Cosa ci viene incontro? – La malattia del Capitalocene e il capitalismo come malattia
Il 13 aprile, il sito francese Lundi Matin ha pubblicato “Qu’est-ce qu’il nous arrive ?” (“Cosa ci viene incontro?”), un prezioso contributo di Jérôme Baschet, storico francese, riguardo alla fase attuale. Sottotitolo: “Molte domande e qualche prospettiva ai tempi del coronavirus”. Il suo intervento si distingue per la lucidità di analisi e per l’importanza delle questioni poste. Per agevolarne la lettura da parte di un pubblico italiano, una traduzione sarà qui pubblicata in tre puntate. La prima, qui di seguito; la seconda qui; la terza qui. Buona lettura.
Jérôme Baschet è docente presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales dal 1990 e alla Universidad Autónoma de Chiapas a San Cristóbal de Las Casas, Messico, dal 1997, dove collabora con il movimento zapatista. Tra le sue opere più recenti, Une juste colère – Interrompre la destruction du monde (Divergences, 2019), Défaire la tyrannie du présent – Temporalités émergentes et futurs inédits (La Découverte, 2018) e Chiapas – Insurrection zapatiste au Mexique (Actes Sud, 2015).
Premessa
Probabilmente non sbaglierebbe chi dicesse che il Covid-19 è una malattia del Capitalocene e che ci fa entrare a pieno titolo nel secolo XXI. Ci fa provare in modo tangibile, forse per la prima volta, l’effettiva portata delle catastrofi globali che ci attendono.
Eppure, si deve tentare di comprendere con maggiore precisione quanto sta accadendo per quanto riguarda sia l’epidemia provocata dal SARS-CoV-2 sia le politiche sanitarie adottate per contenerla, al prezzo di una stupefacente paralisi dell’economia,, giacché non si può, senza tale presupposto, sperare di individuare le opportunità che potrebbero aprirsi in queste circostanze piuttosto inedite. L’operazione non ha tuttavia nulla di garantito. Presi nel vortice d’informazioni ogni giorno più sorprendenti o disorientanti suscitate dall’evento, si esita. Non crediamo a volte ai nostri occhi, né alle nostre orecchie, né ad alcun altro senso. Conviene ammettere che molte certezze vacillano, e con loro persino molte ipotesi, ma è necessario cominciare ad abbozzare qualcosa, in via parziale e provvisoria, in attesa dell’affermazione di elaborazioni collettive più solide.
La malattia del Capitalocene e il capitalismo come malattia
In che misura è possibile stabilire una relazione tra la pandemia attuale e la dinamica del capitalismo? Questa è e sarà la domanda al centro delle lotte politiche aperte dalla crisi del coronavirus. È piuttosto ovvio che le forze sistemiche faranno tutto pur di naturalizzare la pandemia e imporre di essa una comprensione profondamente a-storica. Tale l’esercizio condotto, paradossalmente dall’alto della sua posizione di storico autorevole, dall’autore del best-seller Sapiens, Yuval Noah Harari. Nel suo intervento (qui in lingua originale, qui in francese) si trova la quintessenza dell’ideologia che sorregge le élite mondiali dell’Economia e che esse si sforzano di diffondere nel contesto della crisi attuale. Secondo Harari, il fatto che le pandemie siano esistite anche in passato è sufficiente a dimostrare che si accusa a torto la globalizzazione, nell’attribuirle una responsabilità nell’epidemia di Covid-19. Di conseguenza, sarebbe del tutto errato, una volta passato il picco sanitario, prendere misure in contrasto con le dinamiche globalizzatrici; al contrario, bisognerebbe rallegrarsi dei miracolosi progressi della scienza, che rafforza continuamente le barriere tra il mondo della specie umana e quello dei virus, e dar fiducia agli specialisti della salute e alle autorità politiche per proteggere con efficacia le popolazioni e assicurare, nella cooperazione e nella fiducia reciproca, un buon funzionamento dell’ordine globale. Si resta colpiti soprattutto, in questo stupefacente esempio di virtuosismo ideologico, dal legame stabilito tra la naturalizzazione dell’epidemia e la legittimazione del mondo dell’Economia. Ciò mostra quanto sia necessaria una controlettura propriamente storica.
Va da sè che le pandemie non hanno aspettato il capitalismo per esistere e portare a disastri a volte ben peggiori del Covid-19; ma serve molta superficialità o cattiva fede per concludere, sulla base di questa ovvietà, che esse siano semplicemente fenomeni “naturali”, ai quali l’umanità si sia sempre confrontata allo stesso modo e per le stesse ragioni. Le pandemie sono fenomeni che trasgrediscono la moderna separazione tra natura e società, e che dipendono in gran parte da interazioni tra ambienti naturali e modi di organizzazione dei gruppi umani. Così, lo sviluppo delle principali malattie infettive che hanno colpito la specie umana è strettamente legato ad una delle più grandi trasformazioni della storia: il passaggio verso società agricole e, in parte, sedentarie. Quella che si può continuare a chiamare -malgrado la lentezza non lineare del processo e tenendo presente la profondità del cambiamento- la “rivoluzione neolitica” ha creato le condizioni per una prossimità del tutto inedita esseri umani, animali domestici e commensali attirati dalle scorte di cibo (come ad esempio i roditori), favorendo la trasmissione alla specie umana di agenti patogeni fino a quel momento specifici di altre specie animali e facendo così emergere grandi malattie infettive che hanno da allora inciso sull’umanità: il colera, il vaiolo, gli orecchioni, il morbillo, l’influenza, la varicella e così via. È stata dunque una transizione importante della storia umana -il passaggio da società di cacciatori-raccoglitori a società agricole (per quanto bisognerebbe evitare analisi troppo grossolane ed evoluzioniste di questa dualità)- la causa diretta di uno sviluppo significativo delle malattie infettive, a carattere endemico o epidemico. E nulla vieta di stabilire un parallelo tra quel momento, peculiare della transizione neolitica, e il momento che viviamo oggi, in relazione all’accumulazione esponenziale degli effetti micidiali del “capitalismo fattosi Mondo”.
Certamente, tra questi due momenti chiave altre pandemie si sono sviluppate, e non sembra possibile collegarle così nettamente a delle modifiche qualitative del rapporto tra organizzazione sociale e ambienti naturali. Questo vale per la peste bubbonica (Yersinia pestis) che imperversa in area mediterranea ed eurasiatica dai secoli VI-VIII fino al secolo XVIII, con il suo episodio più drammatico, la peste nera che a partire dal 1348 decima tra un quarto e la metà della popolazione, a seconda delle città e delle regioni europee. Di recente è stato mostrato che la diffusione della peste nera, trasmessa all’uomo dalla pulce del ratto, può essere messa in relazione a un cambiamento climatico -ovviamente non antropico. La fine del picco climatico medievale (secoli XI-XIII), provocando perturbazioni dell’equilibrio precedente e in particolare un aumento dell’umidità, avrebbe comportato una proliferazione dei roditori e un aumento nell’attività dei loro parassiti, conducendo a un salto di specie verso quella umana. Tale salto si sarebbe verificato nella regione dell’altopiano di Qinghai, nei pressi del Tibet, probabilmente negli anni 1270. L’agente patogeno sarebbe poi stato trasportato dalle carovane di mercanti verso le regioni del Kirghizistan, dov’è attestato nel 1338, e avrebbe raggiunto le sponde del Mar Nero in 1346, da cui le navi commerciali in movimento tra le parti orientali e occidentali del Mediterraneo l’avrebbero portato a Messina e Genova. Di qui, si è diffuso rapidamente in tutta l’Europa. Al di là delle superficiali somiglianze con il Covid-19 (l’irigine cinese del focolaio iniziale e la sua trasmissione attraverso le rotte degli scambi), vanno soprattutto sottolineate importanti differenze, a cominciare dalla lentezza della diffusione dell’epidemia (70 anni per percorrere i 2000 km che separano il Qinghai dal Kirghizistan e 80 anni in totale per connettere Cina ed Europa, laddove il SARS-CoV-2 ha avuto bisogno di solo poche settimane). Ciò da un’idea della differenza di scala tra la globalizzazione attuale e quelle che a volte vengono definite, senza la dovuta cautela, come prime mondializzazioni (dal secolo XIII, poi più nettamente dal secolo XVI). Inoltre, l’epidemia di peste del secolo XIV è rimasta limitata all’Europa, al Medio Oriente e ai dintorni del Mediterraneo, il che non è affatto comparabile alla pandemia davvero planetaria del Covid-19. Si noti tuttavia che, anche se il cambiamento climatico che sembra essere all’origine dell’espansione di Yersinia pestis non fu dovuto all’azione umana, ciò non toglie che fu una mutamento degli equilibri naturali a favorire il salto di specie dell’agente patogeno.
Un altro importante momento di espansione epidemica è connesso alla conquista europea del continente americano. È risaputo che restando isolate dal blocco afro-eurasiatico dalla fine delle grandi glaciazioni, le popolazioni native americane non hanno avuto la stessa storia infettiva degli altri gruppi umani e si sono ritrovate sprovviste di difese immunitarie di fronte agli agenti patogeni portati dagli europei, soprattutto il virus del vaiolo (mentre gli europei contrassero una malattia prima a loro sconosciuta, la sifilide). Questo impatto microbico ha contribuito ad una mortalità drammatica che ha decimato circa il 90% della popolazione nativa americana delle regioni colonizzate (per la sola regione meso-americana, ovvero la metà meridionale del Messico e parte dell’America centrale, gli storici stimano che la popolazione nativa sia passata in meno di un secolo da venti milioni a un milione di abitanti). Questo momento di accelerazione nella diffusione planetaria delle pandemie è chiaramente legato a un fenomeno storico di grande portata, che ha ampiamente plasmato il corso della storia mondiale negli ultimi cinque secoli: la colonizzazione europea che poco a poco e salvo rare eccezioni ha esteso il dominio occidentale alla totalità del pianeta. Altri episodi importanti nella diffusione delle grandi epidemie verso l’Africa possono essere messi in relazione al contesto coloniale.
Infine, va segnalato il ricorrere delle epidemie di influenza, di cui la più letale è stata l’influenza “spagnola” nel 1918-1920: originatasi probabilmente negli Stati Uniti, forse nel Kansas, fu portata in Europa dalle truppe nord-americane e da lì, principalmente via nave, verso le regioni colonizzate o dominate dagli europei, in Africa, Asia e Oceania. Oltre agli Stati Uniti e all’Europa, l’India e la Cina pagarono il tributo più pesante in questa epidemia, stavolta propriamente mondiale (a immagine della prima delle guerre mondiali e di un dominio europeo divenuto altrettanto mondiale). Si stima che sia costato la vita a 50 milioni di persone. Altre epidemie di influenza hanno colpito la seconda metà del secolo XX, segnando la ricomparsa di un virus conosciuto da tempo ma che ha mutato spesso in forme più gravi. È il caso dell’influenza asiatica nel 1956-1957, che uccise tra 1 e 4 milioni di persone nel mondo, poi dell’influenza di Hong Kong nel 1968-1970, che fece un milione di vittime di cui 32 mila in Francia. Si noti che queste due epidemie, molto vicine a noi nel tempo, non hanno dato luogo a misure severe di contenimento e non sono state oggetto di grande attenzione mediatica.
Dopodiché, si verifica una nuova rottura. A partire dagli anni 1980 e ancor più all’inizio del secolo XXI, si osserva una crescita poderosa del ritmo delle nuove zoonosi: HIV, influenza aviaria H5N1 che riemerge periodicamente dal 1997 e soprattutto nel 2006, SARS nel 2003, influenza suina nel 2009, MERS nel 2012, Ebola nel 2014, fino al Covid-19 (e la lista non è esaustiva). Stavolta, la cause antropiche hanno un ruolo decisivo. Un primo fattore è legato allo sviluppo, avviato negli anni 1960, dell’allevamento industriale, in particolare per quanto riguarda il maiale e il pollo, le due carni più consumate su scala mondiale (al punto che le ossa di pollo, insieme a plastica e radiazioni nucleari, sono uno dei tre marcatori geologici più certi dell’Antropocene). Le sue forme orrende votate alla concentrazione, inserite nelle logiche dell’economia di scala e d’integrazione nei mercati globali, della monocoltura, del ricorso massiccio a prodotti dell’industria chimica, dell’artificializzazione e dell’indebitamento, hanno anche conseguenze sanitarie disastrose e favoriscono i salti di specie da parte dei virus. Il secondo fattore è l’espansione dell’urbanizzazione e in particolare lo sviluppo delle grandi matropoli. Combinata ad altre cause di deforestazione e artificializzazione degli ambienti naturali, essa porta i cacciatori in cerca di animali selvatici ad avventurarsi in zone fino a quel momento largamente incontaminate dall’intervento umano; ma soprattutto, restringendo gli habitat degli animali selvatici, li spinge ad avvicinarsi alle zone occupate dagli umani. Ne risulta una moltiplicazione dei salti di specie. È il caso dell’HIV, virus proveniente da scimmie migrate per via della deforestazione, ed è anche il caso dell’Ebola, virus proveniente da pipistrelli scacciati dalle foreste dell’Africa occidentale e centrale. A favorire la moltiplicazione attuale delle zoonosi, sono quindi proprio trasformazioni indotte dall’espansione smisurata dell’economia mondiale, con le sue logiche di mercificazione e il suo evidente disinteresse per gli equilibri del mondo vivente.
E per quanto riguarda il SARS-CoV-2? Ancora è troppo presto per dirlo, poiché non si dispone di certezze sulla catena iniziale di trasmissione del virus. La tesi generalmente accettata chiama in causa il mercato di Wuhan, il ruolo del pipistrello (piuttosto verosimile anche è una formidabile riserva virale naturale) e forse di altri animali selvatici che vi erano messi in vendita. Ma questi dati non sono forse così sicuri. Il mercato di Wuhan potrebbe essere stato il luogo da cui l’epidemia ha cominciato a propagarsi, ma non necessariamente il suo primo punto di apparizione. Considerati gli aspetti politic e geopolitici della questione, e tenuto conto della censura dell’informazione da parte delle autorità cinesi, potremmo non disporre mai di dati affidabili. Si potrebbe sostenere banalmente che, in questo caso, non c’è necessariamente un legame tra la diffusione del SARS-CoV-2 e lo sviluppo dell’allevamento industriale (a meno che il virus non abbia avuto un animale allevato come intermediario). Non è neanche sicuro che si possa stabilire un legame con l’espansione urbana (sebbene Wuhan sia una metropoli di 12 milioni di abitanti). Per contro, qui è decisivo un terzo fattore: l’intensificazione dei flussi mondiali connessi alla produzione dei beni e alla circolazione delle persone. Evidentemente, il coronavirus non si sarebbe diffuso come ha fatto, se Wuhan non fosse divenuta una delle capitali mondiali dell’industria dell’automobile. La causalità è qui duplice: attiene allo sviluppo della Cina, divenuta seconda potenza economica mondiale (16% del PIL mondiale, contro solo il 4% del 2003), ma anche all’espansione smisurata del traffico aereo (numero di passeggeri raddoppiato in 15 anni). Di fatto, la diffusione del coronavirus coincide esattamente con la carta della densità del traffico aereo mondiale: si è propagato in qualche settimana dalla Cina e dalle principali potenze vicine verso l’Europa e l’America del Nord, mentre l’America latina è arrivata più tardi e l’Africa è restata indietro per molto tempo. Sono proprio le zone più interconnesse e più “centrali” del capitalismo globalizzato che sono state interessate per prime. Non si era mai vista un’epidemia diffondersi tanto e tanto rapidamente su scala mondiale (la stessa influenza di Hong Kong aveva impiegato quasi un anno per raggiungere l’Europa dalla Cina).
In questo contesto di esplosione delle zoonosi, lo scenario di una pericolosa pandemia su scala planetaria era già da tempo temuto e studiato. La Cina e i paesi adiacenti vi si preparavano attivamente dal 2003. Gli Stati Uniti si erano dotati (almeno prima che Trump bloccasse tutto nel 2019) del Programma Predict per il monitoraggio dei virus animali potenzialmente influenzati dall’estensione di quelle attività umane che potrebbero dare origine a un salto di specie. Inoltre, qualche mese prima dell’emergenza del SARS-CoV-2, nell’ottobre 2019, la John Hopkins University di Baltimora co-organizzava con la Gates Foundation e il Forum Economico Mondiale un simposio denominato Event 201 Scenario, il cui oggetto era la simulazione di una pandemia mondiale provocata da un coronavirus, con lo scopo di fornire indicazioni ai governi del pianeta. Nello scenario considerato, il virus, proveniente dal pipistrello e passato all’essere umano in allevamenti di maiali in Brasile, provocava in un anno e mezzo 65 milioni di morti. Il SARS-CoV-2 è certamente entrato in scena a recitare una parte in un certo senso già scritta (il che ha alimentato letture complottiste di quanto avvenuto nell’incontro dell’ottobre 2019). Si deve tuttavia rilevare che il suo tasso di mortalità moderato, dell’ordine dell’1%, ha permesso per settimane di sollevare dei dubbi sulla gravità dell’epidemia, alimentati per esempio da infelici confronti con l’influenza stagionale, branditi volentieri dai sostenitori del business as usual. Oggi, la gravità delle forme più acute della malattia e l’intasamento dei sistemi sanitari che essa provoca hanno importo tutt’altra valutazione, e la traiettoria attuale della pandemia lascia presagire l’ordine di grandezza della mortalità che avrà provocato tra qualche mese (ordine di 500 mila o un milione di morti, addirittura di più a seconda delle proporzioni che la pandemia potrebbe assumere nei paesi più vulnerabili, specie in Africa). Quanto alla mortalità raggiunta in assenza di misure serie di contenimento, sulla base delle proiezioni realizzate per la Gran Bretagna e gli Stati Uniti si può stimare che sarebbe stata in termini di decine di milioni di morti al livello mondiale.
Resta il fatto che, benché comparare il Covid-19 con l’influenza stagionale sia poco pertinente, il confronto con altre cause di mortalità non è infondato. Così, voci provenienti dal Sud hanno presto fatto notare che una malattia come il paludismo colpisce 200 milioni di persone e miete 400 mila vittime ogni anno, senza suscitare molto scalpore. D’altronde, si può argomentare che esistono altre cause di mortalità provocate dal produttivismo capitalista che sono ben lontane da innescare una mobilitazione generale come l’attuale pandemia. Si pensi al crollo della biodiversità (quante le specie scomparse o decimate?) o ancora all’olocausto di un miliardo di animali nei mega-incendi australiani del 2019. E anche limitandosi alla mortalità umana, la lista è lunga e dolorosa: moltiplicazione dei casi di cancro legati all’uso di pesticidi o altre sostanze tossiche; disturbi causati da interferenti endocrini; la sindrome metabolica (sovrappeso, diabete e ipertensione) associata all’alimentazione industriale e allo stile di vita moderno, e che interessa ormai un terzo dell’umanità (e che è tra l’altro la principale comorbilità associata al decesso di un numero considerevole di malati di Covid-19); resistenza batterica legata all’abuso di antibiotici (che secondo le stime provoca 30 mila morti all’anno in Europa); o ancora le morti premature causate dall’inquinamento atmosferico (9 milioni all’anno solo per le polveri sottili); e così via. A proposito di quest’ultimo punto, è stato giustamente osservato che la crisi del coronavirus ha avuto anche effetti positivi, il più visibile dei quali è la diminuzione dell’inquinamento industriale e urbano. È stato stimato che nei primi mesi del 2020 tale diminuzione ha permesso di evitare non meno di 53 mila decessi in Cina, il che compensa ampiamente la mortalità attribuita al Covid-19 (almeno secondo le cifre ufficiali, molto probabilmente una sottostima). Ovviamente, i due tipi di dati non sono comparabili direttamente: le polveri sottili non sono la causa univoca e direttamente constatabile delle morti e l’aumento della mortalità che viene loro attribuita è frutto di un calcolo statistico, il che è ben diverso dal caso dei malati di Covid-19 che saturano palesemente i pronto soccorso. Resta il fatto che è legittimo mettere in luce che in contrasto con il carattere brutale e spettacolare della pandemia provocata dal SARS-CoV-2, altre cause di mortalità non ricevono tutta l’attenzione che meriterebbero, perché sono più continue e meno visibili. Dunque, si deve anche insistere in particolar modo sulla resistenza batterica, che non farà che accentuarsi nel corso dei prossimi decenni. Non mancano ragioni di credere che si tratta di una delle potenziali cause di mortalità tra le più drammatiche del prossimo secolo. Accanto ai virus, non bisogna dimenticare i batteri tra gli attori non umani di primo piano nel prossimo futuro.
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In sintesi, si può ammettere che le infezioni virali sono dei fenomeni “naturali” nel senso che i virus hanno dei comportamenti loro propri, ma il divenire di alcuni di essi è fortemente condizionato dalle trasformazioni degli ambienti naturali indotta dalle attività umane. Due momenti della storia umana sono segnati da una moltiplicazione significativa dei salti di specie e dall’espansione delle pandemie che ne risulta: prima con lo sviluppo delle società fondate sull’agricoltura, all’inizio del neolitico, poi con la generalizzazione e l’intensificazione del produttivismo capitalista e la brutale disorganizzazione del mondo vivente che ne deriva. Benché la storia delle epidemie porti ad accostare questi due momenti di rottura, è chiaro che il secondo, parte integrante dell’Antropocene-Capitalocene, si caratterizza per un intervento umano le cui proporzioni dirompenti sono incomparabilmente superiori.
Tre caratteri associati possono essere considerati come inediti e direttamente legati alle condizioni sistemiche del Capitalocene: il ritmo accelerato di apparizione di nuove zoonosi (quasi una ogni due anni, ormai), il che significa che le barriere tra le specie sono sempre più flebili; il fatto che un buon numero di queste zoonosi coinvolgano specie selvatiche, il che avveniva raramente in passato (e ciò sottolinea gli effetti di una distruzione senza limite di ambienti naturali prima incontaminati); infine, la diffusione generalizzata ed estremamente rapida della pandemia, il che fa del Covid-19 la prima pandemia realmente globale nel mondo globalizzato. Ciò porta anche ad affermare che, quale che sia la mortalità più o meno elevata che alla fine avrà provocato, il Covid-19 non sarà l’ultima delle grandi pandemia del secolo XXI, né probabilmente la più devastante.
Il Covid-19 è una malattia grave e sarebbe inopportuno minimizzarne il carattere mortifero. Ciononostante è legittimo osservare che questa mortalità non è che uno degli aspetti di una potenza distruttrice ancora più ampia: quella di un capitalismo patogeno, insieme ecocida e umanicida. Nessuna civiltà aveva prima d’ora prodotto così tanti fattori di moltiplicazione e generalizzazione di gravi malattie e contemporaneamente di distruzione degli ambienti naturali. Al netto di tali precisazioni, è possibile affermare che il SARS-CoV-2 è insieme a molte altre cause di mortalità e distruzione, una malattia del Capitalocene. Se infatti si può dire che il secolo XXI comincia nel 2020, è perché il Covid-19 ci fa provare, per la prima volta a un livello così globale e con una brutalità così improvvisa, ciò che saranno le catastrofi proprie di un’epoca in cui arriva il momento di pagare le pesanti fatture del Capitalocene. Infine, dire che il Covid-19 è una malattia del Capitalocene significa anche, pur senza sottovalutare la sua specifica pericolosità, indicare un agente patogeno ben più mortale dal quale siamo chiamati, in quanto esseri umani, a liberare il pianeta: il capitalismo stesso.
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