllo dell’energia. Un’energia che non è dunque «una bella storia», almeno non proprio bella come l’ENI vorrebbe dipingerla.

    Insomma, per l’ENI la guerra è bella se si rispetta l’ambiente (ammesso poi che una divisione di carri armati ibridi che fa saltare in aria un pozzo di petrolio strategico sia meno dannoso per l’ambiente di, per esempio, una normale divisione di carri armati che fa saltare in aria lo stesso pozzo di petrolio strategico). La riduzione dell’inquinamento giustifica e rende accettabile, preferibile e quasi desiderabile la guerra pulita. Non dovremmo prevenire le guerre od opporci ad esse, dovremmo continuare a farle usando armi biodegradabili. Speriamo che i missili che hanno colpito l’ospedale di Erbin fossero rispettosi dell’ambiente.

    3. «Abbiamo fiducia nel lavoro che si sta facendo da parte dei governi egiziano e italiano»

    È alquanto singolare che qualcuno, di chiunque si tratti, possa essere fiducioso nel comportamento del governo egiziano per lo svolgimento delle indagini sulla morte di Regeni. Il governo egiziano attualmente in carica si è insediato con un colpo di Stato militare il 3 luglio 2013 deponendo il presidente Muhammad Morsi legittimamente eletto nelle elezioni del 2012, le prime dopo la Rivoluzione Egiziana del 2011 che aveva posto fine alla dittatura di Mubarak.

    Fin dall’insediamento, il governo egiziano si è reso responsabile di arresti arbitrari in massa di decine di migliaia di persone, detenzioni illegali, orribili episodi di tortura e decessi in custodia di polizia. Un mese dopo il colpo di Stato militare, il governo inaugurava la repressione di massa con il massacro di 638 persone, il 14 agosto 2013, e la successiva messa al bando dell’opposizione e condanna a morte di circa 1.200 dei suoi dirigenti. In un articolo pubblicato da Il manifesto l’estate scorsa, si conta che dal febbraio 2014 al gennaio 2015 sono state 415 le persone condannate a morte in processi di massa e spesso irregolari. In altri casi, come quello dello studente Ahmed Hus­sein, si è ricorso a una detenzione indefinita, senza processo e senza accusa. Al 2016 sono 3.000 i condannati a morte.

    Secondo Reporter Senza Frontiere, l’Egitto è oggi il secondo paese al mondo per numero di giornalisti imprigionati. In un clima del genere, come si può pensare che le indagini per accertare la verità, che fanno sempre più pensare ad un coinvolgimento diretto dei servizi segreti egiziani, possano svolgersi con correttezza e imparzialità e senza condizionamenti politici ed influenze da parte delle autorità egiziane per insabbiare e depistare?

    E inoltre, come si può pensare che il governo italiano eserciti efficacemente pressioni per l’accertameno della verità, alla luce degli enormi interessi economici italiani in Egitto e soprattutto dopo le numerose volte in cui si è mostrato accondiscendente e compiacente anche sul piano politico?

    Matteo Renzi (a sinistra) in cordiale compagnia di Al-Sisi, dittatore egiziano (a destra)

    Nel 2014 Renzi accolse al-Sisi a Roma come colui che avrebbe collaborato a sconfiggere «terrorismo e radicalismo grazie alle scuole e all’educazione», dimenticando che le scuole e le università egiziane erano ormai militarizzate, presidiate dai servizi segreti e soggette a continue incursioni dell’esercito per arresti di massa e repressione del dissenso; nel luglio 2015, quindi dopo che la ferocia repressiva e sanguinaria del regime egiziano era già nota da tempo, Matteo Renzi definì il dittatore egiziano «un grande leader» e «l’unica speranza per l’Egitto»; il sostegno è stato ribadito ancora da Renzi proferendo al dittatore, definito «un grande statista» che detiene «il merito di aver ricostruito il Mediterraneo» (ma che cazzo significa?), le parole «La tua guerra à la nostra guerra, e la tua stabilità è la nostra stabilità»; la lista di complimenti si allunga fino ad arrivare al 18 gennaio 2016, appena due settimane prima del ritrovamento del corpo di Giulio Regeni, quando Renzi definì i rapporti con l’Egitto «eccellentissimi».

    «Altri leader di altri paesi occidentali, che pure hanno rapporti amichevoli con l’Egitto, non si sono spinti a usare parole tanto celebrative per al Sisi», spiega Stefano Torelli, ricercatore dell’ISPI. Forse questo è sintomo della tradizionale tendenza delle istituzioni italiane all’amore per la pomposità cerimoniale e all’incensamento chi sembra avere la meglio, cambiando di volta in volta ala sotto cui accomodarsi (o culo su cui spalmare la lingua).

    L’indiscutibile sostegno politico manifestato dall’Italia al dittatore egiziano è garanzia di copertura e impunità; il governo italiano è complice di quel senso di impunità che consente ai servizi di sicurezza di torturare e di uccidere senza che questo abbia ripercussioni. E né all’Italia né all’Egitto conviene che ci siano ripercussioni di sorta: gli interessi commerciali e geopolitici in gioco sono talmente imponenti (ricorda Marina Forti che circa 130 aziende italiane operano in Egitto, in particolare in settori come finanza, cemento, turismo, energia, trasporti, logistica) che qualche decina di migliaia di arresti, la repressione del dissenso, la violazione dei diritti umani, migliaia di morti sono un equo prezzo da pagare. Risulta difficile pensare che in questo prezzo non sia inclusa anche la docilità e la mancanza di determinazione nell’accertare verità pericolosamente scomode.

    Conclusione

    Rileggiamo dunque la dichiarazione rilasciata dall’ENI in risposta alla richiesta di intervenire come interlocutore privilegiato per esercitare pressioni sulle autorità egiziane.

    «Le risposte che la famiglia Regeni attende sono risposte importanti anche per noi, perché il rispetto di ogni persona è alla base del nostro operare e perché siamo impegnati nello sviluppo. Abbiamo fiducia nel lavoro che si sta facendo da parte dei governi egiziano e italiano».

    Traducendo: no, non eserciteranno pressioni per ottenere risposte, e perché dovrebbero? Del resto, tutte le volte che l’ENI ha esercitato pressioni sulle autorità di questo o quel paese è stato per reprimere le lotte sindacali, come in Kazakistan, o la resistenza delle popolazioni locali, come in Nigeria. Mai per ottenere verità, sempre per nasconderla o ricacciarla nell’angolo dei vinti.

    Per finire, è da notare un’ultima cosa. Un altro elemento significativo è che La Repubblica abbia scelto di pubblicare questo scambio senza alcun commento che possa riportare alla mente le responsabilità che l’ENI ha e ha avuto con regimi dittatoriali: di fatto, nel limitarsi semplicemente a riportare il virgolettato dell’amministratore delegato, pare che la notizia nasca più dalla volontà di dare all’ENI una patina di credibilità e impegno per i diritti umani che di produrre un’informazione completa come quella che una testata nazionale dovrebbe essere tenuta a fornire. Il fatto che La Repubblica sia finora l’unico giornale a tiratura nazionale ad aver riportato, tra l’altro con dubbia imparzialità, le dichiarazioni di Descalzi (facendone una notizia con tanto di titolo sulla home del sito) è insolito e rende ancora più sospetta l’ambiguità dell’articolo. Oppure, con meno malizia, occorre accettare il fatto che, come accade fin troppo spesso, siamo soltanto di fronte a un esempio di giornalismo raffazzonato e poco professionale (a voler essere buoni).

  • Demistificazione di un’immagine

    Da qualche tempo, a chi si trova a passare dalla stazione di Bologna può capitare di imbattersi in una suggestiva gigantografia pubblicitaria. Si tratta di una fotografia che ritrae una fila di agenti di sicurezza schierati in primo piano su uno sfondo che lascia intendere un contesto di tensione e di emergenza; sull’asfalto, distesi per terra in quello che pare essere un tenero abbraccio, due giovani si baciano, lui chino sul corpo di lei. In alto campeggia la scritta a caratteri cubitali: “Pull Love”. In basso, la frase a effetto, banale ma partorita dalla mente di un geniale consulente pubblicitario: “Love wins”.

    lovewins

    Se qualcuno, come chi scrive, non fosse esperto di moda made in Italy e di tendenze dell’abbigliamento italiano, probabilmente dovrebbe informarsi su un marchio di cui fino a qualche giorno fa ignorava l’esistenza. Pull Love è un’azienda italiana. Su una pagina del sito si apprende che Pull Love è una catena di abbigliamento nata nel 2009, con sede legale a Roma, e che il gruppo industriale cui appartiene è uno dei principali fornitori di Coin-Oviesse, Gruppo Bennet, Carolina Herrera. Come si può constatare recandosi ad uno dei punti di vendita distribuiti tra territorio nazionale ed estero o più semplicemente visitando il sito ufficiale, Pull Love fa ampio e disinvolto utilizzo di suddetta fotografia, ritagliandola, girandola, zoomandone dettagli, modificandola con l’aggiunta del proprio marchio o di frasi promozionali e slogan pubblicitari senza peraltro mai citare la fonte. Anzi, in fondo al sito compare la dicitura “Pull-Love All Rights Reserved” lasciando intendere che, ove non espressamente specificato, il materiale è sottoposto alle leggi vigenti sul diritto d’autore, e dunque i diritti sarebbero accampati anche sulla fotografia in questione.

    Comunque, a prescindere da supposte irregolarità giuridiche, è doveroso notare e far notare un fatto: l’uso a scopo commerciale di questa immagine si basa su un falso storico, e sulla base di tale falsa interpretazione l’azienda Pull love attribuisce alla fotografia in questione una funzione di comodo, quella di veicolare un messaggio quasi evangelico di vittoria dell’amore che suona bene data l’assonanza con il nome dell’azienda.

    Facciamo un passo indietro. Per conoscere la fonte, serve un minimo di memoria visiva: l’immagine infatti ebbe grande diffusione nel 2011, grazie alla pubblicazione sui giornali di tutto il mondo. Lo scatto originale è del fotografo Richard Lam e risale agli scontri verificatisi tra polizia e gruppi di tifoseria il 15 giugno 2011 a Vancouver in occasione della coppa di hockey Stanley Cup.

    Lo scatto originale (Richard Lam, 2011)

    Con quello scatto, cogliendo l’attimo in cui al violento caos circostante sembrava contrapporsi il bacio sereno di una giovane coppia, Richard Lam ebbe la fortuna di produrre quella che sarebbe poi divenuta l’icona della giornata, pubblicata su tutti i giornali. Qualcuno sospettò addirittura che fosse tutto una messa in scena, ma lo stesso Richard Lam si mostrò stupito della suggestività ottenuta e dichiarò di non aver avuto idea, al momento dello scatto, di cosa stesse effettivamente ritraendo. In effetti fu soltanto in seguito che i due giovani, Scott Jones e Alex Thomas, si riconobbero nei protagonisti del “bacio di Vancouver”.

    L’immagine del bacio divenne in poche ore simbolo dell’amore che si contrappone alla violenza. Tuttavia, a soli due giorni dalla glorificazione del bacio come simbolo di pace e amore, fu chiarito che non si trattava di un bacio.

    Come spiegava The Guardian già il 17 giugno 2011, «la vera forza dietro a quell’immagine non è il romanticismo, ma una carica della polizia anti-sommossa che ha spinto Scott Jones e la sua ragazza, Alex Thomas, per terra». Un testimone raccontava l’episodio così: «è successo che la linea di polizia si è precipitata sulla folla e questa coppia, cercando di stare insieme, non poteva reagire in tempo ed è stata investita da due agenti. […] Lei soffriva visibilmente, piangeva, ma i due agenti hanno strattonato la coppia per separarli e hanno proseguito. Dei passanti sono accorsi per assicurarsi che la ragazza stesse bene. Capisco che la polizia debba poter controllare la folla ma è ridicolo che non ci fossero altri ufficiali o paramedici per soccorrere eventuali feriti». La drammatica scena descritta dai testimoni è abbastanza chiaramente rappresentata da uno scatto dello stesso fotografo, successivo al primo di pochi secondi, in cui Scott ha tutta l’aria di essere più preoccupato che appassionato, nonché da un video pubblicato tempo dopo, in cui la violenza della scena è evidente.

    Il secondo scatto (Richard Lam, 2011)

    «How’s that for making love, not war» si chiedeva con disappunto un esterrefatto Brett Jones, padre di Scott: come sarebbe? L’immagine di mio figlio spinto a terra dalla polizia sarebbe un esempio di amore e non di guerra?

    Nonostante ciò, la falsa interpretazione dell’immagine era ormai sdoganata: sulle riviste di gossip, sui social network, sulla stampa più o meno seria, ovunque nel mondo il “bacio di Vancouver” era stato associato all’amore appassionato e avulso dalla violenza caotica dei disordini. Ed a ciò continuò ad essere puntualmente associato, dalle stesse riviste e dalla stessa stampa che avevano smentito quella particolare lettura dell’immagine. Del resto, a quanto pare è un genere che tira: come biasimarli? Quale modo migliore di neutralizzare l’analisi dei momenti conflittuali e della violenza sociale se non mettendo in fila banali stereotipi e semplificazioni e affogandola in una serie di immagini suggestive ed esteticamente appaganti?

    In Italia, dopo aver pubblicato prontamente la smentita, tre anni dopo, La Repubblica il 16 aprile 2014 pubblica ancora una raccolta di immagini intitolata Baci e abbracci fra cronaca e storia (link) in cui ricompare il “bacio di Vancouver” con la didascalia «due ragazzi si baciano durante la guerriglia a Vancouver, 2011». E se lo fa un giornale dopo aver smentito, figuriamoci gli altri utenti della rete. Ormai l’immagine servirà a confermare il significato che le si è voluto dare, anziché essere il significato costruito sulla realtà dei fatti rappresentati dall’immagine.

    Manifesto pubblicitario di Pull Love

    Così, arriviamo al 2016 e all’annuncio pubblicitario alla stazione di Bologna. Lo scatto di Richard Lam a Vancouver, per meno di due giorni ha rappresentato un bacio, per più di quattro anni no. Ma nell’uso sociale che se ne fa, è rimasto un bacio. Addirittura, Pull love ha riscritto l’identità dei personaggi, aggiungendo la scritta “Made in Italy”, nonostante la coppia sia composta da un australiano e una canadese e la foto sia stata scattata a Vancouver. Made in Italy?

    E soprattutto, perché “L’amore vince”? L’immagine di una coppia travolta da una carica e spinta per terra dalla polizia sarebbe un esempio di amore? A quanto pare, secondo Pull love, sì. Seppur dopo anni di smentite, verifiche e ricostruzioni.

    Sarà chiaro adesso perché l’operazione intrapresa dai pubblicitari che hanno sfruttato a scopo commerciale la fotografia di Richard Lam sia un caso di mistificazione delle immagini. Malauguratamente, si tratta di un processo frequente ed estremamente diffuso, che riguarda non solo immagini ma anche dati, fatti, documenti di ogni tipo, travisati o ricontestualizzati in una versione di comodo al servizio di interessi particolari. Basti pensare all’«abuso pubblico della storia», concetto ben discusso da Aldo Giannuli in un omonimo saggio, o all’uso negazionista o revisionista che gruppi di utenti fanno di innumerevoli pagine wikipedia, come smascherato dal collettivo Nicoletta Bourbaki, o alla diffusione da parte della stampa di un video dell’ormai nota notte di Colonia poi risultato risalente alla repressione delle rivolte egiziane di Piazza Tahrir nel 2012, o ancora ai lampanti falsi storici delle immagini di guerra usate strumentalmente per raccontare la cosiddetta “giornata del ricordo”, come analizzato da Piero Purini su Giap.

    A proposito, se ve lo steste chiedendo: no, la data di pubblicazione di questo articolo non è casuale.

  • Qualche considerazione geopolitica

    Negli ultimi giorni si sono verificati eventi degni di nota sul piano degli equilibri di potere internazionali: lo scontro tra Riyad e Teheran, con ricadute sui rapporti con Washington, e lo scontro tra Turchia e Russia, riportato alla luce dalle esplosioni di Istanbul.

    L’esecuzione di 47 detenuti, tra cui sia jihadisti salafiti che dissidenti sciiti per motivi religiosi o politici, ha costituito per l’Arabia Saudita allo stesso tempo l’occasione per compiacere le potenze occidentali impegnate almeno a parole sul fronte anti-terrorismo e il pretesto per eliminare il dissenso interno al mondo islamico, ravvivando il millenario conflitto tra sunniti e sciiti. Si badi bene che tale conflitto non è stato «riacceso» da questi fatti, come sostiene buona parte della stampa: esso è sempre stato acceso e gli sconvolgimenti in corso in Medio Oriente, con la ridefinizione delle sfere di influenza saudita (tramite la guerra in Yemen, diventato ormai un Vietnam arabo, e l’unilaterale proclamazione di velleitarie e improbabili alleanze) e le conquiste dello Stato Islamico in Siria e Iraq, lo mostrano chiaramente. Che la situazione di tensione sarebbe sfociata in un innalzamento della guardia da parte di Teheran, sciita, nei confronti di Riyad, sunnita, era prevedibile, e ancora una volta l’Arabia Saudita ha colto la palla al balzo spostando l’attenzione dalle condanne a morte all’assalto incendiario ad una sede diplomatica in Iran, prontamente condannato dai paesi atlantici.

    In questo contesto va letta la notizia delle ultime ore della cattura da parte dell’Iran di due navi USA, poi subito rilasciate perché «non è stato un atto ostile: l’ingresso di marinai americani in acque iraniane era dovuto a un guasto del sistema di navigazione». Che ciò sia vero o meno, suona come un avvertimento: la tensione è alta e l’Iran non può lasciare che il tradizionale legame tra regime saudita e USA esca rafforzato dalla solidarietà che la comunità internazionale (USA in primis) ha manifestato a Riyad per la questione dell’assalto alle sedi diplomatiche. L’Iran si aspetta una violazione ed è pronta a intervenire, sembra voler dire “siamo sul chi vive”; ma anche l’invasione “accidentale” delle acque territoriali iraniane da parte delle navi statunitensi potrebbe essere un avvertimento. Per questo Teheran sembra anche voler dire a Washington che non conviene mettere a repentaglio l’accordo risultato dal lungo negoziato sul nucleare.

    L’altro scontro riguarda la Turchia, seconda potenza militare NATO dopo gli USA, e la Russia. Dopo gli avvenimenti di un mese fa, quando due aerei militari russi in missione in Siria furono abbattuti dai missili turchi perché «violavano lo spazio aereo turco» (secondo le autorità turche, ma ciò risulta poco probabile) ci sono stati forti momenti di tensione in cui Russia e Turchia hanno decretato reciproche sanzioni la Turchia ha cercato l’appoggio degli alleati occidentali. L’impressione è che la Turchia abbia architettato la vicenda per forzare la mano e capire fino a che punto gli alleati NATO siano disposti a spingersi nel sostenerla (in cambio del rallentamento dei flussi migratori e dell’impegno contro la minoranza curda, ricordando che il PKK è ancora incluso nelle liste del terrorismo in USA e UE e che la Turchia ha interesse che la situazione non cambi) nei suoi interessi in Siria, dove la Russia appoggia le forze di Assad, invise ad Ankara. Del resto, che i servizi segreti turchi (soprattutto, ma anche le autorità turche in generale) siano capaci delle più atroci nefandezze e del più freddo cinismo è dimostrato, senza risalire troppo indietro, dagli ambigui se non amichevoli rapporti con l’ISIS, dalla politica militare di pulizia etnica che sta perseguendo nel sudest del paese nei confronti della minoranza curda e da come gestisce gli ormai frequenti attentati terroristici, in termini politici, mediatici e di intelligence.

    Alla luce di questo, gli ultimi aggiornamenti sulle esplosioni verificatesi a Istanbul, assumono un significato particolare: nelle prime ore, Erdogan si è affrettato a dichiarare che l’attentatore aveva origini siriane, cosa poi risultata non vera, dunque o Erdogan ha inventato questa informazione per dare l’impressione di avere tutto sotto controllo (o addirittura per avvertire di avere tutto sotto controllo) oppure qualcuno l’ha confezionata appositamente perché venisse comunicata (per esempio i servizi segreti turchi). A prescindere dalla fonte di questa informazione falsa, la presunta nazionalità siriana tornerebbe comoda perché riporta alla mente il ruolo che la Turchia gioca nella gestione dei flussi migratori verso l’Europa, quindi servirebbe come ulteriore monito agli alleati della Turchia. Inoltre, bisogna tenere conto che finora in Turchia nessun attentato aveva colpito turisti stranieri: spiazzate da questo elemento inconsueto, le autorità turche hanno azzardato un’ipotesi che sarebbe stata plausibile tanto nel caso in cui questa novità fosse venuta dal terrorismo curdo (i curdi siriani sono in contatto con il PKK) quanto da quello islamico dell’ISIS (di certo più atteso, visti i ripetuti allarmi dei servizi segreti), mantenendo un’immagine di prontezza ed efficienza. In ogni caso, l’informazione falsa, per quanto plausibile, si è rivelata appunto falsa: l’attentatore è un saudita.

    Erdogan ha agito su due fronti all’indomani dell’attentato ad Istanbul, e nessuno di questi due fronti riguarda l’ISIS. Uno è la questione curda, che considera ascritta al terrorismo tanto quanto l’ISIS; l’altro è il rapporto con la Russia. Infatti, stamattina tre russi sono stati fermati ad Antalya (quella città dove poco tempo fa Renzi ha stretto la mano agli amici dell’ISIS) per «sospetti legami con l’ISIS». Anche questo dato, per quanto plausibile, suona come un inasprimento della tensione con la Russia, soprattutto alla luce del fatto che il consolato russo ad Ankara tiene a sottolineare che «i motivi della detenzione devono essere ancora chiariti». Insomma, complessivamente oggi in Turchia sono state fermate 65 persone, tra cui i tre russi, 15 siriani e un turco. Perché si sta dando così tanta risonanza alla notizia dell’arresto di tre cittadini russi, se gli inquirenti ancora non sono riusciti neanche a stabilire se esiste qualche legame con l’attacco di Istanbul?

    A volte le notizie vanno lette tra le righe…


    AGGIORNAMENTO 13 gennaio ore 19:00

    Ora che l’attentatore suicida di Istanbul ha un nome, gli inquirenti stanno cercando di dargli un volto: Nabil Fadli, saudita, 28 anni, secondo le forze di sicurezza turche il 5 gennaio aveva fatto richiesta di asilo politico nel distretto di Istanbul. Il fatto che l’attentatore fosse un richiedente asilo è stato diffuso dalle agenzie di stampa turche e non è stato ripreso da nessuna delle grosse testate giornalistiche europee (almeno non quelle di cui comprendo le lingue), dalle quali evidentemente la notizia è stata giudicata di poco peso, ad eccezione delle prime pagine italiane (dove notizia compare addirittura direttamente nel titolo). A quanto pare la Turchia, non essendo riuscita a sfruttare la nazionalità dell’attentatore per ricordare ai paesi UE il proprio ruolo nei flussi migratori, ha deciso di far leva su un altro dato, diffondendolo a gran voce: l’attentatore aveva fatto richiesta di asilo politico! E, chissà perché, a cascare nel tranello è stato proprio il peggiore giornalismo del continente.

    AGGIORNAMENTO 14 gennaio ore 2:00

    Il primo ministro turco Ahmet Davutoglu, confermando l’ondata di arresti, ha dichiarato che si indaga su presunti «attori segreti dietro l’attacco», che avrebbero usato l’ISIS come manovalanza per l’operazione. La Turchia quindi punta il dito contro attori diversi dall’ISIS, diretto responsabile dell’attentato, confermando i sospetti sopracitati secondo cui le autorità turche starebbero sfruttando la vicenda in funzione anti-russa. «Alcune potenze straniere mostrano un atteggiamento ostruzionistico nei confronti delle incursioni aree della Turchia contro l’ISIS» ha detto Davutoglu, e non poteva che riferirsi alla Russia, l’unica forza straniera che sta conducendo operazioni militari nelle stesse aree. Insomma, ancora una volta l’ISIS è alleato funzionale della Turchia.

     

  • Troppo facile dire terroristi

    Nell’opinione pubblica e nel linguaggio giornalistico esiste un consenso trasversale nel definire “organizzazione terroristica” il gruppo jihadista salafita noto come Stato Islamico, Daesh o ISIS. Per come è definito il concetto di terrorismo, sarebbe più corretto affermare che l’ISIS, anche se adotta strategie e tattiche tradizionalmente associate al terrorismo (attentati indiscriminati alla vita umana, ricerca dell’attenzione mediatica tramite azioni a elevato valore simbolico, rivendicazione politica successiva), non si può semplicemente definire come organizzazione terroristica tout court, come si sarebbe potuto fare con il predecessore gruppo di Al-Qa’eda.

    Territorial_control_of_the_ISIS
    Territori direttamente governati dall’ISIS (ottobre 2015)

    Il gruppo dell’ISIS nasce come costola di Al-Qa’eda e se ne rende autonomo con una scissione da quest’ultima. L’ISIS si sviluppa come ala destra di Al-Qa’eda, si fa promotrice di rivendicazioni di natura sociale e non solo politica. Le due organizzazioni sono profondamente diverse: Al-Qa’eda rappresentava il classico gruppo terroristico, suddiviso in cellule militanti, operava in clandestinità, isolato dal resto della società, non ambiva a diventare un soggetto politico in grado di porsi alla pari del potere statale; l’ISIS non agisce in clandestinità, ma come soggetto facilmente riconoscibile dalla popolazione e integrato nel tessuto sociale, da cui riceve appoggio e di cui ricerca il pieno consenso, controlla un territorio delimitato da confini in espansione ma definiti all’interno dei quali agisce come istituzione che amministra l’educazione, la propaganda, l’esercizio della legge, è dotato di un proprio esercito e di un servizio informativo tramite cui difendere quei territori da minacce interne ed esterne, si muove nello scacchiere internazionale come un’entità statale. In poche parole, l’ISIS è un gruppo di militanti che da anni è attivamente impegnato in un processo di state building: nei territori che occupa e per la gente che li abita, è un’istituzione, non un’organizzazione terroristica (si guardi The Islamic State finora l’unico documentario girato nei territori dell’ISIS). Bisogna distinguere tra l’ISIS nei territori occupati e le cellule clandestine che pianificano ed eventualmente attuano attentati in paesi tradizionalmente non islamici (come la Francia): secondo i servizi di intelligence, le ispira ma probabilmente non le coordina, così come i “terroristi rossi” occidentali negli anni Sessanta e Settanta non erano necessariamente a stretto contatto con l’URSS, sebbene in essa trovassero un riferimento ideologico e politico: questo fatto, ovviamente, non è sufficiente per tacciare l’URSS di essere terrorista né quei gruppi di essere al servizio del governo sovietico, e non si capisce perché lo stesso non dovrebbe valere per quanto riguarda i rapporti tra l’ISIS e il terrorismo jihadista (ugualmente chiamato “ISIS” dalla stampa e dall’opinione pubblica).

    L’osservazione più comune contro la definizione dell’ISIS come istituzione è che nei territori da esso governati l’ordine è mantenuto attraverso la paura e questo fatto basterebbe a considerare l’ISIS un’organizzazione terroristica. Eppure, la paura quotidiana provata da un musulmano non “ortodosso” o da un non musulmano che vive nei territori dell’ISIS non deve essere molto differente da quella che un curdo prova in Turchia o da quella che un palestinese prova in Israele: sono tutte situazioni in cui un soggetto politico di natura statale o parastatale discriminano, attraverso la giurisdizione o nell’applicazione fattiva delle leggi, una minoranza su base etnica o religiosa. Se la discriminazione su base etnica o religiosa si considera come particolare caso di una discriminazione operata sulla base dell’appartenenza a un gruppo minoritario, allora quella paura non è neanche diversa da quella che un militante di sinistra poteva provare in Cile dopo il colpo di Stato del 1973 o in Italia durante la strategia della tensione. Lo Stato è violenza, sempre, semplicemente l’ISIS la esercita in una forma (del resto non così rara) diversa da quella che ci hanno insegnato a non vedere o a non riconoscere come tale.

  • Sui fatti di Parigi

    Di fronte ai fatti parigini, occorre riflettere. Esiste oggi un’organizzazione che attacca popolazioni straniere in nome di una pretesa superiorità morale, che è fermamente convinta di agire nel giusto, è sostenuta da ingenti risorse finanziarie e fa ampio ricorso alla propaganda ideologica per incutere terrore ed ottenere consenso e, all’occorrenza, sottomissione. Questa organizzazione, negli ultimi quindici anni, ha mietuto centinaia di migliaia di vittime e prende il nome di Stati Uniti d’America. Con il supporto morale, economico e militare di altre organizzazioni (Stati alleati, aziende, potentati economici), essa ha assoggettato per decenni le popolazioni del Medio Oriente tramite il finanziamento di regimi dispotici e autoritari, ne ha calpestato il diritto all’autodeterminazione con la costruzione di governi fantoccio al servizio degli interessi neocoloniali, li ha depredati delle risorse dei loro territori, ha distrutto interi ecosistemi o ne ha minacciato l’esistenza mettendo in pericolo di vita innumerevoli comunità umane in ogni parte del globo terrestre.

    Dopo le morti di Parigi, si fa strada in Europa, con una forza di portata paragonabile forse solo a quella dei fatti dell’11 settembre 2001, l’idea che “ormai non ci si può più sentire al sicuro”, e anche se la probabilità di morire per un incidente su un volo di linea o cadendo da un’impalcatura resta ordini di grandezza più alta di quella di morire a causa di un attentato terroristico, forse ciò può esser vero; eppure, nella maggior parte del pianeta, è da parecchio tempo che “non ci si sente più al sicuro”, direttamente o indirettamente a causa di meccanismi appositamente costruiti per garantire che in piccole aree isolate ci si possa ancora sentire al sicuro: regimi repressivi che offrono il proprio apparato poliziesco per arrestare scomodi flussi migratori, governi compiacenti che promuovono legislazioni permissive in materia di sfruttamento del lavoro e dell’ambiente, totalitarismi conniventi che concedono la possibilità di trattare i prezzi del mercato petrolifero mondiale in cambio della facoltà di violare sistematicamente la dignità e i diritti umani, apparati di controllo che schiacciano la libertà di parola, servizi segreti che orchestrano e appoggiano sanguinosi colpi di Stato. L’ISIS in Iraq è nato proprio perché, anche grazie all’intervento statunitense, “non ci si sentiva al sicuro”. L’integralismo religioso ha fatto leva sul sentimento di rivalsa nei confronti dell’Occidente che occupa militarmente, sfrutta economicamente e impone propri modelli culturali, sociali e politici: da questo all’aggressivo espansionismo il passo è breve, dato che ad azione bellica statunitense ha corrisposto una reazione uguale e contraria, altrettanto bellica.

    Scopo di questa riflessione non è, tuttavia, parlare di chi ha organizzato gli attentati di Parigi. Stragi paragonabili per tributo di sangue e morte avvengono con una frequenza altissima, ma finché ci si sente al sicuro al di qua del filo spinato delle frontiere e finché quelle stragi sono patrocinate da un “totalitarismo buono”, lo spettatore non è scosso nella coscienza.Certamente, da spettatori europei non si può non restare allibiti e scossi di fronte a quanto è successo, già solo per una mera questione di più facile immedesimazione: le oltre centoventi persone morte a Parigi sono molto simili a noi, mediamente avranno avuto una giornata e una vita molto simili alle nostre giornate e alle nostre vite. Ma bisogna riconoscere che, aldilà di questo, l’indignazione, lo sconcerto e l’orrore che ci riserviamo di provare in occasioni come questa molto più che in altre sono arbitrari. Anzi, non proprio arbitrari: sono in buona parte indotti, così come in buona parte è sapientemente indotto il terrore che sarebbe significativamente ridimensionato se i giornali si esimessero dal raccontare la tragedia come “scontro di civiltà” (quando, a ben vedere, lo scontro è tra poteri legati da alleanze incrociate).

    Se, come c’è da aspettarsi, il terrore dell’opinione pubblica sarà usato come pretesto per la riduzione delle libertà individuali e collettive e degli spazi di agibilità politica, per la revisione delle politiche migratorie (come sta già accadendo in Polonia, nonostante immigrazione e terrorismo abbiano ben poco a che fare l’uno con l’altra), per favorire interessi geopolitici tramite guerre, violazioni di sovranità e “interventi umanitari” in cui si bombardano ospedali, allora mi dispiace ma tenetevi il terrore. “Al sicuro” devono potercisi sentire tutti, non voglio scegliere tra barbarie per cui parteggiare.

  • La contraddizione del cosmopolitismo

    «Non si integrano», si sente dire degli immigrati: non rinunciano alle proprie usanze, né alla propria lingua, né alla propria cultura, né smettono di nutrire un più o meno profondo senso di appartenenza alla propria comunità, cieco e irrazionale. In realtà, tutto questo è normale e comprensibile per chiunque sia stato emigrato per almeno un certo periodo della propria vita, incluso il sottoscritto, che in un paese straniero ha stabilito in generale molti più contatti e relazioni più robuste con italiani che non con la popolazione autoctona, nonostante la relativa somiglianza e vicinanza geografica, storica e culturale tra il paese di emigrazione e quello di immigrazione (figuriamoci dunque l’entità e l’intensità dei meccanismi individuali e collettivi che si innescano quando la differenza è parecchio più marcata). Il motivo è chiaro: tra persone appartenenti alla stessa comunità esiste un substrato, una base culturale e linguistica comune, che permette di stabilire con più facilità legami interpersonali. Pertanto, niente di strano si può attribuire alla tendenza degli immigrati a non privarsi del supporto, anche solo immateriale, della propria comunità originaria, perché si tratta di un consueto fenomeno sociologico, osservato in tutte le epoche e in tutte le società che sono state interessate da flussi migratori. Questo fenomeno, tuttavia, non previene necessariamente l’integrazione nella società di immigrazione; ma allora, perché chi conserva un senso di appartenenza alla comunità di origine è tacciato di mancata integrazione, spesso anche da chi è dotato di una mentalità aperta al confronto, al dialogo e al rispetto delle diversità e si professa progressista in materia di immigrazione?

    Per rispondere, escludendo a priori le possibili risposte chiaramente conservatrici o di matrice nazionalistica e xenofobica, bisogna capire cosa intende una parte del pensiero progressista quando accusa le comunità di immigrati di essere “chiuse”, di ghettizzarsi, di non volersi integrare o conformare ad una serie di principi minimi la cui adesione è ritenuta imprescindibile per la convivenza nella società occidentale. Queste accuse sono formulate sulla base di alcune evidenze: molte comunità di immigrazione spesso conservano una forte autonomia in termini di gestione delle controversie all’interno dei gruppi, di religione, di lingua, di istruzione e formazione dei giovani, di tradizione e folklore, rispettano usanze e regole tipiche della comunità. Si mantengono dunque almeno parzialmente autonomi dalla restante società. Tuttavia, essi sono integrati nella società: per definizione, l’integrazione è «il processo attraverso il quale gli individui diventano parte integrante di un qualsiasi sistema sociale, aderendo in tutto o in parte ai valori che definiscono l’ordine normativo» e in un modo o nell’altro queste comunità, interagendo con il resto della società, sono parte di essa e in essa funzionano come ogni sua altra parte, attraverso concessioni e compromessi.

    Invece, secondo l’altra concezione dell’integrazione, questa consisterebbe nella ridefinizione delle priorità dei valori tale da subordinare le proprie origini e appartenenze particolari ad un sentimento universalistico, o addirittura nella rinuncia di tali origini e tali appartenenze particolari, per abbracciare un sentimento universalistico che induce piuttosto a vedersi come “cittadini del mondo” scevri da atteggiamenti considerati provinciali, arretrati ed escludenti (sebbene, per esempio, de facto in Italia la procedura amministrativa che riconosce formalmente e istituzionalizza l’integrazione prevede la sottoscrizione di una Carta dei valori tutt’altro che lontana dall’essere provinciale, arretrata ed escludente; si veda L’accordo di integrazione come caso di discriminazione istituzionale in Italia, saggio di Paolo Cuttitta in Razzismi, discriminazioni e confinamenti, a cura di Mario Grasso, edizioni Ediesse, 2013).

    Eppure, «la prospettiva universalistica e cosmopolitica non implica affatto che ciascuno di noi rinunci a valori, vocabolari o virtù ed eccellenze che assumono il loro senso pertinente entro contesti dati e assegnati. […] Essa è il frutto maturo […] di una tribù. Si tratta di nient’altro che della tribù o del clan “occidentale”. Questa tribù ha fra i suoi usi e costumi quello di autoclassificarsi come universalistica e cosmopolitica. Per dare alla classificazione una maggiore stabilità e forza, la tribù definisce gli esterni o gli stranieri come tribali. […] Noi ci impegniamo ad adottare una prospettiva universalistica entro un contesto e una tradizione» (si legga la validissima Prefazione di Salvatore Veca a Per la pace perpetua, Immanuel Kant, edizioni Feltrinelli, 1991). In fondo, sentirsi cittadino del mondo equivale a sentirsi occidentale: non esistono società che non producano culturalmente il senso di una qualche forma di identità o appartenenza alla comunità, e la società occidentale non fa eccezione.

    E, del resto, come puoi sentirti cittadino del mondo quando nel mondo in cui vivi «una minoranza di nazioni costituisce un arcipelago di isole di relativo benessere in un mare di tirannia e di miseria disumana e la preservazione di un tenore di vita elevato dipende assolutamente dal rigido controllo dell’immigrazione» (la metafora dell’arcipelago e del mare è un prestito da Thomas Nagel)? Come puoi sentirti cittadino del mondo quando  il mondo ti opprime, e non lo sai solo a parole, ma ti pesa ogni giorno in tutta la sua oppressione? Come puoi sentirti cittadino del mondo, quando del mondo non sei cittadino ma suddito o schiavo? Essere cittadini del mondo è una prerogativa di chi può vantare l’appartenenza alla cultura occidentale, un lusso che ti puoi permettere solo se il mondo ti è assoggettato.

    Tuttavia, nonostante questo, si può ragionevolmente ritenere che questo principio di fratellanza e solidarietà che porta ad essere e a sentirsi cittadini del mondo sia espressione di un valore moralmente superiore, ma se così è, lo è solo nella misura in cui il cosmopolitismo è liberazione più che assoggettamento. Chiedere la rinuncia a qualsiasi forma di tradizione o attaccamento alla cultura o comunità di provenienza come prezzo da pagare per essere cittadini del mondo (la classica retorica che legittimava e legittima ancora il colonialismo e l’imperialismo come azioni benevole intraprese per civilizzare i popoli estranei alla tradizione europea: il cosiddetto “fardello dell’uomo bianco” della celebre poesia di Rudyard Kipling) è un livellamento di abitudini e valori a canoni socialmente e storicamente determinati, conformi ad una particolare cultura, quella occidentale, dunque è una forma di assoggettamento a tale cultura. Al contrario, riconoscere il diritto di esistenza alle diverse forme di vita ed espressioni di cultura umana presenti nel mondo, ovunque esse siano, conferendo così loro una cittadinanza effettiva e gestendo le tensioni e le differenze entro tale cornice di equità, costituirebbe un cosmopolitismo liberante. Peraltro non c’è da stupirsi della duplicità contraddittoria del concetto di cosmopolitismo: il cosmopolitismo è parallelo alla globalizzazione, e come questa non può non essere duale e contraddittorio, paradossalmente non può generare connessioni e spazi di azione senza generare anche frontiere e organi di repressione. La direzione che la globalizzazione e il cosmopolitismo possono prendere nella loro inevitabile continua oscillazione tra liberazione e assoggettamento dipende dai rapporti tra le forze in gioco. Non bisogna lasciare che questa direzione la decida chi ne predilige l’aspetto assoggettante, sentendosi o meno cittadino del mondo.

  • Ripulirsi la coscienza con l’accoglienza

    «Chi non vuol parlare di capitalismo, dovrebbe tacere anche sul fascismo»
    Max Horkheimer

    Le lacrime non basterebbero per piangere o ridere di fronte all’ipocrisia con cui i governi europei stanno affrontando la crisi umanitaria sul confine orientale della Fortezza Europa. Dopo il greenwashing e il pinkwashing, oggi secondo la moda del momento all’ordine del giorno nell’opinione pubblica stiamo assistendo adlla comparsa di un’altra forma di lavaggio della coscienza (e del cervello): quello della millantata solidarietà per i profughi, che rende chiunque la decanti e la condivida innocente e nobile d’animo e di cuore. Basta dire che quelle vite hanno un valore per essere circondati di un’aura da benefattore, a prescindere dalle ricadute che poi le strategie di contenimento, respingimento ed espulsione realmente hanno sulle vite dei migranti.

    Così, Renzi, dai microfoni dell’Expo, evento sostenuto dalle peggiori multinazionali del pianeta che cementificano, desertificano, inquinano, sfruttano e devastano risorse e popolazioni in ogni angolo del mondo, ai suoi fan (come altro chiamarli?) può dire che «questa è l’Italia vera solida e solidale», può schierarsi contro la costruzione di muri come quello ungherese voluto da Orban al confine con la Serbia e definire «bestie, non umani» quelli che sono contro l’accoglienza dei profughi, poco dopo aver stretto la mano a Netanyahu, che intende estendere le recinzioni anti-immigrazione su tutto il confine tra Israele e la Giordania, apparentemente senza in questo vedere nessuna contraddizione. Del resto, anche Netanyahu dichiara che «Israele non è indifferente alla tragedia umana dei rifugiati siriani e africani».

    Così l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, già qualche mese fa dopo l’ennesima tragedia di un naufragio nel Mar Mediterraneo, annunciava che «per l’Europa è impe­ra­tivo sal­vare tutti insieme delle vite umane, così come tutti insieme dob­biamo pro­teg­gere i nostri con­fini e com­bat­tere il traf­fico di esseri umani», sorvolando sul fatto che gli scafisti e il traffico di esseri umani esistono proprio perché “noi” proteggiamo i “nostri” confini, apparentemente senza in questo vedere contraddizioni. Chiudere le frontiere, qualunque sia il modo in cui lo si fa, significa favorire il traffico di esseri umani; far finta di non capire questo è essere complici.

    Per non parlare di come si ripuliscono la coscienza la Germania e l’Austria, che improvvisamente diventano “buone” anche agli occhi degli attivisti per i diritti dei migranti in quanto hanno aperto le frontiere per fronteggiare l’ondata di rifugiati giunta dai vicini Balcani, dopo ripetuti episodi di violenza e repressione. Come se Austria e Germania non avessero sistemi di “identificazione ed espulsione” tanto lesivi dei diritti dei migranti quanto lo è la violenza delle forze di confine. E infatti ci sarebbe da chiedere una cosa: un mese o un anno fa migranti non ce n’erano? Le frontiere si aprono, momentaneamente, solo quando ci sono migliaia di persone intrappolate nella stazione di Budapest, con gli occhi del mondo puntati, giusto per fare bella figura rispetto all’Ungheria xenofoba che ha eretto il muro?

    Ma, a proposito di muri, vogliamo parlare di quegli occidentali che nel 1989 esultarono per la caduta del muro di Berlino, in nome della libertà di circolazione, ma oggi sono a favore dei muri attuali? E se non a favore, perlomeno non contrari, e se contrari perlomeno molto timidamente. Forse perché all’epoca la libertà di circolazione era limitata in nome del “comunismo” sovietico mentre oggi lo è dalle frontiere fantoccio del mondo neoliberista? Frontiere, tra l’altro, difese formalmente da organi e istituzioni di fatto esautorati dei propri poteri politici, e  le cui decisioni non sono che ratifiche di decisioni prese altrove: nelle stanze segrete in cui viene stipulato il TTIP, nelle sedi della finanza mondiale, nelle banche  in congressi di figure del tutto estranee al controllo democratico. I confini, di fatto, non esistono più per la finanza e il mercato; continuano ad esistere, invece, per gli esseri umani, in quanto portatori di una particolare merce, la forza-lavoro, la quale, se segregata e resa ricattabile, diventa più facilmente assoggettabile a crescenti forme di sfruttamento.

    Ecco perché chi non vuol parlare di abolizione delle frontiere come strumento di sfruttamento e di limitazione della libertà di circolazione, dovrebbe tacere anche sull’accoglienza.

  • Decostruire la “razionalità” del razzismo

    La Conversazione tra un razzista e un non so (qui) che Grillo ha pubblicato e diffuso il 19 giugno, è un concentrato di luoghi comuni e pregiudizi che intenderebbe mostrare la razionalità del discorso razzista e l’irrazionalità di chi, invece, al razzismo in tutte le sue forme si oppone (figura a cui Grillo attribuisce l’epiteto di “non so”, a riprova della sua convinzione che chi si oppone al razzismo non abbia le idee chiare, sia confuso e indeciso, addirittura ignavo e incapace di prendere posizione, nonché poco razionale). Tale conversazione fornisce una serie di argomentazioni tipicamente attribuite all’una o all’altra parte, con l’obiettivo di sostenere, con autoironia da parte di Grillo, la parte del razzista. Lo scopo dell’analisi di tali argomentazioni, condotta qui di seguito, è mostrare che non si tratta affatto di autoironia.

    Razzista: Io sono un razzista
    Non so: Io invece non so, anzi no.

    Come già accennato, è chiara la netta distinzione tra il primo personaggio, sicuro delle proprie posizioni (quelle che i “buonisti” certamente pagati dal PD, corrotti e collusi con il sistema, definirebbero “razziste”) e il secondo, che fin da subito appare come la parte debole della conversazione, incapace di addurre argomentazioni forti e convincenti, suggerendo di non essere lui stesso debole e poco convinto delle ragioni che fornisce.

    Razzista: Chi entra nel mio Paese deve essere identificato

    Perché? Il motivo non viene enunciato né suggerito. Anzi, né ora né nel seguito della conversazione verrà mai spiegato per quale motivo chiunque entri in un paese debba essere sottoposto a identificazione. Si sappia che la motivazione legalitaria autoassolutoria “perché così vuole la legge” non è sufficiente, perché dimentica che la legge è un prodotto sociale e non un principio assoluto, e si sappia che in certi paesi tali richieste sono considerate vessazioni se non violazioni dei diritti civili. In ogni caso, il motivo non è spiegato, perché il “non so”, invece di chiedere delucidazioni in merito, decide ingenuamente (perché così è appositamente costruito il personaggio) di cambiare discorso e di etichettare l’interlocutore subito come razzista.

    Non so: Perché sei un razzista. Io accoglierei tutti. Sono tutti esseri umani
    Razzista: E chi paga 1050 euro al mese cadauno? Mia madre prende la metà, la pensione minima, dopo aver lavorato e pagato tasse dirette e indirette per 30 anni.
    Non so: Ne fai una questione di soldi, ma quanto abbiamo rubato noi a questi popoli? Li abbiamo depredati delle loro risorse come potenze coloniali e ancora oggi. Non si possono mischiare diritti umani e denaro. A chi ti chiede aiuto devi tendere la mano.

    Pur senza opportune verifiche e ulteriori analisi che comunque altrove andrebbero condotte, accettiamo per buona la cifra riportata. Il motivo per cui si spende denaro per ciascun migrante è intrinsecamente legata a come è gestito il fenomeno dell’immigrazione: i centri di identificazione ed espulsione, gli apparati repressivi, lo smistamento e il trasporto coatto di migranti da un centro all’altro, la gestione militare dei fenomeni migratori, il sistema carcerario e l’amministrazione di una giustizia discriminatoria costano. Se queste cose non esistessero, non esisterebbero i costi aggiuntivi di cui la collettività si sobbarca per l’accoglienza di ciascun migrante (aggiuntivi rispetto a quelli che sono naturalmente dovuti, per costituzione e per banale applicazione delle convenzioni internazionali sui diritti umani, nei confronti di qualunque persona). Ma il “non so” non spiega che se l’immigrazione costa è proprio perché è gestita di proposito come un affare da cui trarre il massimo del profitto economico (che non si ferma a questi meccanismi, ma continua nelle condizioni di sfruttamento estremo in cui i migranti, essendo ricattabili, sono costretti a lavorare una volta arrivati). Invece, il “non so” prende per buono il fatto che l’immigrazione sia un costo, e parla, non a torto, delle responsabilità coloniali che “noi” (vedi qui sull’uso del noi in questi casi) abbiamo nei confronti dei popoli depredati. Questo discorso è sviluppato in una catena di frasi fatte (“non si possono mischiare diritti umani e denaro”; “a chi ti chiede aiuto devi tendere la mano”) che si risolve in un ingenuo richiamarsi a principi di carità cristiana (quella carità cristiana in nome dei quali quegli stessi popoli sono stati soggiogati, ma lasciamo perdere: dopo tutto lui è un “non so”, non ci si devono certo aspettare analisi acute e puntuali).

    Razzista: L’Africa ha 1,1 miliardi di persone, in Italia non ci starebbero neppure se messe in piedi una contro l’altra. L’Italia è già oggi una delle Nazioni con la più alta densità di popolazione del mondo. Chi dovrebbe decidere chi può rimanere visto che non possiamo accogliere tutti?

    L’Africa (ma perché proprio l’Africa?) ha 1,1 miliardi di persone. Ovviamente non potrebbero mai stare tutte in Italia. Ma chi ha mai detto che 1,1 miliardi di persone dovrebbero stare tutte in Italia? Quest’affermazione, neanche pienamente sottintesa: 1) agita lo spauracchio di un’invasione che non c’è (qui qualche dato), uno spauracchio che può far paura solo ad un elettorato xenofobo, consapevolmente o meno; 2) ingigantisce le proporzioni dei flussi migratori, che interessano esigue percentuali delle popolazioni di origine dei migranti: immaginare che tutti gli africani si stiano attualmente muovendo verso l’Italia o che siano intenzionati a farlo è pura falsità; 3) insinua che essere a favore dell’accoglienza significhi essere a favore dello spostamento di 1,1 miliardi di africani in Italia, cioè di una cosa che non succederà mai, a prescindere dalle scelte politiche nella gestione dei flussi migratori, per il semplice motivo che non è così che funzionano i flussi migratori.

    Non so: Basta identificare i profughi che hanno diritto di asilo dai clandestini che sono molti di più.

    Questa frase del “non so” è un capolavoro, sia per la natura del personaggio che la pronuncia sia per i contenuti. Infatti, non soltanto il “non so”, cioè colui che dovrebbe almeno provare a opporsi razionalmente e lucidamente alle argomentazioni dell’altro, accetta senza battere ciglio l’improbabile teoria dell’interlocutore secondo cui in assenza di controllo dei flussi 1,1 miliardi di africani si riverserebbero in Italia (non in Europa, proprio in Italia), ma anche spiega che c’è un modo per evitare questo: identificare i profughi, consentendo loro l’ingresso in Italia in virtù del rispetto del diritto d’asilo, distinguendoli dai clandestini, che resterebbero fuori. Poco importa il fatto che, per definizione, profugo è «colui che è costretto ad abbandonare la sua terra, il suo paese, la sua patria in seguito a eventi bellici, a persecuzioni politiche o razziali, oppure a cataclismi» (cito il dizionario) e clandestino è chi, «straniero, per varie ragioni non sono in regola, in tutto o in parte, con le norme nazionali sui permessi di soggiorno» e che dunque una netta distinzione tra le due condizioni può non essere possibile, perché niente esclude che le due figure si sovrappongano nella stessa persona.

    Razzista: In Italia per il riconoscimento ci vuole più di un anno contro il limite di un mese posto come regola a livello internazionale, nel frattempo il clandestino rimane in assoluta libertà senza identità. Si preoccupano dell’Isis quando potremmo avere decine di affiliati all’Isis al giorno in più dovuti agli sbarchi di cui nessuno sa nulla. Nessuno controlla.

    Ammiccamenti continui alla retorica e ai contenuti razzisti qui sono evidenti. Secondo il razzista, “il clandestino rimane in assoluta libertà senza identità”, ma davvero si può parlare di libertà, per di più assoluta, in una condizione di estrema ricattabilità, visto che mancano i documenti e dunque si rischia in ogni momento l’espulsione? Il razzista poi passa alle insinuazioni, formulate su basi nulle ma anche qui avallando teorie del tutto campate per aria, che tra i migranti che sbarcano disperati dopo una traversata in cui rischiano la vita si annidino pericolosi membri del terrorismo internazionale targato ISIS. Perché si sa, i terroristi sono degli sprovveduti che per arrivare in Europa son costretti a salire clandestinamente sui barconi. Poco importa il fatto che gli attentati terroristici verificatisi in Europa sono sempre (non saprei trovare neanche un’eccezione) stati organizzati e messi in atto non da stranieri, ma da persone di nazionalità europee. Agitare ancora questo spauracchio significa associare arbitrariamente l’immagine del migrante a quella del terrorista. Il passaggio tra questa frase e la precedente indica una cosa: che per il razzista è del tutto inutile la distinzione tra profugo e clandestino, perché anche volendo accogliere solo i profughi, ci saranno sempre clandestini tra i piedi, visto che l’identificazione richiede più di un anno.

    Non so: E allora cosa dovremmo fare? Lasciarli morire in mare? Sei disumano.
    Razzista: Bisogna avere una vera organizzazione di accoglienza, non lasciarli prostituire, in particolare i minorenni come succede alla stazione Termini, o consegnarli alle mafie che li usano come schiavi o lasciarli senza strutture igieniche a bivaccare nei parchi e nelle stazioni. O appollaiati sugli scogli come quelli davanti a noi?

    Degno di nota è qui il fatto che il razzista non risponde alla domanda del “non so”: dovremmo lasciarli morire in mare? Ma poi chi, tutti i migranti o solo i clandestini? Non è chiaro. In ogni caso, il razzista che intende identificare ed espellere i clandestini accettando, forse, i profughi, parla della necessità di costruire una vera organizzazione di accoglienza (non si capisce bene a chi dovrebbe essere destinata) per evitare che questi stranieri fastidiosi bivacchino nei parchi, giacché arrecano danno al decoro urbano e a volte si spingono a livelli di disturbo tali da permettersi (addirittura!) di appollaiarsi sugli scogli perché schiacciati da forze dell’ordine italiane da un lato e francesi dall’altra, dal momento che ogni Stato li respinge.

    Non so: Per accogliere in modo degno queste persone dobbiamo avere strutture che funzionano e dare loro la possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro. E’ elementare.
    Razzista: Le strutture sono nelle mani delle mafie e dei partiti come è avvenuto a Roma con Mafia Capitale e per inserirli nel mondo del lavoro ci vogliono due requisiti: una professionalità e la conoscenza della lingua italiane. A me sembra che di solito chi entra in Italia non possieda nessuno di questi due requisiti. E soprattutto in Italia il lavoro non c’è, le giovani generazioni di italiani dopo il diploma o la laurea emigrano all’estero.

    Finalmente il razzista si è accorto, cosa che invece aveva mancato di fare all’inizio della conversazione, che se si pagano “1050 euro al mese” per ogni migrante la causa è da ricercarsi nelle strutture mafiose che gestiscono il fenomeno dell’immigrazione. Non contento di aver svelato l’origine dei costi dell’immigrazione, si lancia a capofitto in una serie di considerazioni sull’inserimento dei migranti nel mondo del lavoro, affermando che i migranti che entrano in Italia di solito non posseggono una professionalità. Ovvero? Ma poi, stiamo parlando dei migranti in generale, dei cosiddetti clandestini o dei profughi? Perché, per esempio, se stiamo parlando dei profughi, davvero si vuole subordinare l’accoglienza ad una non meglio precisata “professionalità”? O, ancora più insensatamente, alla conoscenza della lingua italiana? “Mi dispiace, lei è un profugo siriano, ha rischiato la vita per venire fin qui, sta scappando da una guerra civile con centinaia di migliaia di vittime e che ha smembrato città e famiglie, ma non parla l’italiano e quindi prego da questa parte, la riaccompagno alla frontiera e non faccia troppe storie”. Per non parlare dell’ormai ridicola idea che la presenza dei migranti diminuisca le opportunità di lavoro per gli italiani (perché sì, in un mondo razzista esistono lavori “per gli italiani”).

    Non so: Oltre a razzista sei anche nazionalista. Perché uno dovrebbe essere costretto a parlare la nostra lingua? Forse tu parli lo swahili?
    Razzista: E’ un discorso di integrazione. Se non comunicano non possono relazionarsi. Si creano delle isole sociali, dei ghetti. Per chi entra in Italia senza conoscere l’italiano e vuole ottenere la residenza deve essere obbligatorio l’insegnamento della nostra lingua con un esame finale.

    Le isole sociali, i ghetti e l’emarginazione non hanno nulla a che vedere con la padronanza della lingua italiana, ma a questo punto spiegare questo sarebbe un buco nell’acqua. Il razzista invoca la necessità di un esame di lingua italiana per chi vuole ottenere la residenza. Ma cosa c’entra la residenza non è dato sapere, dato che una minuscola parte dei migranti che giungono in Italia sono intenzionati a restarci.

    Razzista: Vorrei aggiungere che prima di entrare in Italia, e non dopo, per ognuna di queste persone dovrebbe essere prevista una visita medica accurata per verificare se sono portatori di malattie e, in questo caso, curarli, sia per loro che per evitare che malattie scomparse da decenni ricompaiano, come la scabbia, la malaria o la tbc.

    Ormai il razzista ci ha preso gusto e non gli basta più lo spauracchio del terrorismo internazionale e dell’invasione di africani: soffiando sul fuoco della propaganda razzista, comincia con la paranoia delle malattie che verrebbero portate nella civile e cristiana Europa da rozzi barbari infetti. I cui rispettivi paesi d’origine, magari, non sono ancora riusciti a debellare certe malattie perché le case farmaceutiche dei “paesi civilizzati” in questo non trovano sufficiente interesse economico o possibilità di profitto, ma ciò non riguarda i migranti che riescono ad arrivare vivi in Italia, dal momento che le malattie veramente gravi uccidono chi è ammalato ben prima che questi metta piede sul suolo italiano e che tutti i casi di allarmismo sono stati poi sistematicamente smentiti dai fatti (dalla fantomatica emergenza tubercolosi al caso di vaiolo e all’ebola): come spiegato brevemente qui, «che gli immigrati portino malattie a rischio per l’Italia è una realtà infondata. In realtà molte malattie riemergono dal passato e sono globali». E, soprattutto, «viaggiano in aereo» e non sui barconi. E c’è anche da aggiungere che questa paranoia sarebbe molto più sensata rispetto alla circolazione delle merci, che possono veicolare topi, insetti o altri animali portatori di malattie esotiche, ma è risaputo che la circolazione delle merci non si tocca, in nome delle intoccabili sacre leggi di mercato.

    Non so: – allontanandosi gesticolando – Razzista. fascista, nazista, negriero, egoista, bastardo, figlio di puttana, pezzo di m…a
    Razzista: Ma cosa ho detto di così irragionevole?

    E così, con le imprecazioni a casaccio del “non so” sotto lo sguardo divertito del razzista, si conclude la conversazione. Il razzista, con sorriso beffardo, sa di aver vinto la partita e si chiede cosa possa mai aver detto di tanto irragionevole da suscitare una tale reazione da parte dell’interlocutore che fino a quel momento si era mostrato tranquillo (ma anche un po’ scemo, detto tra noi). I ruoli dunque si riconfermano: la reazione finale del “non so” lo contraddistingue come irrazionale, mentre il razzista è dotato di capacità argomentative che lo fanno campione di razionalità.

    A dire la verità, Grillo parla non di razionalità o irrazionalità, ma di ragionevolezza e irragionevolezza: il primo binomio pertiene alla logica, il secondo al buon senso (o al senso comune, che spesso razionale non è affatto). Razionale è chi, conforme alla ragione, conduce un discorso o attua un comportamento secondo un rigore logico; ragionevole è che si lascia guidare dalla ragione ed è pertanto equilibrato, coscienzioso, discreto, equo. Il razzista della conversazione si chiede, perplesso, cosa abbia detto di tanto irragionevole. Dunque ha la pretesa che le sue argomentazioni siano considerate non tanto razionali, quanto ragionevoli. Ovvero equilibrate, discrete, giudiziose ed equidistanti. A Ventimiglia equidistante dalle forze di polizia che schiacciano i profughi in una morsa di disperazione e chi vuole semplicemente attraversare il confine tra un paese e l’altro; nei centri di detenzione equidistante dai carcerieri e i carcerati; nel dibattito pubblico equidistante tra chi dice che i migranti sono da annegare tutti e chi dice che sono persone da salvare. Insomma, di fronte a maltrattamenti, violazioni, sfruttamento e discriminazione, il ragionevole razzista della conversazione ci dice che si deve essere equilibrati e discreti, non alzare la voce, non indignarsi, non odiare con tutto il cuore istituzioni, persone e atti che seminano odio, segregano e discriminano, si ergono a difesa dei confini lasciando morire migliaia di persone. Se qualcuno pensa di poter argomentare in buona fede che Grillo non è un cazzo di razzista di merda dopo questa volta è veramente solo un coglione.

  • Nottetempo

    Chi non ha passeggiato di notte in un centro commerciale non può capire quanto siano veramente vuoti questi cuori del capitalismo. Le porte automatiche si aprono nonostante l’ora troppo tarda (o troppo mattiniera) e si può camminare per i corridoi osservando da dentro questi templi della merce assoggettante. Nottetempo, divengono dimora delle creature che escludono: senzatetto, nullatenenti, viandanti. Li cullano con musica jazz dagli altoparlanti. Al ritmo lento della musica da cui mi lascio accompagnare, esploro le saracinesche abbassate o le vetrine illuminate, a volte piene a volte vuote, ai miei occhi comunque vuote, di giorno popolate da forme di vita peculiari della società dei consumi nell’ormai decadente modello neoliberista. Ciò che è cuore pulsante lo si può ora vedere come ciò che semplicemente è, senza feticismo né mistificazione: un edificio, triste, troppo grande, troppo poco vissuto, un non-luogo.

    Esco dal centro commerciale. Percorro il marciapiede pulito dagli spazzini stipendiati dalla ditta amica di chi possiede il centro commerciale. Costeggio la strada asfaltata da un’azienda senza dubbio amica di chi possiede il centro commerciale, superando le aiuole curate da un’altra azienda anch’essa amica di chi possiede il centro commerciale e delimitate da reti che il comune ha acquistato dagli amici di chi possiede il centro commerciale. Seguo i binari del tram, progettati e disposti da un’azienda amica di chi possiede il centro commerciale, toccando con una mano il bordo della siepe potata da giardinieri salariati alle dipendenze di un’azienda amica di chi possiede il centro commerciale. Passa il tram, acquistato per la collettività da un’azienda costruttrice privata, amica di chi possiede il centro commerciale, guidato da un conducente stipendiato da un qualche amico di chi possiede il centro commerciale. Io passeggio, ma sento l’impulso di partecipare a quest’opera teatrale: un piede per rotaia, mi chino calandomi le braghe e lascio uno stronzo al centro dei binari. Anch’io sono amico del centro commerciale, e grazie per la musica jazz.

  • Al contrario – [2] Divise

    Con molto ritardo rispetto alla prima parte, ecco la seconda puntata.


    Annarosa, detta Anna, era appena scesa a terra. Finalmente. Aveva perso il conto delle volte in cui aveva vomitato durante la traversata. O meglio, le traversate. Perché Anna era partita dalla Sardegna. Da Casteddu, che gli occupanti chiamavano Cagliari, città dalle piazze sventrate dagli attentati, in nave verso Palermo. Il permesso era stato difficile ottenerlo: su una nave turistica, la presenza dei sardi era malvista. Era riuscita ad ottenere la possibilità di viaggiare su quella nave solo corrompendo un responsabile delle cucine, e visto che i soldi non bastavano perché intendeva conservarne una parte per la traversata successiva non aveva trovato altro modo se non cedere alle richieste sessuali del responsabile. Non un rapporto completo, solo orale. «Ma non farti vedere in giro», le aveva raccomandato, «sta’ ferma qui e non rompere i coglioni» aveva poi intimato chiudendo la porta metallica di quel ripostiglio umido e puzzolente. Aveva provato nausea e disgusto, ma non vedeva altra via. Giunta a Palermo, aveva incontrato alcuni membri della comunità sarda in Sicilia, che le erano stati raccomandati da alcuni amici prima della partenza. Era stata aiutata fino a Porto Empedocle, dove aveva speso i soldi rimanenti per potersi imbarcare nottetempo con gli altri trecentocinquanta.

    Ora, con gli stessi trecentocinquanta, Anna stava sbarcando ed erano tutti vivi per miracolo: aveva visto diverse persone svenire nel corso del viaggio per insolazione e disidratazione. Un ragazzo norvegese era rimasto in stato di incoscienza per più di un’ora prima di riprendersi. Un suo compagno di viaggio, partito con lui e altri due, era stato esposto per troppo tempo al sole e ora riportava gravi segni di ustione in diversi punti del corpo.

    Christen aveva cercato più volte di immaginare come sarebbe stato quel momento, l’arrivo. Lo aveva pensato come una meritata pausa dall’ingiustizia eterna di chi subisce non solo una guerra civile e un intervento di guerra umanitaria, ma anche la mancanza della libertà di allontanarsene il più lontano possibile. Nelle poche ore di sonno lo aveva sognato, nei pochi attimi in cui poteva concedersi una pausa dalla paura della realtà circostante se lo era figurato, ne aveva fatto una meta almeno provvisoria della sua esistenza, uno spiraglio di salvezza. Ora si rendeva conto che quel momento non era ancora giunto. Lo sbarco non era come lo aveva immaginato, approdo gioioso e liberatorio ad un mondo sicuro. Era piuttosto un salto nelle fauci di un mondo ostile. Sul molo lo attendevano parecchi uomini in divisa, armati. No, questo non era un arrivo, non era la fine del suo viaggio della speranza: era la continuazione della mancanza di libertà. Li facevano scendere a terra e li smistavano secondo criteri che da solo non sarebbe mai stato capace di comprendere, perché non conosceva affatto l’arabo parlato dagli uomini in divisa né l’italiano parlato da chi aveva condiviso con lui la navigazione. Invece, qualcun altro tra gli ospiti provvisori di quell’imbarcazione conosceva sia l’arabo che l’italiano e sapevano tutti che li stavano smistando secondo la provenienza. Per motivi pratici, distinguere secondo la provenienza era comodo: le statistiche dicevano che, per esempio, i norvegesi erano quasi tutti profughi. Gli italiani teste calde. I sardi poveracci, ma vigevano controlli particolari per questioni di terrorismo internazionale. I francesi quasi tutti migranti economici, tranne i baschi che si dichiaravano rifugiati politici. E quindi, norvegesi da una parte, baschi e sardi dall’altra; francesi e italiani da questo lato, tenendo d’occhio gli italiani. E così via. Statisticamente, la provenienza tendeva ad essere legata alla condizione giuridica che i migranti si sarebbero visti riconosciuta.

    La guerra civile in Norvegia era cominciata con il bombardamento di Sandnes da parte dell’esercito inviato dal governo, in risposta ad una serie di attentati terroristici organizzati dal Christelig Folke che in quella cittadina, secondo i servizi segreti, aveva il suo quartier generale ad una distanza pericolosamente vicina a Stavanger, seconda città della Norvegia nonché di gran lunga il suo più importante centro per l’industria petrolifera. Il Christelig Folke era un’organizzazione terroristica di stampo militare che rifiutava ogni tipo di integrazione culturale; contraria alla presenza di minoranze etniche e religiose sul territorio norvegese, prendeva di mira in particolar modo le popolazioni sami e kven e le comunità cristiane non ortodosse, piuttosto numerose; gli attentati erano rivolti contro chiese, sedi di partiti, uffici del governo e ambasciate straniere; i suoi aderenti usavano il Høgnorsk, la forma purista e tradizionalista della lingua scritta, prediligendolo al Bokmål, considerato una corruzione del norvegese originario. Sebbene fosse clandestino e considerato organizzazione terroristica dalla comunità internazionale, in alcune zone il Christelig Folke godeva della simpatia di una parte, minoritaria ma non trascurabile, della popolazione. Quando il governo aveva approvato l’ennesimo “Programma nazionale di gestione delle risorse petrolifere” in cui si agevolava ulteriormente lo sfruttamento del territorio da parte di aziende multinazionali straniere, era dilagato il malcontento popolare. La scintilla decisiva, quella che avrebbe aperto le danze e portato al bombardamento di Sandnes, fu la repressione brutale di una sommossa. Al malcontento per i contenuti del nuovo “Programma nazionale” si affiancò una protesta correlata: quella dei pescatori di Stavanger contro l’inquinamento delle acque costiere ad opera dell’industria petrolifera, dovuto alla mancanza di controlli adeguati e alla connivenza tra funzionari governativi e aziende multinazionali che aveva portato alla distruzione dell’ambiente costiero con conseguente decimazione del pescato. La protesta si fece accesa e violenta e fu repressa nel sangue. La repressione aggravò la situazione e la sommossa assunse in pochi giorni i toni di una rivolta in diverse città e in poche settimane quelli di una guerriglia organizzata in intere regioni. Molti obiettivi furono oggetto di attentati terroristici da parte di Christelig Folke. In alcune aree, tra cui Sandnes, Christelig Folke riuscì a ottenere il monopolio della protesta sfruttando la destabilizzazione degli equilibri politici e prese il controllo del territorio.
    Qualche mese dopo erano intervenuti militarmente Senegal, Guinea e Tunisia al fianco del legittimo governo norvegese, messo in ginocchio dalla violenza terrorista. Poche settimane più tardi si erano uniti all’intervento anche Mali e Niger, che avevano inviato truppe e armi.

    La chiamavano “guerra umanitaria” ma Christen aveva visto solo bombe. Che cosa le rendesse più umanitarie delle bombe del governo o di quelle dei terroristi cristiani ortodossi rimaneva per lui un mistero. C’era invece un interrogativo su cui Christen sapeva darsi una risposta: seppur non capiva la natura di quelle bombe, di certo ne comprendeva il motivo. Quasi tutti i paesi intervenuti nel conflitto norvegese erano privi di giacimenti petroliferi e dipendevano fortemente dalle risorse norvegesi, opportunamente fornite loro grazie alle politiche concilianti condotte dal governo. Quei militari stranieri difendevano l’interesse economico dei rispettivi paesi. Non erano di certo volati fino in Norvegia per difendere i diritti delle minoranze etniche e religiose, altrimenti sarebbero volati anche in Sardegna o in Catalogna, dove i diritti violati da difendere non scarseggiavano.

    Christen scappava da una guerra civile, ma non faceva parte di una minoranza in pericolo. Anna era sarda: faceva parte di una minoranza, per quanto fosse assurdo sentirsi parte di una minoranza in una terra popolata in maggioranza da sardi. In effetti, la minoranza in Sardegna era costituita dai militari italiani. Anna non scappava da una guerra civile, che vede due parti contrapporsi, bensì da una guerra coloniale, che vede una parte opprimere e l’altra subire o resistere. In Sardegna non si era mai verificato un evento bellico destabilizzante: gli equilibri erano stabilmente sbilanciati.
    Formalmente la Sardegna era una regione normale, una divisione amministrativa italiana come tutte le altre. Eppure le istituzioni locali erano sistematicamente scavalcate, nell’esercizio dei propri poteri, dal governo centrale in maniera più o meno diretta. Per esempio, nel consiglio regionale di Casteddu era rappresentata una costellazione di partiti indipendentisti, tra cui i maggioritari Sardigna Natzione e il Partidu Sardu Indipendentista, nonché altri partiti minori come Indipendentzia e il Partidu de sos Traballadores Sardos, di area più radicale. Le regole di assegnazione dei seggi alle elezioni che democraticamente si svolgevano come in ogni altra regione italiana attribuivano ai partiti indipendentisti una larghissima maggioranza. Tuttavia, gli organismi democraticamente eletti erano, nei fatti, esautorati del proprio potere decisionale: spesso, questioni di cruciale importanza venivano discusse e approvate in altre sedi in cui i rapporti di forza erano del tutto a sfavore dei sardi. Per esempio, la politica energetica sarda non era gestita, come formalmente previsto, dalle istituzioni sarde, perché la linea generale in materia era imposta da leggi nazionali italiane, discusse e approvate a Roma, dove i sardi erano scarsamente rappresentati, anche per effetto del rifiuto del collaborazionismo con le istituzioni italiane (detto “ascarismo”) da parte delle forze indipendentiste.
    La disparità era tale che allo Stato italiano, per mantenere la propria posizione di autorità e il controllo della regione, era sufficiente minacciare l’uso della forza militare, servendosene raramente. Nonostante esistessero organizzazioni paramilitari, come l’ala armata del Partidu de sos Traballadores Sardos, che oscillava tra la legalità e la clandestinità, l’isola non viveva in uno stato di guerra. Spesso, esplosioni laceravano il centro della capitale sarda, ma si trattava di attentati simbolici ai danni di sedi istituzionali più che di strumenti di conflitto militare. Più che di uno stato di guerra si trattava di uno stato di occupazione militare.

    Anna non amava gli uomini in divisa. I soprusi che quotidianamente si verificavano ai danni di persone che erano giuridicamente normali cittadini, come qualunque altro italiano, ma che avevano la sfortuna di appartenere all’etnia sarda, erano commessi dagli occupanti in divisa: insulti, maltrattamenti e discriminazioni ad opera di chi rappresentava lo Stato sovrano. Per questo motivo, Anna tollerava male la presenza di qualunque divisa: suo malgrado, la associava ad una serie di ricordi ed esperienze negative. I sardi erano discriminati ovunque, anche fuori dall’Italia. Osservando le forze schierate intorno alla barca, Anna si chiedeva se in arabo esistesse, come in italiano, una parola per riferirsi ai sardi con accezione dispregiativa e se mai si sarebbe sentita chiamare “gnomo” o con altri epiteti razzisti anche qui, dopo aver imparato almeno un po’ di arabo.
    Anche Christen non trovava rassicurante la presenza di tutte quelle divise in quello che avrebbe dovuto essere un comitato di accoglienza: di certo tutte quelle armi e quei caschi, tutte quelle divise e tutti quegli uomini organizzati come se li stessero facendo uscire da un carcere di massima sicurezza piuttosto che da una barca lasciavano intuire un’idea parecchio insolita del concetto di “accoglienza”. Comunque, Christen aveva almeno un altro buon motivo per non nutrire simpatia per gli uomini in divisa: Christen fuggiva da una guerra. Le bombe che avevano distrutto la sua città erano state sganciate da forze armate africane in un attacco a sostegno del governo norvegese, da uomini che portavano la stessa divisa indossata ora dai militari che pattugliavano il porto. Non riusciva a sentirsi al sicuro, circondato da uomini armati. Non riusciva a nutrire rispetto per chi lo aveva reso prima uno sfollato, poi un emigrato.