Il 13 maggio, il sindaco di Firenze Dario Nardella ha dichiarato che senza le entrate da turismo cultura e commercio nelle case del Comune verranno a mancare 200 milioni rispetto ai ricavi previsti e che di fronte a problemi di tale entità è stata addirittura presa in considerazione la possibilità di spegnere l’illuminazione pubblica la sera. Come fatto notare da altri, una città che deve spegnere l’illuminazione pubblica perché senza turisti per una paio di mesi è un non-luogo, più simile a un’aeroporto senza più voli o a un’autostrada caduta in disuso che ad una città. Il concetto di non luogo è stato introdotto dall’antropologo francese Marc Augé in riferimento a “spazi architettonici e urbani di utilizzo transitorio, pubblico e impersonale, destinati a essere utilizzati in assenza di ogni forma di ‘appropriazione’ psicologica e in cui il movimento e orientamento dei fruitori è prevalentemente affidato alla segnaletica; si tratta di spazi altamente omologati nei quali l’uomo contemporaneo vive per tempi significativamente lunghi, non più riferiti a una struttura sociale organizzata in grado di favorire rapporti durevoli, privi di radicamento al contesto, alle tradizioni e alla storia”.
Questa impressione può essere confermata da praticamente chiunque abbia visitato Firenze con occhio attento all’architettura urbana, con interesse per i temi che si articolano intorno ai concetti di diritto alla città e di città vetrina o semplicemente con sufficiente sensibilità per gli effetti sociali e culturali dei processi di valorizzazione capitalistica. Sono andato a ripescare un mio scritto dell’agosto 2018, quando seguendo la Via degli Dei che collega Bologna a Firenze in un percorso di quattro giorni di cammino raggiunsi infine quest’ultima. Quel giorno, l’asprezza dell’impatto fu probabilmente amplificata dal contrasto tra i giorni (lunghissimi, come sempre quando si viaggia camminando) passati in ambiente montano o rurale e le dinamiche e i ritmi di una grande città, ma è anche vero che certi caratteri tipici delle città turistiche sono particolarmente spiccati nella città tra le più turistiche, se non la più turistica, d’Italia. Ecco cosa scrivevo sul treno allontanandomi da Firenze.
«Firenze è una città inospitale: non è fatta per la vita, solo per una sua rappresentazione. Una città che vuole essere fotografata, ammirata, guardata nella sua maestosità quasi barocca, ma che non vuole essere vissuta. Non esiste a Firenze un bar, un posto in cui veramente ti siedi per il puro piacere di lasciar scorrere il tempo: solo trappole per turisti, macchine tritacarne nel gioiello della città-vetrina. È una città dissociata nel puro senso del termine: è popolata da esseri umani che le sono alieni e dunque non è realmente popolata in modo sano, vero, genuino, è l’incarnazione dei principi religioso del cristianesimo e filosofici del platonismo, si nutre cioè di un mondo altro, mai di questo, tutto di essa ruota intorno a cose che non le appartengono. Nelle chiese -ma questo è un discorso generale- non si può più entrare stanchi e in cerca di rifugio, ma con voglia di spendere soldi e vestiti in maniera decorosa nella casa del Signore che dovrebbe essere aperta a tutti, poveri e bisognosi per primi. Alla stazione di S. M. Novella non esiste una fontanella d’acqua, simbolo banalissimo della vita, e se c’era è stata tolta come alla stazione centrale di Bologna in nome della guerra ai poveri la cui crosta più esterna e purulenta è l’ideologia del decoro. Una volta, solo qualche anno fa, c’era un self-service in stazione, di cui oggi non rimane che l’indicazione scolpita in pietra e affissa sopra quello che ne era l’ingresso: quello spazio accessibile a tutti oggi è chiuso, sostituito da una sala d’attesa Trenitalia Business Class, con le pareti di vetro oscurate e al suo interno le uniche panchine, a testimonianza dell’avanzare di un mondo non più distopico ma compiutamente neoliberale in cui possono sedersi solo i ricchi… e in cui solo se hai un biglietto puoi avvicinarti ai binari e non si può quindi neanche salutare un amico che parte nel momento in cui parte. Firenze è la città esclusiva, che più di tutte le altre città italiane incarna il paradigma della dissociazione intellettuale, prima che sociale. Non a caso, è a Firenze che la vita di un senegalese vale meno di un paio di vasi da decorazione della pubblica via»
«A Firenze non ci sono parchi verdi e accoglienti e ben tenuti: se non si paga, non si capisce perché occuparsene. Per vivere? Non è un’attività contemplata. Nei periodi più turistici, le trattorie più buone e antiche di Firenze chiudono per ferie: quelle buone, infatti, hanno un giro che prescinde dai turisti, e va in ferie coi clienti locali, che dal carnaio quale Firenze diventa scappano volentieri non appena possibile, come da una scena dell’Inferno dantesco, così che i quartieri appena fuori del gioiellino vetrina che è il centro storico si spopolano diventando strade fantasma in cui l’unica presenza umana è costituita da militari e turisti diretti in centro. Turisti e guardie: come nei parcheggi e le biglietterie dei parchi di divertimenti»
«Tutto ciò che serve a vivere bene e non solo a farsi guardare o ergersi a imperitura memoria dei bei tempi andati dell’abbiamo inventato la lingua italiana o dell’abbiamo prodotto le più belle opere d’arte sono qui considerati privi di valore, o meglio: non sono considerati affatto. Non potrei mai vivere a Firenze, forse nessuno potrebbe mai viverci… e infatti non ci vive nessuno. Come in tutte le cose, qualcosa si salva, e la vita resiste come la ginestra di Leopardi, inspiegabilmente: il lato buffo delle frasi di un netturbino apparentemente non in contrasto con la continua, terribile impressione di trovarsi in una scena di un film di Pieraccioni, la comunità dei migranti nel finto verde dei parchi fiorentini, il sapore del cibo dell’Antico Vinaio nonostante le orride e insensate magliette del personale piene di frasi con hashtag, la Strega Nocciola e la sua bontà al netto del prezzo, unico in Italia a competere col prezzo medio lionese di un gelato»
Sulla necessità di una risposta cosmologica al tempo della fine, che parta dalle forme di vita prima che dalle loro rappresentazioni.
Poco meno di dieci anni fa, quando questo blog era molto più frequentato, il baricentro del dibattito online non si era ancora trasferito sui social network cronofagi e totalitari e l’elaborazione del pensiero collettivo non rispondeva ancora del tutto a logiche prettamente pubblicitarie e commerciali, ci fu un periodo in cui chi scrive si trovò in quella che un’amica e commentatrice suggerì di descrivere come un’aporia, ovvero in termini filosofici una “difficoltà di fronte alla quale viene a trovarsi il pensiero nella sua ricerca”. In effetti, una riflessione dopo l’altra, i miei scritti parevano ribadire le stesse identiche cose, magari da angolazioni diverse o in loro diverse sfumature, ma sostanzialmente ruotando intorno ad un unico problema, che si faceva tanto insistente da occupare tutto lo spazio come il proverbiale elefante nella stanza, finché non potei fare a meno di vederlo. Questo problema, che mi pare oggi ovvio, era l’innaturalità del capitalismo. Stavo allora prendendo coscienza del carattere sociale, dunque costruito, di ogni suo aspetto, da cui derivava anche la possibilità di infiniti altri modi di organizzare la società umana e i suoi rapporti con il resto del mondo. Ecco dunque un fioccare di scritti in cui mi scagliavo contro i seguaci anche inconsapevoli della dottrina impossibilista del pensiero unico che uccide ogni alternativa additandola non già come malvagia ma addirittura come impossibile, argomentavo contro il pensiero debole che non aspira più a sistemi onnicomprensivi e a progetti di emancipazione globali, ma solo a forme specifiche di resistenza e intervento, criticavo chi rifiutava o non vedeva la necessità di cambiamenti strutturali e mi ergevo a difesa di una decostruzione e demistificazione dei meccanismi del sistema capitalista. Notando l’ossessione per l’argomento, la mia amica scriveva di non capire se avessi io bisogno di convincermi di quanto affermavo, oppure se la mia testa fosse incappata in un’aporia: a distanza di anni, non so quale delle due ipotesi fosse più aderente alla realtà, ma è certo che da allora ne sono stato convinto sempre più profondamente.
In quei mesi, uscivo da una fase di apprendimento e di formazione personale e politica che mi aveva portato a credere nella forza della ragione pura, nella possibilità di condurre la lotta su un piano prettamente morale e nella fiducia ingenua nell’individuo che, dotato di una razionalità propria, scevro da condizionamenti e da interessi materiali in gioco nella sua determinazione sociale, avrebbe compreso le ingiustizie del mondo e si sarebbe adoperato di conseguenza per eliminarle. Pensavo allora che i fascisti si potessero sconfiggere nel libero mercato delle idee e che spiegando ai capitalisti che i loro interessi distruggono il pianeta e con esso tutta l’umanità essi avrebbero optato autonomamente e liberamente per un sistema più giusto, presi dai rimorsi e da un profondo senso di responsabilità, senza forzature e rinunce, senza nessun rapporto di forza che li obbligasse a farlo. I limiti di questo pensiero prettamente liberale mi sono oggi talmente evidenti che li attribuisco all’immaturità politica di un adolescente appena uscito dal liceo e spesso non esito a pronunciare con disprezzo il termine “liberale” ed usarlo per insultare, come meritano, quelli che storicamente sono stati i mandanti dei fascisti. Dalla presa di coscienza di questi limiti nasceva la difficoltà di fronte alla quale il mio pensiero si era venuto a trovare nella sua ricerca, e dal superamento di essi prendeva forza l’approccio del materialismo storico e del marxismo libertario che mi anima ancora oggi e che mi rende “autonomo, benecomunista, centrosocialista”.
Oggi esiste un nuovo limite. Non si è manifestato come un serie di scritti pubblici monotematici, perché prima di porsi come problema politico consapevole ha affollato le pagine di un diario personale. In esse, una sorta di tensione ha assunto le sembianze di sensazioni, pulsioni vitali, creazione poetica: una continua e amarissima insoddisfazione ha riempito progressivamente i miei scritti e ne ha nutrito per anni parole e immagini, costellandole di sentimenti contrastanti ma rivolti nella medesima direzione. Non andrò a recuperare quelle pagine per trascriverne i contenuti, ma esistono degli elementi ricorrenti. Per esempio, la figura del filo che connette i nodi in reti di interdipendenza, rendendo ciascuno un nodo, ed è un filo di cui non ci si accontenta di appurare l’esistenza, ma che si vuole sentire, toccare, percepire. O ancora, l’idea della vita che resiste sempre e comunque, che sia sotto forma di steli di gramigna a bucare il manto stradale, di una famiglia di pescatori in riva ad un lago inquinato di petrolio, o di un odore di storia dietro il vetro rotto della finestra di uno stabile abbandonato, lasciato all’incuria e poi rioccupato, e si tratta di una vita spontanea, immediata, più reale e più libera di qualunque sua rappresentazione. Altra immagine, quella del tempo che scorre sotto gli occhi increduli di persone che non riescono a capacitarsene e vivono tutto come un sogno o come un incubo senza più tempo, in una specie di eterno ritorno, un senso di apice ormai toccato e destinato alla coazione a ripetere e in cui tutto sfugge, più nulla appartiene. E infine: la fuga dal simbolico, in linea con il prevalere etico delle forme di vita sulle loro rappresentazioni, quindi una fuga dalla legge, dai codici, dalle azioni dimostrative, dai linguaggi velleitari, ma si tratta di una fuga contraddittoria, perché anche i fili, gli odori, la vita sono tutti simboli e forse non c’è nulla di dicibile che non lo sia.
Questo testo, in dichiarata continuità con quell’approccio di libera creazione di immagini, non ha nessuna pretesa di essere scientifico. Intende illustrare, se possibile, il portato di considerazioni innanzitutto molto personali e difficili da trasmettere, sapendo che esistono delle sensazioni che parlano a tante persone anche se non possono rendersi a parole, e nella speranza che si tratti di sensazioni di quel tipo. Quanto provo a riportare qui è uno spaccato di vissuto interiore, non so in che misura sia generalizzabile.
Mi trovavo in un’impasse. Perché tutti quei riferimenti all’esperienza sensibile? Perché le metafore sulla vita, i fili, gli sguardi? Perché le certezze emergenti, i pensieri sull’indicibile fine del mondo? Perché il continuo, quasi ossessivo ricordare la separazione incolmabile tra vita e legge? Quando si gira intorno ad un concetto senza trovarne le parole si sta vivendo un limite del linguaggio. Non a caso ho scritto che non c’è nulla di dicibile che non sia anche un simbolo: forse cercavo qualcosa di indicibile che non potesse quindi diventare simbolo? In realtà, non era dai simboli che intendevo fuggire, ma dal linguaggio che mi fa trasformare in simboli anche i fili, gli odori, la vita. È un imponente sistema di chiavi di lettura della realtà a cedere sotto i colpi sferzanti dell’esperienza, e non a caso, altrove, parlo di queste chiavi come di un “cordone ombelicale”, che ci è necessario e ci nutre durante la gestazione, ma per condurci ad un nuovo modo di conoscere la realtà usando sensi ormai sviluppati ma ancora sottoutilizzati.
L’uroboro, leggendario serpente che si morde la coda assurto a simbolo dell’eterno ritorno e della natura ciclica delle cose.
So che è molto vago, e che queste parole sembrano avere più il carattere della rivelazione mistica e religiosa, ma se la comunicazione verbale è così insoddisfacente è perché appunto manca proprio il linguaggio per descrivere il nostro tempo. Viviamo in un’epoca simile alla prima metà dell’Ottocento, in cui le classi dominanti intessevano un nuovo ordine, rimodellavano le strutture dell’organizzazione sociale in forme ad esse più vantaggiose, ridefinivano le condizioni di vita di centinaia di milioni di persone, mietevano vittime, avanzavano apparentemente incontrastate. Non c’era ancora un movimento operaio internazionale organizzato, né una dottrina politica capace di riunirlo, non c’era una classe in sé; eppure, si diffondevano pratiche di sabotaggio, si costituivano reti informali di mutuo aiuto, si accendevano sporadiche rivolte, proteste e scioperi, tentativi di insurrezione che non trovavano ancora parole d’ordine unificanti, tutti frammenti che si sarebbero ricomposti come tasselli di un mosaico trovando voce e struttura nel movimento comunista. Un desiderio di libertà stava covando.
Lo scempio di oggi ricorda lo scenario ottocentesco: il livello delle disuguaglianze sociali è per molti versi maggiore di quello esistente all’epoca, le classi dominanti sono impegnate da decenni nell’aggressione sistematica delle conquiste strappate loro con la lotta dalle classi oppresse, smantellao progressivamente il sistema di regole che tutelava i diritti sociali, aprono nuovi spazi in un incessante processo di accumulazione primitiva (spazi poco regolamentati, ovvero nuove forme di sfruttamento ed occasioni ideali per accaparrarsi sempre più risorse), intensificano il controllo sociale con nuovi dispositivi, ridefiniscono gli equilibri mondiali e sembrano essere riusciti ad assoggettare praticamente ogni angolo del pianeta. Davanti a tale avanzata, le grandi narrazioni del Novecento non sembrano più esercitare il fascino del passato ed appaiono come armi spuntate contro le magnifiche sorti e progressive dello sviluppo capitalistico. Eppure, non mancano avvisaglie di qualcosa che non ha ancora un nome né parole d’ordine. Ciascuno vive frammenti diversi e sparsi di un’inquietudine esistenziale che pervade il corpo sociale e investe il senso collettivo della storia.
Accennavo ad un nuovo modo di conoscere la realtà. Per me è stata rivelatrice e dirompente l’esperienza dei gilet gialli, ma avevo già fatto tesoro di una serie di frammenti. Un passo in questo senso è stato il movimento femminista negli ultimi anni; imprescindibili sono state le lotte delle persone migranti per il diritto alla circolazione e ad una vita degna, con l’incredibile reazione chimica esplosa dal connubio tra il pragmatismo del movimento autonomo francese e il vissuto dolorosissimo dei flussi migratori, sfociata in un’ondata di occupazioni senza precedenti nel passato recente; oppure l’entusiasmo per il ciclo globale di insurrezioni cominciato alla fine del 2018; per non parlare, infine, delle innumerevoli pratiche interstiziali di cui veniamo quotidianamente a conoscenza, che chiamo interstiziali appunto perché si fanno strada di volta in volta tra le crepe del sistema ed ai suoi margini. Questo per quanto riguarda un lato delle barricate. Dall’altro, non credo sia necessario descrivere cosa ci sia: un potere sempre più autoritario, sempre più capillare, sempre più totalitario, che avanza lento ma inesorabile e in forme di volta in volta più mostruose, dal razzismo che prende piede ovunque ai nuovi populismi di destra, dal fascismo in salsa neoliberale al negazionismo climatico.
La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati (Gramsci, Quaderno 3 § 34)
Qual è dunque il limite del linguaggio che porta al crollo delle grandi narrazioni e allo stesso tempo alla delegittimazione delle istituzioni che da tali narrazioni sono storicamente derivate?
Azzardo un’ipotesi: a sfuggire è una possibile sintesi tra il materialismo e l’aspetto spirituale dell’esistenza umana. Per chiarezza, sono profondamente convinto della giustezza del materialismo storico ed ancorato alla sua tradizione filosofica e politica, il punto non è in alcun modo una sua radicale messa in discussione. Tuttavia, la rigidità di interpretazione delle sue categorie, così come delle categorie tradizionali di tutte le grandi narrazioni novecentesche, non riesce a cogliere un nuovo, enorme, elefante nella stanza: la fine del mondo. Consapevole che ancora una volta tale affermazione rischia di suonare escatologica e dal (personalmente fastidiosissimo) sapore mistico-religioso, mi sono spesso trovato a ricacciarne indietro le manifestazioni, quasi indignato per la mia stessa leggerezza. Come può un materialista ammettere sul piano teorico una qualche forma di spiritualità? Lasciamo queste cose al movimento New Age.
L’esitazione dinnanzi a questa impostazione materialista rigida e giudicante è tuttavia emersa con forza sempre maggiore, da parte di molteplici punti di vista sinceramente materialisti, ma semplicemente non ortodossi. E lo scoprire che non ero il solo a vivere questa insofferenza mi ha permesso di uscire dall’imbarazzo nell’esprimerla (e, tra le altre cose, di condividere pubblicamente le qui presenti considerazioni). Per sugellare queste nuove convergenze di vedute, e perché altri hanno dato una formulazione più propriamente politica di quella stessa insofferenza, cercherò di spiegarmi usando le parole usate da uno dei fondatori di Liaisons, giovane rivista di riflessione politica pubblicata in più lingue che si definisce transoceanica (perché rifiuta il termine-trappola di internazionale, imbrigliato nella dicotomia nazionale-internazionale) e la cui versione italiana è stata di recente presentata (trovate qui la registrazione completa dell’incontro organizzato il 24 aprile dalla Mediateca Getaway di Bologna).
“Una cosa che ci sembrava importante era la necessità di riconoscere la globalità partendo dal particolare: […] noi ci siamo direttamente posti il problema di certi eventi, tendenze, sentimenti che ci influenzano immediatamente a livello globale e che non si devono assolutamente ingabbiare in logiche nazionali o regionali. Per esempio, la radioattività non conosce frontiere, la pandemia non conosce frontiere, anche le insurrezioni non conoscono frontiere, per quanto la dicotomia tra interessi nazionali e internazionali ci impedisca di pensare lucidamente alla potenza di queste nuove maniere di legarci a livello globale. L’idea è che esistono grandi fenomeni immediatamente globali, che mantengono una propria integrità su quel livello pur ovviamente articolandosi in tempi e fasi specifiche, e che dunque ci legano tutti. Ci siamo chiamati Liaisons (“legami” in francese) in onore di Giordano Bruno, pensatore del Rinascimento: secondo lui, la magia consiste nel creare dei legami tra le sostanze di cui si compone la materia, tramite operazioni di alchimia, e la potenza non sta nel dominio e nel controllo bensì nel legame e nella relazione. La forza più bella è quella capace di creare legami nonché di riconoscere legami altrimenti invisibili, per metterli in luce. Negli stessi anni in cui Bruno proponeva la propria teoria dei legami, Machiavelli pensava la separazione come un gesto politico: separare per meglio governare. Separare e unire sono infatti due poli politici opposti che chiunque si trova prima o poi ad affrontare: separare per meglio governare, unire per meglio sovvertire. Noi parteggiamo con convinzione per il legame, perché lo riteniamo una necessità dei nostri tempi. Con questo, rompiamo con una tradizione gruppuscolare spesso legata alla ricerca di un soggetto politico di riferimento e intendiamo piuttosto indagare quegli eventi globali che ci legano a prescindere da qualsiasi presa di coscienza rispetto alla loro natura.”
Si noterà qui l’insistere sull’esistenza di eventi globali a prescindere da qualsiasi presa di coscienza. Niente di nuovo in termini teorici: la distinzione, per esempio, tra classe in se e classe per se, è stata al centro della necessità dell’azione politica fin dagli albori del socialismo, con l’obiettivo di produrre coscienza di classe. Oggi siamo tornati ad una fase in cui questo problema va risollevato e vanno ridefiniti i termini del discorso per superare un suo limite interpretativo. A tal proposito, è centrale il concetto di tempo della fine.
“Ci sono diversi modi di intendere il tempo della fine. Il tempo della fine come tempo in cui il nostro stile di vita coincide perfettamente con l’autodistruzione, e più si continua a sperare di vivere come stiamo vivendo, più si avanza verso la fine. La nostra generazione è la prima a vivere su larga scala questa verità. Una formulazione meno recente del concetto è quella fornita da Ernesto Demartino negli anni Cinquanta, parlando dell’Occidente come di apocalisse senza fine: tutto ciò che ci è storicamente e socialmente dato, tutto ciò che è stato costruito e che ereditiamo dal passato si estingue rivelandosi essere un immensa apocalisse.”
Una volta per tutte: l’evento primordiale che accadde una volta per tutte, e che può essere ripetuto ritualmente, si manifesta come l’orizzonte di destorificazione del divenire storico, il quale è appunto caratterizzato da eventi in cui il «ciascuna volta» del loro prodursi vale per sé e non per le altre, tanto meno per tutte. Nella storia si deve ricominciare sempre di nuovo ogni volta: il mito delle origini offre un piano in cui riassorbire questo proliferante «sempre di nuovo» in una volta previlegiata, metastorica, che sta per tutte, e che destorifica il divenire nella ripetizione della stessa immutabile permanenza metastorica. (De Martino, La fine del mondo)
Approfondendo questa linea interpretativa, è possibile affermare che la cultura umana, nel senso più generale del termine, consiste nell’esorcismo continuo della fine del mondo. La modernità occidentale è fatta invece di continua dissoluzione del familiare, dell’ordinario, senza alcuna riparazione possibile. La cultura in cui viviamo oggi coincide con la fine del mondo, non può esorcizzarla se non negandosi: è un paradosso in cui è impossibile vivere. Si puntualizza nella presentazione di Liaisons: “Apocalisse e salvezza sono sempre stati legati, mentre l’apocalisse senza fine non contempla salvezza”. Dunque non più una cultura dell’esorcismo della fine, ma una cultura della fine. “Tutte le nostre categorie politiche, le nostre idee e tradizioni non ci hanno affatto preparato a pensare in questo modo, sono incapaci di farlo, ed è su questa precisa sensibilità che ci ritroviamo noi di Liaisons, su questa sensazione quasi di incredulità di vivere nel fallimento della cultura nonché di tutte le culture politiche rivoluzionarie nel pensare il mondo presente. Pertanto, per riprendersi, bisogna ricominciare tutto. Non che d’un tratto il marxismo, l’operaismo, il pensiero queer, la teoria moltitudinaria e così via, diventino per magia inoperanti ed inutili, ma sembra mancare a questi approcci la comprensione del frammento di esistenza che ci definisce sempre di più: il limite dei nostri tempi, il senso della fine. Se la fine risulta inconcepibile per quegli approcci teorici, è per una precisa ragione: soltanto l’esperienza diretta della fine, il vissuto delle persone nel loro frammento di questa condizione che ci lega tutti, può aiutarci ad rinnovare la nostra prospettiva. Di questa esperienza manca ad oggi una descrizione analitica organica e puntuale.”
Per dare un esempio dei limiti analitici ed interpretativi delle letture tradizionali, ci si sofferma non a caso sul movimento dei gilet gialli, lo stesso che di recente provavo a descrivere con parole molto simili.
“Per esempio consideriamo il movimento dei gilet gialli: tutti coloro che hanno provato a interpretare il movimento con letture classiche, anche quelle rivoluzionarie, non ne hanno colto l’ampiezza: più che un soggetto che esprime rivendicazioni, è stato un movimento esistenziale, esploso per l’impossibilità di trovare soluzioni diverse dal semplice esplodere sul piano esistenziale. […] Il movimento si espone all’esperienza e nell’esperienza trova ragion d’essere: non ha scopo preciso se non quello di essere se stesso in maniera permanente, in una sorta di rifiuto, di sospensione del tempo apocalittico in cui ci troviamo. I rivoluzionari non stanno comprendendo questo aspetto: la volontà di sospendere il tempo dell’apocalisse attraverso l’esperienza.”
Con la speranza di contribuire a colmare queste lacune e nel tentativo di dare forma più cosciente all’insoddisfazione che aleggia sulle forme di vita che popolano il tempo della fine, è necessario elaborare una nuova visione che apra alla possibilità di una nuova “ontologia politica della presenza”. Ecco dunque la dichiarazione d’intenti di Liaisons, comparsa in italiano in questa recensione prendendo a prestito le parole dell’antropologo francese Philippe Descola:
Siamo nati in un’era di separazioni, alle soglie dell’inabissamento di un secolo stanco. Condividiamo la stessa insoddisfazione nei confronti delle grandi narrazioni, ma il loro spettro ci tormenta. Prigioniere e prigionieri del tempo della fine, rimaniamo con le spalle al muro davanti a un compito dalla portata incommensurabile: le nostre aspirazioni infatti non possono più relazionarsi con alcun contenuto positivo, ma con ciò da cui partiamo. La nostra eredità politica non è figlia di nessun testamento.
Da quanto scritto, è chiaro che il punto è non partire da una soggettività, dalle identità, da ciò che si ha ereditato, ma da ciò che si vive nel presente e nella sua fine, dall’esperienza diretta e frammentaria che ciascuno fa di ogni grande situazione collettiva, e tessere dei legami tra tali esperienze.
Un ulteriore questione, che secondo me è in realtà centrale anche se il formato, le esigenze di comunicazione politica e (ancora) gli inevitabili limiti di linguaggio ci impediscono di assumerla in quanto tale, è quella cosmologica, relativa alla posizione dell’esistenza umana nell’universo.
È necessario su questo versante “trovare una maniera di riappropriarsi della coscienza dell’invisibile e delle forze animatrici di un mondo che pensavamo inerte. Prendiamo la radioattività: il fatto che nel mondo quotidiano si riconosca l’esistenza di qualcosa di imprevedibile e invisibile riprende in un certo senso l’animismo e le visioni cosmologiche perdute storicamente solo di recente. Il virus riattiva questo meccanismo che riconosce il ruolo attivo di materia tutt’altro che inerte. Nell’elaborare la nostra condizione, si deve tenerne conto: la materia non è qualcosa di inerte che si possa decidere di prendere per costruire, per nutrirsi, per vivere, come se questo non avesse automaticamente implicazioni etiche. Di fronte a questa verità esaminata nei contesti più diversi, che si tratti di radioattività, pandemia o insurrezioni, esistono due reazioni: l’opzione immuno-autoritaria del potere (tutti a casa, ogni spazio pattugliato dalla polizia, la paura, la menzogna) e quella che prende sul serio la necessità di reinventare un pensiero in cui la materia è attiva, nient’affatto inerte o passiva, e il mondo non è un contenitore di risorse legate da forze puramente meccaniche. Questo ribalta tutto ed è la sola porta di accesso per un ripensamento delle tradizioni politiche e dei concetti di comunità (contrapposta all’immunità), di morte e vita, di cosmo. Non esiste molta scelta: più il tempo passa, più le alternative si riducono alle due opzioni di cui sopra, una risposta immuno-autoritaria e una risposta che tenga conto delle relazioni tra tutte le cose.”
Questo esemplare di Cordylus cataphractus è straordinariamente simile a un uroboro. Però è decisamente più reale.
Di nuovo, il richiamo all’animismo e a visioni del mondo che attribuiscono all’intangibile (per non chiamarlo spirituale) un ruolo attivo nella definizione dei rapporti di forza non va, a un primo sguardo, propriamente d’accordo con la tradizione materialista. Invece, queste riflessioni mostrano come si tratti di una contraddizione solo apparente, che deriva da un limite del linguaggio usato da noi che ci riconosciamo in quella tradizione. Non stiamo scoprendo nulla: la questione del rapporto con le cose era già presente in Karl Marx, ad esempio nei discorsi sul feticismo della merce. Eppure, la tradizione marxista ha sempre affrontato in maniera superficiale il rapporto tra mondo interiore ed esteriore, tra il senso storico e il senso soggettivo degli eventi, le ha sempre considerate un contorno del discorso materialista. Occorre oggi un ampliamento di visione per dare al tempo della fine una risposta cosmologica (o olistica, o qualche altra parola che non abbiamo ancora elaborato e trovato collettivamente).
Anche la questione del superamento della soggettività politica è una questione aperta e lacerante. Ad esempio, si deve poter ammettere che il nemico oggettivo del capitalismo, cioè ciò a cui il capitalismo si contrappone a prescindere da qualsiasi presa di coscienza, possa essere non necessariamente una categoria umana, ma lo spazio e il mondo vivente in quanto tale, nelle sue irriducibili forme di vita in lotta. L’ecosistema non può avere coscienza di sé come soggetto rivoluzionario: non avrebbe ovviamente senso una distinzione tra vivente in se e vivente per se. Esiste una lotta che prescinde dalla rivendicazione e non passa dal costituirsi come soggetto: inutile andare alla spasmodica ricerca della “Rivendicazione” quando la rivendicazione si scrive da sé, è intrinseca alle cose e alla vita, senza doverla leggerla da qualche parte, in una svolta esistenziale che è più importante delle parole con cui ognuno la descrive.
Riprendo qui quanto scrivevo sull’incapacità di leggere il movimento dei gilet gialli: “Potrebbero non scandire nessuno slogan, non dichiarare niente, e sarebbero repressi ugualmente e con la stessa identica brutalità. La loro colpa è esistere con ostinazione in spazi che il potere ha deciso da decenni di rendere esclusivi per alcune categorie. Se poi si va a vedere che cosa fanno, le rivendicazioni appaiono ancora più facilmente inquadrabili”.
Di fronte all’apocalisse climatica, solo un approccio cosmologico può costruire un’uscita alternativa e reale dallo stato di cose presente. Già adesso appigli in questo senso sono suggeriti da compagne e compagni ovunque sul pianeta.
Bruno Latour parla di “realizzazione improvvisa e dolorosa che la definizione classica di società – gli umani tra di loro – non ha alcun senso. Lo stato del sociale dipende, in ogni momento, dalle associazioni tra molti attori, la maggior parte dei quali non ha una forma umana. Questo vale per i microbi – lo sappiamo fin dai tempi di Pasteur –, ma anche per Internet, per il diritto, per l’organizzazione degli ospedali, per le capacità dello Stato così come per il clima”; il collettivo dell’Internazionale Vitalista nota (qui in italiano) che se si tiene conto delle geografie relazionali, “il circuito di concause dell’epidemia ha avuto proprio inizio a New York per poi estendersi a Wuhan”; dalla Francia, oltre al gruppo di riflessione sviluppatosi intorno a Liaisons, arriva il Monologo del virus, a proporci un cambio di sguardo: “vi è un’intelligenza immanente alla vita. Non vi è alcun bisogno di essere un soggetto per disporre di una memoria o di una strategia. Nessun bisogno di essere sovrano per decidere”; il professor Yuk Hui dell’università di Hong Kong cita Nietzsche, paragonando l’umanità ad “un gruppo [che] lascia definitivamente il proprio villaggio per intraprendere un viaggio in mare alla ricerca dell’infinito, ma arriva solo in mezzo all’oceano per rendersi conto che l’infinito non è una destinazione. E non c’è niente di più terrificante dell’infinito quando non si può tornare indietro”. Yuk Hui insiste sulla necessità di diversificare la tecnologia, il che “implica anche la diversificazione degli stili di vita, delle forme di convivenza, delle economie” nella misura in cui “comprende le diverse relazioni con i non-umani e il cosmo più ampio”, e si fa promotore della tecnodiversità illustrando i limiti di “una tradizione filosofica – con le sue opposizioni tra natura e tecnologia, e tra cultura e tecnologia – che non riesce a concepire la possibilità di una pluralità di tecnologie come qualcosa di realizzabile.” E ancora, lo storico e romanziere Gil Bartoleyns osserva che “trattando i non umani come cose, abbiamo creato le condizioni per la nostra fine”; Salvo Torre considera il vivente come categoria rivoluzionaria e propone di portarlo al centro del conflitto, e lo fa nel solco della tradizione marxista usando termini e concetti ad essa propri.
Tutto lo sgomento e la solitudine della nostra epoca è forse dovuta al vuoto che separa ancora la miriade di sovversioni vitali locali dalla consapevolezza del loro carattere globale e tutta l’apparente vaghezza delle forme di resistenza al capitalismo a prescindere dalle loro rappresentazioni e da qualsiasi presa di coscienza dipende forse dall’abitudine che abbiamo alla separazione e al trattamento del non umano come materia inerte.
Gli appigli, i sommovimenti, le suggestioni non mancano. Non resta che continuare a lottare.
Noi siamo i figli dei padri ammalati: aquile al tempo di mutar le piume, svolazziam muti, attoniti, affamati, sull’agonia di un nume (Emilio Praga, Preludio a “Penombre”)
Il 13 aprile, il sito francese Lundi Matin ha pubblicato “Qu’est-ce qu’il nous arrive ?” (“Cosa ci viene incontro?”), un prezioso contributo di Jérôme Baschet, storico francese, riguardo alla fase attuale. Sottotitolo: “Molte domande e qualche prospettiva ai tempi del coronavirus”. Questa è la traduzione della terza parte. Qui la prima e qui la seconda. Buona lettura.
Barricata sul ponte Al-Jumhoriya, Baghdad, 12 novembre 2019. Foto: Mustafa Al-Sumaidaie
In questi tempi
piuttosto deprimenti di urgenza sanitaria, di continue conte dei
morti e di reclusioni
forzate, c’è chi si
preoccupa di ciò che è possibile fare fin da subito e in tanti
fanno congetture
sulle opportunità del “dopo quarantena”.
Su questo punto particolarmente importante sarà meglio rimandare
alle elaborazioni collettive presenti o future. E non si dovrebbe
trascurare la necessità di individuare già adesso le tendenze in
atto e che hanno ottime probabilità di continuare a esserlo in
seguito. Queste tendenze sono fortemente avverse, pur senza escludere
possibilità più favorevoli dalle quali dovremo provare a trarre il
massimo vantaggio.
Anche
se il sogno di molti è un importante esame di coscienza da parte di
una civiltà infine messa di fronte ai propri limiti e ai suoi
effetti mortiferi, va riconosciuto che le forze sistemiche che hanno
condotto fin qui il mondo globalizzato non sono magicamente scomparse
per effetto di un virus vendicatore. Esse sono ancora all’opera e
ancora dominanti. È
quindi più che probabile che impongano, non appena le condizioni
sanitarie lo consentano, un ritorno al business
as usual -se
possibile ancora più blindato di prima.
Ben inteso, tutto
dipenderà dalle proporzioni della crisi economica, che rischia di
intensificarsi rapidamente negli Stati Uniti con l’effetto probabile
di un aumento vertiginoso della disoccupazione (che portebbe
raggiungere 30 milioni di persone in più rispetto ad ora),
dell’insolvenza
da parte di nuclei
familiari sempre più indebitati,
della crisi delle banche
che potrebbe seguire e che aggraverebbe la serie annunciata dei
fallimenti aziendali. Ma
superati questi episodi estremi, la tendenza alla ripresa del normale
corso dell’economia dovrebbe infine vincere, facendo leva sulla
necessità di compensare le perdite e forse anche spingendo ad un
consumismo di recupero. È
molto probabile che l’urgenza di un rilancio dell’economia, abbinata
alle ristrettezze finanziarie
giustificate dai deficit
e dall’indebitamento esorbitante provocato dalla crisi sanitaria,
sia ancora una volta
addotta
per relegare in secondo piano le questioni climatiche ed ecologiche
rinviando così i già
esigui progressi in corso
o previsti su quei
fronti.
Del resto, tanto è già stato detto sulla strategia d’urto in corso
e a venire,
la quale
permette e permetterà di rafforzare le misure eccezionali, gli
attacchi alle libertà con la scusa dello stato di emergenza,
l’intervento permanente e discriminatorio delle forze di polizia, le
forme di sorveglianza e controllo, e così via.
Tuttavia, se è vero che la crisi sanitaria è una buona occasione
per rafforzare queste tendenze, bisogna anche ricordare che esse
erano già ampiamente in atto. È
chiaro che il regime cinese non ha avuto certo bisogno del
coronavirus per imporre un controllo
della popolazione
generalizzato e brutalmente repressivo, servendosi da tempo delle
nuove tecnologie.
Eppure, potrebbe la crisi del coronavirus segnare una svolta nel dispiegamento delle forze sistemiche? Due punti sembrano trovare consenso quasi unanime fin dentro le cerchie dirigenti e mediatiche. In primo luogo, la necessaria rilocalizzazione di certe filiere produttive di cui la crisi ha messo in luce il carattere vitale, soprattutto per quanto riguarda l’industria farmaceutica -per non parlare delle mascherine, diventate criterio decisivo di sovranità delle maggiori potenze mondiali (ci si protegga almeno dal ridicolo!). Secondo Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno, questa rilocalizzazione sarebbe già stata ufficializzata. E da qui sarebbe tuttavia avventato concludere che si tratti di una conversione alla de-globalizzazione: probabilmente sarà solo un riaggiustamento nelle catene di produzione, sempre all’interno della globalizzazione. In secondo luogo, spesso si accenna ad una rivalorizzazione dei servizi pubblici, addirittura ad un ritorno dello Stato-Provvidenza. Ma dovremmo credere all’improvvisa conversione di coloro che, come Macron, dopo essere stati fedeli esecutori dei dettami dell’economia neoliberale, sembrano adesso discutere di intervento dichiarato dello Stato in nome dell’interesse di tutti? E dovremmo credere a chi, come un disco rotto, annuncia da una buona decina d’anni la fine del neoliberismo? Non lasciamoci imbrogliare, la questione è già stata ben sviscerata: le politiche neoliberali hanno sempre avuto bisogno dello Stato, che fosse per realizzarle (negli anni 1980) o per garantirle in ultima istanza, così che in caso di crisi lo Stato è chiamato ad operare per socializzare le perdite, mentre in tempi favorevoli esso si eclissa nuovamente per lasciare libero corso alla privatizzazione dei profitti. È quanto avvenuto nel 2008-2009 e non c’è alcun ragione per cui stavolta le cose vadano diversamente. Resta il fatto che, anche se i parametri fondamentali del neoliberismo non sono stati intaccati, le turbolenze successive al 2008 sono state marcate da interventi statali più evidenti, certo meno nel campo del sociale rispetto a quanto concerne la dimensione poliziesca e repressiva. È altamente probabile che si intensifichi questa tendenza verso ciò che è stato definito “neoliberismo autoritario”. Eppure, avendo il sistema sanitario avuto un ruolo di primaria importanza nella crisi del coronavirus, sarebbe difficile immaginare che dopo averne tanto celebrato l’impegno eroico non si prenda almeno qualche misura significativa in merito, e neppure come si possa rimanere sordi davanti ad una richiesta sociale molto forte in materia di salute e di cura. Un aumento della spesa in questo settore non potrà pertanto essere evitato, ma non ci sono dubbi che la realizzazione di tali promesse fatte in preda all’urgenza e alla necessità assoluta di contenere la rabbia del personale sanitario sarà accompagnata da tutti gli stratagemmi possibili per privilegiare, invece che l’indispensabile aumento dei mezzi e del personale, piuttosto le stesse misure di riorganizzazione e razionalizzazione che hanno condotto agli errori e alle mancanze venute a galla con la crisi del coronavirus.
La bandiera mapuche issata su un monumento colonialista, 26 ottobre 2019. Foto: Susana Hidalgo
In generale, si profila uno scenario del tutto ambivalente. Non esistono dinamiche unilaterali, ma tendenze fortemente contraddittorie. Da un lato, si può prevedere qualche riaggiustamento interno alle dinamiche dell’economia globalizzata (con un rafforzamento delle sue debolezze, in particolare il suo deficit di crescita e il suo colossale sovraindebitamento), ma anche un’intensificazione delle pulsioni autoritarie e liberticide, con un nuovo giro di vite nella normalizzazione dello stato di eccezione e lo sviluppo ulteriore delle tecniche di controllo e sorveglianza. Ma tutto ciò non può essere separato da un’altra tendenza, esistente già prima e che è destinata a consolidarsi sotto la crisi: un grande movimento di delegittimazione tanto delle élite dirigenti quanto delle loro politiche neoliberali. Tre aspetti sono qui riuniti: una perdita di credibilità dei governanti e un’insoddisfazione crescente rispetto ad una democrazia rappresentativa col fiato corto (le cause profonde di questo processo sono strettamente legate alla subordinazione strutturale degli Stati alle forze dell’economia globale); un livello crescente delle disuguaglianze che le rende ormai sempre più inaccettabili; e, infine, la consapevolezza ormai chiara, specie tra le giovani generazioni, delle devastazioni ecologiche indotte dal produttivismo capitalista. Al di là delle caratteristiche e delle motivazioni specifiche di ciascuno di essi, le sollevazioni planetarie degli ultimi due anni sono indice del grado di delegittimazione delle élite e delle politiche neoliberali. Dopo quattro decenni di onniptenza del “pensiero unico”, questo comincia ad accumulare delusioni e sconfitte, almeno sul piano ideologico. Questo è un fatto importante, che senza dubbio determina in maniera molto forte l’agire dei governanti, che sanno quanto rischiano di essere spazzati via, che sia per un’ondata populista o per delle vere insurrezioni popolari.
Si potrebbe pensare che la crisi del coronavirus, durante e dopo la sua espansione, non può che rafforzare questa tendenza. Offre infatti tutti gli elementi di una condanna senza appello delle politiche neoliberali applicate al settore della sanità, dal momento che sono la causa diretta dell’insufficienza di mezzi e dell’impreparazione, la cui dimensione criminale è si è manifestata agli occhi di tutti. Al contrario, si è acceso un immenso bisogno di servizi pubblci, allo scopo di rispondere alle esigenze di cura, di solidarietà e di tutela dei più vulnerabili. D’altro canto, i livelli di disuguaglianza generati da decenni di neoliberismo sono apparsi con ancor più violenza nelle situazioni createsi in ambito sanitario: si pensi soprattutto alle classi popolari costrette a lavorare per salari divenuti doppiamente inaccettabili, sia rispetto ai rischi corsi sia per il carattere di necessità improvvisamente riconosciuto a compiti prima disprezzati o malvisti. Inoltre, non è escluso che l’emergenza assoluta della crisi sanitaria dia una consistenza più percepibile alla minaccia del cambiamento climatico, questa “emergenza lenta” ma molto ancor più temibile del Covid-19. Infine, la gestione governativa della crisi del coronavirus potrebbe convincere sul carattere fuorviante della presunta necessità dell’austerità finanziaria e della sottomissione imperativa ai vincoli della concorrenza mondiale: in qualche giorno, i governi hanno trovato centinaia se non migliaia di miliardi per sostenere l’economia, dimostrando che di fronte ad un pericolo ritenuto serio è possibile agire senza più badare a spese, costi quel che costi. Nel mondo dell’Economia, non esiste alcuna ragione possibile per mobilitare somme comparabili per far fronte ai pericoli meno tangibili e più lontani del cambiamento climatico, ma questa differenza sarà sempre più difficile da giustificare dinnanzi a preoccupazioni ecologiche sempre più pressanti.
Marcia di protesta per chiedere le dimissioni del presidente haitiano Jovenel Moise, Port-au-Prince, Haiti, 13 ottobre 2019. Foto AP / Rebecca Blackwell
In
sintesi, la crescita del
movimento di delegittimazione dei governanti e delle politiche
neoliberali è altamente probabile,
sebbene ciò non significhi
la fine del neoliberismo
e neanche che la crisi del coronavirus offra un terreno
necessariamente propizio alla rinascita delle politiche keynesiane,
per esempio sotto forma del Green
New Deal caro alla
sinistra del Partito Democratico negli Stati Uniti. Piuttosto, si
tratta di riconoscere la doppia tendenza rivolta
al contempo verso una
delegittimazione crescente delle politiche neoliberali e verso una
loro prosecuzione, dal momento che rispondono alle logiche
strutturali del capitalismo globale e finanziario. La
risultante di questi due movimenti implica una tensione sempre più
esplosiva, con da un lato l’imposizione delle politiche richieste
dalle forze dominanti del mondo dell’Economia usando se necessario
mezzi sempre più autoritari, dall’altro un dominio sempre meno certo
e una probabilità sempre più alta di esplosioni sociali. Il
potenziamento
delle tecniche di controllo e repressione, ormai impugnate
nel nome della salute e della tutela della vita, potrà di certo
essere impiegato dinnanzi a tali rischi, ma non potrà farli sparire.
È possibile addirittura
che quei rischi siano
proprio il motivo di tale
potenziamento, che
peraltro non farebbe che aggravarli
nel tentativo di contenerli. La risoluzione di una tensione del
genere è altamente incerta. È
questa la sfida delle lotte in corso, tanto dal punto di vista di chi
governa
che di quello di chi a
loro si oppone.
In
questo contesto, si può provare a individuare qualche occasione
per alimentare
delle possibilità già in atto. Ci limiteremo qui a qualche nota
telegrafica, in attesa di elaborazioni collettive adesso e in futuro.
–”Non metterete in quarantena la nostra rabbia”. La rabbia, per adesso trattenuta, comincia già a straripare. Rabbia dinnanzi alla natura criminale dell’inazione dei governanti che hanno sottoposto la sanità pubblica a cure ripetute di austerità e che sono rimasti sordi alle rivendicazioni insistenti del personale sanitario. Rabbia accesa dall’impreparazione al rischio epidemico (smantellamento degli organi preposti alla preparazione e alla risposta alle emergenze sanitarie, nonostante la sua creazione nel 2007; incapacità di rifornire le scorte di mascherine e tamponi nonostante l’avvicinarsi della pandemia…). Rabbia per l’nsufficienza di mezzi e di organizzazione che avrebbero permesso di contenere il dilagare dell’epidemia nelle case di riposo. Quanti contagi e quante morti tra i medici e gli infermieri, “mandati al fronte senza equipaggiamento”? Quanti contagi e quante morti tra i candidati alle amministrative e gli scrutatori dei seggi elettorali lo scorso 15 marzo? Quanti contagi e quante morti provocate dai controlli di polizia effettuati senza le dovute cautele e senza tante cerimonie? Quanti contagi e quante morti tra cassieri e lavoratori dei supermercati, costretti a lavorare senza protezioni adatte? Nelle fabbriche, nei trasporti, nei magazzini di Amazon, tra i fattorini a domicilio? Non mancano certo motivi per una rabbia profonda. Alcuni medici lanciano appelli per una “insurrezione generale di tutto il personale sanitario”. Altri iniziano a portare a processo i membri del governo. Le azioni a venire sono molteplici. Sotto l’immobilità della quarantena, cova un’onda dilagante di rabbia. Una collera che non ha niente di cieco e che, al contrario, si adopera per mostrare ciò che i governanti cercano di nascondere. Una giusta rabbia, una collera degna. Quanto potrebbe bastare per ravvivare la fiamma della rivolta dei Gilet Jaunes. Abbiamo almeno qualche ragione per prospettare una “giletjaunizzazione” della fine della quarantena, malgrado i vari giri di vite che il governo sta già preparando, proprio questi motivi.
I gilet gialli rivendicano Place de la Republique, Parigi, 8 dicembre 2018. Foto: Stephane Mahe / Reuter
–”Blocchiamo
tutto, riflettiamo e non è triste” diceva Gébé in L’an
01. La versione
Covid-19 è piuttosto: “bloccano tutto, non è molto divertente
ma almeno possiamo riflettere”. Certo, il piacere della grande
introspezione e l’esame di coscienza non è ugualmente condiviso.
Riguarda in primo luogo le classi medie e agiate, in quarantena ma
comode. Per altri, al contrario, il carico di lavoro è maggiore del
solito, le condizioni di vita più precarie e le preoccupazioni
quotidiane più pressanti.
E ciononostante, i ritmi imposti dall’apparato economico si sono
ampiamente allentati; la fretta crescitista e immediatista si è
fatta meno insistente. In Francia, 8 milioni di lavoratori dipendenti
stanno lavorando a orario
ridotto e ricevono una buona parte del proprio stipendio senza
lavorare. Ciò significa
sì molto
tempo liberato, anche se le condizioni impongono vincoli drastici al
suo utilizzo; ma resta il fatto che l’esperienza di un’esistenza in
cui gli obblighi quotidiani del lavoro si affievoliscono rappresenta
una porta socchiusa verso possibilità che la routine quotidiana
sovrassatura di attività non lasciava prima neanche immaginare. Se
la mancanza di tempo è una delle principali patologie dell’homo
oeconomicus, la
quarantena crea la
situazione inversa di una grande disponibilità di tempo anche se, il
più delle volte, non si sa bene come altro occuparlo se non
digitando freneticamente sul proprio smartphone o ingrossando il
pubblico dei canali di informazione.
Nonostante tutti i limiti
del caso, la
convergenza tra la rabbia
verso uno Stato sempre meno credibile e la rottura dei ritmi
di vita che
sconvolge persino
le abitudini più radicate è
foriera di un potenziale non irrilevante
di critiche, di messa in
discussione e, si spera,
di apertura a possibilità profonde e molteplici. La crisi del
coronavirus può aiutare a riflettere meglio su ciò che non vogliamo
più e magari anche su come potrebbe essere un mondo in cui
producessimo di meno, lavorassimo di meno, inquinassimo di meno,
avessimo meno fretta. Questo contesto di crisi in cui per giunta la
questione della morte è meno nascosta del solito attribuisce uno
spazio particolare a domande come: cosa è veramente importante? A
cosa teniamo davvero? Si tratta di fermenti potenzialmente creativi
nell’attuale situazione.
–Bloccare l’economia: molti lo sognavano, il virus lo ha fatto. A partire da questo momento, è logico voler rifiutare ogni ripresa e ogni forma di ritorno alla normalità. Servono però i mezzi per opporvisi concretamente. Eppure bisogna almeno constatare che la crisi attuale si configura come una sorta di esperimento in grandezza reale di un vero blocco generalizzato dell’economia (35% dell’attività globale e 44% dell’attività industriale). Certo, si tratta in parte di un auto-blocco, ma non va trascurato l’impatto del ricorso massiccio al diritto di recesso, ad altre forme di pressione da parte dei lavoratori, o anche allo sciopero, come in Italia e altrove. L’ipotesi di pratiche generalizzate di blocco che interessino allo stesso tempo la circolazione, la produzione, il consumo, la riproduzione sociale, la gestione dei territori, che era già stata riattivata dal movimento dei Gilets Jaunes potrebbe uscirne consolidata. L’episodio dell’attuale auto-blocco dell’economia per cause sanitarie potrebbe rendere più facile l’individuazione dei settori produttivi meno utili e più dannosi, che sarebbe possibile bloccare in maniera prolungata o addirittura eliminare senza alcuna conseguenza nefasta e anzi con grandi benefici come la riduzione delle cause delle prevedibili catastrofi climatiche.
Enorme manifestazione ad Hong Kong, circa trenta minuti prima di abbattere un lampione intelligente di sorveglianza, agosto 2019 Foto: Studio Incendo via Wikimedia Commons
–Le pratiche
di aiuto
reciproco e
di autogestione non hanno certo atteso la crisi del coronavirus per
emergere ed apparire come la base concreta di un mondo desiderabile e
finalmente di nuovo vivibile, ma le condizioni di esistenza imposte
dalla pandemia e le misure prese dall’alto per contenerla non possono
che accentuarne il bisogno e l’importanza. L’esperienza dell’epidemia
rivela, in primo luogo, la necessità di pratiche di cura e tutela
autogestite: case di cura autonome, reti di competenze condivise ed
ogni altro modo di organizzazione praticabile in questo ambito
avrebbero permesso, come è stato per le comunità zapatiste, di fare
emergere collettivamente le misure sanitarie adatte ad affrontare
l’epidemia piuttosto che allo
Stato il piacere di imporle in modo coercitivo. La situazione creata
dalla pandemia pone anche, con un’urgenza
che ormai non è più soltanto teorica, la questione
dell’autoproduzione soprattutto alimentare e delle filiere
autorganizzate, che si dimostrano cruciali sotto la minaccia latente
della scarsità, soprattutto nelle città. Infine, il tessuto
consolidato delle pratiche di
aiuto reciproco e di
autogestione dovrebbe condurre abbastanza logicamente ad ampliare il
desiderio di produrre forme di autogoverno e autonomia, che
permettano ai gruppi e alle comunità di prendere autonomamente
decisioni che riguardano
la propria vita, autodeterminandosi.
***
Il coronavirus può essere considerato come rivelatore e
amplificatore di tendenze già pre-esistenti. Non potrebbe esso
stesso essere attore di una transizione o di un cambiamento storico
radicale, non è il Messia che condanna al crollo finale una civiltà
corrotta. Nondimeno, la crisi provocata dal SARS-CoV-2 è un evento
che ha obbligato i governanti del pianeta ad invertire
temporaneamente le gerarchie del mondo dell’Economia per garantirne
la riproduzione nel tempo. Gettandoci per la prima volta su una scala
tanto estesa e con effetti tanto tangibili nel tipo di catastrofe che
sarà caratteristico del prossimo secolo, il virus funge anche da
acceleratore dei tempi storici. In questo, pur essendo la crisi
immediata sanitaria piuttosto che climatica, ci fa già percepire
quanto sia esorbitante il costo del Capitalocene, rende concreto ciò
che si profila all’orizzonte -anche se non bisogna aspettarsi effetti
immediati, pena la probabile vittoria di una lettura naturalizzante
dell’epidemia.
Dire che il coronavirus non fa che intensificare tendenze già
esistenti non significa in alcun modo sostenere che tutto riprenderà
il proprio corso come prima. L’accentuare le tendenze già esistenti,
e in particolare rafforzare antagonismi e tensioni risultanti da tali
tendenze, in una situazione caotica in cui prevale l’estrema
instabilità crea una maggiore apertura di ciò che è possibile, con
opportunità in parte nuove. I ritmi sono stati stravolti, molte
certezze minate, certi equilibri modificati e certi tabù infranti,
almeno temporaneamente. Ciò che prima era possibile diviene adesso
un poco più possibile di prima. Ovviamente questo vale tanto per il
consolidamento delle forme di dominio -che potrebbero aggiungere al
loro armamentario già ben nutrito lo stato d’eccezione sanitaria
permanente- quanto per tutte e tutti coloro si adoperino seriamente
per ritrovare dei mondi vivibili, liberati dalla tirannia
dell’Economia.
Jérôme Baschet
I manifestanti provenienti da Khartoum affluiscono ad Atbara in occasione del primo anniversario dell’inizio della rivolta che ha rovesciato l’ex presidente sudanese Omar al-Bashir, 19 dicembre 2019. Foto: Ashraf Shazly / AFP via Getty Images
Il 13 aprile, il sito francese Lundi Matin ha pubblicato “Qu’est-ce qu’il nous arrive ?” (“Cosa ci viene incontro?”), un prezioso contributo di Jérôme Baschet, storico francese, riguardo alla fase attuale. Sottotitolo: “Molte domande e qualche prospettiva ai tempi del coronavirus”. Questa è la traduzione della seconda parte. Qui la prima, qui la terza ed ultima. Buona lettura.
La temperatura media della superficie terrestre sta aumentando ad una velocità senza precedenti. Si stima che oltre 250 miliardi di tonnellate di ghiaccio si siano sciolte solo nel 2018.
Piuttosto che descrivere di nuovo in dettaglio l’evoluzione della crisi sanitaria e della crisi finanziaria ed economica, qui ci si concentrerà sulle misure adottate dai diversi Stati e sulle analisi che se ne possono proporre. La quarantena generalizzata che si è imposta su scala planetaria e che sconvolge profondamente le nostre esistenze sarà dunque al centro dell’attenzione. I contributi su questo argomento non mancano e, senza ritornarci in dettaglio, occorre almeno insistere sul carattere altamente diseguale della quarantena. L’epidemia funge da rivelatore ed accentuatore delle disuguaglianze preesistenti; e la disugualianza è duplice, in riferimento tanto alla malattia e quanto alle condizioni della quarantena. Parecchie differenze sono state ampiamente descritte e denunciate: tra le categorie professionali più privilegiate che si danno al telelavoro e coloro che, invece, sono costretti a lavorare, in condizioni di tutela insufficiente e per salari che sono spesso più bassi; tra chi si è rintanato in seconde case in campagna e chi è cristallizzato in città; tra chi dispone di appartamenti confortevoli e di risorse significative e chi fa parte dei milioni che vivono in alloggi inadeguati, patendo una convivenza più difficile del solito e poco favorevole alle misure di prevenzione, senza parlare della situazione dei senza fissa dimora, dei carcerati, delle persone chiuse nei centri per migranti o delle donne e dei bambini alle prese con la violenza domestica. Le disuguaglianze razziali molto spesso intersecano e rafforzano quelle sociali, come indicato per esempio dalla flagrante sovrarappresentazione degli afro-discendenti tra le vittime del Covid-19 negli Stati Uniti (70% dei decessi in molti stati in cui non rappresentano che un terzo della popolazione). La sovraesposizione delle donne alla malattia è stata altrettanto sottolineata, sebbene le forme gravi e la mortalità colpiscano, poi, maggiormente gli uomini (con differenze tra i sessi molto variabili tra i paesi). Le disuguaglianze sono ancora più forti sul piano internazionale: molti paesi del Sud hanno sistemi sanitari fragili se non totalmente inadeguati; pullulano di quartieri insalubri; l’importanza dell’economia informale e la scarsità dei servizi pubblici lasciano una parte considerevole della popolazione senza alcuna risorsa non appena la quarantena si estenda a livello generale. C’è da temere che un’ampia diffusione della malattia in questi paesi, soprattutto in Africa, si trasformi in un’ecatombe molto più grave che altrove.
Occorre notare che, in queste regioni, il Covid-19 è spesso percepito come una “malattia dei ricchi”. È così che l’ha definito Miguel Barbosa, governatore dello stato di Puebla, in Messico (aggiungendo, in uno spirito prossimo al messianismo lopezobradorista, che “a noi poveri la malattia non farà nulla, siamo già immunizzati”). In modo più sensato, molte voci del Sud hanno criticato un’eccessiva mediatizzazione del coronavirus, legata alla sua diffusione iniziale nel Nord in contrasto con altre malattie più tipiche del Sud ma che non interessano nessuno. In Africa, il Codiv-19 è anche apparso come una malattia delle élite, dal momento che sono proprio i membri di quest’ultime, avvezzi ai viaggi in aereo e ben integrati nell’alta società globalizzata, i primi ad essere colpiti (in certi paesi, si è perso il conto di ministri, alti funzionari e generali). Ciò è in forte contrasto con l’Ebola, malattia proveniente dalle zone rurali dei paesi interessati, che ha toccato innanzitutto i più poveri. Va sottolineato, come controparte della constatazione inconfutabile di un’accentuazione delle disuguaglianze sociali di fronte al Covid-19, che è anche vero che questa pandemia colpisce prima di tutto alla testa. In questo, si tratta di una vera e propria malattia della globalizzazione: ha dapprima raggiunto le regioni più integrate ai flussi globali e subito attaccato con forza le élite dirigenti. Il caso di Boris Johnson è emblematico, ma va ricordato che anche altri capi di Stato o di governo, a cominciare da Angela Merkel e Donald Trump, sono stati in contatto con persone infette dal virus e avrebbero benissimo potuto contrarre la malattie; infine, la quantità di ministri colpiti, in Francia come in altri paesi, è ben lungi dall’essere puramente aneddotica. È un aspetto da tenere in considerazione, sebbene, man mano che la pandemia si generalizza, la sua diffusione e i suoi effetti si conformano sempre più alle gerarchie sociali vigenti (così, uno dei primi decessi provocati dal Covid-19 in Brasile è stato quello di una lavoratrice domestica costretta a continuare ad andare a casa della propria datrice di lavoro di ritorno da una vacanza in Italia).
Il Delta del Niger è stato devastato da decenni di sfruttamento incontrollato del territorio da parte dell’industria petrolifera. Foto: Sunday Alamba / AP
Veniamo
all’analisi delle misure prese dai governi dei diversi Stati di
fronte alla progressione della pandemia. Si
dovrebbe forse vederci un
ulteriore passo nell’attuazione dello stato di eccezione, un’apoteosi
del controllo biopolitico delle popolazioni, la semplice
perpetuazione delle liturgie della religione economica, o tutte
queste cose insieme? Potrebbe essere utile cominciare da una
descrizione più precisa e una
cartografia
sommaria delle reazioni
statali.
Diciamo innanzitutto che le strategie sanitarie di fronte a
un’epidemia virale a rapida diffusione, e per la quale non esistano
né cure certe né vaccini, sono essenzialmente tre (con ovviamente,
molteplici varianti):
lasciare che l’epidemia si propaghi aspettando che prevalga
l’immunità di gruppo, come si fece per l’influenza di Hong Kong nel
1968-1970; optare per un contenimento drastico (con quarantena
generale e blocco della maggior parte delle attività economiche e
delle occasioni di assembramento),
per bloccare il più rapidamente possibile l’ondata di contagi e
farla passare sotto la linea delle capacità del sistema ospedaliero,
il che lascia inalterato
il problema di potenziali
seconde e terze ondate; l’attenuazione che consiste nel prendere
misure più morbide incentrate sulla prevenzione sanitaria, la
restrizione parziale delle attività e l’isolamento dei soli malati
per mitigare la prima ondata, ma con una circolazione più ampia del
virus meglio adatta a preparare le onde successive. Più
concretamente, le politiche adottate si possono suddividere in tre
poli principali.
a) La quarantena iper-autoritaria ha senza dubbio la Cina come modello. È nota la brutalità della quarantena imposta da un giorno all’altro a partire dal 22 gennaio a Wuhan e nella regione del Hubei (60 milioni di abitanti) e poi ad altre città e regioni, con un enorme effetto paralizzante sul funzionamento della fabbrica del mondo. Le modalità della quarantena sono state delle più severe, escludendo quasi ogni motivo di uscita, inclusa la necessità di fare la spesa, incaricando squadre del Partito di portare ad ogni famiglia gli approvvigionamenti necessari. Il rigore del controllo e della repressione è stato imparagonabile a quanto si possa conoscere in Europa, con l’arresto immediato e il rischio di sparizione per chiunque diffondesse messaggi che mettevano in dubbio la buona gestione da parte del governo (per esempio, video che mostravano la situazione disastrosa negli ospedali). Oggi, nel momento in cui, dopo due mesi e mezzo di quarantena, gli abitanti di Wuhan ricominciano ad uscire di casa, la Cina impiega tutte le risorse della sua propaganda per apparire, agli occhi della propria popolazione e del mondo intero, come un modello di efficienza dinnanzi all’epidemia. Eppure, al di là delle polemiche sul numero dei morti (si parla di 40 000 o 80 000 invece dei 3 000 ufficiali), sarà difficile far dimenticare i fallimenti della sua gestione iniziale. È noto il caso del dottor Li, medico che per primo ha dato l’allarme, è stato incarcerato dalle autorità del Hubei ed è diventato un eroe popolare dopo la morte. Ma il fallimento è stato ben più profondo. Dopo la SARS nel 2003, la Cina aveva istituito un imponente dispositivo di monitoraggio dei rischi infettivi: il Centro cinese di controllo e prevenzione delle malattie, che impiega 2 000 persone, aveva per obiettivo l’individuazione più rapida possibile di qualsiasi nuova malattia, con lo scopo di arrestarne la propagazione. Tuttavia le autorità del Hubei hanno impedito che i segnali di allerta raggiungessero Pechino e anche se già a partire da metà dicembre la crescita del numero di casi stava accelerando, il direttore del centro nazionale non ne è venuto a conoscenza che il 30 dicembre, e in maniera indiretta. La tendenza a sottovalutare l’epidemia ha ancora prevalso fino al 22 gennaio, giorno di inizio della quarantena nel Hubei: solo quattro giorni prima, a Wuhan si è tenuta un’immensa festa di 40 000 persone per il nuovo anno lunare tutta in onore di Xi Jinping. Si stima anche che milioni di persone abbiano lasciato la regione tra l’annuncio della quarantena e la sua effettiva applicazione, con le conseguenze che si possono immaginare per quanto riguarda l’espansione dell’epidemia. Così, il cattivo funzionamento di ingranaggi locali dello Stato cinese e la corruzione generalizzata che lo affligge, così come la volontà di proteggere ad ogni costo la vita del Partito, hanno causato una propagazione dell’epidemia che avrebbe potuto essere ridotta del 95% se non fossero state perse tre settimane preziose. Quando si valuta l’efficienza della gestione autoritaria della crisi da parte della Cina, non va dimenticato il disastro iniziale che ha reso inutile quel sistema di prevenzione che avrebbe dovuto evitare proprio lo scoppio di una vasta epidemia. Ci si può anche chiedere se la forza, addirittura la brutalità della risposta dello Stato, non siano direttamente proporzionali agli errori che tenta di nascondere o minimizzare. Peraltro, questa ipotesi potrebbe forse essere formulata anche per altri paesi.
Acqua inquinata proveniente dalle attività dell’industria mineraria, vicino a Johannesburg, Sudafrica, il 24 settembre 2015. Foto: Mike Hutchings / Reuter
b) I dragoni asiatici, in particolare Hong Kong e la Corea del Sud, sembrano essere riusciti a mettere a punto delle misure di contenimento precoce e di attenuazione che hanno permesso, almeno in un primo tempo, di controllare l’epidemia senza bloccare radicalmente l’economia. Esiste, però, un insieme di condizioni ben definite che hanno reso questa risposta possibile: caratteristiche geografiche specifiche, con territori di estensione modesta e di natura insulare o quasi-insulare; preparazione rigorosa, dovuta soprattutto all’esperienza della SARS nel 2003, che ha permesso di agire a uno stadio molto precoce; mezzi materiali importanti che hanno consentito l’uso generalizzato di mascherine, una grande capacità di test, una pratica massiccia di disinfezione urbana (a Seoul, le metro sono interamente disinfettate alla fine di ogni corsa); un sistema sanitario dalle elevate prestazioni (7 posti di terapia intensiva ogni 1 000 abitanti, ovvero un po’ più che in Germania e più del doppio della Francia); ma anche l’impiego immediato di tecniche di controllo della popolazione (tracciamento dei malati e dei loro contatti tramite sistemi informatici). In tal modo, coniugando forza economica ed efficienza statale, la Corea del Sud è assurta alle cronache per essere riuscita ad appiattire la curva dei contagi senza troppo compromettere la macchina produttiva.
c) Gli iper-liberali darwinisti e i populisti illuminati hanno a lungo rifiutato di sacrificare l’economia per questioni di salute. Boris Johnson è stato sostenitore dell’atteggiamento un tempo dominante, ovvero lasciare che la malattia si propaghi fino all’ottenimento di una immunità di gregge sufficiente a far sì che l’epidemia finisca per esaurirsi da sè. Ha dovuto tuttavia fare marcia indietro -ancor prima che il virus lo spedisse in terapia intensiva- quando è apparso che il costo umano dell’inazione sanitaria avrebbe superato il livello socialmente tollerabile (le proiezioni dell’Imperial College stimavano mezzo milione di morti solo in Gran Bretagna). Con le giravolte imprevedibili che lo caratterizzano, anche Donald Trump ha tentato di minimizzare il più a lungo possibile la gravità dell’epidemia e limitare le misure di contenimento per non creare difficoltà economiche. La sua dottrina era chiara: “non possiamo adottare un rimedio peggiore del problema”, giacché “il blocco dell’economia ucciderà delle persone”. Come di consueto, Trump espone la verità nuda e cruda dell’economia: è lei che bisogna salvare, e questo deve vincere su ogni altra considerazione. In questo campo dove solitamente la fa da padrone, la scena gli è stata rubata dal vice-governatore del Texas, che ha dichiarato che gli anziani, a cominciare da se stesso, dovessero accettare di sacrificare la propria vita per il buon funzionamento dell’economia e per il bene del paese. Jair Bolsonaro ha manifestato lo stesso rifiuto della gravità dell’epidemia, gli stessi atteggiamenti noncuranti e sprezzanti delle misure sanitarie, lo stesso rifiuto delle misure che rischiano di provocare la paralisi del paese. Si aggiunga, nel suo caso, il rilievo dato alla necessità delle classi popolari di lavorare per sopravvivere e una giustificazione più esplicitamente colorata di religione: “mi dispiace, della gente morirà, ma questa è la vita”; “dobbiamo lavorare, ci sono dei morti ma questo dipende da Dio: non possiamo fermare tutto”. Ciononostante, proprio come Trump il quale, senza prendere tutte le decisioni attese dal capo del governo federale, ha finito per accettare le misure sanitarie suggerite dai suoi consiglieri, così Bolsonaro ha perso la partita. Si è inimicato tutti i governatori e ha pure visto evaporare il sostegno dell’esercito, come testimonia la vicenda nella quale i generali gli hanno impedito di silurare il ministro della salute, mettendo in evidenza quanto avesse perso il controllo sulle decisioni di governo. Così i seguaci più cinici di un’economia pura, senza temere di ammettere la propria completa indifferenza per la vita umana, hanno finito per mangiarsi le mani e si sono conformati alla tendenza globale della quarantena generale.
Un uomo cammina sulla costa del Mar Arabico, a Mumbai, in India. il 30 luglio 2012. Foto: Rajanish Kakade / AP
Va ancora inserito in questa categoria il caso, a priori ben distinto, del presidente messicano Andrés Manuel Lopez Obrador. Considerato da alcuni come eroe della sinistra progressista, nondimeno ha eguagliato Trump e Bolsonaro per il modo di disprezzare le misure di prevenzione, di continuare a tenere riunioni, di abbracciare i propri sostenitori e di rifiutare ostentatamente il disinfettante fornito ai propri ministri. Le sue dichiarazioni non sono state meno sorprendenti (secondo lui, il virus non poteva far niente in Messico, perché si tratta di un grande paese di cultura e perché la lotta contro la corruzione permette di avere ottimi stanziamenti per la sanità), fino ad arrivare al giorno in cui, disdegnando la laicità dello Stato, ha brandito i santini conservati nel portafogli presentandoli come vere e proprie “guardie del corpo” contro il virus. Allo stesso tempo, nonostante le segnalazioni si moltiplicassero nel paese, si rifiutava di prendere misure rischiose per le attività economiche. Lopez Obrador non è forse l’uomo dell’economia pura, ma non è comunque la perfetta incarnazione dello “sviluppismo”, che ne è la versione progressista. Basta vedere, nel momento in cui alla fine la quarantena entra in vigore, la priorità che continua ad attribuire alla realizzazione delle sue grandi opere infrastrutturali, come il contestato “Treno maya”. Complessivamente, i casi di Lopez Obrador, Trump e Bolsonaro mostrano quanto il fanatismo dell’economia (nelle sue diverse varianti) e quello della religione si riuniscano e s’intreccino a meraviglia. L’ipotesi benjaminiana del capitalismo come religione mai è stata più appropriata.
Che ne è adesso dei paesi
europei, che ne è della Francia? L’esitazione e l’improvvisazione
hanno decisamente prevalso, in un contesto di impreparazione sia sul
medio termine sia di fronte all’imminente pandemia annunciata. Contro
ogni evidenza, ogni governo ha sperato che il proprio paese sarebbe
stato risparmiato (come
in Francia, quando già l’Italia era fortemente colpita).
Nell’impreparazione
e nella mancanza di anticipazione
c’è un tratto
squisitamente presentista che, soprattutto in Francia, ha raggiunto
proporzioni criminali, ma c’è anche più semplicemente una forma di
rifiuto legata alla volontà di credere che si potrà evitare di
prendere misure dannose per il funzionamento dell’economia.
In Francia, la svolta è avvenuta tra il 12 e il 16 marzo, ovvero tra
i due interventi di
Macron il secondo dei
quali ha annunciato la quarantena generale. Si dice spesso che le
proiezioni dell’Imperial College avrebbero anche in questo caso
avuto un ruolo determinante: l’estensione
della mortalità prevedibile aumenta
improvvisamente il costo politico dell’inazione o dell’insufficienza
di azione pubblica.
Il
primato della questione economica non è più
sostenibile.
Resta da capire perché sia stata allora adottata l’opzione a) piuttosto che l’opzione b). Il fatto è che non erano soddisfatte le condizioni necessarie alla realizzazione di quest’ultima (la via coreana). L’impreparazione era troppo grande ed era troppo tardi per agire in tal modo. Soprattutto, mancavano tutti i mezzi materiali: niente maschere, niente tamponi, posti letto insufficienti, niente cultura della prevenzione. È qui che la responsabilità delle precedenti politiche sanitarie si fa sentire: un’altra strategia sarebbe stata possibile, ma non nelle condizioni d’impreparazione e insufficienza materiale della Francia che, come la maggior parte dei paesi vicini, appare vittima della “terzomondizzazione” provocata da decenni di neoliberismo. Non appena è stata ammessa la necessità di limitare la propagazione di un virus sconosciuto e subdolo nel proprio sviluppo micidiale, non c’è stata allora altra soluzione credibile che quella della quarantena generale. Rimane comunque il caso di qualche paese europeo, a cominciare dalla Germania di cui, curiosamente, si parla piuttosto poco. Organizzazione efficiente, mezzi materiali importanti e qualità del sistema ospedaliero (due volte più posti letto per abitante che la Francia) spiegano probabilmente un livello di mortalità più basso nonostante le misure di contenimento siano più morbide (come è anche il caso della Svezia). La specificità della potenza dominante in Europa potrebbe spiegare la possibilità di una via intermediaria tra quella dei paesi vicini e quella della Corea del Sud?
Ciminiere e fumi di una zona industriale. Foto: Hramovnick / iStock
Insomma, le decisioni degli
Stati si possono suddividere in uno spazio organizzato in tre poli
principali: il minimalismo sanitario liberal-darwinista;
l’attenuazione realizzara da Stati ben preparati e dotati di
importanti mezzi materiali e tecnici; la quarantena generalizzata,
realizzata in maniera più o meno autoritaria.
Si deve aggiungere che molti governi hanno dato prova di lunghe
esitazioni, presi com’erano tra le esigenze sanitarie e la
preoccupazione di nuocere il meno possibile al buon andamento
dell’economia, ma hanno finito quasi tutti, con più o meno
convinzione e con più o meno ritardo, per conformarsi all’opzione
della quarantena, che tocca
ormai più di 4 miliardi di persone nel mondo.
È
impressionante vedere come dei governi che sono tutti, in misura
variabile, bravi soldatini del mondo dell’Economia abbiano potuto
optare, almeno inizialmente, per delle strategie tanto differenti.
Devono
dunque essere in gioco
fattori diversi dalla
semplice sottomissione agli imperativi dell’economia: il grado di
preparazione e il livello di potenza materiale (in altre parole, il
posto nella gerarchia dello sviluppo capitalista); le differenti
tradizioni politiche e le varie articolazioni tra Stato ed economia
che ne risultano. Ma, alla fine, la via coreana, la sola che permetta
di conciliare esigenze sanitarie e imperativi economici, è
accessibile solo a un numero esiguo di prescelti. Per quanto riguarda
la via liberal-darwinista, essa è
l’affermazione della verità stessa dell’economia che
si impone sprezzante di qualsiasi considerazione sanitaria e
attenzione per la vita, ma che
non ha tenuto di fronte
alla portata della mortalità annunciata e ha dovuto cedere ovunque.
Non resta dunque che l’opzione a), quella della quarantena
generalizzata che per arrestare la progressione dell’epidemia
ha anche paralizzato l’economia mondiale.
Ecco
allora la cosa più incredibile. A malincuore e con tutti i colpevoli
ritardi e tutte le ambiguità che non si è
mancato di osservare (tra un discorso marziale sul rispetto rigoroso
della quarantena e gli
sforzi per mantenere l’attività di certi settori economici
evidentemente non essenziali),
ma alla fine lo hanno fatto
comunque. Hanno fatto
l’impensabile e messo l’economia mondiale quasi in arresto,
scatenando una recessione -e presto una crisi economica- ben maggiore
di quella del 2008 e che merita il confronto, a quanto afferma lo
stesso FMI, con la crisi del 1929.
Come
comprendere questo? L’economia ha forse improvvisamente smesso di
regnare sovrana? Perché tali misure? Perché
sarebbe semplicemente
ovvio che la priorità è “salvare vite”, come
pretenderebbe il discorso medico? Eppure tutte le vite che non si
salvano nel corso ordinario del mondo dell’Economia ci ricordano che
non è affatto ovvio. Il fatto che non si sia agito così nelle
grandi epidemie del secolo scorso avvalora l’assenza di ogni ovvietà
in merito. Allora come sfuggire all’ingenuità di una lettura
“umanista” e alla denuncia dogmatica di un primato sempre
assoluto degli imperativi economici?
A cosa risponde l’esigenza, largamente contemplata dall’azione pubblica, di “salvare vite”? Sarà l’apoteosi della governamentalità biopolitica? Il Leviatano statale avrà fiutato la migliore occasione per imporre un rafforzamento dei suoi dispositivi di sorveglianza e controllo, con il pretesto dello stato di emergenza sanitaria permanente in fase di elaborazione? Sarà perchè, nelle condizioni attuali, ne va della capacità degli Stati di assicurare la riproduzione dei rapporti sociali, attraverso i servizi pubblici essenziali? O più banalmente si tratta di salvaguardare le “risorse umane” minacciate dal virus?
La più grande isola di plastica galleggiante dell’Oceano Pacifico copre una superficie di 1,6 milioni di chilometri quadrati.
Potrebbe essere interessante quello che si delinea come un discorso ufficiale emergente in tempi di coronavirus. L’articolo che la direttrice del FMI e il suo omologo dell’OMS, Kristalina Georgieva e Tedros Adhnom Ghebreyesus, hanno firmato insieme sul Daily Telegraph del 3 aprile ne è probabilmente un documento chiave. Come interesse centrale ha quello di tentare un riassorbire la contraddizione tra questione sanitaria e imperativo economico: “tutti i paesi si trovano di fronte alla necessità di contenere il contagio al prezzo della paralisi delle loro società e delle loro economie” affermano innanzitutto gli autori, subito prima di negare che si tratti di un dilemma: “salvare vite o salvare i mezzi di sussistenza? Controllare il virus è, in ogni caso, condizione preliminare per salvare i mezzi di sussistenza”; “il corso della crisi sanitaria mondiale e il destino dell’economia mondiale sono inestricabilmente collegate. Combattere la pandemia è una necessità perché l’economia possa recuperare”. Certo, si fatica a immaginare cosa un messaggio comune emanato da questi due organismi internazionali potrebbe affermare se non questa grande unità di esigenze sanitarie ed economiche. Significativo è invece il fatto che le misure connesse alla lotta contro la pandemia non siano affatto presentate come un ostacolo al funzionamento dell’economia, ma come una condizione per il suo completo ristabilimento. Bill Gates, molto impegnato nelle questioni sanitarie e del resto co-organizzatore di Event 201 Scenario, ha precisato: “nessuno può continuare come se niente fosse. Qualunque ambiguità su questo punto non farebbe che aggravare le difficoltà economiche e aumentare le probabilità che il virus ritorni e causi ancora più morti”; “se prendiamo delle buone decisioni, sulla base delle informazioni scientifiche, dei dati e dell’esperienza del personale sanitario, possiamo salvare delle vite e fare in modo che il paese riprenda il lavoro”. Dietro la combinazione di esigenze sanitarie ed economiche, si disegna la triplice alleanza di capitale, potere politico lungimirante ed esperti del mondo scientifico.
Questa ideologia, elaborata a livello globale e che si fonda su un’articolazione che si presume non conflittuale tra questione sanitaria e imperativi economici, è certamente chiamata ad affermarsi sempre di più negli anni a venire. Essa offrirà alle grandi imprese estese opportunità pubblicitarie, in cui il health-washing potrebbe concorrere con il green-washing finora in voga, del tipo: “come vedete mettiamo le vite davanti al profitto”. Nell’immediato, essa esclude di evitare le conseguenze della pandemia in termini di mortalità e di disorganizzazione (sociale, politica e direttamente economica). Nel mondo dell’Economia, non si può agire nel disprezzo aperto ed esplicito di milioni di vite umane sotto gli occhi di tutti; ma “salvare vite” vale comunque di più se fatto per motivi di necessità economica che in maniera disinteressata.
Gli Stati sono ancora degli ingranaggi essenziali della macchina economica globalizzata. Si trascura a volte questo fatto, perché il normale funzionamento di quest’ultima fa prevalere l’integrazione crescente, se non proprio simbiotica, delle sfere politiche ed economiche. Ma non appena le difficoltà si accentuano, gli Stati ritrovano un ruolo che è più autonomo solo in apparenza: davanti ai fattori di crisi economica, essi agiscono come garanti in ultima istanza dei mercati, come stanno facendo in questo momento con forza poderosa; davanti alle crisi sociali, si sentono in dovere di agire coniugando promesse di cambiamento e forme sempre più intrusive di controllo e repressione; davanti alle crisi sanitarie, si sentono in dovere di agire per preservare la vita e la salute delle popolazioni. Non farlo, o farlo con mancanze, significa esporsi ad un accresciuto discredito -in un contesto in cui la credibilità dei governanti è seriamente intaccata dappertutto, se non proprio vacillante. Del resto, come già suggerito, l’intensità delle misure prese sembra talvolta proporzionale agli errori commessi, all’impreparazione e ai colpevoli ritardi che i governanti cercano di occultare o di far dimenticare, di fronte a movimenti di indignazione di cui i procedimenti giudiziari in corso o a venire non sono che una piccola parte. Infine, bisognerebbe forse tener conto di un ulteriore fattore che rafforza il rischio di disorganizzazione politica ed economica agitato dalla pandemia di Covid-19. Come visto, si tratta di una malattia che colpisce prima alla testa: si è subito diffusa nelle zone più centrali del mondo globalizzato e si è rapidamente diffusa nelle cerchie di dirigenti (capi di Stato o di governo colpiti o a rischio, ministri e parlamentari, generali e alti funzionari, uomini d’affari, eccetera). È possibile che il rischio di disorganizzazione delle catene di comando, in caso di propagazione incontrollata della pandemia, sia stato molto elevato: salvare delle vite diventa allora salvare il buon funzionamento del mondo dell’Economia. La reazione sarebbe stata proprio la stessa se la pandemia si fosse propagata esclusivamente o principalmente tra le popolazioni povere del Sud del mondo?
Il fumo sale dagli impianti di una centrale nucleare in funzione.
d) Prima di concludere questa parte, va menzionato un caso notevolmente differente, che potrebbe rivelarsi illuminante. Mentre il presidente messicano ostentava giorno dopo giorno di negare della gravità della malattia e di rifiutare ogni misura seria di prevenzione e di protezione, gli zapatisti e le zapatiste del Chiapas hanno sorpreso per la celerità e la chiarezza della loro reazione. Nel suo comunicato del 16 marzo, l’EZLN dichiara l’allerta rossa nei territori ribelli, raccomanda ai consigli di buon governo e alle comuni autonome di chiudere i caracoles (centri regionali) e invita i popoli del mondo a prendere coscienza della gravità della pandemia e adottare “misure sanitarie eccezionali”, senza per questo abbandonare le lotte in corso. Ispirati dalla loro diffidenza per le imposizioni statali -e alle volte anche, in modo specifico, da parole come quelle di Giorgio Agamben sull’”invenzione dell’epidemia” come leva per lo stato di eccezione, o sulla miseria di una vita nuda, privata di ogni contatto fisico- sono stati numerosi, negli ambienti radicali, a tendere subito verso il rifiuto delle misure di distanziamento fisico o di quarantena e ad opporre a queste un dovere di resistenza. Nei giorni successivi al comunicato, i e le responsabili della sanità autonoma zapatista si sono scambiati le informazioni disponibili sui sintomi della malattia e le sue modalità di contagio e hanno raccomandato misure di prevenzione e contenimento, quali la sospensione delle assemblee o la messa in quarantena delle persone che rientravano da altre regioni. Ma è spettato alle comunità stesse prendere decisioni che esse consideravano opportune, a seconda delle particolari condizioni in ciascun luogo. Questa esperienza -che non è certamente la sola nel suo genere e che si è probabilmente prodotta in molte regioni in cui le tradizioni comunitarie dei nativi restano forti- permette di rappresentare meglio la forma che potrebbe avere un’organizzazione di sanità popolare ed autogestita. Permette anche di comprendere che misure drastiche ed impegnative come una quarantena o l’impossibilità di toccarsi e di abbracciarsi diventano odiose solo per la forma che assumono quando sono imposte dallo Stato, a forza di controlli di polizia e di misure repressive: possono invece esistere delle forme di quarantena e distanziamento decise collettivamente ed autorganizzate, al di là dei meccanismi istituzionali statali.
***
La pandemia provocata lal SARS-CoV-2 è giunta ad approfondire una frattura tra l’esigenza sanitaria di tutela delle popolazioni e la conservazione dell’apparato economico. La via che ha permesso di conciliare con meno danni possibili queste due preoccupazioni si è rivelata inaccessibile alla maggior parte dei paesi, per mancanza di preparazione e di mezzi materiali -sommandosi gli effetti di presentismo, neoliberismo e disuguaglianze planetarie. La via cinica di un sacrificio palese delle vite umane al dio Economia ha finito per apparire politicamente insostenibile. Le misure drastiche di contenimento e di quarantena che sono dunque state adottate hanno bloccato una parte considerevole dell’economia mondiale. Anche se la nuova versione dell’ideologia dominante globalizzata si adopera per affermare che non esiste alcuna contraddizione tra la questione sanitaria e quella economica – essendo la pandemia infatti la condizione per il ripristino del buon funzionamento della seconda – è evidente che le politiche adottate mondialmente sono andate a collidere con gli imperativi economici, al punto da innescare la più grave crisi economica dopo quasi un secolo
In tale contesto, è ovvio che gli Stati cerchino di trarre il massimo vantaggio dalla situazione si emergenza sanitaria, imponendo uno stretto controllo delle popolazioni: rafforzamento del potere poliziesco (quando non addirittura militare), perfezionamento delle tecniche di sorveglianza e controllo, specie tramite il tracciamento informatico, misure di eccezione che rischiano di diventare durature, deroghe alla legislazione sul lavoro, generalizzazione del telelavoro e del tele-apprendimento, isolamento che permette di spezzare i legami di solidarietà e le mobilitazioni collettive emergenti, eccetera. La “strategia d’urto” descritta da Naomi Klein, che consiste nel giustificare l’imposizione di misure impopolari con la necessità di rispondere a gravi crisi è più che mai all’opera (e come tale deve essere combattuta), ma limitarsi a quest’analisi significherebbe non vedere che una parte della realtà: la crisi sanitaria è reale e ha costretto la maggior parte dei governi a prendere misure in contrasto con le loro normali priorità. Dalla comprensione di tale inversione di tendenza -ovviamente provvisoria e giustificata in nome dell’economia stessa dal nuovo discorso dominante- dovranno prendere le mosse analisi più approfondite. Possiamo comunque già adesso trarne la seguente considerazione: invece di pensare le misure di quarantena solo come espressione astratta del carattere autoritario dello Stato, come la quintessenza del controllo biopolitico delle popolazioni o come la semplice perpetuazione dell’onnipotenza dell’economia (tutte analisi che sono tutto sommato probabilmente necessarie), si dovrebbe ammettere che tali misure sono, per i potenti stessi, cariche di tensioni e di contraddizioni -come sarà anche la posta in gioco della fine della quarantena. Malgrado il carattere schiacciante delle forme di dominio e la loro tendenza a rafforzarsi continuamente, non andrebbe dimenticato che i governanti e le élite mondiali agiscono sotto la minaccia costante della delegittimazione e della perdita di fiducia, del malcontento e della rabbia sociale che ha condotto negli ultimi due anni a delle sollevazioni popolari di proporzioni decisamente inaspettate -processi che non potranno che accentuarsi sulla scia della crisi del coronavirus.
Resti di foresta dopo gli incendi in Amazzonia, Altamira, stato di Para, Brasile, 27 agosto 2019 Foto: Joao Laet / AFP via Getty Images
Il 13 aprile, il sito francese Lundi Matin ha pubblicato “Qu’est-ce qu’il nous arrive ?” (“Cosa ci viene incontro?”), un prezioso contributo di Jérôme Baschet, storico francese, riguardo alla fase attuale. Sottotitolo: “Molte domande e qualche prospettiva ai tempi del coronavirus”. Il suo intervento si distingue per la lucidità di analisi e per l’importanza delle questioni poste. Per agevolarne la lettura da parte di un pubblico italiano, una traduzione sarà qui pubblicata in tre puntate. La prima, qui di seguito; la seconda qui; la terza qui. Buona lettura.
Jérôme Baschet è docente presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales dal 1990 e alla Universidad Autónoma de Chiapas a San Cristóbal de Las Casas, Messico, dal 1997, dove collabora con il movimento zapatista. Tra le sue opere più recenti, Une juste colère – Interrompre la destruction du monde (Divergences, 2019), Défaire la tyrannie du présent – Temporalités émergentes et futurs inédits (La Découverte, 2018) e Chiapas – Insurrection zapatiste au Mexique (Actes Sud, 2015).
Premessa
Probabilmente non sbaglierebbe chi dicesse che il Covid-19 è una
malattia del Capitalocene e che ci fa entrare a pieno titolo nel
secolo XXI. Ci fa provare in modo tangibile, forse per la prima
volta, l’effettiva portata delle catastrofi globali che ci attendono.
Eppure, si deve tentare di comprendere con maggiore precisione quanto sta accadendo per quanto riguarda sia l’epidemia provocata dal SARS-CoV-2 sia le politiche sanitarie adottate per contenerla, al prezzo di una stupefacente paralisi dell’economia,, giacché non si può, senza tale presupposto, sperare di individuare le opportunità che potrebbero aprirsi in queste circostanze piuttosto inedite. L’operazione non ha tuttavia nulla di garantito. Presi nel vortice d’informazioni ogni giorno più sorprendenti o disorientanti suscitate dall’evento, si esita. Non crediamo a volte ai nostri occhi, né alle nostre orecchie, né ad alcun altro senso. Conviene ammettere che molte certezze vacillano, e con loro persino molte ipotesi, ma è necessario cominciare ad abbozzare qualcosa, in via parziale e provvisoria, in attesa dell’affermazione di elaborazioni collettive più solide.
Un coyote avvistato davanti al Golden Gate mentre si aggira per le strade di San Francisco, 25 marzo 2020. Foto: @_LugaresyMas / Twitter
La
malattia del Capitalocene e il capitalismo come malattia
In che misura è possibile stabilire una relazione tra la pandemia attuale e la dinamica del capitalismo? Questa è e sarà la domanda al centro delle lotte politiche aperte dalla crisi del coronavirus. È piuttosto ovvio che le forze sistemiche faranno tutto pur di naturalizzare la pandemia e imporre di essa una comprensione profondamente a-storica. Tale l’esercizio condotto, paradossalmente dall’alto della sua posizione di storico autorevole, dall’autore del best-seller Sapiens, Yuval Noah Harari. Nel suo intervento (qui in lingua originale, qui in francese) si trova la quintessenza dell’ideologia che sorregge le élite mondiali dell’Economia e che esse si sforzano di diffondere nel contesto della crisi attuale. Secondo Harari, il fatto che le pandemie siano esistite anche in passato è sufficiente a dimostrare che si accusa a torto la globalizzazione, nell’attribuirle una responsabilità nell’epidemia di Covid-19. Di conseguenza, sarebbe del tutto errato, una volta passato il picco sanitario, prendere misure in contrasto con le dinamiche globalizzatrici; al contrario, bisognerebbe rallegrarsi dei miracolosi progressi della scienza, che rafforza continuamente le barriere tra il mondo della specie umana e quello dei virus, e dar fiducia agli specialisti della salute e alle autorità politiche per proteggere con efficacia le popolazioni e assicurare, nella cooperazione e nella fiducia reciproca, un buon funzionamento dell’ordine globale. Si resta colpiti soprattutto, in questo stupefacente esempio di virtuosismo ideologico, dal legame stabilito tra la naturalizzazione dell’epidemia e la legittimazione del mondo dell’Economia. Ciò mostra quanto sia necessaria una controlettura propriamente storica.
Va da sè che le pandemie non hanno aspettato il capitalismo per
esistere e portare a disastri a volte ben peggiori del Covid-19; ma
serve molta superficialità o cattiva fede per concludere, sulla base
di questa ovvietà, che esse siano semplicemente fenomeni “naturali”,
ai quali l’umanità si sia sempre confrontata allo stesso modo e per
le stesse ragioni. Le pandemie sono fenomeni che trasgrediscono la
moderna separazione tra natura e società, e che dipendono in gran
parte da interazioni tra ambienti naturali e modi di organizzazione
dei gruppi umani. Così, lo sviluppo delle principali malattie
infettive che hanno colpito la specie umana è strettamente legato ad
una delle più grandi trasformazioni della storia: il passaggio verso
società agricole e, in parte, sedentarie. Quella che si può
continuare a chiamare -malgrado la lentezza non lineare del processo
e tenendo presente la profondità del cambiamento- la “rivoluzione
neolitica” ha creato le condizioni per una prossimità del tutto
inedita esseri umani, animali domestici e commensali attirati dalle
scorte di cibo (come ad esempio i roditori), favorendo la
trasmissione alla specie umana di agenti patogeni fino a quel momento
specifici di altre specie animali e facendo così emergere grandi
malattie infettive che hanno da allora inciso sull’umanità: il
colera, il vaiolo, gli orecchioni, il morbillo, l’influenza, la
varicella e così via. È
stata dunque una transizione importante della storia umana -il
passaggio da società di cacciatori-raccoglitori a società agricole
(per quanto bisognerebbe evitare analisi troppo grossolane ed
evoluzioniste di questa dualità)- la causa diretta di uno sviluppo
significativo delle malattie infettive, a carattere endemico o
epidemico. E nulla vieta di stabilire un parallelo tra quel momento,
peculiare della
transizione neolitica, e il momento che viviamo oggi, in relazione
all’accumulazione esponenziale degli effetti micidiali del
“capitalismo fattosi Mondo”.
Certamente, tra questi due momenti chiave altre pandemie si sono sviluppate, e non sembra possibile collegarle così nettamente a delle modifiche qualitative del rapporto tra organizzazione sociale e ambienti naturali. Questo vale per la peste bubbonica (Yersinia pestis) che imperversa in area mediterranea ed eurasiatica dai secoli VI-VIII fino al secolo XVIII, con il suo episodio più drammatico, la peste nera che a partire dal 1348 decima tra un quarto e la metà della popolazione, a seconda delle città e delle regioni europee. Di recente è stato mostrato che la diffusione della peste nera, trasmessa all’uomo dalla pulce del ratto, può essere messa in relazione a un cambiamento climatico -ovviamente non antropico. La fine del picco climatico medievale (secoli XI-XIII), provocando perturbazioni dell’equilibrio precedente e in particolare un aumento dell’umidità, avrebbe comportato una proliferazione dei roditori e un aumento nell’attività dei loro parassiti, conducendo a un salto di specie verso quella umana. Tale salto si sarebbe verificato nella regione dell’altopiano di Qinghai, nei pressi del Tibet, probabilmente negli anni 1270. L’agente patogeno sarebbe poi stato trasportato dalle carovane di mercanti verso le regioni del Kirghizistan, dov’è attestato nel 1338, e avrebbe raggiunto le sponde del Mar Nero in 1346, da cui le navi commerciali in movimento tra le parti orientali e occidentali del Mediterraneo l’avrebbero portato a Messina e Genova. Di qui, si è diffuso rapidamente in tutta l’Europa. Al di là delle superficiali somiglianze con il Covid-19 (l’irigine cinese del focolaio iniziale e la sua trasmissione attraverso le rotte degli scambi), vanno soprattutto sottolineate importanti differenze, a cominciare dalla lentezza della diffusione dell’epidemia (70 anni per percorrere i 2000 km che separano il Qinghai dal Kirghizistan e 80 anni in totale per connettere Cina ed Europa, laddove il SARS-CoV-2 ha avuto bisogno di solo poche settimane). Ciò da un’idea della differenza di scala tra la globalizzazione attuale e quelle che a volte vengono definite, senza la dovuta cautela, come prime mondializzazioni (dal secolo XIII, poi più nettamente dal secolo XVI). Inoltre, l’epidemia di peste del secolo XIV è rimasta limitata all’Europa, al Medio Oriente e ai dintorni del Mediterraneo, il che non è affatto comparabile alla pandemia davvero planetaria del Covid-19. Si noti tuttavia che, anche se il cambiamento climatico che sembra essere all’origine dell’espansione di Yersinia pestis non fu dovuto all’azione umana, ciò non toglie che fu una mutamento degli equilibri naturali a favorire il salto di specie dell’agente patogeno.
Un giovane puma per le strade di Santiago, Cile, 24 marzo 2020. Foto: Andrews Pina / Aton Chile / AFP
Un
altro importante momento di espansione epidemica è connesso
alla conquista europea del continente americano. È
risaputo che restando isolate dal blocco afro-eurasiatico dalla fine
delle grandi glaciazioni, le popolazioni native americane non hanno
avuto la stessa storia infettiva degli altri gruppi umani e si sono
ritrovate sprovviste di difese immunitarie di fronte agli
agenti patogeni portati
dagli europei, soprattutto il virus del vaiolo (mentre gli europei
contrassero
una malattia prima a loro sconosciuta, la sifilide). Questo impatto
microbico
ha contribuito ad una mortalità drammatica che ha decimato circa il
90% della popolazione nativa americana delle regioni colonizzate (per
la sola regione meso-americana, ovvero la metà meridionale del
Messico e parte dell’America centrale, gli storici stimano che la
popolazione nativa sia passata in meno di un secolo da venti milioni
a un milione di abitanti). Questo momento di accelerazione nella
diffusione planetaria delle pandemie è chiaramente legato
a un fenomeno storico di grande portata, che ha ampiamente plasmato
il corso della storia mondiale negli ultimi cinque secoli: la
colonizzazione europea che poco a poco e salvo rare eccezioni ha
esteso il dominio occidentale alla totalità del pianeta. Altri
episodi importanti nella diffusione delle grandi epidemie
verso l’Africa possono essere messi
in relazione al
contesto coloniale.
Infine, va segnalato
il ricorrere delle
epidemie di influenza, di
cui la più letale è stata l’influenza “spagnola” nel
1918-1920: originatasi probabilmente negli Stati Uniti, forse nel
Kansas, fu portata in Europa dalle truppe nord-americane e da lì,
principalmente via nave, verso le regioni colonizzate o dominate
dagli europei, in Africa, Asia e Oceania. Oltre agli Stati Uniti e
all’Europa, l’India e la Cina pagarono il tributo più
pesante in questa
epidemia, stavolta propriamente mondiale (a immagine della prima
delle guerre mondiali e di un dominio europeo divenuto altrettanto
mondiale). Si stima che sia
costato la vita a 50 milioni di persone. Altre epidemie di influenza
hanno colpito la seconda metà del secolo XX, segnando la
ricomparsa di un virus
conosciuto da tempo ma che ha mutato spesso in forme più gravi. È
il caso dell’influenza asiatica nel 1956-1957, che uccise tra 1 e 4
milioni di persone nel mondo, poi dell’influenza di Hong Kong nel
1968-1970, che fece un milione di vittime di cui 32 mila in Francia.
Si noti che queste due epidemie, molto vicine a noi nel tempo, non
hanno dato luogo a misure severe di contenimento e non sono state
oggetto di grande attenzione mediatica.
Dopodiché, si verifica una nuova rottura. A partire dagli anni 1980 e ancor più all’inizio del secolo XXI, si osserva una crescita poderosa del ritmo delle nuove zoonosi: HIV, influenza aviaria H5N1 che riemerge periodicamente dal 1997 e soprattutto nel 2006, SARS nel 2003, influenza suina nel 2009, MERS nel 2012, Ebola nel 2014, fino al Covid-19 (e la lista non è esaustiva). Stavolta, la cause antropiche hanno un ruolo decisivo. Un primo fattore è legato allo sviluppo, avviato negli anni 1960, dell’allevamento industriale, in particolare per quanto riguarda il maiale e il pollo, le due carni più consumate su scala mondiale (al punto che le ossa di pollo, insieme a plastica e radiazioni nucleari, sono uno dei tre marcatori geologici più certi dell’Antropocene). Le sue forme orrende votate alla concentrazione, inserite nelle logiche dell’economia di scala e d’integrazione nei mercati globali, della monocoltura, del ricorso massiccio a prodotti dell’industria chimica, dell’artificializzazione e dell’indebitamento, hanno anche conseguenze sanitarie disastrose e favoriscono i salti di specie da parte dei virus. Il secondo fattore è l’espansione dell’urbanizzazione e in particolare lo sviluppo delle grandi matropoli. Combinata ad altre cause di deforestazione e artificializzazione degli ambienti naturali, essa porta i cacciatori in cerca di animali selvatici ad avventurarsi in zone fino a quel momento largamente incontaminate dall’intervento umano; ma soprattutto, restringendo gli habitat degli animali selvatici, li spinge ad avvicinarsi alle zone occupate dagli umani. Ne risulta una moltiplicazione dei salti di specie. È il caso dell’HIV, virus proveniente da scimmie migrate per via della deforestazione, ed è anche il caso dell’Ebola, virus proveniente da pipistrelli scacciati dalle foreste dell’Africa occidentale e centrale. A favorire la moltiplicazione attuale delle zoonosi, sono quindi proprio trasformazioni indotte dall’espansione smisurata dell’economia mondiale, con le sue logiche di mercificazione e il suo evidente disinteresse per gli equilibri del mondo vivente.
Alcune capre di montagna intente nell’esplorazione di Llandudno, nel Galles, 31 marzo 2020. Foto: Christopher Furlong / Getty Images
E per quanto riguarda il
SARS-CoV-2? Ancora è troppo presto per dirlo, poiché non
si dispone di certezze
sulla catena iniziale di trasmissione del virus. La tesi generalmente
accettata chiama in causa il mercato di Wuhan, il ruolo del
pipistrello (piuttosto verosimile anche è
una formidabile riserva virale naturale) e forse di altri animali
selvatici che vi erano messi
in vendita.
Ma questi dati non sono forse così sicuri. Il mercato di Wuhan
potrebbe essere stato il luogo da cui l’epidemia ha cominciato a
propagarsi, ma non necessariamente il suo primo punto di apparizione.
Considerati gli aspetti politic e geopolitici della questione, e
tenuto conto della censura dell’informazione da parte delle autorità
cinesi, potremmo non disporre mai di dati affidabili. Si potrebbe
sostenere banalmente che,
in questo caso, non c’è necessariamente un legame tra la diffusione
del SARS-CoV-2 e lo sviluppo dell’allevamento industriale (a meno che
il virus non abbia avuto un animale allevato come intermediario).
Non è neanche sicuro che si possa stabilire un legame con
l’espansione urbana (sebbene Wuhan sia una metropoli di 12 milioni di
abitanti). Per contro,
qui è decisivo un terzo fattore: l’intensificazione dei flussi
mondiali connessi
alla produzione dei beni e alla circolazione delle persone.
Evidentemente, il coronavirus non si sarebbe diffuso come ha fatto,
se Wuhan non fosse divenuta una delle capitali mondiali
dell’industria dell’automobile.
La causalità è qui duplice: attiene allo sviluppo della Cina,
divenuta seconda potenza economica mondiale (16% del PIL mondiale,
contro solo il 4% del 2003), ma anche all’espansione smisurata del
traffico aereo (numero di passeggeri raddoppiato in 15 anni). Di
fatto, la diffusione del coronavirus coincide
esattamente
con la
carta della densità del traffico aereo mondiale: si è propagato in
qualche settimana dalla Cina e dalle principali potenze vicine verso
l’Europa e l’America del Nord, mentre l’America
latina è arrivata
più tardi e l’Africa è
restata indietro per
molto tempo. Sono proprio le zone più interconnesse e più
“centrali” del capitalismo globalizzato che sono state
interessate per prime. Non si era mai vista un’epidemia diffondersi
tanto e tanto rapidamente su scala mondiale (la
stessa influenza di Hong
Kong aveva impiegato
quasi un anno per raggiungere l’Europa dalla Cina).
In questo contesto di esplosione delle zoonosi, lo scenario di una pericolosa pandemia su scala planetaria era già da tempo temuto e studiato. La Cina e i paesi adiacenti vi si preparavano attivamente dal 2003. Gli Stati Uniti si erano dotati (almeno prima che Trump bloccasse tutto nel 2019) del Programma Predict per il monitoraggio dei virus animali potenzialmente influenzati dall’estensione di quelle attività umane che potrebbero dare origine a un salto di specie. Inoltre, qualche mese prima dell’emergenza del SARS-CoV-2, nell’ottobre 2019, la John Hopkins University di Baltimora co-organizzava con la Gates Foundation e il Forum Economico Mondiale un simposio denominato Event 201 Scenario, il cui oggetto era la simulazione di una pandemia mondiale provocata da un coronavirus, con lo scopo di fornire indicazioni ai governi del pianeta. Nello scenario considerato, il virus, proveniente dal pipistrello e passato all’essere umano in allevamenti di maiali in Brasile, provocava in un anno e mezzo 65 milioni di morti. Il SARS-CoV-2 è certamente entrato in scena a recitare una parte in un certo senso già scritta (il che ha alimentato letture complottiste di quanto avvenuto nell’incontro dell’ottobre 2019). Si deve tuttavia rilevare che il suo tasso di mortalità moderato, dell’ordine dell’1%, ha permesso per settimane di sollevare dei dubbi sulla gravità dell’epidemia, alimentati per esempio da infelici confronti con l’influenza stagionale, branditi volentieri dai sostenitori del business as usual. Oggi, la gravità delle forme più acute della malattia e l’intasamento dei sistemi sanitari che essa provoca hanno importo tutt’altra valutazione, e la traiettoria attuale della pandemia lascia presagire l’ordine di grandezza della mortalità che avrà provocato tra qualche mese (ordine di 500 mila o un milione di morti, addirittura di più a seconda delle proporzioni che la pandemia potrebbe assumere nei paesi più vulnerabili, specie in Africa). Quanto alla mortalità raggiunta in assenza di misure serie di contenimento, sulla base delle proiezioni realizzate per la Gran Bretagna e gli Stati Uniti si può stimare che sarebbe stata in termini di decine di milioni di morti al livello mondiale.
Un volatile inusuale nell’acqua dei canali di Venezia nel marzo 2020. Foto: Andrea Pattaro / AFP via Getty Images
Resta il fatto che, benché comparare il Covid-19 con l’influenza stagionale sia poco pertinente, il confronto con altre cause di mortalità non è infondato. Così, voci provenienti dal Sud hanno presto fatto notare che una malattia come il paludismo colpisce 200 milioni di persone e miete 400 mila vittime ogni anno, senza suscitare molto scalpore. D’altronde, si può argomentare che esistono altre cause di mortalità provocate dal produttivismo capitalista che sono ben lontane da innescare una mobilitazione generale come l’attuale pandemia. Si pensi al crollo della biodiversità (quante le specie scomparse o decimate?) o ancora all’olocausto di un miliardo di animali nei mega-incendi australiani del 2019. E anche limitandosi alla mortalità umana, la lista è lunga e dolorosa: moltiplicazione dei casi di cancro legati all’uso di pesticidi o altre sostanze tossiche; disturbi causati da interferenti endocrini; la sindrome metabolica (sovrappeso, diabete e ipertensione) associata all’alimentazione industriale e allo stile di vita moderno, e che interessa ormai un terzo dell’umanità (e che è tra l’altro la principale comorbilità associata al decesso di un numero considerevole di malati di Covid-19); resistenza batterica legata all’abuso di antibiotici (che secondo le stime provoca 30 mila morti all’anno in Europa); o ancora le morti premature causate dall’inquinamento atmosferico (9 milioni all’anno solo per le polveri sottili); e così via. A proposito di quest’ultimo punto, è stato giustamente osservato che la crisi del coronavirus ha avuto anche effetti positivi, il più visibile dei quali è la diminuzione dell’inquinamento industriale e urbano. È stato stimato che nei primi mesi del 2020 tale diminuzione ha permesso di evitare non meno di 53 mila decessi in Cina, il che compensa ampiamente la mortalità attribuita al Covid-19 (almeno secondo le cifre ufficiali, molto probabilmente una sottostima). Ovviamente, i due tipi di dati non sono comparabili direttamente: le polveri sottili non sono la causa univoca e direttamente constatabile delle morti e l’aumento della mortalità che viene loro attribuita è frutto di un calcolo statistico, il che è ben diverso dal caso dei malati di Covid-19 che saturano palesemente i pronto soccorso. Resta il fatto che è legittimo mettere in luce che in contrasto con il carattere brutale e spettacolare della pandemia provocata dal SARS-CoV-2, altre cause di mortalità non ricevono tutta l’attenzione che meriterebbero, perché sono più continue e meno visibili. Dunque, si deve anche insistere in particolar modo sulla resistenza batterica, che non farà che accentuarsi nel corso dei prossimi decenni. Non mancano ragioni di credere che si tratta di una delle potenziali cause di mortalità tra le più drammatiche del prossimo secolo. Accanto ai virus, non bisogna dimenticare i batteri tra gli attori non umani di primo piano nel prossimo futuro.
***
In sintesi, si può ammettere che le infezioni virali sono dei fenomeni “naturali” nel senso che i virus hanno dei comportamenti loro propri, ma il divenire di alcuni di essi è fortemente condizionato dalle trasformazioni degli ambienti naturali indotta dalle attività umane. Due momenti della storia umana sono segnati da una moltiplicazione significativa dei salti di specie e dall’espansione delle pandemie che ne risulta: prima con lo sviluppo delle società fondate sull’agricoltura, all’inizio del neolitico, poi con la generalizzazione e l’intensificazione del produttivismo capitalista e la brutale disorganizzazione del mondo vivente che ne deriva. Benché la storia delle epidemie porti ad accostare questi due momenti di rottura, è chiaro che il secondo, parte integrante dell’Antropocene-Capitalocene, si caratterizza per un intervento umano le cui proporzioni dirompenti sono incomparabilmente superiori.
Scimmie nelle strade della città di Lopburi in Thailandia, 11 marzo 2020. Foto: Sasaluk Rattanachai / Facebook
Tre
caratteri associati possono essere considerati come inediti e
direttamente legati alle condizioni sistemiche del Capitalocene: il
ritmo accelerato di apparizione di nuove zoonosi (quasi una ogni due
anni, ormai), il che significa che le barriere tra le specie sono
sempre più flebili; il fatto che un buon numero di queste zoonosi
coinvolgano specie selvatiche, il che avveniva raramente in passato
(e ciò sottolinea gli effetti di una distruzione senza limite di
ambienti naturali prima incontaminati);
infine, la diffusione generalizzata ed estremamente rapida della
pandemia, il che fa del Covid-19 la prima pandemia realmente globale
nel mondo globalizzato. Ciò porta anche ad affermare che, quale che
sia la mortalità più o meno elevata che alla fine avrà provocato,
il Covid-19 non sarà l’ultima delle grandi pandemia del secolo XXI,
né probabilmente la più devastante.
Il
Covid-19 è una malattia grave e sarebbe inopportuno minimizzarne il
carattere mortifero. Ciononostante è legittimo osservare che questa
mortalità non è che uno
degli aspetti
di una potenza distruttrice ancora più ampia: quella di un
capitalismo patogeno, insieme ecocida e umanicida. Nessuna civiltà
aveva prima d’ora
prodotto così tanti
fattori di moltiplicazione e generalizzazione di gravi malattie
e contemporaneamente di
distruzione degli ambienti naturali.
Al netto di tali precisazioni, è possibile affermare che il
SARS-CoV-2 è insieme a
molte altre cause di mortalità e distruzione, una malattia del
Capitalocene. Se
infatti si può dire che
il secolo XXI comincia nel 2020, è perché il Covid-19 ci fa
provare, per la prima volta a un livello così
globale e con una brutalità così
improvvisa, ciò che saranno le catastrofi proprie di un’epoca
in cui arriva il momento di pagare le pesanti fatture del
Capitalocene. Infine, dire che il Covid-19 è una malattia del
Capitalocene significa
anche, pur senza
sottovalutare la sua specifica pericolosità, indicare un agente
patogeno ben più mortale dal quale siamo chiamati, in quanto esseri
umani, a liberare il pianeta: il capitalismo stesso.
Quella che si
racconta come una fase d’incertezza, nasconde certezze soggettive che
si fanno strada con sempre maggiore prepotenza, aprendo crepe nellle
abitudini rassicuranti. Siamo certi che la salute viene prima del
resto, ma allora come abbiamo potuto vivere nell’ansia del tempo che
scorre via mentre si cerca di metterlo a profitto? Come abbiamo
potuto vivere per lavorare finché pure il tempo libero non è più
stato libero? Come abbiamo potuto pensare di andare in vacanza per
staccare dagli obblighi del lavoro senza vedere l’enorme
contraddizione di una società che inventando le ferie ammette che
l’etica del lavoro non può convivere con la salute delle persone? E
tutto questo non lo abbiamo fatto serenamente: fino a non riuscire
più a respirare ci siamo impantanati in questa pozza densa e
maleodorante, senza più neanche sgomento abbiamo seguito le
devastazioni ecologiche, l’allargamento delle disuguaglianze,
l’approfondimento delle ingiustizie, l’abbrutimento delle condizioni
materiali di vita, le crisi depressive in aumento, sospirando come se
la cosa non ci riguardasse, come se si trattasse di un altro pianeta,
di un altro tempo un po’ inquietante ma fortunatamente passato.
Adesso, nelle nostre
case sappiamo di chi prenderci cura, incontriamo i vicini mai visti
ed è assurdo, pensateci, totalmente assurdo non averli incontrati
prima. Si può tenere aperta la finestra che da sulla strada
solitamente trafficata, non entrano più diossidi e vari prodotti
tossici della combustione del benzene. I giardini, i balconi, i tetti
si ripopolano di uccelli, che tornano in massa a riempire il vuoto
lasciato dalla fine degli ingorghi che non rimpiangeremo. Ciascuno si
ingegna come può, ciascuno si chiede forse per la prima volta dopo
tanti anni come passare il proprio tempo, che ritorna il proprio
tempo, e fioccano le ricette, il pane fatto in casa, i racconti, gli
esperimenti con le piantine, i giochi di bambini e bambine nascondono
una lucidità di gran lunga maggiore di quanta se ne riscontri negli
esseri umani adulti.
E nonostante questo,
comprensibilmente, anche chi ha un terrazzino sogna di uscire di
casa. Ci rendiamo conto di quante cose si possono fare quando non si
vive per lavorare, quanta vita è nascosta tra le pieghe di piccoli
gesti quotidiani che per quanto piccoli non troviamo il tempo di
compiere: ci ricordiamo che cosa fa di una casa una casa.
Contestualmente, è in questa casa che siamo rinchiusi e impauriti.
Neanche il tempo di scoprire o riscoprire un luogo di vita, e già lo
abbiamo ritrasformato in una prigione che in quanto tale non possiamo
più apprezzare. Ritrasformato, o riconosciuto come tale. Godere
serenamente di quel tempo ritrovato è probabilmente un lusso di
pochi.
Siamo scivolati fin
troppo facilmente dalla prigione del lavoro alla prigione della casa,
senza la soluzione di continuità che avrebbe permesso un attimo di
respiro per interrogarsi sul significato della prigione e sulla sua
funzione. Sostituita una prigione con un’altra, senza ancora
immaginarsi di distruggere la gabbia.
Vivere una sola vita in una sola città in un solo Paese in un solo universo vivere in un solo mondo è prigione.
Una versione ridotta di questo post, dal titolo Spettri di ecofascismo pandemico, è comparsa il 25 aprile 2020 su D Zine, in occasione della giornata di Resistenza antifascista, quando lo spettro di nuove forme di fascismo aleggia sulle vite di miliardi di persone ingabbiate nel dispositivo della quarantena.
***
Di tutti gli innumerevoli aspetti dell’attuale crisi epidemica mondiale, solo alcuni sono stati sviscerati ampiamente. Altri, meno ovvi, meno urgenti, meno utili, ma non per questo meno necessari o profondi, restano confinati nel campo del sottinteso, dell’inconscio o del non ancora immaginato. Uno in particolare, non approfondito altrove, sarà preso in considerazione qui di seguito, e riguarda ciò che le reazioni alla pandemia ci dicono riguardo ai possibili scenari futuri plasmati dalla crisi.
La mattina di domenica 15 marzo, i cittadini e le cittadine francesi hanno ricevuto un annuncio dal Ministero della Transizione Ecologica: i trasporti a lunga distanza via rotaia e ruota e gli spostamenti aerei saranno progressivamente ridotti nei giorni a venire.
L’annuncio, vista l’emergenza sanitaria dovuta alla propagazione del COVID-19, non ha niente di strano, è anzi atteso da diversi giorni, in cui la Francia sembra molto meno reattiva e preoccupata rispetto a molti altri Stati europei e si muove timidamente e in ritardo per il contenimento del contagio, con misure blande e molto meno restrittive, di certo poco incisive.
Nulla di strano neanche nel fatto che ad annunciare le misure intraprese per il contenimento di una potenziale emergenza sanitaria sia il Ministero deputato ai trasporti, e non quello deputato alla salute: le particolari misure riguardano gli spostamenti con mezzi pubblici o accessibili al pubblico ed è logico che ciò rientri nelle competenze del ministero che gestisce le infrastrutture.
L’elemento interessante per chi non fosse avvezzo alle istituzioni francesi è invece che tale Ministero prende il nome ufficiale di Ministère de la Transition Ecologique et Solidaire (in italiano: Ministero della Transizione Ecologica e Solidale, denominazione di amara ironia pensando allo scempio neoliberista da esso avallato sistematicamente, che di ecologico e solidale non ha avuto che la retorica di facciata per indorare le pillole dei sacrifici in nome dell’austerità), che colloca il settore dei trasporti in un campo di azione pubblica molto più esteso: il concetto di transizione ecologica investe la sfera ambientale, socio-economica, culturale, ed è consapevolmente entro tale visione globale che il Ministero avrebbe vocazione di includere le infrastrutture e i trasporti. Che questo poi avvenga o meno nei fatti è adesso di scarsa importanza, piuttosto è interessante soffermarsi su ciò che tale nome evoca, e riflettere partendo da questo spunto.
Della servità (comprensibilmente) volontaria
Stiamo tutti vivendo, in questi giorni, qualcosa di inedito: in diversi paesi su tutti i continenti, gli spostamenti non essenziali sono vietati, le frontiere sono chiuse fino a diventare impermeabili, la produzione e la distribuzione sono fortemente limitate, i meccanismi di controllo e sorveglianza sono utilizzati in maniera abnorme, sono proibiti gli assembramenti di persone e annullate la maggior parte delle attività, si adottano misure draconiane per ridurre al minimo il contatto fisico tra le persone, determinando un brutale arresto del normale funzionamento della società, in maniera del tutto imprevedibile e inimmaginabile fino ad appena due mesi fa.
Tutto questo è motivato dall’esigenza di contenere un’epidemia, quella del COVID-19 causata dal nuovo coronavirus SARS-CoV2, che si diffonde con rapidità a livello globale e mette in difficoltà anche i sistemi sanitari più preparati ed efficienti, così le varie misure adottate mirano a ridurre la probabilità di contagio per arginare il rischio di sovraccarico degli ospedali, limitando il numero di morti in attesa di un vaccino.
Questo scenario dettato da un’innegabile emergenza sanitaria, saranno d’accordo in molti, è ai limiti dell’apocalittico e tale natura si riscontra anche nei suoi aspetti sociali, fosse anche solo per il fatto che centinaia di milioni di persone sono in questo momento rinchiuse in casa senza una prospettiva certa riguardo all’immediato futuro, controllate nelle loro attività, i loro spostamenti e le loro vite, e le loro libertà sono limitatissime. La quarantena e lo stato di emergenza imposte dalle autorità (e comprensibilmente accettate dalla stragrande maggioranza della popolazione) sta mettendo in luce conflitti e contraddizioni e producendo effetti molteplici (già egregiamente descritti altrove) con conseguenze che stanno solo cominciando ad emergere ma che si prospettano profonde e probabilmente durature.
Foto di Alberto Pizzoli, AFP.
Facciamo ora un esperimento mentale. Immaginiamo che le stesse misure fossero prese nell’ambito della lotta al cambiamento climatico, anch’essa un’emergenza di cui sarebbe da criminali irresponsabili rinviare ulteriormente la risoluzione. Di fronte al rischio (o alla certezza) di una catastrofe planetaria dovuta, tra le altre cose, alle emissioni di gas serra, gli Stati potrebbero prendere severi provvedimenti per sanzionare qualsiasi spostamento ingiustificato e qualsiasi attività all’origine di emissioni: interi paesi sarebbero bloccati in una quarantena animata dalle migliori intenzioni, in attesa di un calo dell’inquinamento e un rientro dei livelli di gas serra a valori compatibili con gli equilibri ecologici globali.
Così, in nome della Transizione Ecologica, lo Stato stilerebbe una lista di buone norme che tutti sarebbero tenuti a rispettare: i bravi cittadini con encomiabile sensibilità ecologica denuncerebbero chi prende un treno per andare a trovare un amico, chi l’automobile per andare in montagna o, peggio ancora, l’aereo per far visita al figlio che vive lontano. Se vi viene difficile immaginare situazioni del genere, provate a pensare se vi sarebbe venuto facile, qualche settimana fa, immaginare persone normalissime e sane di mente impegnate nella delazione di concittadini impegnati a passeggiare in spiaggia, a correre al parco o a prendere in prestito un libro da un conoscente.
Qualcuno farà notare che la situazione di emergenza climatica non è comparabile con l’epidemia, perché nel particolare caso dell’epidemia ciascuno, mosso dalla paura per la propria incolumità, accetta misure che non considererebbe accettabili in altre condizioni, o, per dirla con Benasayag, “un’epidemia è il sogno del tiranno: tutti diventano obbedienti per propria volontà”. Si potrebbe obiettare dunque che la popolazione non accetterebbe mai misure tanto drastiche in assenza di motivi estremi come il rischio sostanziale per la propria salute, ma questa osservazione non prende in considerazione la possibilità che le misure adottate per far fronte all’emergenza sanitaria non siano tutte necessariamente giustificabili in termini sanitari (qui, qui,qui e qui qualche spunto di riflessione in merito). La facilità con cui la gente sta confondendo la reale tutela della salute e ciò che è decretato in suo nome è allarmante: cosa succederebbe se, una volta visto che tali misure sono possibili e che sono tollerate, si decidesse di attuarle per altri motivi?
La popolazione sta dimostrando obbedienza alle regole. Certo lo fa credendo, molto spesso non a torto, di proteggere la salute propria e altrui. Ma sebbene molti dei comportamenti dettati dall’attenzione per le regole si sovrappongano parzialmente a quelli dettati dall’attenzione per la salute, le due cose non coincidono: non tutte le misure di controllo sono misure di sicurezza, e non tutte le misure di sicurezza sono misure di controllo. In questo caso è complicato separare i due aspetti, perché la legge è giustificata dalla tutela della salute… ma ciò significa che qualunque misura fosse motivata da obiettivi moralmente accettabili non troverebbe grandi ostacoli: dipende molto da come si costruisce la narrazione delle misure e degli obiettivi, da che linguaggio si usa per giustificarla, dalla cornice del discorso in cui viene inquadrata.
Come società, stiamo già tollerando l’imposizione di norme che non hanno sostanziale legame con l’obiettivo in nome del quale sono prese, ma per le quali tale legame è socialmente costruito a livello del discorso politico. La popolazione sta già accettando, qui ed ora, misure di controllo che non hanno a che vedere con la reale tutela della salute, e che però sono decretate in suo nome. Tali norme non hanno necessariamente una giustificazione in termini di salute, ma si accettano perché si crede che la abbiano. E qualcos’altro si può raccontare in modo da far credere allo stesso modo. Come ogni credenza che si rispetti, l’arsenale di norme attuali è accompagnato a livello collettivo dall’elaborazione di rituali e linguaggi comuni, e sta in questi giorni prendendo forma una sorta di mitologia, atta a razionalizzare un nuovo tempo collettivo scandito dagli sviluppi dell’epidemia: numeri sui contagi e i decessi nel mondo completamente decontestualizzati ma sciorinati e aggiornati minuto per minuto, su tutti gli schermi indicazioni che collocano la registrazione dei programmi prima o dopo l’entrata in vigore dello stato di crisi, avvisi che ricordano le regole per essere considerati cittadini modello, ingresso del discorso epidemico praticamente in ogni argomento possibile e immaginabile. Tutto ciò plasma le forme di vita all’interno dello stato di crisi, norma i comportamenti e definisce nuove relazioni spaziali e temporali tra le persone, concepite puntualmente come necessarie, senza accettare critiche di alcuna sorta.
Un esempio valga per tutti: si sta vietando, o scoraggiando, di “uscire di casa” con l’obiettivo di ridurre i contatti tra le persone e limitare così il contagio, ma quest’obiettivo di natura sanitaria è rapidamente messo da parte e sostituito nella prassi dall’accanimento contro chiunque esca di casa, a prescindere dal rischio che ciò potrebbe costituire. Così, benché uscire di casa non significhi necessariamente assembrarsi e avere contatti che mettono a rischio la salute propria e altrui, e benché, dunque, si possa benissimo essere responsabili pure uscendo di casa, siccome l’autorità ha deciso di raccontare la questione dicendo che “uscire di casa” mette a rischio la salute di tutti, allora non si distinguono più le cose e non si vede l’ora di denunciare comportamenti innocui. Questo è possibile perché il discorso politico che è stato costruito sulla necessità di restare a casa fa saltare l’obiettivo sanitario, e lo utilizza per legittimarsi.
Torniamo quindi allo scenario immaginario in cui, per far fronte a un’emergenza di portata planetaria e che mette a repentaglio la salute dell’ecosistema e dunque di tutti, il potere usi la forza coercitiva per il controllo e la sorveglianza, riduca gli spostamenti al minimo e imponga la chiusura di ogni attività non essenziale. Se continuate ad avere difficoltà ad immaginare una situazione del genere, potrebbe esservi sfuggito che queste misure, adottate già in molti paesi, hanno sortito effetti sorprendenti dal punto di vista delle emissioni di gas serra e dell’inquinamento atmosferico, laddove questi parametri siano stati registrati e analizzati, e non deve stupire che già diversi giornali abbiano indirettamente ventilato se non direttamente alimentato questa ipotesi, e si tratta di giornali di squisitissima tradizione liberale.
Immaginiamo allora sia questa la soluzione proposta dalle autorità per ridurre l’impatto sul clima: uno stato di polizia in nome della lotta all’inquinamento. La proposta non sarebbe campata completamente per aria, giacché l’inquinamento è già adesso responsabile di milioni di morti all’anno, e l’emergenza sanitaria è reale quanto quella del COVID-19. Se oggi la maggioranza delle persone non percepisce ancora l’inquinamento come una minaccia concreta e materiale alla propria incolumità, è perché il problema è affrontato da più parti come un rischio astratto, e la percezione del rischio non è mai totalmente razionale ma contiene sempre una componente di irrazionalità che può essere socialmente costruita (qui il principio è spiegato in merito al COVID-19 ma è di validità generale). Se, per qualche ragione, si smettesse di avere interesse nel minimizzare i rischi dovuti all’inquinamento e cominciassero campagne martellanti e ansiogene sulla sua pericolosità, la popolazione sarebbe propensa ad accettare l’iniziativa autoritaria e coercitiva di un eventuale potere protettore. Come già detto: molto dipende dalla narrazione che si costruisce e dal linguaggio che si usa nella gestione del problema.
In Cina è stata osservata una riduzione fino al 30% delle emissioni di biossido di azoto, a causa del crollo nei consumi di carbone e petrolio nelle prime settimane del 2020 (dati NASA).
La legittimazione di uno scenario simile è in effetti cominciata: nel mondo dell’economia sta circolando l’idea che la crisi sanitaria, con le sue conseguenze economiche ed ecologiche, potrebbe essere un passo decisivo per l’affermazione di un nuovo modello economico “meno inquinante”. In risposta all’epidemia si sospende ogni attività non strettamente necessaria, si annullano fiere, conferenze, concerti, manifestazioni, eventi collettivi di ogni tipo, si intensificano abnormemente controllo sociale e sorveglianza, si crea una condizione di panico e paranoia che allenta la solidarietà e si dice: “Vedete? Fa bene all’ambiente!” ed ecco finalmente trovata una via allettante (per alcuni) alla sostenibilità ecologica.
Esiste poi una correlazione interessante (inizialmente proposta, ma non studiata scientificamente) tra la qualità dell’aria e la mortalità associata alla malattia: sia in Italia che in Cina, le regioni più colpite sembrano corrispondere alle aree geografiche con inquinamento atmosferico più elevato, rappresentato da alti livelli di particolato PM10. Ad oggi, l’effetto dell’inquinamento sulla suscettibilità alla malattia non è stato analizzato, ma un primo studio scientifico in materia ha riportato una correlazione tra i livelli di particolato atmosferico PM10 e il tasso di contagi: gli autori della ricerca ipotizzano che il particolato faccia da vettore del contagio. Questi dati stabiliscono un legame tra l’epidemia di COVID-19 e l’inquinamento. Se l’ipotesi di una suscettibilità maggiore nelle zone più inquinate si dovesse rivelare fondata, il legame tra malattia, inquinamento e cambiamento climatico uscirebbe ulteriormente rafforzato nel discorso pubblico, e definirebbe una cornice del discorso più ampia.
Confronto tra i livelli di biossido di azoto registrati a metà febbraio e quelli registrati a metà marzo, due settimane dopo l’istituzione della zona rossa in Nord Italia, poi estesa a tutta la penisola (dati ESA).
Un salto dal virus al clima
Non è del tutto sorprendente che il cambiamento climatico compaia in un discorso formulato partendo da riflessioni su un’epidemia: entrambi i fenomeni, il cambiamento climatico e l’epidemia virale, hanno a che fare con il rapporto tra la specie umana e l’ambiente naturale, il presunto dominio che la prima avrebbe sul secondo, e derivano dal fallimento di tale dominio con conseguente perdita di controllo. Ma la somiglianza tra i due fenomeni non è solo concettuale, indotta dal paragone che viene proposto: il loro legame è più profondo, prettamente materiale, e affonda le sue radici nella biologia e nell’ecologia.
Le zoonosi sono malattie che si trasmettono dall’animale all’uomo tramite un evento detto spillover o salto di specie. Non si tratta di un fenomeno insolito: si stima che questo meccanismo sia stato all’origine di circa due terzi dei virus in circolazione nelle popolazioni umane, attualmente o in passato.
Tuttavia, negli ultimi trent’anni, la frequenza di nuove zoonosi emergenti è aumentata, e tra le cause ci sono anche lo stravolgimento diretto operato dall’uomo sugli ambienti e la crisi climatica. Per esempio, temperature più alte o una loro distribuzione anomala può favorire il ciclo vitale di animali che trasmettono le zoonosi all’uomo, come zanzare, zecche e probabilmente molti altri animali vettori inconsapevoli. O ancora, i processi di deforestazione e urbanizzazione, riducendo lo spazio vitale delle specie selvatiche, le spingono a contatti più ravvicinati con l’uomo. E così via, esiste una lunga serie di squilibri ecologici causati o favoriti dalle attività umane che possono contribuire alla diffusione involontaria di nuove malattie (come spiegato molto chiaramente qui e qui).
Da parecchio tempo è già noto il rischio che il cambiamento climatico, comportando lo scioglimento delle calotte polari, scongeli agenti patogeni rimasti incastonati e surgelati nel ghiaccio per decine di migliaia di anni e a cui la nostra specie, come molte altre, non è mai stata esposta. Tali agenti patogeni potrebbero essere associati ad una mortalità molto elevata, per mancanza di immunità specifica.
Alla luce di tutto ciò, tornando ancora una volta al nostro scenario ipotetico, allargandosi la portata del problema si allargherebbe anche la quantità e la natura dei motivi validi per misure di emergenza coercitive per la popolazione.
Dopo il trauma collettivo che la popolazione mondiale sta vivendo a causa della pandemia, non sarebbe difficile far accettare, preventivamente e più o meno stabilmente, misure di contenimento di malattie contagiose ed associate a un alto potenziale epidemico non ancora in circolazione ma che potrebbero esserlo da un momento all’altro a causa degli effetti nefasti che le attività umane hanno sulla natura. Considerato poi che il COVID-19 potrebbe diventare una malattia stagionale, misure di tipo simile potrebbero continuare ad esser prese per evitare che l’inquinamento peggiori la situazione ogni volta che il rischio epidemico si ripresenti.
Una volta stabilito un legame tra epidemia e cambiamento climatico (che è reale e scientificamente vero), si legittimerebbe quello tra emergenza sanitaria ed emergenza climatica (che è costruito politicamente), che potrebbero essere raccontate più agevolmente come facce della stessa crisi, da gestire con misure simili. Si assisterebbe così all’affermazione di un linguaggio codificato per affrontare una comune emergenza planetaria, nel nome dell’interesse di tutti.
Un incendio ad Altamira, nello stato brasiliano di Pará. Nel 2019 sono stati registrati 74 000 incendi nella foresta amazzonica, corrispondenti a un aumento di oltre l’80% rispetto al 2018. All’aumento degli incendi contribuiscono significativamente le attività umane, in maniera diretta o indiretta.
Si potrebbe obiettare che da provvedimenti del genere deriverebbero ingenti perdite economiche, che nessun governante potrebbe permettersi di vedere associate al proprio nome e che nessuna potenza economica potrebbe sopportare a lungo, come ovvio e come mostrato dalle enormi difficoltà economiche e finanziarie che il mondo intero sta affrontando in questo momento. Ciò è vero, ma solo se diamo per scontato che il potere e l’economia continuino a funzionare a tutela degli interessi degli stessi gruppi di potere, senza sconvolgimenti radicali negli attuali assetti che reggono il sistema economico. Non è impossibile immaginare un periodo di transizione (già, ancora quella parola…) in cui nascono nuovi poteri e se ne rafforzano alcuni già esistenti, con l’affermazione capillare di nuovi strumenti estrattivi basati sulla tecnologia del controllo e della sorveglianza, generando uno scenario in cui la produzione materiale cessa definitivamente di essere fulcro del sistema economico e comincia ad esserlo la sorveglianza, in modo da rendere sostenibile un modello differente, magari basato su produzione e distribuzione robotizzate per limitare al massimo il numero delle persone coinvolte e il contatto fisico tra di esse. Se è vero che tutto questo sembra fantascienza, è anche vero che fino al 9 marzo ci sarebbe sembrato fantascienza il 10 marzo. Difficile da immaginare adesso, ma non impossibile. Giganti come Google e Amazon (altre info qui, qui e qui) o servizi online di consegna di cibo a domicilio stanno già traendo profitto dall’attuale situazione di stallo di gran parte della produzione industriale non socialmente indispensabile, e un perdurare di queste misure darebbe loro un potere enorme, molto più grande di quello che già hanno, ridefinendo così gli assetti del potere economico nel capitalismo globale.
Il pericolo di una continuità tra crisi sanitaria e crisi economica
Il cambiamento climatico non è l’unica cornice in cui sarebbe possibile giustificare il prolungamento indeterminato e la normalizzazione dello stato di cose attuale. Come già accennato, diversi economisti hanno già cominciato a parlare dell’emergenza sanitaria come di uno spartiacque che segna il possibile inizio di un nuovo modello economico. Nel frattempo, però, incombe la crisi: la sospensione della normale vita economica messa in atto in risposta alla crisi sanitaria avrà infatti conseguenze disastrose e potrebbe provocare, accelerare o approfondire una recessione economica mondiale che si prevedeva comunque già da anni, di proporzioni maggiori di quella del 2008.
Il ruolo cardine della Cina nelle relazioni di interdipendenza che connettono i centri dell’economia globale sta mostrando tutta la sua cruciale importanza dopo la dichiarazione dello stato di crisi e l’arresto della produzione, della distribuzione, degli spostamenti e dunque sia delle importazioni che delle esportazioni.
Secondo il Financial Times, gli effetti economici della crisi sanitaria in Italia starebbero addirittura mettendo a rischio la tenuta dell’eurozona.
Di fronte a queste prospettive, passata la crisi sanitaria i governi e le istituzioni di governance saranno chiamati a prevenire o attutire i danni economici. Il rischio è che si verifichi, come sta già parzialmente avvenendo, che la crisi economica venga raccontata come una crisi all’interno di quella sanitaria (nonostante sia piuttosto vero il contrario, alla luce di quanto detto sopra): ventilare una continuità tra l’attuale crisi sanitaria e la prossima crisi economica senza inquadrare veramente la prima all’interno della seconda e la seconda all’interno della questione ecologica è la premessa per il mantenimento, almeno in parte, delle misure messe in atto nell’ambito della crisi sanitaria. Se il sistema tenterà di socializzare le perdite e di privatizzare eventuali profitti, come c’è da aspettarsi, si assisterà a politiche di austerità draconiane senza precedenti. Con, in più, la sospensione a tempo indeterminato del diritto di sciopero, di tutte le manifestazioni e gli assembramenti, la messa ai domiciliari praticamente di tutta la popolazione, il controllo di ogni spostamento e la sorveglianza generalizzata in nome di norme di prevenzione sanitaria. La paura dell’epidemia (che, va ripetuto, è un rischio reale) continuerà ad essere agitata minacciosamente per molto tempo, e non senza fondamento giacché il sistema economico crea continuamente le condizioni per la sua nascita, propagazione e articolazione a vari livelli: ciò costituisce il preludio dell’ecofascismo.
Foto scattata a Wuhan il 25 gennaio 2020. AFP.
Prima di concludere, occorre fare una precisazione: di certo nessuno dotato di senno potrebbe pensare adesso che lo stato attuale, adottato in via del tutto eccezionale e in una situazione di emergenza, possa essere prolungato tale e quale più di tanto né diventare una condizione di normalità, ma le crisi aprono sempre delle possibilità non immaginabili nel paradigma precedente e in questo spazio di possibilità si possono produrre nuove prassi, regole, forme di vita che poi restano anche a crisi finita. Come dice Agamben, che peccando di eccessiva leggerezza e scarsa precisione scientifica è stato fortemente criticato per altre sue uscite precedenti a questa, “così come le guerre hanno lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie nefaste, dai fili spinati alle centrali nucleari, così è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo l’emergenza sanitaria gli esperimenti che i governi non erano riusciti prima a realizzare”.
Può anche darsi che queste considerazioni siano esagerate e dettate da eccessiva paranoia, ma se lo sono è per controbilanciare la narrazione velleitariamente scientista e sostanzialmente totalitaria dell’epidemia, che vorrebbe dare tutto in gestione ai tecnici e che non tollera la messa in questione di alcuna decisione (viene in mente niente?). L’importanza dell’attuale emergenza sanitaria è reale, la forma che questa importanza assume e il modo in cui essa si articola nella società sono costruite e determinate dai rapporti sociali e da scelte politiche.
In molti hanno salutato (sicuramente controvoglia e non certo col sorriso, ma si deve pur fare buon viso a cattivo gioco) queste settimane di quarantena come un’occasione per fermarsi a riflettere e interrogarsi sulla vita che conduciamo, in quello che è stato definito “il più grande esperimento sociale nella storia”.
Bene, è riflettendo all’interno di questo esperimento sociale che è nato l’esperimento mentale qui condotto. Si tratta quindi di un esperimento mentale che prende le mosse dalla realtà delle misure prese, e che permette di immaginare la possibilità dell’ecofascismo: un potere autoritario che tragga la propria forza dalla necessità di far fronte agli squilibri ecologici (ma che di tali squilibri avrebbe incessante bisogno). La crisi da COVID-19 mostra quali forme potrebbe assumere un siffatto potere e si configura come precedente per l’affermazione di una prassi collaudata per affrontare emergenze planetarie: oggi è il COVID-19, domani potrebbe essere altro. In questo colossale esperimento sociale, si sta mostrando come la popolazione si comporta in determinate condizioni. Posta dinnanzi a condizioni simili o raccontate in maniera simile, la reazione potrebbe essere simile.
-Dici che ce la facciamo? Secondo me troviamo qualcuno alla frontiera.
-Speriamo… in effetti è strano non aver trovato nessun controllo finora.
-Sai perché, secondo me? Sono controllati soprattutto gli spostamenti da un comune all’altro, ma l’autostrada in genere serve per spostamenti più lunghi, adesso chi la prende?
Già, chi la prende? L’autostrada. Mai vista un’autostrada così: vuota. Da quando i due erano partiti, la loro era letteralmente l’unica automobile a viaggiare, e viaggiavano da centinaia di chilometri. Avevano incontrato giusto qualche camion, una ventina al massimo. Erano praticamente i soli a spostarsi in quel momento. I camion si spostavano per garantire l’approvvigionamento di beni di prima necessità o il funzionamento di servizi essenziali, ma la maggior parte di tali spostamenti avveniva di giorno.
Lei, che guidava, guardava la carreggiata con la stessa attenzione che avrebbe avuto se la strada fosse stata trafficatissima. Il suo sguardo cercava di andar oltre i fari dell’automobile che fendevano il buio. Quell’asfalto piatto delimitato dal guard rail, sapendolo deserto non per l’ora tarda o per caso ma per disposizioni di emergenza, trasmetteva una sensazione di inquietudine. I due conversavano, ma evitando di parlare nella direzione dell’altro, e anche questo non era semplicemente perché fossero seduti in macchina a osservare l’asfalto correre sotto le ruote. Non dovevano avere contatti. Un sacchetto ai piedi del sedile del passeggero conteneva salviette disinfettanti, alcool, mascherine. Un altro sacco era dietro il sedile di guida, con panini e due bottiglie d’acqua e due thermos di caffè, rigorosamente distinti e separati l’uno dall’altro perché ciascuno avesse il proprio. Ciascuno il proprio panino, ciascuno il proprio sacchettino di patatine.
-Questa situazione mette una tensione fortissima… sai che prima, quando ho preso l’autobus, mi veniva da piangere? Qualunque cosa, anche la più normale, adesso la si fa con ansia.
Sul bus, che di solito era pieno, stavolta erano in cinque. Quello era l’unico autobus sopravvissuto alla riduzione delle corse dopo la chiusura delle scuole e il rafforzamento delle misure di controllo e sicurezza messe in atto dal governo appena tre giorni prima. Ad ogni colpo di tosse ci si sentiva osservati, ogni soffiata di naso faceva alzare gli sguardi alla ricerca del sintomo sospetto. Per questo lui era partito da casa con una scatoletta di caramelle, nel caso in cui gli fosse venuto da tossire più delle poche volte tollerate prima di suscitare sospetti. Sospetti, poi, ingiustificati: qualche colpo di tosse può capitare a chiunque, così come liberarsi il naso chiuso, ma questi gesti erano improvvisamente divenuti motivo di ansia, quasi di condanna. Quando un’altra ragazza, tre posti dietro di lui sul bus, si era soffiata il naso, lui era stato sicuro che questi stessi pensieri le avevano attraversato la mente, mentre l’autista guardava dal retrovisore, aggiustandosi sull’orecchio l’elastico della mascherina.
-Eh sì, è una sensazione bruttissima. Tra l’altro si finisce per avere paura degli altri! Invece, in un certo senso, è proprio per responsabilità verso gli altri che si evita di star loro troppo vicini… che non si sa mai…
-Già, praticamente adesso se vuoi bene a qualcuno non lo abbracci. Prima, mio nonno mi ha mandato un messaggio per ringraziarmi di non essere passato a salutarlo: in qualunque altro contesto, sarebbe stata una frase ironica. Si stanno capovolgendo molte cose…
-Molte altre, invece, si stanno rafforzando. In certi casi, come l’attenzione per gli altri, lo trovo un buon segno. In altri, la mia impressione non è così positiva… questa cultura del sospetto rischia di diventare pesantissima!
-Ah, lo so, è orribile. Tu hai la fortuna di non stare sui social, per questo dici che la cultura del sospetto rischia di diventare pesante, ma basta leggere quello che si sta scrivendo su internet per capire che pesante già lo è. Non puoi immaginare in quanti si sentano moralmente superiori e si stiano permettendo di sputare sentenze su persone che non conoscono, con presupponenza e arroganza… capisco il nervosismo ma è veramente preoccupante.
-Insomma, mi stai dicendo che cresce il senso di responsabilità per il prossimo ma allo stesso tempo cresce anche l’arroganza.
-Sì, guarda un po’ quel Burioni. Non che sia mai stato un campione di umiltà!
Lei rise e riprese il filo.
-Dobbiamo sperare che i segni positivi prevalgano su quelli negativi, per far sì che resti un solco…
-Sì, credo proprio che resterà un solco. Questa situazione sarà difficile da dimenticare, è come un trauma collettivo… penso che tra venti, trent’anni, noi diremo “io ero lì”. A me sembra che potrebbe diventare anche uno spartiacque: tra il nostro stile di vita prima e il nostro stile di vita dopo.
-I traumi sono sempre degli spartiacque- precisò lei, che era psicologa.
Ci fu qualche secondo di silenzio, in cui entrambi soppesarono le implicazioni di quanto appena detto. Come sarebbe stato il nostro stile di vita dopo? Di certo quello attuale, adottato in via del tutto eccezionale e in una situazione di emergenza, non poteva essere prolungato più di tanto, non poteva diventare una condizione di normalità. Ma le crisi aprono sempre delle possibilità non immaginabili nel paradigma precedente e in questo spazio di possibilità si possono produrre nuove regole che poi restano anche a crisi finita…
-Cosa pensi che resterà?
-Difficile dirlo, dipende da come andranno le cose. Spero rimangano le cose belle come l’attenzione al prossimo.
-Però secondo me rimarranno anche molte cose brutte. Credi che ci libereremo facilmente dalla paranoia che ci prende ad ogni gesto quotidiano? Io sto notando che la gente è molto obbediente e spesso lo fa per onorare la legge, qualunque essa sia, più che per questioni di salute. Certo, in questo caso è complicato separare i due aspetti, perché la legge è giustificata dalla tutela della salute… ma non tutte le misure di controllo sono misure di sicurezza, e non tutte le misure di sicurezza sono misure di controllo. La facilità con cui la gente sta confondendo le due cose è allarmante: immagina cosa succederebbe se, una volta visto che tali misure sono possibili e che sono tollerate, si decidesse di attuarle per altri motivi!
-Non penso che per altri motivi sarebbero accettate con lo stesso spirito…
-Dipende da come racconti questi altri motivi: se racconti che le due cose sono collegate, per esempio, oppure per raccontarle usi lo stesso linguaggio, la stessa narrazione, diventa molto difficile vederci chiaro. Già adesso ci sono cose che vengono vietate o anche solo malviste ma che non hanno necessariamente una giustificazione in termini di salute… ma si accettano perché si crede. E qualcos’altro si può raccontare in modo da far credere allo stesso modo.
Lei non rispose, rimasero a rifletterci mentre il manto stradale continuava a scorrere, vuoto ed imperterrito come il letto di un fiume. Un’ambulanza col lampeggiante acceso squarciò la desolazione nella direzione opposta, senza neanche le sirene, inutili su una strada tanto sgombera.
-Non saprei- riprese lui -non voglio dipingere scenari apocalittici, forse sono un po’ troppo paranoico.
-Forse è ancora troppo presto per parlare.
-Preoccupatissimi all’idea di un controllo senza aver fatto niente di male, però, lo siamo adesso!
Come in risposta a questa osservazione, una vibrazione notificò la ricezione di un messaggio sul cellulare di lui, che lesse prima in silenzio, poi spiegando ad alta voce.
-Dice che un avvocato sta facendo circolare informazioni importanti su come gestire eventuali rifiuti da parte della polizia. Me l’ha procurato il cugino di mio papà, parla degli spostamenti nella zona rossa e come difendersi da eventuali abusi. Adesso ci ascoltiamo l’audio che c’è in allegato, parla di cosa fare in caso di rifiuto dell’autocertificazione.
L’autocertificazione era un modulo che da qualche giorno veniva richiesto dalle forze dell’ordine a chiunque fosse trovato in giro. Con l’autocertificazione il cittadino dichiarava che il proprio spostamento fosse dovuto a comprovati motivi di lavoro, salute o necessità, le uniche scuse valide per uscire di casa e spostarsi rischiando il contatto con altre persone. Tra le condizioni riconosciute come necessità, vi era quella dei due viaggiatori: rientro al luogo di residenza, domicilio o abitazione. Lei era partita da casa, in macchina, con il modulo già precompilato, ma non aveva incontrato nessun posto di blocco. Lui lo aveva già usato qualche ora prima, all’aeroporto, e ne conservava una copia in tasca.
Quando era arrivato all’aeroporto, con largo anticipo vista l’incertezza di qualunque volo in quel momento, aveva visto una lunga fila di persone, tutte a distanza di un metro l’una dall’altra e la maggior parte con protezioni su bocca e naso, in attesa fino a fuori dall’area solitamente utilizzata per i controlli. “Strano”, aveva pensato, “quasi tutti i voli sono stati cancellati, perché così tanta gente?”. Poi aveva notato che prima dei soliti controlli precedenti all’imbarco, un’altra fila era presente: quella per le autocertificazioni, gestita dalle forze dell’ordine. Un agente svogliatissimo, con guanti e mascherina, stava seduto davanti ad un banchetto, e timbrava febbrilmente i moduli dei passeggeri, in duplice copia e previa verifica del documento di identità fornito e della validità dei motivi dichiarati rendere necessario lo spostamento in aereo. Quando il modulo di autocertificazione con la scritta “sto rientrando al mio luogo di residenza” era stato accettato e timbrato, nonostante il luogo di residenza si trovasse all’estero e a diverse centinaia di chilometri dall’aeroporto di arrivo, fu un brevissimo momento di sollievo: la prima tappa era andata.
La tensione in lui, però, non era dovuta solo a quello: in aggiunta, l’aeroporto di destinazione era esattamente nell’epicentro del contagio, nell’occhio del ciclone, nella parte più rossa di tutta la zona rossa in cui si era trasformata la nazione. Si aspettava tantissimi controlli, prima di raggiungere la frontiera, e durante ciascuno di quei controlli c’era la possibilità che le dichiarazioni fornite non fossero accettate come valide. Per esempio, se le compagnie aeree avevano garantito dei voli per il rientro alla propria destinazione originaria, cioè quella corrispondente alla prenotazione prima delle misure di emergenza, perché non aveva seguito le consegne? Se era residente all’estero, perché aveva preso un volo nazionale? Se erano vietati gli spostamenti non essenziali, perché non aveva aspettato per rientrare? Come avrebbe provato che tra due settimane era atteso per un lavoro non avendo ancora firmato il contratto? E a questa storia complicata, in cui ogni elemento aumentava la probabilità di intoppi nell’eventualità di un controllo dell’autorità, si aggiungeva anche la storia che avrebbe dovuto raccontare lei. Per esempio, cosa avrebbe detto se l’avessero fermata prima di raggiungere l’aeroporto per venirlo a prendere? Era anche lei residente all’estero, ma come giustificare il passaggio in aeroporto se “andare a prendere un amico” non faceva parte della stringata lista dei motivi consentiti per gli spostamenti? E se non avessero ammesso l’altro motivo che lei intendeva usare per rafforzare la sua posizione, cioè l’udienza in tribunale dove era convocata come testimone? D’altronde, coi tribunali chiusi non ci sarebbe comunque potuta andare. E il suo motivo di lavoro? Nullo anch’esso, una psicologa non può lavorare se deve mettersi in isolamento. Inoltre, perché viaggiava con qualcun altro in macchina? Non sapeva forse che questo aumentava la probabilità di contagio? E così via, in una lunga serie di dubbi che gli martellavano la testa da tre giorni e che avevano impedito a lei di dormire serenamente.
Ascoltato l’audio e presa nota di alcuni importanti elementi di autodifesa giuridica, i due continuarono a parlare.
-Che sensazione assurda, comunque. Ti rendi conto che sappiamo di avere il diritto di rientrare ciascuno a casa propria, ma siamo lo stesso così in ansia? La vaghezza o la difficoltà di certe norme stanno dando margini di discrezione larghissimi alle forze dell’ordine. Che sensazione…
-Sì… una sensazione di merda. Ma tanto ormai coi gilet gialli ci eravamo un po’ abituati, no?
Risata amarissima di entrambi.
-Piuttosto dimmi, ci fermiamo a mangiare? Non mi ero mica accorto che fosse già così tardi!
-Certo, anch’io ho fame! Sta tutto dentro quel sacco là dietro.
-Perfetto, alla prossima area di servizio ci fermiamo.
All’area successiva, presero l’uscita, poi oltrepassarono il distributore credendo che avrebbero trovato uno spazio per sostare dopo, ma non era così e si ritrovarono quasi all’imboccatura della rampa per rientrare in autostrada.
-Mi sa che abbiamo sbagliato.
-Che facciamo? Qua ovviamente è a senso unico.
-Senti… io vado in retromarcia, tanto è per qualche metro e poi su questa strada non c’era veramente nessuno.
Una volta accostato nei pressi del distributore, i due aprirono gli sportelli ma ancora prima di poter metter piede a terra videro che un uomo con la tuta da benzinaio, perplesso dalla loro presenza, si stava avvicinando. Tenendosi a tre metri di distanza, annunciò:
-Tra poco arriva la stradale.
All’inizio i due non colsero il sottinteso, e fraintesero che l’annuncio fosse una raccomandazione a stare attenti e raddrizzare la macchina nel senso opportuno, quello di marcia, che certe cose davanti alla polizia stradale di certo non si fanno. La frase successiva fugò questa interpretazione:
-Ieri hanno fatto multe a tutti.
Quindi il problema era proprio il fatto di trovarsi lì, ad un distributore di benzina lungo un’autostrada nella zona rossa di un paese in quarantena. Effettivamente sì, era un problema…
-Ma noi abbiamo l’autocertificazione: torniamo a casa!
-Questo a me non interessa, se avete l’autocertificazione meglio, ma intanto io ve lo dico. Tra poco arriva la stradale.
Di fronte all’eventualità di un controllo certosino, di un agente eccessivamente zelante che non avesse voglia di ascoltare le loro storie troppo lunghe e con il rischio che non accettasse come comprovati motivi le spiegazioni da loro fornite, i due si guardarono, ringraziarono il benzinaio per la cortesia e, senza ancora aver messo piede a terra, richiusero gli sportelli e ripartirono, con un anticipo imprecisato sulla polizia stradale. Magari avrebbero mangiato aldilà della frontiera, dove non ci sarebbero stati blocchi.
Avvicinandosi alla frontiera, l’autostrada continuava a disegnare un paesaggio spettrale sconosciuto, mai visto prima. Le montagne comparvero silenziose, con le cime innevate a incorniciare il serpentone di asfalto deserto. Nell’altro senso di marcia, si intravidero un paio di volte luci lampeggianti blu. Ogni volta era un sollievo constatare che fossero dall’altro lato: nelle situazioni di incertezza, ci si sente colpevoli anche quando non lo si è. Era dunque un sollievo, ma momentaneo in quanto accompagnato dalla certezza dei controlli inevitabili alla frontiera. Lui aveva una scorta di tachipirina: non era malato, non aveva febbre e non l’avrebbe usata, ma suo padre gli aveva detto: “e se poi per qualche motivo ti viene la febbre proprio il giorno della partenza o proprio qualche ora prima di passare la frontiera?”. Arrivato in aeroporto, in effetti, gli era stata misurata la febbre con un termometro a pistola.
-Ecco, quella è l’ultima area di servizio, la riconosco. Speriamo che fili tutto liscio.
Nei giorni immediatamente precedenti, i giornali avevano parlato di code chilometriche. Perciò, quando i due raggiunsero l’ingresso del tunnel che passava sotto lo spartiacque, furono sorpresi trovando solamente qualche camion, appena una decina. Un uomo col giubbotto di lavoro, a strisce argentate, vedendoli in fila dietro i camion fece cenno di avanzare e disporsi in corrispondenza di un altro ingresso.
-Ma questo è un poliziotto?
-No, guarda come ha il giubbotto.
-Ci dice di andare lì.
-E lì sicuramente troviamo i controlli, dietro quel casottino…
Invece, anche stavolta, non c’era traccia di controlli. C’erano solo camion in attesa che il tunnel riaprisse, circa mezz’ora più tardi.
-A me però non va di aspettare così, siamo troppo visibili.
-E dove possiamo andare?
-Non lo so, parcheggiamo, magari riusciamo pure a dormicchiare un po’.
-Non ci sono parcheggi… mi fermo qui?
-Veramente c’è scritto “Riservato polizia”… ti immagini, dover pure spiegare che non sapevamo dove mettere la macchina?
-Provo ad accostare?
-Aspetta, guarda laggiù! “Parcheggio riservato”.
-Ma riservato a chi? Spero non alla polizia!
-No, dai, è per chi lavora qui.
-Sono le tre di notte e ci sono diversi posti liberi… andata.
E così, in una manovra timida ma scomposta, la macchina fu allineata alle poche altre parcheggiate.
-Dormiamo un po’?
-Non saprei, forse al contrario io tracanno caffè.
-Poi ti esplode il cuore con tutta la tensione che già abbiamo…
Meno di cinque minuti dopo, una volante della polizia col lampeggiante acceso passava per lo spiazzo antistante l’ingresso del tunnel, esattamente nel primo punto che i due avevano adocchiato per parcheggiare la macchina. La volante rallentò…
-Propongo di fingerci morti!
-No, infetti!
-Infetti non va bene, per quello c’è l’arresto.
Scoppiarono a ridere, e alla fine non si finsero né morti né infetti, ma per non dare nell’occhio restarono immobili, muscoli tesi, finché la volante non passò oltre e riprese l’autostrada nell’altro senso di marcia, il che permise ai muscoli di rilassarsi.
Quando il tunnel riaprì, la loro macchina fu la prima e forse l’unica della nottata a varcarne l’ingresso.
-Incredibile! Noi eravamo talmente stressati per questi controlli e invece alla fine neanche uno.
-Pensa che io prima di partire mi ero detto che avrei conservato tutte le varie autocertificazioni firmate per arrivare a destinazione… mi immaginavo una cospicua produzione cartacea!
-Dai, festeggiamo, mettiamo un po’ di musica! Prima, con l’ansia, non ci è venuto neanche in mente di viaggiare con della musica! Ti faccio conoscere un cantautore di quando ero all’università.
Mentre il disco cominciava, i due amici sentivano la tensione abbassarsi progressivamente.
-Insomma, tutto è bene quel che finisce bene- disse lui.
-Aspetta, non finisce ancora!
-E va bene, tutto è bene quel che quasi finisce bene.
I due ridevano, erano visibilmente sollevati. Passata la frontiera, cominciarono a parlare d’altro oltre che dell’emergenza, a scherzare molto di più, a raccontarsi frammenti delle loro vite. Si fermarono a mangiare qualcosa e a bere caffè, mantenendo per entrambe le attività una rigorosa separazione, perché il rischio certo non diminuiva aldilà della frontiera, ma il loro spirito era improvvisamente cambiato. Parlarono anche di questo, e di quanto sia potente lo strumento della legge.
Quando, alle quattro e mezzo di notte, passarono in uno dei tanti paesini trovandolo deserto, lei disse che sembrava di stare dall’altro lato della frontiera ma a mezzogiorno, e quando all’alba cominciarono a incrociare chi andava a lavorare presto fecero battute su quanto fossero sfortunati a non essere ancora rinchiusi in casa e con obblighi di autocertificazione.
Arrivarono in città prima delle sette, mentre i venditori stavano montando i banchetti per il mercato del sabato. Quando erano a un chilometro da casa, all’angolo della piazza del mercato e sotto gli occhi dei venditori ancora assonnati, una signora che stava andando a lavorare in ospedale con la propria macchina ignorò il rosso e tirò dritto al semaforo, colpendoli in pieno mentre lui imprecava come un ossesso.
-Constatazione amichevole?
-Constatazione amichevole. Ma sentiamoci più tardi, adesso faccio tardi all’ospedale… scambiamoci i contatti- rispose la signora curvandosi sul cofano per scrivere, borbottando di essere passata col verde mentre lui si sporgeva per prendere la targa. Concluse le procedure necessarie per attivare l’assicurazione, i due si rimisero in macchina per l’ultimo chilometro di viaggio. Lui, però, entrò dal lato della guida, perché l’altro sportello non si poteva più aprire.
-Almeno- osservò lei con magra consolazione -ho il carrozziere a due passi da casa…
Al ché, lui per consolarla:
-Sai che facciamo adesso? Sono le sette, ora che mi accompagni ti offro un caffè davanti casa mia.
-Ho bevuto anche troppo caffè, ma qualcos’altro lo mangerei volentieri.
-Certamente! Fanno cose buone.
Parcheggiata l’automobile infortunata, i due amici si avviarono verso caffè e cornetto.
-Aspetta! Prima le salviette. Cosa credi, che qui sia più sicuro?
-No, anzi, tra una settimana è possibile diventi anche qui un casino…
-Però… hai notato che con la signora dopo l’incidente parlavamo normalmente?
-Sì, è vero. E anche tra di noi, facciamo attenzione ma abbiamo proprio meno paranoia, mentre invece il rischio reale è esattamente lo stesso. Quanto conta il contesto, eh?
-Già.
Qualche minuto dopo, lei mangiava il cornetto e lui sorseggiava caffè.
-Eccoci tornati a questi ottimi caffè- commentò lui con ironia, -e gliel’ho chiesto pure stretto!
-Almeno qui si può uscire di casa…
-Aspetta qualche giorno, poi ne riparliamo.
-Comunque incredibile che alla fine ce l’abbiamo fatta.
-Non sembra vero, eh?
-Assurdo esserci fatti tutte quelle paranoie prima del viaggio, ma è normale, era la prima e spero l’ultima volta che ci capita una situazione simile.
-Sì, speriamo.
-Poi che ridere! Tanta paura per i controlli, le autocertificazioni, il contagio, i divieti, i blocchi e poi… ci facciamo fregare all’ultimo, da un incidente al semaforo!
-L’avevi detto prima: tutto è bene quel che finisce quasi bene.
Partiamo da una verità di base: tutto quello che la maggioranza degli italiani sa del movimento dei gilet gialli è falso. Si è detto nel post precedente a questo che il movimento dei gilet gialli è stato raccontato dai media italiani in maniera distorta per compiacere gli interessi politici locali e confermare una lettura del mondo, purtroppo diffusissima, estremamente provinciale.
Che cosa è stato distorto, dunque? Che cosa hanno vissuto quelle persone che a milioni hanno improvvisamente creato una frattura nel tempo scandito da ingranaggi che sembravano ben oliati? Da dove vengono i gilet gialli? Chi sono? E cosa vogliono? Qui si cercherà di fornire delle piste per rispondere a queste domande. Delle piste e non delle risposte, perché come già detto «tutto questo rappresenta qualcosa di difficilmente esprimibile con linguaggi e sistemi di riferimento tradizionali, fuorché quelli appunto della rottura» e sarebbe pretenzioso credere di dare risposte, men che meno risposte complete e convincenti, se non si ha ancora un linguaggio per formularle, ovvero se, parafrasando Gramsci, il vecchio muore e il nuovo non è ancora nato. Per questo motivo, senza pretesa di imparzialità, saranno forniti anche esempi aneddotici forse non del tutto generalizzabili, ma che aiutano a capire che aria si respirava e che impressioni e sensazioni hanno avuto le persone che hanno attraversato questo movimento.
Un primo punto, che non sarà discusso qui ma che vale la pena di riportare almeno per sconfessare una delle verità preconfezionate propagandate in Italia, è quello del posizionamento elettorale dei gilet gialli. All’inizio, gli studi concordavano nell’individuazione di tre poli elettorali di uguale peso in seno al movimento: un polo mélenchoniano di sinistra, uno lepenista di estrema destra e uno astensionista. Non si discuterà qui di tale lettura elettorale e dei suoi limiti interpretativi, perché non è lo scopo di questa analisi, ma è opportuno ricordare che col tempo, e pure abbastanza rapidamente, si è verificato un progressivo spostamento a sinistra, cui ha contribuito principalmente la repressione violenta: la questione della polizia si è imposta come tema centrale del movimento, soprattutto a partire dal trattamento subito dai liceali di Mantes-La-Jolie, e l’avversione per le imposizioni, le gerarchie e le forze dell’ordine hanno ulteriormente allontanato le simpatie dell’estrema destra, che sulla retorica di “legge e ordine” basa il proprio discorso politico ed elettorale. Di conseguenza, oggi, le istanze xenofobe che erano ambiguamente presenti tra i contenuti espressi nelle prime settimane sono state messe da parte e ampiamente sostituite da una dimensione sociale, grazie anche all’allontanamento fisico dei gruppi neofascisti nei modi a loro più appropriati (soprattutto a Parigi e Lione).
In ogni caso, il discorso elettorale ha scarsa presa sui gilet gialli, perché il sistema di valori che esprimono collettivamente è poco incline a tollerare i vincoli della rappresentanza: la maggioranza non si fida dei sindacati né soprattutto dei partiti politici. Alla richiesta di collocare il proprio pensiero politico su una scala da sinistra a destra, già all’inizio un terzo si dichiarava “né di destra né di sinistra”, circa la metà di sinistra, una minoranza di destra. Percentuali irrisorie degli intervistati si collocano come “di centro”, a ennesima conferma di quanto questo movimento sia sintomatico di un mondo che sta morendo, quello basato sugli equilibri internazionali dell’ordine liberale e che della “corsa al centro” fanno il proprio atteggiamento prescelto.
Per quanto riguarda la composizione sociale, le prime inchieste e analisi sociologiche agli esordi del movimento hanno restituito fin da subito un ritratto dei gilet gialli che non corrispondeva alla descrizione data inizialmente dai giornali, compresi quelli francesi e specialmente quelli vicini a Macron, di un popolino piccolo borghese e conservatore formato da “Gaulois refractaires“. Fra i vari studi ne bastino due (da cui sono tratti anche i dati e le conclusioni dei paragrafi precedenti), dai risultati significativi e piuttosto rappresentativi, nonché testimoni di tendenze poi confermate da studi successivi.
Gli studi concordano su una sovrarappresentazione del lavoro dipendente (impiegati e operai) e della forza-lavoro inattiva (pensionati e disoccupati) e una sottorappresentazione dei dirigenti. A tal proposito, non mancano racconti di cordiali cene di lavoro in cui la discussione tra colleghi cade sul movimento e improvvisamente i padroni si chiudono in un silenzio impacciato. Insomma, come prevedibile, le classi popolari sono ampiamente sovrarappresentate, ed emerge che il reddito familiare dichiarato dai manifestanti corrisponde a due terzi del reddito mediano. Riassumendo quanto detto finora, si tratta di masse popolari povere, senza fiducia nella rappresentanza politica e nelle istituzioni. In un mondo in cui le istituzioni della rappresentanza sono sempre più svuotate e in cui i luoghi e i meccanismi del potere risiedono sempre più evidentemente altrove, per spiegare tale sfiducia non serve neanche chissà quale intuito, ma basti un elemento tra i tanti: la percezione che si ha dei sindacati.
All’inizio del movimento, circa la metà delle persone in piazza sta manifestando per la prima volta nella vita: in generale quindi i gilet gialli hanno poca esperienza in mobilitazioni precedenti. Questo, tuttavia, è vero solo se per mobilitazioni si intendono i movimenti, meno se si intendono i sommovimenti, l’inquietudine o l’agitazione sui posti di lavoro: i primi dati sulla composizione sociale relativi a chi ha preso parte alle prime settimane di protesta, rilevati da ricercatori in sociologia del CNRS con apprezzabilissima lungimiranza fin dall’inizio del fermento sulle rotonde, parlano di una gran parte di persone che hanno assistito o vissuto in prima persona una vertenza sindacale non andata a buon fine. Secondo queste analisi a partecipare alle proteste e organizzare i blocchi per un maggiore potere d’acquisto è dunque il lavoro dipendente che non ha possibilità di scioperare, perché non se lo può permettere a causa di una situazione economica critica, perché privo di risorse politiche in grado di portare delle rivendicazioni al padronato (forza-lavoro non sindacalizzata o non sindacalizzabile), oppure ancora che non ha volontà di scioperare, disilluso da trattative fallimentari. In questo senso, la forza propulsiva del movimento è un prodotto della disgregazione del sindacato, per mano dell’erosione neoliberista (con conseguente affermazione del precariato) o per collusione delle sigle sindacali con il padronato (con conseguente sfiducia). Resi inutili e inefficaci gli intermediari dello scontro sociale, resta solo lo scontro sociale pure e diretto, con uno spirito che richiama il sindacalismo rivoluzionario e che non ha mancato di manifestarsi con un’interminabile serie di azioni dirette ai danni di grandi aziende come Amazon, Vinci, Blackrock e altri giganti commerciali e finanziari. Insomma, da questa prospettiva il movimento dei gilet gialli risponde all’esigenza di mettere in pratica quello sciopero precario di cui si parla da molto tempo negli ambienti di movimento, ma senza risultati incisivi né decisivi, e sarebbe un’estensione su scala di massa di lotte autorganizzate come quelle del Mouvement national des chômeurs et précairesin Francia o delle Camere del lavoro autonomo e precario in Italia.
Tuttavia, un tale interpretazione sarebbe estremamente riduttiva, perché perderebbe di vista altri criteri, simboli e identità che hanno trovato espressione nel movimento e che eccedono ampiamente la categoria socioeconomica del lavoro. Infatti, come sottolineato già da altri, si tratta di una rivolta della periferia. Non una periferia necessariamente geografica, sebbene questo fattore conti, ma più in generale una periferia simbolica: le banlieues rispetto ai centri storici, i quartieri popolari rispetto ai quartieri borghesi, la provincia rispetto alla capitale parigina, ma anche l’invisibile rispetto al mediaticamente visibile, i luoghi di vita rispetto ai centri decisionali, in ultima analisi la periferia rispetto al centro come simbolo dell’oppressione materiale.
Per questo motivo, non deve stupire che una costante delle manifestazioni dei gilet gialli sia stata fin dall’inizio la volontà determinatissima di riprendersi il centro, rimettendosi al centro, che si tratti dell’Arc de Triomphe in Place de l’Etoile o di una rotonda al centro di un incrocio nella Francia rurale e periferica. Questa necessità di riprendersi il centro, pur essendo raramente formulata in questi termini, è stata di un’ovvietà spontanea e soprendente. Questo punto è forse difficile da comprendere guardando dall’Italia se non si ha una conoscenza diretta dei codici culturali francesi: in Italia la sacralità dei simboli e forse anche la loro forza è molto più limitata che in Francia, così per esempio il trinomio Liberté, Egalité, Fraternité non sarebbe mai messo in discussione da nessuno mentre in Italia qualunque principio potrebbe essere messo in discussione da tutti, e analogamente in Francia esistono figure capaci di mettere d’accordo (quasi) tutti, il che è un fenomeno rarissimo in Italia. A causa di tale sacralità e intoccabilità dei simboli in Francia, esistono dei luoghi molto più pregnanti di “potere centrale” e non è dunque un caso che per riprendersi il centro sia stato considerato semplicemente ovvio invadere gli Champs Elysées, che sono invece accuratamente evitati, come decine di altri “luoghi del potere”, dai percorsi tradizionali delle manifestazioni nella capitale francese.
La carta dei “luoghi del potere” diffusa da Monde diplomatique. In rosa tratteggiato, i percorsi tradizionali delle manifestazioni sindacali e politiche. Click sull’immagine per ingrandire.
Come esempio del fatto che i luoghi del potere non necessariamente coincidano con il centro geografico, basti l’esempio di Lione: per diversi mesi, i cortei di Lione si spingevano verso i quartieri-cantiere, sventrati dalla valorizzazione capitalistica e soggetti ad una crescente speculazione immobiliare. Difficile non vedere il nesso con la gentrificazione, una scelta politica dalle conseguenze sociali devastanti che negli ultimi anni ha assunto proporzioni gigantesche per responsabilità di tutte le istituzioni del feudo del sindaco Gérard Collomb, il cui obiettivo politico dichiarato è trasformare Lione in «una città dallo skyline europeo» per «parlare agli investitori» e renderla una «ville de décideurs» . In On est là viene dato l’esempio di Bordeaux, molto simile: si parla di una «espulsione delle fasce più precarie» che rende ragione della grande importanza assunta dal movimento a Bordeaux, città che ha conosciuto negli ultimi dieci anni un fenomeno speculativo senza precedenti e la cui amministrazione punta a «superare il milione di abitanti».
Occorre adesso fare una considerazione cruciale sulle rivendicazioni del movimento dei gilet gialli e sul “riprendersi il centro”, perché è un punto che molti osservatori esterni sembrano non cogliere. C’è qualcosa di estremamente fisico nelle manifestazioni dei gilet gialli, è difficile trovare le parole per esprimere questa sensazione ma basta aver partecipato ad una qualsiasi manifestazione per capire di cosa si tratta. Forse anche a causa del livello di repressione che trasforma i manifestanti in bersagli mobili sotto il tiro delle armi della polizia, è la fisicità del corpo il terreno su cui si gioca il livello di conflittualità politica. Dai movimenti degli ultimi decenni, inoffensivi nella propria incapacità di minacciare l’integrità della classe dominante e nella loro accettazione più o meno remissiva dell’inevitabilità di essere respinti ai margini o neutralizzati, il movimento dei gilet gialli si è distinto in maniera netta.
Come accennato sopra, le zone di Parigi interessate dagli assembramenti spontanei già nelle prime due settimane dei gilet gialli sono zone in cui molti dei partecipanti non avevano mai messo piede e il fatto che a un certo punto abbiano deciso, collettivamente, di cominciare a mettercelo, ha comportato una serie di reazioni scomposte da parte dei normali frequentatori di quei quartieri: come racconta Le Monde (a chi capisce il francese, consiglio la lettura di tutto l’articolo), il panico si imposessa degli abitanti del centro, prende coloro che meno se lo sarebbero aspettato, si insinua nelle loro dimore e nei loro animi. «Per la prima volta nella loro vita, gli abitanti dell’8° e del 16° distretto di Parigi, i più esclusivi della capitale, hanno subito violenze alle porte dei loro appartamenti, temendo per le loro proprietà e talvolta per la loro vita […]. Danneggiamenti, macchine in fiamme, vetrine in frantumi, fino a quel momento li avevano sempre visti al telegiornale comodamente installati nei loro accoglienti salotti. Si sentivano al sicuro, così lontano dai cortei solitamente confinati nell’est della capitale […]. Non era forse per la pace e la tranquillità che avevano scelto di vivere qui, in questo ovest dagli ampli viali eleganti e dai parchi perfettamente curati? […] Il famoso primo dicembre, il proprietario di un palazzo privato con giardino con vista sull’Arc de Triomphe stava seguendo in televisione l’Atto III della mobilitazione dei gilet gialli, […] non avrebbe mai immaginato di trovarli sul proprio prato. Senza pensare, si è precipitato fuori urlando “Fuori di qui! Siete a casa mia!”. Il gruppetto di persone incollerite probabilmente non avevano pensato che un edificio del genere potesse appartenere a una famiglia – il quartier generale di una banca o una grande azienda, un’ambasciata, forse? -, e ha, così, indietreggiato, sorpreso e imbarazzato».
Ma questo, continua il racconto, era soltanto la scintilla: nei giorni successivi «il proprietario, il ricchissimo, l’altoborghese, decide di rinforzare il proprio recinto […]. Soprattutto, racconta molto della propria spiacevole disavventura nei banchetti della città bene, il terrore si diffonde come veleno, da un tavolo all’altro, di pranzo in cena, di telefonata in messaggio. Forte di una terribile constatazione evidente a tutti: erano loro ad esser presi di mira, e la testa che la folla inferocita chiedeva era quella dei ricchi, dei vincenti o presunti tali, di quelle persone privilegiate». Insomma, la borghesia francese comincia a perdere la calma e il sangue freddo: «vogliono farci salire sul patibolo», «è stata una guerra», «non ci sentivamo più sicuri in casa nostra», «vivevamo sotto il coprifuoco» , «un quartiere in stato d’assedio». A partire dall’8 dicembre, le famiglie bene della capitale prendono un’abitudine che continuerà nei mesi a venire: partire “in vacanza” ogni fine settimana, in case di campagna o in resort a cinque stelle fuori città, dove il movimento popolare non andrà a cercarli. Nel primo trimestre del 2018 si registra un boom di presenze sulla costa della Normandia, ma anche in Bretagna e Hauts-de-France, con indici di crescita delle prenotazioni alberghiere che in alcune località superano il 70%. Questa non è l’unica abitudine che gli abitanti dei quartieri più abbienti sono costretti ad adottare: nascondono le automobili più lussuose nei garage, fuori dalla vista, si rivolgono a società di sorveglianza e sicurezza privata, addirittura alcune case si dotano di safe room, stanze di emergenza con acqua, cibo e mezzi di comunicazione per ritirarsi con la famiglia in caso di necessità. Un anno dopo, un poliziotto racconterà: «la notte del primo dicembre 2018, l’Eliseo ha rischiato di cadere».
Questa paura non è vissuta soltanto dagli abitanti del 16° arrondissement di Parigi. Lo stesso Emmanuel Macron si assicura che un elicottero sia sempre a portata di mano all’Eliseo in caso di emergenza e dopo poco più di un mese dall’inizio di quella che viene ribattezzata “la crisi dei gilet gialli” fa addirittura perdere le proprie tracce, preso da paranoia e crisi di nervi, e per quasi due settimane nessuno sa dove si sia nascosto le Président de la République.
Perché soffermarsi su queste testimonianze? Perché restituiscono l’immagine di una paura che ha finalmente cambiato lato della barricata. Come si legge sui muri, «la peur a changé de camp». Dopo questa digressione, sarà forse più chiara la considerazione sul “qualcosa di estremamente fisico” cui si accennava sopra. Dopo decenni di relativa tranquillità, in cui anche le opposizioni più agguerrite non arrivavano a minacciare l’integrità fisica della classe dominante e delle sue proprietà, questa adesso si vede privata di spazi, e in particolare di spazi fisici, di cui non può più disporre come le aggrada o e convenga, ed è un’esperienza che aveva dimenticato potesse esistere. Terrorizzate, le élite proteggono questi spazi con le unghie e coi denti, l’obiettivo è impedire l’accesso a chiunque non appartenga alle classi sociali più alte, come in un film distopico o, più realisticamente, in una gated community cilena.
Apartheid sociale: i poveri da una parte, i ricchi dall’altra.
Ecco spiegata la ferocia delle forze dell’ordine (questione che sarà discussa più in dettaglio) nel difendere ogni centimetro quadrato dei luoghi ritenuti intoccabili, una ferocia mossa dalla paura, e soprattutto ecco spiegata la sensazione di fisicità che si avverte durante una manifestazione dei gilet gialli: si sa di essere fuori posto, si è pienamente consapevoli di stare sfidando dispositivi di segregazione sociale, e tali dispositivi si sfidano con tutta l’arroganza possibile. Ciò è intollerabile da parte del potere, e non come qualsiasi manifestazione non autorizzata – perché, figuriamoci, la libertà di espressione è garantita! – ma a causa della peculiare composizione sociale di questo movimento, che in fondo chiede l’accesso a spazi altrimenti inaccessibili. Molto significative sono state le scene della sommossa del 16 marzo quando è stato messo a fuoco Fouquet’s, ristorante esclusivo simbolo del lusso sfrenato, e la gente voleva sentire il sapore dello champagne, o quando è stata saccheggiata una gioielleria sugli Champs Elysées in quello che un tempo si sarebbe definito esproprio proletario, e qualcuno distribuiva diamanti alla folla lanciandoli come coriandoli. Queste scene parlano del desiderio di accedere ad una ricchezza da cui si viene socialmente esclusi, in un modo analogo a quanto avveniva nei riot inglesi del 2011.
In un certo senso è stato anche un momento di apertura nel processo di costruzione collettiva del possibile, un’espansione dell’immaginario: in una sorta di psicogeografia situazionista, si è dato lo spazio per la creazione spontanea di un modo differente di vivere lo spazio urbano: «si può provare qualcosa di nuovo, per andare un po’ più in là: una avenue da film, delle vetrine luccicanti, dei caffè a 8 euro… quella è l’unica realtà possibile per gli Champs Elysées? In molti stanno pensando che forse no! Si può provare a visitare diversamente questi bar, a entrare diversamente in questi negozi, a camminare diversamente questi marciapiedi».
Tutto ciò è, a mio avviso, la più evidente dimostrazione di quali desideri abbiano mosso milioni di persone, e anche la più chiara espressione delle loro rivendicazioni. Spesso la valutazione del movimento è stata viziata, tanto in Francia quanto all’estero, da letture che ponevano domande troppo stranianti.
Lamentavano la poca chiarezza di un movimento che scende in strada contro una tassa spacciata per ecologica e che presto, dopo una rapidissima vittoria, in maniera scomposta esprime propositi apparentemente disomogenei. Il carattere che accomuna tutti quei propositi si disegna facilmente come nei giochini grafici in cui si devono unire i puntini nell’ordine giusto, e la figura disegnata parla di aumento del potere d’acquisto. Ma anche questa è una figura parziale e limitata, artificiosa e costruita se vogliamo. C’è qualcosa di molto più immediato e diretto nel movimento dei gilet gialli: molte letture chiedono con scetticismo delucidazioni sulle rivendicazioni, perché è vero che verbalmente e soprattutto all’inizio non ne veniva dichiarata nessuna. In un disperato tentativo di placare gli animi, già nella terza settimana di protesta il governo ritira l’odiosa tassa sulla benzina che ha scatenato il dissenso e promette aumenti del salario minimo, chiede il contributo delle imprese per soddisfare la generica richiesta di un maggiore potere d’acquisto, ma il fiume è ormai straripato, non si accontenta più delle briciole. Il potere stesso rimane allibito, sconvolto: “questi distruggono tutto e non si capisce che cosa vogliono! Se non riusciamo neanche ad immaginare un contentino per farli stare zitti e tranquilli, come facciamo a fermarli? Perché dopo un anno sono ancora lì, che diavoleria è mai questa?”
Quando si chiede: “sì, ma cosa rivendicano?” si sta ponendo una domanda più che legittima (che corrisponde alla logica politica a cui siamo abituati), ma ci si sta anche tappando gli occhi perché parte della risposta è incredibilmente chiara. I gilet gialli subiscono sistematicamente cariche e lacrimogeni, una repressione violenta come non si era mai vista dal maggio 1968, per il semplice e unico motivo che occupano uno spazio. Potrebbero non scandire nessuno slogan, non dichiarare niente, e sarebbero repressi ugualmente e con la stessa identica brutalità. La loro colpa è esistere con ostinazione in spazi che il potere ha deciso da decenni di rendere esclusivi per alcune categorie. Se poi si va a vedere che cosa fanno, le rivendicazioni appaiono ancora più facilmente inquadrabili. Non sono espresse con un linguaggio politico convenzionale, fatto di comunicati, trattative, organizzazioni strutturate, ma piuttosto attraverso l’identificazione di precisi simboli da attaccare: i gilet gialli occupano gli spazi pubblici privatizzati, bloccano i centri commerciali, resistono alla repressione, fanno paura al sistema neoliberale e alla classe dominante. Una questione di lucidità elementare.
In queste considerazioni sono stati proposti solo alcuni spunti di riflessione, tutt’altro che completi, sulla composizione sociale e sulle rivendicazioni del movimento, in risposta alle domande “chi sono?” e “cosa vogliono?”. Nelle prossime, la questione sarà: “che lingua parlano?”.
Alla fine del 2018, in Francia è successo qualcosa. Improvvisamente, milioni di persone prima invisibili o raccontate con descrizioni astratte sono comparse in carne ed ossa, hanno occupato fisicamente e simbolicamente spazi in precedenza a loro negati, si sono reimpossessate di quelli in cui erano stati relegati e ne hanno ridefinito funzioni e significati, creando nuovi modi di vivere, nuove relazioni, ma soprattutto hanno voluto parlare, ricordando al mondo di essere dotati di parola, e hanno voluto dire la loro.
Con il movimento dei Gilets Jaunes, si è prodotta una rottura nella normalità: cose che non erano normali prima, lo sono diventate, e vice versa. Si è quindi espressa una tensione costituente, un insieme di eventi che ha interrotto il normale corso dei flussi per generarne altri qualitativamente diversi. Più banalmente, un esempio di “normalità” a cui ci si era grosso modo abituati sul continente europeo era l’irrilevanza politica dei movimenti, la loro incapacità di produrre nella società cambiamenti reali che mettano in discussione lo stato di cose presente a livello generale. A parte poche eccezioni, i movimenti sono stati additati per decenni come inconcludenti, minoritari, inefficaci, mera testimonianza sulla scena politica pure quando capaci di entrare sotto i riflettori del teatrino istituzionale. Dalla fine del 2018 non è più così. Le masse sono rientrate in scena, prepotenti, e senza alcuna intenzione di compiacere gli sguardi degli spettatori né le loro aspettative, ma per dire: non siete spettatori, siete attori. L’appello è stato recepito e le masse, da attrici, per definizione hanno agito, abbandonando almeno momentaneamente la passività e la rassegnazione e rispondendo alla domanda che da ormai troppo tempo circolava negli ambienti di critica sociale radicale europea: «c’è vita in Europa?».
A livello simbolico, tutto questo rappresenta qualcosa di difficilmente esprimibile con linguaggi e sistemi di riferimento tradizionali, fuorché quelli appunto della rottura. Certo, ne hanno parlato sociologi, antropologi, politici, pure artisti, per trovare le parole: di tutto questo in Francia si è parlato ampiamente, e non se ne sarà mai parlato abbastanza.
All’estero, fatta eccezione per la sua passeggera mediatizzazione spicciola con annessa inevitabile distorsione, il movimento dei gilet gialli ha suscitato relativamente scarsa attenzione. I pochi che ne hanno parlato in italiano lo hanno fatto con intenti confusionisti e populisti, come gli inviati dei maggiori quotidiani, qualche politico con le idee poco chiare sulla situazione, certi profili online caratterizzati da prospettive tendenzialmente vicine alla destra sociale e all’area che si definisce sovranista. I giornalisti dei maggiori quotidiani hanno parlato di questo movimento senza comprenderlo (o senza volerlo comprendere), e si sarebbe detto che in barba all’etica giornalistica non fossero mai scesi in piazza per parlare direttamente con chi era protagonista degli eventi: piuttosto, hanno svuotato il movimento per riempirlo di contenuti e attribuirgli significati funzionali alla linea editoriale e agli interessi politici da difendere in patria, a prescindere dalla realtà dei fatti. Così, hanno raccontato di come i gilet gialli fossero un movimento di destra, perché protestavano contro Macron, acclamato come «ultimo argine contro l’estrema destra in Europa», simbolo dunque di una «sinistra moderna», e nella logica estremamente provinciale dei giornali italiani per protestare contro un personaggio simile non si può che essere di estrema destra. Non esiste alternativa, ancora una volta there is no alternative: o il neoliberismo dell’estremo centro, chiamato «sinistra», o il fascismo dell’estrema destra, la scelta è tra due opzioni falsamente alternative. Che non venga in mente a nessuno di immaginare qualcosa di diverso da queste due possibilità, entrambe feroci e totalitarie! Ovvio che dopo aver stabilito il parallelo Macron-Renzi per pompare Renzi e dopo aver definito le loro politiche come «sinistra», i giornali del progressismo liberale come La Repubblica abbiano interpretato il movimento dei gilet gialli in questa prospettiva, raccontandolo come pericoloso esempio di destra. Sono arrivati al punto di scendere finalmente in piazza, ma mettendosi d’accordo in anticipo con un militante neofascista di CasaPound in trasferta a Parigi, per intervistarlo come «gilet giallo italiano a Parigi» in una ridicola messa in scena, dandogli la parola e offrendo gratuitamente visibilità a un fascista dichiarato.
Dei politici con le idee poco chiare sulla situazione, basti un esempio: quello di Luigi Di Maio, che mesi dopo l’inizio del movimento è andato a stringere la mano a persone che nessuno aveva mai sentito nominare, autoproclamatesi rappresentanti in occasione delle elezioni (e i concetti di elezioni e di rappresentanti sono entrambi distanti anni luce dal movimento dei gilet gialli, come sa chiunque vi abbia partecipato). Anche in quell’occasione, i giornali italiani ne hanno approfittato per rafforzare indignati la narrazione di un movimento di estrema destra, dando prova della loro miseria professionale e offendendo il mestiere di giornalista.
Per quanto riguarda i sovranisti italiani, il loro interesse per il movimento è stato da una parte il riflesso dell’iniziale ambiguità, presto risoltasi con la cacciata dei fascisti a suon di mazzate da tutte le manifestazioni di protesta, dall’altra un effetto della narrazione creata ad arte che voleva a tutti i costi ridurre i gilet gialli ad un movimento di estrema destra, alimentando così le simpatie di chi, da casa, le mazzate non se le era prese e anzi non era neppure stato informato che ci fossero mai state.
Una meritevole minoranza di fonti indipendenti si è fatta carico di sopperire alle mancanze del sistema mediatico italiano riportando testimonianze che smentiscono le narrazioni tossiche (qui) e dando voce alle istanze di giustizia sociale (qui, qui le prime giornate di lotta seguite da InfoAut), smontando criticamente l’ambiguità dei giornali (qui, e vale pure per quelli più insospettabili), traducendo le analisi pubblicate da siti indipendenti (per esempio InfoAut ha riportato qui una traduzione da Paris-Luttes) e prodotte da strutture militanti francesi (come la Plateforme d’Enquetes Militantes tradotta a più riprese da DinamoPress) o intellettuali e studiosi quali Gérard Noiriel, Pierre Dardot, Christian Laval ed Edouard Louis (qui e qui, qui) in cui si coglie lo spirito profondamente democratico del movimento, producendo o diffondendo analisi dettagliate e puntuali (qui, qui, qui, qui, qui), provando a dare risonanza a momenti che male si inseriscono nella cornice reazionaria costruita dal sistema informativo italiano, come quando il comitato antirazzista Vérité et Justice pour Adama e parte del movimento femminista e LGBTQ hanno prontamente e giustamente lanciato l’appello ad unirsi alla mobilitazione in corso (qui), o quando sono nati i Gilets Noirs nel tentativo (molto ben riuscito ed efficace) di organizzare le lotte dei migranti con rivendicazioni specifiche (qui e qui). A questi esempi di spicco non allineati, si aggiunga Giap e il lavoro di riflessione collettiva e pedagogia popolare che il collettivo Wu Ming ha intrapreso con solerzia sui social network per diversi mesi ricevendo con infinita pazienza insulti da destra e sinistra, e restano veramente pochi singoli preziosi attivisti che si sono impegnati nella diffusione di notizie di prima mano, e più raramente nella condivisione di alcune importanti riflessioni, come Mattia (autore di questa e di questa) che, posso assicurare, dal movimento dei gilet gialli è rimasto profondamente segnato, come dopo un’illuminazione, e da allora ha presenziato svariati dibattiti in diverse città italiane, convinto della necessità di spiegare cosa effettivamente fosse successo nei primi dodici mesi di movimento, perché «in Italia non lo stanno capendo».
A queste analisi fuori dal coro accompagnate o supportate da materiale di prima mano, si è aggiunto di recente un opuscolo pubblicato in italiano da Enzo Names e Nicolò Molinari intitolato On est là, scaricabile da un apposito sito, che senza pretese di scientificità racconta le impressioni suscitate dal movimento, riferendosi soprattutto agli eventi avvenuti a Bordeaux. L’obiettivo dichiarato dell’opuscolo è stimolare il dibattito, per elaborare informazioni altrimenti poco accessibili, che non hanno circolato abbastanza in italiano, o perlomeno in Italia, neanche negli ambienti che dovrebbero essere i più naturalmente recettivi all’analisi sociale e ai movimenti popolari.
Come ben descritto nei paragrafi introduttivi di On est là, «i Gilets Jaunes hanno aperto uno squarcio nella sensazione d’immobilità, di depressione e di impossibilità che spesso ci portiamo dentro nel guardare le situazioni attuali». Penso che il portato maggiore di questo movimento, la scintilla che ha scosso profondamente le coscienze politiche in senso lato di letteralmente milioni di persone, sia esattamente questo: lo squarcio nella sensazione di immobilità.
Chi scrive ha avuto l’occasione di assistere e spesso partecipare alla costruzione e lo sviluppo di questo movimento nella città di Lione. Leggere On est là ha permesso ad alcuni scritti, all’epoca messi da parte, di uscire dai cassetti in cui erano rinchiusi e prendere vita.
Scrivevo già l’8 dicembre 2018: «I gilets jaunes ci rappresentano tutti: sono l’immagine di ciò che saranno i prossimi anni, quelli della transizione ecologica capitalista. Un pugno di enormi aziende multinazionali sempre più ricche, sempre più grosse e incontrastate sul mercato, è responsabile della maggior parte delle emissioni di gas serra e delle devastazioni ambientali sempre più gravi sulla superficie del pianeta. Eppure, in perfetta continuità con la logica economica dominante che privatizza il profitto e socializza le perdite, il costo di questa crisi ecologica planetaria in un contesto di transizione in regime capitalistico sarebbe fatto pagare alle masse. Le quali, in un contesto di guerra sociale a intensità variabile, si ribellerebbero all’imposizione di tali costi sulle proprie spalle. Non perché ne rifiutino il principio ultimo (la salvaguardia dell’ecosistema), ma la logica entro cui tale principio è imbrigliato traducendosi in un’ulteriore aggravamento delle disuguaglianze».
All’inizio del 2019 scrivevo di «un movimento sociale inedito, quello dei gilets jaunes, incompresi da quasi tutti, incomprensibili da tutti i punti di vista già rodati, politicamente codificati, socialmente accettati, sfuggevoli nella loro determinazione inspiegabile, qualcosa dunque che esce dalle interpretazioni convenzionali, dalle certezze del noto che nutre e accarezza la mente a volte addormentandola». Per poterlo comprendere, continuavo nei miei appunti, sarebbe stato necessario sbarazzarsi di una sorta di cordone ombelicale: «Il nostro cordone ombelicale. Quello che mi lega a codici di lettura della realtà che possono fallire, o risultare inutili. O il cordone ombelicale fatto della “nostra storia”, di come in modo distorto la concepiamo e la raccontiamo, del “nostro stile di vita”, del “nostro linguaggio” e dei “nostri valori” costruiti sul e col sangue di genocidi, stermini, atrocità di ogni tipo, oppressione coloniale, campi di concentramento, sfruttamento letteralmente oltre ogni limite sostenibile. Un cordone ombelicale che spaccia tutta questa merda per il prezzo da pagare per permettersi il privilegio di qualche lusso piuttosto vacillante e spesso di dubbia utilità e non riuscire poi neanche a decifrare la voce di qualcuno che in perfetto francese dica di aver fame e che non è giusto. Un cordone ombelicale che ci limita nella possibilità di capire chi usa parole e forme di espressione non convenzionali, ciononostante stereotipate e cariche del peso di una storia che non vuole mostrarsi, un cordone ombelicale che ci impedisce di muoverci al di là della comprensione di questi oggetti sociali e di queste categorie, perché nostro malgrado non possiamo che vederle e viverli dall’interno, per quanto l’Europa sia da provincializzare molto più di quanto immaginiamo, e a ragione, una ragione storica e morale se esiste la morale».
Questo per annunciare che comincia qui di seguito, con ritardo stratosferico, una serie di riflessioni sul movimento dei gilet gialli, che saranno pubblicate prossimamente in post separati.