Tag: russia

  • La resa dei conti in Africa occidentale: imperialismi e rivoluzioni

    Il 26 luglio, il presidente nigerino Mohamed Bazoum è stato posto in stato di arresto dalla propria guardia presidenziale, il cui capo Abdourahamane Tchiani ha preso il potere appoggiato dall’esercito. La giunta militare ha immediatamente preso possesso delle comunicazioni, dei palazzi governativi, ha chiuso le frontiere e indetto un coprifuoco a tempo indeterminato.

    Sono state già scritte e dette molte cose sul significato storico del colpo di Stato in Niger come sintomo del declino del controllo della regione da parte della Francia, come risultato dell’instabilità crescente degli Stati del Sahel, preda di gruppi armati capaci di strappare loro porzioni sempre più grandi di territorio, e come terremoto geopolitico che delineerebbe una strategia di influenza della Russia in Africa.

    Tuttavia, nelle varie analisi e letture degli eventi che stanno circolando, due cose non traspaiono adeguatamente: una traspare ma senza darle la dovuta importanza, l’altra sembra del tutto assente.

    L’Africa: immenso serbatoio di risorse

    Quello che sta succedendo nel Sahel e in Africa occidentale da un decennio dovrebbe essere oggetto di attenzione e preoccupazione da parte di chiunque intenda capire a fondo i processi che interesseranno il mondo intero nei prossimi anni, tra cambiamento climatico, devastazione ecologica globale e ristrutturazione del capitalismo.

    L’Africa è un immenso serbatoio di risorse economiche. Per via della sue caratteristiche geologiche, detiene circa un terzo delle risorse minerarie del pianeta, la qual cosa ha fatto di essa una torta da spartire tra le potenze dominanti fin da quando il capitalismo coloniale ha creato una rete di sfruttamento planetario basata sullo schiavismo. In Africa sono presenti tra il 20% e il 90% delle riserve mondiali di 11 minerali necessari per la transizione energetica (e alcune stime potrebbero essere al ribasso): da solo, il Sudafrica ha il 91% delle risorse mondiali di platino, il Marocco il 70% di quelle di fosfato, la Repubblica Democratica del Congo il 50% delle riserve di cobalto, e il continente detiene oltre il 90% delle riserve di metalli del gruppo del platino (rutenio, rodio, palladio, osmio, iridio, platino e renio). La lista è lunga ed è ovvio che faccia gola alle potenze che intendono accaparrarsi le risorse necessarie per controllare la filiera tecnologica dei mercati emergenti, come pannelli fotovoltaici, turbine eoliche, veicoli elettrici, produzione di idrogeno verde e catalizzatori automobilistici.

    Per non parlare dell’energia fossile: notoriamente gas naturale, petrolio e carbone abbondano in diverse regioni del continente. In aggiunta ai siti di estrazione attivi e ai giacimenti conosciuti, solo dal 2017 a oggi sono state date concessioni esplorative su un’area del continente di quasi 900 000 km2, equivalente alla superficie di Francia e Italia insieme. Questi progetti alimentano speranze di arricchimento rapido e hanno l’effetto di allontanare molti paesi attualmente privi di idrocarburi dal proprio potenziale di investimento nelle risorse rinnovabili.

    Tutto lascia pensare che l’Africa sarà nel prossimo decennio il principale campo di battaglia per il controllo delle risorse energetiche o dei materiali per il loro sfruttamento e, conseguentemente nel contesto attuale, per la supremazia economica: il controllo degli impianti di estrazione, lavorazione e smistamento delle risorse minerarie sarà decisivo, e senz’altro non per l’eliminazione della cause del riscaldamento globale e il ripristino degli equilibri ecologici. Al contrario, l’approvvigionamento di suddette risorse sarà all’origine di disastri ambientali e umanitari ancora maggiori e i tanto sbandierati obiettivi “verdi” saranno sacrificati (esattamente come adesso) sull’altare della corsa al profitto.

    Miniera di uranio di Tamgak, ad Arlit, Niger

    Il portato politico

    In questa cornice, le strategie di influenza delle varie potenze assumono una valenza molto più significativa. Se la competizione per il controllo economico è il motore cruciale che determina interessi e obiettivi delle forze in gioco, esiste anche una diversità di processi prettamente politici da cui dipende la forma dell’espressione e dell’attuazione di tali desideri di controllo.

    Questa è la prima delle due cose che mancano nelle letture attuali: il portato politico profondo. Il punto traspare solo superficialmente dalle analisi di questi giorni. Per esempio, quando si nota che il 25% dell’uranio che alimenta le centrali nucleari europee viene dal Niger e che il governo francese si è affrettato a precisare che un taglio alla fornitura nigerina non comprometterebbe in alcun modo la produzione energetica francese (mentre comunque il colosso minerario francese Areva-Orano continua a operare in Niger nonostante il golpe), ci si concentra sul dato economico ma non su quello politico. Il Kazakhstan è il maggiore produttore mondiale di uranio (oltre il 40%) nonché il maggiore fornitore della Francia (43% a fronte del 18% dal Niger) e le rivolte del gennaio 2022 ebbero un impatto sul prezzo dell’uranio nel mercato globale, ma all’epoca il governo francese non si scomodò a rilasciare alcuna dichiarazione e le sole rassicurazioni vennero da Areva-Orano.

    Perché delle tensioni in Kazakhstan con un reale impatto materiale sulle forniture di uranio non suscitano alcun appello alla calma, mentre delle tensioni in Niger senza impatto materiale spingono il governo francese a esprimersi? L’incertezza per ciò che rappresentano politicamente. Allarghiamo lo sguardo.

    L’intervento militare francese nel Sahel, cominciato nel 2013 con l’intento di coordinare la lotta contro il terrorismo islamico nella regione, con l’operazione Serval poi ribattezzata Barkhane, non è stato affatto capace di arginare la minaccia. Al contrario, la situazione si è aggravata: la presenza dell’esercito francese ha spinto migliaia di giovani verso la ribellione jihadista e oggi i gruppi armati controllano ampie regioni rurali, minacciano di espandersi a sud verso la costa toccando paesi prima al sicuro (Benin, Togo, Costa d’Avorio), e il tasso di violenza criminale, religiosa e politica è aumentato vertiginosamente.

    Carta pubblicata su The Economist basata sui dati ACLED sulla violenza armata in Africa occidentale.
    Africa coup belt
    La “cintura di instabilità”, carta ideata da Ken Opalo e pubblicata sulla sua newsletter

    Dopo anni di relativa calma, sono tornati in voga i colpi di Stato, tentati o riusciti: in Mali, Burkina Faso, Guinea, tradizionalmente allineati alle politiche neocoloniali francesi, hanno preso il potere giunte militari golpiste ostili: l’esercito francese è stato espulso dal Mali nel novembre 2022 e si è ritirato dal Burkina Faso del febbraio 2023, il Mali ha vietato radio e associazioni finanziate dalla Francia, e l’operazione Barkhane è stata dichiarata terminata così come la missione di pace dell’ONU in Mali (MINUSMA) nata inizialmente per stabilizzare il paese dopo la rivolta Tuareg del 2012. La Francia è stata costretta a rimodulare la propria presenza nel Sahel, sia in termini militari, con il trasferimento delle forze da Mali e Burkina Faso verso Niger e Ciad, sia in termini di strategie utilizzate, per renderla meno visibile sul piano politico e militare.

    Lo sfaldamento degli equilibri in Africa occidentale

    Questa ridotta visibilità è il punto cruciale, perché rispecchia un minore riconoscimento della Francia come cane da guardia della regione. La rete di alleanze e interessi intessuta in secoli di colonialismo si sta sfaldando sempre più clamorosamente e il campo filofrancese sta perdendo la prima indiscussa posizione dominante, aprendo un vuoto politico. A riprova di questo, un crescente sentimento “anti-francese” (potenzialmente anticolonialista) serpeggia tra la popolazione di tutta l’Africa occidentale, che si permette ormai di esprimerlo apertamente e in forme conflittuali (da slogan e bandiere bruciate ad attacchi a simboli del dominio francese, incendi e saccheggi di multinazionali).

    Questo vuoto è oggetto di contese tra forme politiche concorrenti. Da un lato è occupato dai regimi militari, che per parte della popolazione sembrano essere diventati la forma preferibile per l’espressione del sentimento “anti-francese”; da un altro dalle ribellioni tradizionaliste e fondamentaliste guidate dai numerosi gruppi armati jihadisti; infine, in paesi con una più solida tradizione democratica, da movimenti di opposizione popolari dichiaratamente anticolonialisti, che il campo filofrancese non riesce più a tenere sotto controllo.

    Quest’ultimo è il caso del Senegal, dove il governo filofrancese di Macky Sall è da mesi alle prese con un’opposizione in stato di mobilitazione permanente in difesa di Ousmane Sonko, carismatico militante panafricanista e potenziale candidato alle prossime elezioni presidenziali, sostiene l’uscita dal franco CFA, strumento coloniale per eccellenza che strangola le economie delle ex-colonie francesi. Il governo ha risposto con il pugno di ferro: esercito e squadracce armate per strada, decine di morti, arresti indiscriminati, blocco di internet, oscuramento dell’unico canale televisivo vicino all’opposizione, scioglimento del principale partito di opposizione.

    Il 26 luglio, nel solco di questa dinamica di riconfigurazione dei rapporti di forza tra i vari attori istituzionali e sociali, gruppi di interesse e gruppi militari nel Sahel, si è aggiunto alla lista il colpo di Stato in Niger.

    La fragilità dell’ascendente della Francia si riflette anche nell’incapacità della CEDEAO (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, ECOWAS in inglese) ad accordarsi su una linea politica riguardo alla gestione della situazione in Niger. Finora, la linea dominante era sempre stata quella che favoriva la tutela degli interessi francesi nella regione: anche dopo i colpi di Stato in Mali, Guinea e Burkina Faso, la sospensione di questi paesi aveva mantenuto l’allineamento.

    Dopo il colpo di Stato in Niger, la CEDEAO, presieduta per adesso dalla Nigeria e forte dell’appoggio di esponenti di spicco della diplomazia occidentale (da Parigi, Washington, Bruxelles), ha staccato l’erogazione di corrente elettrica al Niger (fornita al 70% dalla Nigeria) e ha dato un ultimatum per ripristinare l’ordine costituito entro una settimana, pena l’uso della forza militare. In reazione, i governi militari di Mali e Burkina Faso, hanno annunciato che in caso di intervento entrerebbero in guerra in difesa del Niger. Ovvero, in guerra contro altri Stati della stessa CEDEAO di cui fanno parte, sebbene sospesi.

    Non solo: per dar seguito alla minaccia, il presidente della Nigeria ha sottoposto al parlamento nigeriano la richiesta di intervento militare, ma la proposta è stata respinta a larghissima maggioranza. La maggior parte degli altri Stati membri, pur approvando l’idea, non ha mobilitato le forze armate e la Nigeria è l’unico Stato con una forza militare che conterebbe qualcosa in questo frangente. Insomma, il presidente della CEDEAO è partito fiducioso di raccogliere l’usuale consenso, ma non ha avuto l’approvazione neanche del proprio paese. Difficile immaginare una disfatta politica più goffa. Quello che conta in questa analisi è che solitamente quel consenso era dato dall’allineamento sugli interessi francesi. Oggi non è più così e si assiste a un’accelerazione importante del processo di sfaldamento degli equilibri politici della regione.

    Le mire espansionistiche russe

    L’assenza di un cane da guardia nella regione si manifesta in un’ultima dinamica, da non sottovalutare: l’avanzamento delle mire espansionistiche russe.

    In questo, il Mali del generale Assimi Goïta è stato un caso lampante: mentre espelleva l’esercito francese, chiudeva i canali diplomatici e vietava associazioni e radio francesi, la giunta militare faceva accordi con il gruppo Wagner assumendolo come “supporto militare” e concedendo sottobanco lo sfruttamento di diversi siti minerari. Il Mali è diventato un modello da manuale: il Burkina Faso ha seguito rapidamente; e nel giro di solo una settimana i golpisti in Niger hanno preso molte delle misure osservate in Mali negli ultimi anni. Mentre le giunte al potere negano, la diplomazia russa conferma. Quando il primo ministro maliano Choguel Kokalla Maïga si è schierato a favore dei golpisti in Niger, lo ha fatto da San Pietroburgo, dove presenziava il vertice Russia-Africa.

    La giunta filorussa in Mali è la forma politica visibile delle ambizioni espansionistiche della Russia, ma la presenza di forze che tutelano gli interessi russi è attestata in diverse altre forme più discrete. Per esempio, il gruppo Wagner è presente nella Repubblica Centrafricana dal 2018 tramite due società prestanome che forniscono “supporto militare” (leggasi: massacri di civili) e si assicurano il controllo delle miniere di oro. La COSI (agenzia prestanome) il 31 luglio ha diramato un comunicato di appoggio al golpe in Niger, strumentalizzando la legittimità del sentimento anticoloniale.

    Una carta che riassume le “operazioni militari” del gruppo Wagner in Repubblica Centrafricana, tratto dal rapporto ACLED del 2 agosto 2023.

    Altre strategie si collocano nel solco del soft power costruito pazientemente nel corso di anni o decenni,, tramite l’apertura, il finanziamento e la coordinazione di centri studi, associazioni culturali, organi di informazione, gruppi di pressione che hanno fatto circolare materiale in linea con gli interessi strategici del blocco espansionista e imperialista russo, in maniera simile a quanto successo in Donbass.

    Questo spiega la presenza di così tanti slogan pro-Putin, rivendicazioni filorusse e bandiere russe nelle manifestazioni di piazza degli ultimi anni, dal Mali alla Repubblica Centrafricana, fino ad arrivare agli attacchi dell’ambasciata francese a Niamey.

    Una disamina dettagliata delle attività che indicano la volontà del blocco imperialista russo di impiantarsi nella regione approfittando della crescente instabilità e vuoto di potere, sostituendosi almeno in parte al blocco neocolonialista francese, sarebbe ancora molto lunga. Il punto principale che emerge, ancora una volta, è che gli equilibri in Africa occidentale stanno saltando e che solo un’analisi prospettica di lungo termine può cogliere le implicazioni degli eventi in corso.

    L’altra risorsa economica dell’Africa

    All’inizio di queste considerazioni, è stato detto che due cose non traspaiono adeguatamente nelle letture attuali. Una è lo sfaldamento generale di tutti gli equilibri istituzionali e sociali in Africa occidentale, che spesso viene colto solo di sfuggita. L’altro punto invece sembra completamente assente. Qual è?

    Come citato sopra, l’Africa detiene un’enorme quantità di risorse e per molte di queste addirittura il primato delle riserve mondiali. Di questi dati si parla molto nelle analisi geopolitiche, negli studi delle relazioni internazionali e nelle valutazioni politiche di buona parte della sinistra. Tuttavia, in una prospettiva rivoluzionaria e materialista, manca qualcosa di fondamentale, e cioè la presa in considerazione di un’altra risorsa economica dell’Africa: la forza lavoro.

    Complessivamente, l’Africa detiene di gran lunga il primato mondiale per la crescita democrafica, con un tasso medio del 2,45% dal 2000 in poi. Il Niger registra il tasso di fertilità più elevato al mondo (6,89%) e ha la popolazione più giovane del pianeta (il 50% ha meno di 15 anni). Entro una quindicina d’anni, la popolazione totale dell’Africa potrebbe agevolmente superare i 2,5 miliardi di persone.

    Nonostante la disponibilità in materie prima e risorse di immenso valore economico, l’Africa detiene il primato per tasso di povertà e per indice di sviluppo umano medio. Sui motivi di questo divario, sono già stati scritti fiumi di inchiostro e gran parte della responsabilità è da attribuirsi a secoli di colonialismo europeo che hanno devastato e saccheggiato territori e popolazioni sottoponendole a incredibili livelli di violenza politica e economica. L’Africa non è povera: è impoverita, o per dirla con Walter Rodney, “è stata sottosviluppata“.

    Percentuale della popolazione sotto la soglia di povertà nel 2019 (soglia di povertà: 2,15 $ al giorno, corretta tenendo conto di inflazione e costo della vita). Fonte: Our World in Data.

    Negli ultimi anni, molti Stati africani hanno registrato altissimi tassi di crescita economica, tra i più alti al mondo. Se l’Africa cresce così tanto ma la popolazione anche così tanto povera, dove va a finire tutta questa ricchezza? Non serve chissà quale perspicacia per capire che esistono due processi paralleli e parzialmente sovrapposti: l’appropriazione neocoloniale e lo sfruttamento capitalistico.

    I dati mostrano che nell’ultimo decennio si è assistito a un aumento delle disuguaglianze economiche nella maggior parte dei paesi dell’Africa subsahariana, con una distribuzione della ricchezza che ha visto il 10% più ricco della popolazione concentrare nelle proprie mani quote sempre maggiori, e un 1% che da solo detiene fino al 36% della ricchezza (per informazione: in Niger detiene tra il 16% e il 19%).

    E questa è solo una parte della ricchezza non redistribuita: una grossa parte è direttamente spostata al di fuori dei confini seguendo schemi neocoloniali che tengono le popolazioni africane strette in una morsa micidiale.

    Imperialismi e rivoluzioni

    Ricapitolando: l’Africa produce sempre più ricchezza e ha un potenziale strategico sempre maggiore; questa ricchezza è sempre più concentrata nelle mani di pochi sia nei paesi africani che nelle potenze neocoloniali; e questo avviene nonostante l’espansione demografica, il che crea ulteriore “scarsità” per la popolazione povera a cui questa ricchezza viene sottratta.

    Questo scenario di “scarsità” delle risorse dovuto alla competizione di forze concorrenti, con aumento di violenza economica e politica intra- e interstatale a opera di attori istituzionali e non, è lo scenario che si prospetta a livello mondiale nel prossimo futuro, di cui la situazione in Africa e in particolare nel Sahel è un’anticipazione.

    Bisogna considerare un punto cruciale: la popolazione povera dell’Africa lavora per produrre tutta questa ricchezza. Sarebbe difficile che continuasse ancora a lungo a vedersi depredata, senza battere ciglio, della ricchezza che produce da parte di cricche locali in combutta coi padroni coloniali, di aziende multinazionali eredi indirette (e a volte dirette) dello schiavismo atlantico, di signori della guerra senza scrupoli.

    In questa prospettiva, molte delle forze citate sopra assumono una funzione storica precisa: quella di scongiurare la nascita di un movimento rivoluzionario che faccia seguito alle logiche rivendicazioni di redistribuzione della ricchezza, scardinando i principi chiave dell’appropriazione coloniale e dello sfruttamento capitalistico.

    L’uso del sentimento anti-francese da parte del blocco imperialista russo, appiattendo ogni narrazione su un piano geopolitico e “multipolare” in cui è naturale che i territori del mondo si dividano in sfere di influenza tra grandi potenze regionali, soffoca l’emergere potenziale di un blocco anticolonialista rivoluzionario. Per la Francia e il resto dell’Occidente, nonostante la competizione con la Russia in Africa sia un piatto indigesto, è comunque preferibile rispetto all’affermarsi di un movimento rivoluzionario, che avrebbe un potenziale di destabilizzazione del capitalismo mondiale molto più pericoloso dal punto di vista della borghesia in quanto arriverebbe a toccare la madrepatria coloniale.

    I movimenti rivoluzionari che lottarono per l’indipendenza nell’impero coloniale portoghese condussero alla fine della dittatura di Salazar: armandosi per la liberazione dei propri paesi, contribuirono alla liberazione del Portogallo dal fascismo. Le colonie italiane conobbero una dinamica simile: la prima Resistenza antifascista fu quella anticoloniale, condotta da Omar al-Mukhtar in Libia a partire dal 1923 e seguita da movimenti di guerriglia in Etiopia e Eritrea contro il colonialismo e l’occupazione da parte dell’Impero italiano.

    In quest’ottica, non sarebbe azzardato tracciare un parallelo tra la crescita del sentimento “anti-francese” nel Sahel e l’aumento della conflittualità politica in Francia, particolarmente elevata rispetto agli altri paesi europei nell’ultimo decennio, partendo dal movimento dei gilet gialli alle rivolte dello scorso giugno, passando per il movimento contro la riforma delle pensioni, accompagnati da una svolta autoritaria e repressiva dello Stato francese, che è oggi possibile includere nel club delle “democrazie illiberali”.

    Questa idea dell’imperialismo come argine alla rivoluzione non riguarda solo ciò che la Francia subisce in Africa occidentale, ma anche ciò che attivamente promuove. Come già ricordato, l’intervento francese nel Sahel e la conseguente militarizzazione del conflitto alimentano i gruppi armati conservatori e fondamentalisti: questi ultimi trovano nel sentimento anti-francese terreno fertile su cui far leva e incanalano in ribellioni e insurrezioni di carta tendenze che altrimenti potrebbero finire per organizzarsi politicamente colpendo il cuore del sistema economico.

    I vertici dello Stato francese ne sono coscienti, ma preferiscono questo scenario di morte e distruzione piuttosto che alleggerire la pressione della morsa del capitalismo neocolonialista: scelgono di impedire preventivamente la nascita di un movimento anticoloniale radicale, popolare e rivoluzionario. Sanno che arriverà un momento in cui coloro che da secoli producono ricchezza per il resto del mondo chiederanno inevitabilmente i conti.

    Repressione contro le proteste a Dakar, 3 giugno 2023.
  • Le lenti pervasive che non sai di avere: riflesso coloniale e guerra in Ucraina

    Esistono cose talmente normali da essere invisibili. Quando un valore è alla base stessa della società e ne struttura ogni aspetto, perché intrinsecamente integrato alla realtà sociale non solo ideologicamente, in quanto legato al pensiero comune e alla logica politica dominante, ma anche proprio materialmente, in quanto incorporato nei rapporti di forza presenti nella società e percepito da tutte o quasi tutte le sue componenti come naturale, allora ovviamente quel valore si fatica a vederlo e riconoscerlo. Proprio perché è ovunque: non è un particolare valore, è la normalità.

    Chi dalla nascita indossasse un paio di lenti rosse, incollate al viso senza possibilità di sfilarsele, avrebbe serie difficoltà a concepire un mondo non pervaso da una particolare sfumatura color sangue. L’Europa, e in particolare l’Europa occidentale, ha un problema: indossa da secoli un paio di lenti di cui non ha alcuna intenzione di sbarazzarsi e attraverso cui vede, interpreta, giudica, agisce. Queste lenti sono il riflesso coloniale. Non si tratta soltanto del retaggio ottocentesco di chi, sotto il peso del fardello dell’uomo bianco dell’opera di Kipling, cioè della presunta responsabilità storica e morale di “civilizzare” il resto del mondo, organizzava spedizioni militari con l’elmetto e la camicia color kaki; o di chi, rispettivamente nel 1896, 1899 e 1900, in divisa statunitense e britannica, inventava i campi di concentramento a Cuba, nelle Filippine e in Sudafrica, idea poi ripresa dai nazisti dopo decenni di rodaggio da parte delle potenze coloniali; si tratta anche di chi concepisce la storia come un percorso lineare e progressivo verso forme “più elevate” di organizzazione sociale (occorre dire che corrispondono al modello occidentale?); di chi crede che la democrazia e il sapere scientifico siano prodotti di una “cultura occidentale” che parte dalla civiltà greco-romana e prosegue verso l’Illuminismo passando per le “radici giudaico-cristiane” dell’Europa; di chi, con riflesso eurocentrico e orientalista consapevole o inconsapevole, ritiene la razionalità un carattere unico e distintivo del mondo occidentale moderno. Il riflesso coloniale è una questione di lettura di se e degli eventi del mondo, e il razzismo esplicito è solo un suo caso particolare.

    Restando in tema di lenti e di ottica, il riflesso coloniale è quindi uno spettro: si può scomporre come la luce che attraversando un prisma genera lo spettro dei colori da un unico fascio di luce bianca. Il riflesso coloniale si scompone in uno spettro che va dal razzismo genocidiario all’umanitarismo terzomondista e a un certo tipo di solidarietà. Sono colori diversi ma appartengono allo stesso fascio di luce.

    Nelle ultime settimane, parlando della guerra in Ucraina, il riflesso coloniale si è manifestato in diverse sue sfumature, nella lettura di diversi aspetti della situazione attuale: nella narrazione che viene fatta del popolo ucraino, nel trattamento della persone in fuga dalla guerra, nella demonizzazione di Vladimir Putin e il retroterra ideologico della politica delle sanzioni, infine nella narrazione di ciò che avviene in Russia sotto il fascismo putiniano.

    Civili cercano riparo sotto un ponte distrutto dai bombardamenti dell’aviazione russa, sul fiume Irpin (AP: Emilio Morenatti)

    La narrazione che vede il popolo ucraino solo come passivo

    Il riflesso coloniale è innanzitutto un atteggiamento collettivo. Tale atteggiamento riflette un ordine materiale costituito da ben precisi rapporti di forza che seguono la linea del colore, il regime della bianchezza; è anche allo stesso tempo prodotto e origine di precisi modelli di comportamento e di visione di sé che costituiscono il nocciolo psicologico del suprematismo bianco. Riflesso coloniale non è solo credere nella superiorità di chi è nato da questo lato delle frontiere del mondo, ma anche in quella del suo punto di vista: le altre prospettive sono viste come incomplete, ingenue, deviate, manovrate, parziali. Il punto di vista occidentale si spaccia invece per oggettività: è descrittivo e aderisce ai fatti, si basa su principi universali, valuta scientificamente il corso degli eventi.

    Questo atteggiamento si riscontra, in forma esplicita o velata, nella stragrande maggioranza delle persone, incluse quelle che, nel così detto Occidente, si reputano di sinistra, alcune delle quali nelle ultime settimane rischiano di rivelarsi i più fieri giustificazionisti dell’imperialismo russo: condannano l’aggressione ma con riserva, criticano aspramente qualunque ipotesi di aiuto logistico o militare alla popolazione ucraina aggredita, organizzano manifestazioni genericamente “contro la guerra” senza nominare chi la fa (nominando invece la NATO, unico vero nemico), sbandierano gli stessi argomenti addotti da Putin come giustificazione della guerra (la presenza del battaglione di Azov nell’esercito ucraino, le violenze nelle regioni russofone dell’Ucraina orientale, l’espansionismo della NATO; manca solo la corruzione morale dell’Ucraina governata da “gay, lesbiche e trotzkisti”, ma forse Marco Rizzo potrebbe essere d’accordo anche su quello).

    Praticamente tutti i sondaggi in Ucraina (senza eccezioni, almeno stando ai sondaggi pubblicati) mostrano che la maggioranza degli intervistati vorrebbe l’ingresso del paese nella NATO e auspicherebbero un intervento da parte della NATO in caso di invasione da parte della Russia? Dei sempliciotti, non sanno veramente cosa fanno. Certamente il giudizio di queste persone è manovrato dalla NATO, unico vero potere contro cui valga la pena lottare, cioè ovviamente quello designato, perché giustamente percepito come tale, da chi vive nei paesi “occidentali”. Guai a chiedersi il perché di questo interesse per l’ingresso in un’organizzazione militare internazionale espressione dell’imperialismo statunitense, oltre alla semplice manipolazione dell’opinione pubblica ucraina da parte della NATO espansionista e dei suoi servi: il punto di vista di quelle persone non si chiede nemmeno, e se lo si chiede non lo si ascolta, e se lo si ascolta non lo si prende molto seriamente. Perché esiste un solo punto di vista che sia veramente universale, che descrive la vera realtà dei fatti del mondo, e che dovrebbe essere una guida, una luce nella notte per tutte le pecorelle smarrite: il punto di vista di chi vive in un paese occidentale (e magari è anche bianco, maschio, eterosessuale, benestante e così via, ma meglio non aggiungere carne al fuoco) e che giustamente vede nella NATO la principale minaccia alla pace nel mondo. Chi ragiona così non riesce neanche a concepire che cercare un modo -un qualsiasi modo, anche disperato- di difendersi militarmente anche in maniera preventiva può essere una questione letteralmente di vita o di morte: per chi non ha il privilegio strutturale di vivere in un paese che non rischia di essere invaso dall’oggi al domani dalla superpotenza della regione, la priorità maggiore potrebbe essere difendersi dalla Russia, non dalla NATO.

    Lo striscione di Rifondazione Comunista in risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia

    Questa posizione non da ascolto alle persone direttamente coinvolte nel conflitto. Esse vengono schiacciate in un falso bipolarismo geopolitico che soffoca la voce di qualunque forma di vita irriducibile a una rappresentazione. L’incapacità di riconoscere la legittimità di chi si trova in posizione di potere strutturalmente sfavorevole e di ascoltarne seriamente la voce è una delle forme in cui si manifesta il riflesso coloniale. La solidarietà con una vittima è prima di tutto legittimare la sua versione dei fatti, non lasciarla sola, non parlare per suo conto a meno che ciò non sia espressamente richiesto: altrimenti, è sovradeterminazione. E la sovradeterminazione, compagne e compagni, è riflesso coloniale.

    Solidarietà con una persona vittima di discriminazione razzista o sessista significa rifiuto di argomentazioni sistematicamente addotte a difesa dell’aggressore che immancabilmente mettono in dubbio la parola della vittima (“bisogna approfondire”, “cosa ne sappiamo noi di come sono andate le cose”, “la questione è più complessa di quello che sembra”). Ciò non significa che la vittima ha sempre ragione, che la sua versione è sempre quella che corrisponde alla realtà scientifica oggettiva e misurabile dei fatti; ma il primo riflesso di una persona che si dichiari in solidarietà dovrebbe essere far sentire la vicinanza alla vittima, evitare di parlarle sopra o al posto suo, considerare e sostenere il suo punto di vista, anche avendo qualche dubbio. Pensate a come vi sentireste voi se foste vittime di violenza (di qualsiasi tipo) e qualcuno minimizzasse. La chiamereste solidarietà?

    La maggior parte delle piazze convocate dalla comunità ucraina in Italia contro l’invasione del 24 febbraio non hanno tra le parole d’ordine riferimenti alla NATO. Chi vuole partire dalla questione dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ed estendere la critica all’imperialismo in generale, e dunque anche quello statunitense o quelli europei, può farlo senza scavalcare la comunità con cui si sostiene di essere in solidarietà. Per esempio, può denunciare “ogni imperialismo”; invece, parificare il ruolo di Russia e NATO nell’invasione dell’Ucraina dichiarandosi “né con Putin né con la NATO” sarebbe come chiamare piazze in solidarietà col popolo palestinese con la parola d’ordine “né con Israele né con l’Iran”, solo perché l’Iran è nemico di Israele nello scacchiere geopolitico.

    Alcune persone oggi sono alle prese con questioni di vita o di morte. Se non vi piace esattamente il loro posizionamento politico e volete convincerle ad aderire al vostro, innanzitutto aiutatele a sopravvivere alle bombe. Nessuno nasce con la linea corretta impressa nel cervello. Date loro la solidarietà che meritano in quanto vittime di aggressione militare.

    Questo è un buon momento (l’ennesimo, a dire il vero) perché la sinistra occidentale ripensi il proprio approccio alle questioni di potere che coinvolgono persone o regioni del mondo che non godono degli stessi privilegi strutturali. Un buon inizio, adesso, sarebbe smettere di considerare gli oltre 40 milioni di persone in Ucraina come dei sempliciotti senza chiavi di lettura per comprendere a fondo la realtà del proprio paese e incapaci di compiere scelte politiche consapevoli. Continuare a fare questo, come sottolineato da un anarchico in Gran Bretagna, di origine polacca, sarebbe westplaining. Ovvero, un atteggiamento tipico del riflesso coloniale. A conferma di ciò, non è un caso che le letture più lucide sulla questione, fuori dall’Ucraina, si manifestino nelle parole del comunicato del movimento zapatista, che di colonialismo sa qualcosa, e di quello dei rivoluzionari siriani in esilio in Francia, che hanno subito le conseguenze della stessa incomprensione e arroganza da parte della sinistra occidentale quando l’assassino era Assad. In queste letture, il primo punto è: ascolta le voci di coloro che sono stati immediatamente colpiti dagli eventi.

    Due pesi, due misure: il colore di chi fugge

    “So cosa vuol dire dover lasciare la propria casa, la propria famiglia, per fuggire dalla guerra, e voglio aiutare chi, adesso, sta vivendo questo in Ucraina. Ma voglio anche sapere perché noi in fuga non dall’Europa abbiamo dovuto morire di freddo nella foresta. […] Com’è possibile che a una frontiera si picchia la gente e all’altra si offrono zuppa e biscotti? Non è forse razzismo?”. Queste le parole di Ibrahim, che ha vissuto il razzismo delle politiche migratorie europee al confine tra Polonia e Bielorussia, dove da mesi migliaia di persone sono bloccate senza via d’uscita, rifiutate dalla polizia bielorussa e respinte dalle guardie di confine polacche, con cui collaborano gruppi di neonazisti armati a caccia di stranieri.

    Una giornata come tutte le altre al confine tra Polonia e Bielorussia (immagine Reuters). The Guardian pubblica questa immagine in un articolo che da a Bielorussia e Russia la colpa per il trattamento disumano di queste persone da parte della Polonia.

    Le frontiere sono state subito aperte e l’accoglienza nei paesi dell’Unione Europea subito garantita alle persone provenienti dall’Ucraina, ma non è riservato a tutte lo stesso trattamento: fin dall’inizio della fuga, centinaia di persone afrodiscendenti hanno raccontato che dopo aver vissuto la difficoltà ad accedere ai treni speciali organizzati in Ucraina per l’evacuazione dei civili, in cui era regola la precedenza a “donne e bambini” bianchi, seguiti da uomini bianchi e solo infine da donne e bambini non bianchi, è stato ostacolato loro in ogni modo l’ingresso in Polonia, accompagnando tutto questo ancora una volta a una separazione fisica da tutte le altre persone e aggiungendo la minaccia di sparare, in una pratica che è letteralmente politica di apartheid (nazista, sudafricano, o statunitense degli anni Sessanta?).

    Chi ha continuato a viaggiare verso ovest ha visto la polizia tedesca alla frontiera tra Polonia e Germania bloccare tutti i treni, salire e letteralmente chiedere alle persone nere di scendere dal treno. La richiesta è stata motivata dalla necessità di controllare gli ingressi di persone di nazionalità diversa da quella ucraina, ma la spiegazione non regge: se fosse stata una questione di nazionalità, la polizia avrebbe parlato di nazionalità, non di colore della pelle.

    In questo caso, il riflesso coloniale è evidente e si esprime nella sua forma più conosciuta e spettacolarizzata: il razzismo vecchio stile, quello basato sull’aspetto fisico. Lo stesso razzismo è all’origine dei commenti sgomenti che hanno popolato fin da subito la descrizione del teatro di guerra ucraino: “questo non è un paese del terzo mondo, ma un paese europeo civilizzato”, “sto vedendo morire ammazzati bambini con gli occhi azzurri”, “stiamo parlando di persone che fanno una vita simile alla nostra, lasciano una casa con la TV e scappano in auto”, il repertorio potrebbe continuare a lungo e molte di queste frasi sono state pronunciate da giornalisti in diretta televisiva, dando a intendere neanche troppo velatamente che la guerra in un paese non civilizzato (qualunque cosa significhi), la morte di bambini dagli occhi neri e la tragedia di lasciare la propria casa senza possedere un televisore sarebbero meno toccanti.

    Un’infelice dichiarazione di Riccardo Chiaberge, giornalista e inspiegabilmente direttore scientifico per l’Enciclopedia Treccani, spiega il perché di tale differenza di trattamento: “Hanno più o meno le nostre abitudini di vita, la TV il frigorifero l’auto il fast food, quindi facciamo meno fatica a immedesimarci. Chi di voi riesce a immedesimarsi in un bambino yemenita? Giusto provarci, ma non è facile” (il tweet è poi stato rimosso, ma era così).

    Sana’a, capitale dello Yemen. Come vedete, zero automobili.

    A chi dice che questa particolare simpatia per chi fugge dalla guerra in Ucraina è dovuta al fatto che “l’Ucraina è più vicina”, andrebbe fatto notare che l’est dell’Ucraina non è più vicino di quanto lo sia la Siria (paese di provenienza di milioni di rifugiati dal 2011, trattati come bestiame dall’Unione Europea e da paesi compiacenti, come la Turchia, pagati dall’Unione Europea in miliardi di euro). Per non parlare della Libia, che dalle coste italiane dista qualche centinaio di chilometri ma da cui si fa di tutto per limitare gli arrivi e a cui si finanzia, invece, la costruzione di lager per contenere i flussi migratori mentre le guardie libiche abbandonano la gente nel deserto senz’acqua. Se poi qualcuno si affrettasse a correggere il tiro precisando che l’empatia per chi fugge dalla guerra in Ucraina è dovuta al fatto che l’Ucraina è “vicina” ma non in senso geografico, si potrebbe obiettare che anche per la Siria sulle pagine di alcuni giornali a tiratura nazionale (come Il Fatto Quotidiano, Famiglia Cristiana o La Repubblica) si era evocata una “terza guerra mondiale” che potrebbe coinvolgere i paesi europei, senza per questo suscitare tale moto di empatia e solidarietà. Chiaramente il distinguo non è dovuto a quel rischio, ma piuttosto all’eurocentrismo e al razzismo di chi è capace di solidarizzare solo con chi scappa da un paese che nella gerarchia razziale globale occupa una posizione relativamente elevata, o perlomeno sufficiente per meritarsi sincera solidarietà. La Danimarca, che dal 2016 confisca i beni dei rifugiati afgani e siriani oltre una certa soglia di ricchezza, ha annunciato che non applicherà questa odiosa legge razzista sui rifugiati ucraini (a conferma del fatto che si tratta di una legge scritta con intenti razzisti).

    Due pesi, due misure. Nelle piazze solidali con l’Ucraina si trovano bellissime parole sull’accoglienza di chi fugge dalla violenza e dalla morte, ma è molto difficile trovare riferimenti alla totale assenza di solidarietà dell’Unione Europea ai propri confini nei confronti di praticamente tutte le persone diverse da quelle provenienti dall’Ucraina (e con gli occhi azzurri). Nessun accenno al fatto che quell’avamposto dei sacri e tanto sventolati valori dell’Unione Europea che è la Polonia sta costruendo un muro anti-migranti alto più di 5 metri, dotato di telecamere, sensori termici e filo spinato al confine bielorusso, mentre impedisce selettivamente il passaggio delle persone non bianche in fuga al confine ucraino. Nel frattempo, media vicini ai paesi del patto di Visegrad dichiarano (per poi eliminare le dichiarazioni) che “gli africani in Ucraina non dovrebbero scappare, ma restare a combattere” contro l’esercito russo, come carne da macello.

    In Italia, quando Salvini ha detto che “l’Italia ha il dovere di spalancare le porte a chi scappa” perché “questi profughi sono veri e scappano da guerre vere” è veramente incredibile che a nessuno sia venuta voglia di insorgere contro la Lega; al contrario, seppure la cosa ha stupito alcuni giornalisti, questi hanno continuato a porgergli il microfono. Per quanto se ne sa, assolutamente nessuno di loro, né nessuna tra le figure politiche di rilevanza nazionale, ha reagito accusandolo di razzismo. Lo stesso vale per la vicenda di Salvini a Przemysl, in Polonia, dove è stato contestato dal sindaco in persona (di estrema destra pure lui) che si è rifiutato di rivolgergli la parola per le sue precedenti simpatie per Putin: parte del giornalismo italiano ha riportato la notizia sogghignando, ma avrebbe difficoltà a spiegare il fatto che molto spesso, invece di fare lo stesso e umiliare Salvini per le vergognose posizioni razziste, lo si intervista senza battere ciglio, lo si invita ai salotti televisivi, non gli si ribatte mai. La legittimazione che il giornalismo italiano offre a Salvini ogni giorno lo rende razzista tanto quanto Salvini: chi non lo umilia quando può è complice, perché non è antirazzista, ma solo antisalviniano, una posizione interna al campo razzista.

    Se l’avere a che fare così intensamente ed emotivamente con la questione delle frontiere non apre alcun dibattito sulla natura e la gestione generale delle frontiere; se le dichiarazioni razziste di un noto esponente politico non suscitano accuse di razzismo, ciò non può essere per caso. In psicologia, si dice che è un rimosso. Come il rimosso coloniale.

    La demonizzazione di Putin per difendere l’Europa

    La più grande manifestazione contro la guerra in Ucraina è stata quella di Berlino del 27 febbraio, partecipata da circa mezzo milione di persone. Difficile fare una statistica, ma la stragrande maggioranza dei cartelloni e degli slogan di quella manifestazione parlavano di Putin. Molti lo accostavano alla figura di Hitler. Esistono qui due problemi: il primo è la personalizzazione, il secondo la demonizzazione.

    Manifestazione contro la guerra in Ucraina, Berlino, 27 febbraio 2022

    Chiaramente, in questo contesto specifico, Putin è il volto dato a una forma di fascismo che si afferma tramite una politica di aggressione imperialista. Tuttavia, nonostante i numerosi accostamenti a Hitler, il fascismo non è quasi mai nominato (e ancor meno lo è l’imperialismo). Il motivo è abbastanza facile da intuire: riconoscere il fascismo di Putin e nominarlo per ciò che è significherebbe dover fare i conti con i vari fascismi nei paesi europei e dei paesi europei – che guardacaso sono stati o sono tuttoggi molto vicini a Putin, finanziariamente e politicamente. Cosa si può fare, da questo lato del continente, per solidarizzare con chi subisce l’aggressione e contrastare il potere fascista imperialista della Russia di Putin? Gli slogan contro Putin sono facili (del resto, anche il nome si presta a una miriade di giochi di parole almeno in tutte le lingue romanze), ma dove sono gli slogan contro gli amici di Putin? Il primo è lontano, ma i secondi sono spesso letteralmente sotto casa, o sui santini elettorali, se non tra gli scranni del Parlamento. Governi, capitalisti, istituzioni europee che con Putin e la sua cricca fanno affari da decenni. A loro, come ricordato nella parte precedente, si porge il microfono.

    Concentrarsi su Putin anziché su ciò che Putin rappresenta permette quindi di distogliere in generale l’attenzione dall’Europa, che ne esce candida e pulita: tutta la colpa è della Russia di Putin. Si badi bene che questa analisi non è in contraddizione con quanto detto sopra riguardo alla NATO. Se la colpa non è tutta della Russia, si potrebbe rispondere, allora non avrà colpe anche della NATO? La risposta -non ironica- è sì: la NATO ha sempre colpe. Tuttavia, anche parlare delle colpe della NATO significa puntare il dito su qualcosa di relativamente lontano: gli Stati Uniti (non ci si prenda in giro dicendo che l’Italia fa parte della NATO: è ovvio, ma non è questo il punto, visto che negli ambienti dell’anti-atlantismo non si fa altro che dire che essere parte della NATO rende i paesi membri burattini servi dell’imperialismo statunitense). Il risultato di questa operazione è molto simile: difende l’immagine dell’Europa. Chi, dall’alto del privilegio europeo, si preoccupa di difendere l’Europa, sta adottando un riflesso coloniale.

    Vi è poi la questione della demonizzazione. Non è un caso l’accostamento a Hitler, e non è un caso il fatto che tale accostamento anziché richiamare il fascismo ne allontani lo spettro: Hitler, e in generale il nazismo, è stato presentato come male assoluto da più di mezzo secolo di propaganda. Hitler era un folle, uno psicopatico, un demone. Non un fascista che agiva guidato precisamente dai propri principi politici. Nelle ultime settimane hanno abbondato analisi del personaggio Vladimir Putin, ipotesi sul suo profilo psicologico, riferimenti al suo essere folle, paranoico, psicopatico, narcisista, tra le altre cose (si cerchi su un qualcunque motore di ricerca “profilo psicologico Putin”).

    Si noti che, evidentemente, anche questa operazione difende l’immagine di un’Europa seria, saggia, composta, ragionevole, assennata, al contrario del folle Putin. Migliaia di utenti di Twitter capaci di prendere le difese dei manifestanti che nelle maggiori città della Russia hanno protestato contro la guerra in Ucraina, sarebbero pronti a chiedere l’arresto indiscriminato di migliaia di persone nelle manifestazioni che in Europa dissentono da scelte compiute da governi europei. Se Putin non è umano ma un demone, un qualcosa di ontologicamente diverso da Macron o Draghi, allora protestare contro Putin è accettabile e addirittura auspicabile, ma i movimenti che mettono in questione il potere in Europa occidentale sono teppisti, violenti, inaccettabile sfida al sistema democratico. I gilet gialli che dal 2018 protestano contro il ragionevole e assennato Macron sono degli incivili e dunque si sono meritati di essere arrestati e condannati a migliaia (oltre 12 mila), di essere repressi nel sangue (4500 feriti), accecati e mutilati dalla polizia (decine di vittime). Essere contro Putin va bene, ma mai e poi mai mettere in questione i governi “buoni”.

    Ricapitolando, i “due minuti d’odio” contro Putin sono giustissimi, ma bisognerebbe ricordare che in1984 di George Orwell i due minuti d’odio erano un dispositivo di costruzione del consenso. Che consenso si sta costruendo contro Putin se non quello intorno all’idea di un Occidente, in particolare un’Europa, ragionevole e razionale? E l’idea che l’Occidente sia ragionevole e razionale in contrapposizione alla Russia (fatta ovviamente coincidere con Putin – si veda di seguito) e magari a tutto il resto del mondo, cos’è se non riflesso coloniale?

    Manifestazione a Monaco: contro Putin ma non contro il fascismo?

    Il dissenso oscurato dalla narrazione geopolitica

    Un caso particolare del riflesso coloniale si trova infine nella narrazione di quanto avviene in Russia e Bielorussia, che vengono concepite e raccontate come blocchi monolitici, sovrapponendo governo e paese governato. Questa è una tendenza tipica delle letture puramente geopolitiche, che schiacciano ogni altro conflitto su quello tra potenze regionali o mondiali, ignorando la diversità di interessi interni a ogni singolo paese e le forze e i conflitti che ne scaturiscono. Nelle letture puramente geopolitiche, esistono la Russia, la Francia, la Turchia, ciascuna coi propri interessi da difendere, ma non le singole persone: gli interessi delle singole persone (o gruppi di persone) saranno sempre schiacciati da quelli delle entità geopolitiche, le uniche che scrivono veramente la storia, con cui si dovranno sempre misurare: alla Russia conviene invadere l’Ucraina, la Francia fa la Rivoluzione francese, la Turchia è contro la Grecia. Come nel gioco del Risiko.

    Inutile dire che, solitamente, chi adotta questo approccio e promuove questa visione è ben cosciente dei propri interessi particolari e della diversità di interessi e variegate posizioni politiche interne al proprio paese. Questa diversità, tuttavia, sembra sparire quando si parla di paesi altri: l’Altro è sempre indistinto, una rappresentazione astratta fatta di preconcetti e stereotipi, e non lo si conosce mai veramente, perché non è mai concepito in quanto individuo. E questa idea, a questo punto lo si sarà già capito, è riflesso coloniale. Si tratta letteralmente del mondo in cui l’Europa coloniale ha rappresentato e rappresenta i popoli nativi di ogni angolo del globo.

    Questa concezione sta dietro alla narrazione del tipo “noi contro loro” ampiamente adottata dai media occidentali (e certamente, in maniera speculare, anche da quelli russi), che da un lato ignora o depotenzia il dissenso in Russia e Bielorussia – così come fa con il filoputinismo in Europa costituito da gran parte dell’estrema destra e, involontariamente o meno, da parte della sinistra -, dall’altro alimenta il sentimento anti-russo a sostegno della politica di sanzioni abbracciata dai governi e le istituzioni occidentali. Allora fioccano – parallelamente alle sanzioni dirette contro “gli oligarchi”, cioè i capitalisti di nazionalità russa – le misure volte a discriminare le persone di nazionalità russa in quanto tali: studenti, attrici, atleti, ricercatrici. Sarebbero “loro” – questa entità indistinta – a sostenere il regime di Putin: avere la nazionalità russa equivale ad essere complice del governo russo, cioè contro di “noi”.

    L’opposizione di blocchi monolitici, cornice di lettura della realtà già ampiamente rodata nella retorica dello “scontro di civiltà” tra Occidente e Islam, non è una grossolana semplificazione: è una falsità. Basta parlare con le persone, ascoltare le loro storie e quelle delle loro famiglie. Gli esseri umani soffrono, partono, si innamorano, migrano, lottano, vivono spesso e volentieri contro le istituzioni di potere che controllano il territorio in cui sono nati, dalla notte dei tempi e in ogni angolo del mondo. La realtà pullula di esempi, è davvero improbabile non averne conosciuti anche da molto vicino. La facile accettazione della falsità che nega questi esempi è resa possibile dalla capillare diffusione nella società di una precisa ideologia, quella dello Stato-nazione, secondo cui nascere in un certo territorio è ragione sufficiente per finire sotto la tutela dello Stato che lo controlla e si dovrebbe poter trarre una qualche conclusione su di una persona esclusivamente dal fatto che è sotto tale tutela – il più delle volte per caso. Se si accetta questo meccanismo come “normale”, si percepiranno come “eccezioni” tutti gli innumerevoli esempi contrari, per quanto innumerevoli possano essere.

    “No alla guerra, libertà per i prigionieri politici”, Mosca (Evgenia Novozhenina/Reuters)

    Il dibattito è intossicato dal concetto insensato dello Stato-nazione a tal punto che pare impossibile immaginarsi altro, ragionare fuori da quella logica. Quasi nessun è capace di pensare al di fuori del prendere posizione come Stato, come se ciascun individuo fosse sovrapponibile, nelle sue scelte, a quelle dello Stato sul cui territorio si trova a vivere, o addirittura della cui nazionalità si trova, non per scelta, ad avere. Da qui i dibattiti poco entusiasmanti, tutti rigorosamente in prima persona plurale, su “cosa dovremmo fare”, che posizione “dovremmo avere”, che segnale “dovremmo mandare” in quanto Italia. L’Italia, in quanto Stato-nazione, non è meglio della Russia, e non si capisce per quale motivo chi ha a cuore i valori della solidarietà dovrebbe farvi affidamento.

    La narrazione “noi contro loro” non è che un diversivo e l’obiettivo è sempre lo stesso: fare apparire l’Occidente molto più diverso dalla Russia di quanto non sia. Mentre un ballerino russo o una ricercatrice russa non possono più lavorare perché fino a prova contraria sostengono la guerra voluta da Putin, al sottoscritto, di nazionalità italiana, nessuno ha mai chiesto di dissociarsi dalla guerra ai flussi migratori fatta di politiche omicide attuata dallo Stato italiano. In entrambi i casi, si tratta sempre di migliaia di persone che muoiono per precise scelte governative. Anche in questo caso, due pesi e due misure.

    E pensare che si potrebbero colpire specificamente gli interessi di Putin e dei suoi amici, ma non lo si fa perché salterebbe fuori che sono gli stessi interessi dei bravi capitalisti occidentali, che fanno parte della stessa cricca in un sistema di alleanze incrociate solo un po’ meno contorto di quello che unisce l’Occidente al terrorismo dell’ISIS.

    A dimostrazione di ciò, ai governi occidentali non sembrano essere piaciute le “sanzioni dal basso” messe in pratica da connazionali. A Biarritz due persone hanno fatto irruzione nella villa del genero di Putin, Kirill Shamalov, cambiato le serrature e invitato i rifugiati dall’Ucraina, per essere poi entrambi prontamente arrestati; a Colonia gli edifici di proprietà dello Stato russo occupati da un gruppo anti-militarista per dare alloggio a persone straniere e senzatetto sono a rischio di espulsione; a Londra il collettivo di occupanti della mega-proprietà del miliardario russo Oleg Deripaska, in Belgrave Square, è stato espulso manu militari quasi immediatamente, subendo quattro arresti. (Per chi avesse voglia di allungare la lista, qui si può trovare qualche idea). Tra gli “oligarchi russi” e chi sequestra dal basso le loro ricchezze in solidarietà col popolo ucraino aggredito, i secondi subiscono la repressione armata da parte dei governi “occidentali” a parole favorevoli alle sanzioni: gli stati “occidentali” proteggono con le armi le proprietà degli oligarchi russi, perché prima che russi sono miliardari, proprio come i miliardari occidentali, con cui condividono, fatta eccezione per brevi momenti storici, la gran parte degli interessi. Queste “sanzioni dal basso” hanno suscitato una certa simpatia e incontrato un certo favore presso l’opinione pubblica, perché dirette contro chi finanzia violenze imperialiste. E se qualcuno occupa la proprietà di un miliardario occidentale, non è la stessa cosa? Del resto, è veramente improbabile che un miliardario non abbia mai finanziato direttamente o indirettamente alcun progetto imperialista, inclusa la vendita di armi alla Russia, a ricordare ancora una volta il sistema di alleanze incrociate dissimulato dalla falsa narrazione del “noi contro loro”.

    Video dell’operazione della polizia anti-sommossa britannica in difesa degli interessi dell’oligarca russo Oleg Deripaska tanto odiato dal governo

    E si pensi a quanto accaduto sui treni tedeschi, al muro della Polonia, ai rimpatri forzati, ai barconi nel Mediterraneo: le politiche di muri, respingimenti, prigioni, esclusioni sono la norma della gestione dei flussi migratori a livello sovranazionale. In generale questo accade lungo tutte le migliaia di chilometri di frontiera della così detta Fortezza Europa: discriminazione, disumanizzazione, migliaia di persone annegate, assiderate, soffocate ogni anno. Non per incidenti ineluttabili, ma per deliberate scelte politiche. Dal punto di vista di quelle persone, nella loro esperienza materiale, le istituzioni europee non sono meno fasciste del regime di Putin.

    Ogni volta che si usa la prima persona plurale parlando di geopolitica, o più banalmente in qualunque discorso in cui si faccia cenno ad altri paesi; ogni volta che si traggono conclusioni su una persona basandosi solo sulla sua nazionalità; ogni volta che si identifica un governo col paese che governa, si conferma e si alimenta l’ideologia dello Stato-nazione alla base della guerra. Ideologia che, col corrispondente riflesso nazionalista, appare a troppe persone del tutto normale, proprio come il colonialismo e il riflesso coloniale, perché struttura intimamente la società e ne pervade ogni aspetto. Sarebbe ora di abbandonare entrambi questi riflessi prima che sia troppo tardi. Anzi, è già tardi, di qualche secolo.

    “Se ho un messaggio da dare, è che il mondo non è diviso in paesi. Il mondo non è diviso tra Est e Ovest. Voi siete americani, io sono iraniana, non ci conosciamo, ma comunichiamo tra noi e ci capiamo perfettamente. La differenza tra voi e il vostro governo è molto più grande della differenza tra voi e me; la differenza tra me e il mio governo è molto più grande della differenza tra me e voi; e i nostri governi sono molto simili” Marjane Satrapi