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  • Perché Facebook chiude

    Forse non tutti sanno che a questo sito è associata un’omonima pagina sul colosso blu, la rete sociale più diffusa nei paesi del mondo occidentale. La funzione di questo comunicato è informare che, salvo colpi di scena repentini o efficaci opere di convincimento, tale pagina si avvia alla chiusura.
    Tuttavia, per chiarezza, trasparenza e un po’ anche per rispetto verso chi l’ha seguita, in maniera attiva, con vivo interesse e sincero supporto oppure più passivamente, ma con altrettanto interesse, è opportuno ricostruire il percorso che porta alla decisione drastica di chiudere un possibile spazio di confronto e condivisione tra le maglie di quella rete che è Facebook, tanto più se ciò fornisce l’opportunità di esternare alcune riflessioni sul ruolo che Facebook svolge nell’organizzazione della vita personale, sociale e politica (l’esigenza di ripercorrere la storia per comprendere il presente è proprio quello che intendeva suggerire Friedric Jameson con la celebre raccomandazione: «storicizzare sempre!»).

    Alla cortese attenzione di lettori e lettrici

    primo post
    Il primo post della pagina Facebook “Reo tempo”, quando ancora si chiamava “Cultura Libertà”.

    Questa pagina si è presentata fin dal primo giorno (era il 5 ottobre 2012, ma il primo post risale all’8 ottobre) come un esperimento. La sua inaugurazione seguiva di quasi un anno la pubblicazione di una trilogia di post (qui, qui e qui) dedicata all’analisi di Facebook come strumento di controllo sociale e come struttura totalizzante e alienante, con accenni indiretti alla filosofia anarcocapitalista che lo sostiene dal punto di vista economico e politico.

    Dato che la posizione rispetto a quello strumento era netta e di forte critica dalle pagine di questo blog (che all’epoca portava il nome di Cultura! Libertà!), l’apertura della pagina suscitò ilarità, non senza qualche bonaria disapprovazione. Per rimediare, il campo “informazioni relative alla pagina” fu aggiornato per spiegare che «questo è un esperimento» e che l’obiettivo posto era quello di «fare rete, costruire una comunità intorno alle discussioni sui temi proposti, liberare con il sapere critico i fatti e le idee che li imbrigliano». Era un tentativo, quindi, di fare breccia nelle maglie del gigante scardinandone la logica assoggettante, il ruolo sociale e la struttura che, come riportato all’inizio della presentazione, «lo rendono un mezzo intrinsecamente inadatto alla costruzione critica del sapere». A diciotto mesi di distanza è possibile affermare che l’esperimento non è riuscito, per mancato raggiungimento degli obiettivi e per alcune esternalità negative che ha collateralmente prodotto, discusse in seguito.

    Dati alla mano, l’incremento di interazioni di stampo tipicamente facebookiano (condivisioni “pure” e “mi piace”) non ha prodotto un parallelo incremento di interazioni più adatte alla liberazione di quel «sapere critico», come potrebbero essere i commenti (con i dovuti accorgimenti sulla reale funzione di indicatore di partecipazione costruttiva). Dopo un fisiologico boom iniziale, durato qualche giorno, la pagina ha visto un calo di visite e di partecipazione talmente brusco da portare a chiedersi, già dopo appena una settimana, se avesse senso continuare a tenerla in vita. Lo stesso dubbio si ripresentò dopo poco più di tre mesi dall’inaugurazione della pagina. Una settimana o tre mesi sono effettivamente periodi di breve durata, specialmente se si tratta del raggiungimento di propositi tanto ambiziosi.

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    Per ovviare a tale problema, in perfetto stile riformista l’obiettivo a lungo termine fu momentaneamente abbandonato per insistere su una serie di strategie il cui scopo sarebbe stato aumentare il livello di partecipazione a carattere propriamente facebookiano (numero di “mi piace” ricevuti dalla pagina, numero di “mi piace” o condivisioni dei singoli post) ovvero irrilevanti per l’obiettivo a lungo termine, nella speranza che l’incremento della platea avrebbe prodotto in seguito, per semplici motivi statistici, un incremento di partecipazione attiva, di elaborazione e condivisione di idee, di discussione critica.

    Così cominciò il periodo delle citazioni, con ritmi di diverse al giorno, in modo da saturare il traffico diretto alla pagina senza renderla produttore indesiderato di informazioni e notifiche. Molte citazioni piacevano (o meglio, erano “mipiaciute”) ed erano condivise, portando di tanto in tanto manciate di nuovi lettori che, cliccando “mi piace” sulla pagina, decidevano di tenersi aggiornati.

    Tuttavia, seppure l’obiettivo ultimo fosse temporaneamente passato in secondo piano rispetto alle incombenze presenti, rimaneva comunque chiaro che non era una pagina di citazioni che si voleva costruire. Alle citazioni si sostituirono piccole rassegne stampa selettive accompagnate da commenti critici che permettessero di mettere in luce particolari aspetti generalmente trascurati da chi legge una notizia. Il numero di “mi piace” cresceva lentamente ma costantemente, ogni nuovo lettore era terra conquistata.

    Fin qui il racconto mette in luce una cosa interessante: che per vivere e prosperare dentro una struttura non puoi che essere riformista. Anche ad un livello così banale, poco serio e stupido (ma ditelo a chi ci guadagna miliardi) come Facebook, la volontà di crescere al suo interno ha comportato inevitabilmente la rinuncia ad obiettivi primari, trasformandoli in obiettivi “a lungo termine”, e la loro sostituzione con obiettivi immediati che siano conformi alla struttura generale del dispositivo. Inoltre, e ho volontariamente marcato questo anche nel linguaggio dei precedenti paragrafi, con la concezione della pagina Facebook è cambiato anche il modo di gestirla: i contenuti del “produttore di informazioni e notifiche” che è la pagina sono stati rivolti ad una “platea” per aumentare il “traffico”. C’è stato uno spostamento, almeno inizialmente non conscio, dalla riflessione allo spettacolo, dal pensiero all’intrattenimento, dalla partecipazione attiva all’assorbimento passivo. C’è stato uno scivolamento pericoloso dal dissenso al consumo di dissenso.

    La quantità di contenuti, in virtù della necessità di tenere alto il traffico nella speranza di accrescere il pubblico di lettori (diventati spettatori), è stata spesso mantenuta artificialmente alta attraverso la pubblicazione di immagini, grafici e articoli, e le analisi più o meno approfondite che inizialmente li accompagnavano si sono sempre più ridotte fino a diventare brevi commenti o addirittura sparire del tutto, perché la mancanza di partecipazione critica non invita alla produzione di analisi. Questo ha trasformato la pagina in poco più che un aggregatore di notizie, lontanissimo da ciò che inizialmente ambiva ad essere.

    In aggiunta a questi problemi tutti interni alla struttura del dispositivo, si può menzionare almeno un’esternalità negativa. Il tempo e le energie spesi nella gestione della pagina Facebook dedicata al blog hanno paradossalmente provocato un calo di attività sul blog stesso. Ciò può essere ricondotto ad almeno due ragioni a cui qui e ora si farà riferimento come “spostamento del baricentro” e “canalizzazione alternativa”.

    Lo spostamento del baricentro è il cambiamento dello spazio di aggregazione dei lettori: se il fulcro dell’attività di dibattito tra i lettori prima era il blog, ora tale ruolo (seppur in un’altra forma, non di dibattito ma di notifica) è stato assunto indubitabilmente dalla pagina Facebook. Nei primi tempi ogni post era accompagnato dall’invito a commentare, eventualmente, sul blog (abitudine persa quando è stato evidente dai dati che un numero infimo di visite al blog proveniva dalla pagina Facebook producendo commenti in calce ai post sul blog) e tuttora la presentazione recita «non sarà esattamente un trasloco: semplicemente, gli articoli verranno inseriti anche in questa pagina, contestualmente alla loro pubblicazione, ma mantenendo una propria esistenza a prescindere da Facebook». Dal punto di vista informatico è ancora così, ma ciò che socialmente è avvenuto è un chiaro spostamento.

    Per canalizzazione alternativa si intende qui la tendenza ad investire tempo ed energie per la gestione della pagina Facebook sottraendone alla gestione del blog (con conseguente dirottamento anche degli obiettivi). Pare che questo fenomeno abbia un carattere generale: dove si assiste ad una crescita nell’uso dei social network, si osserva anche un calo nell’attività dei blog. Il motivo è semplice: i social network semplicemente distraggono.

    Queste due ragioni si alimentano reciprocamente: se il fulcro dei lettori si sposta contribuendo alla canalizzazione alternativa delle energie e della creatività, chi scrive avrà sempre meno motivi (meno commenti, meno dibattiti, meno stimoli e spunti di riflessione) per occuparsi di un fulcro abbandonato, e ciò costituirà per i lettori un motivo in più per abbandonarlo del tutto.

    Alla fine di questa lunga riflessione, ci si potrebe chiedere se non sia forse io, in realtà, semplicemente incapace di gestire questo particolare canale di espressione, questo potenziale veicolo di pensiero critico che è Facebook, e se non proietti forse la mia incapacità su Facebook accusandolo ingiustamente.

    Non è ovviamente da escludere, ma per il momento la mia opinione resta quella di tre anni fa: la natura di Facebook è alienante, totalizzante, antirivoluzionaria (non è questo il momento di spiegare in dettaglio ogni singolo attributo), la sua struttura è strumento di inevitabile controllo e di possibile repressione, rimane «un mezzo intrinsecamente inadatto alla costruzione critica del sapere».

    In che modo un “mi piace” apre la mente, produce e libera sapere critico?
    Chiudo questa pagina Facebook perché Facebook chiude.

  • Un marchio a 5 stelle [2]

    Articoli correlati: Sono stato grillino anch’io, Vuoti da riempire

    Qui la prima parte e la parte introduttiva.

    Il marchio Beppe Grillo. Perché questa divagazione apparentemente fuori luogo (vedi prima parte)? Torniamo al blog di Beppe Grillo. Il primo magazine solo online. Questa frase è sostanzialmente un messaggio pubblicitario, e in quanto pubblicità contiene una certa dose di menzogna: chiunque può verificare che i magazine online, o webzine, esistevano già anni prima della data di apertura del blog (26 gennaio 2005), e se non si è convinti si può chiedere a David Talbot.

    Se accanto al titolo, dunque in una posizione ad alta visibilità, è collocato un messaggio del genere, ciò è dovuto alla sua natura e funzione: la promozione pubblicitaria. Beppe Grillo è un brand. Ha un logo (il simbolo del M5S e il meno noto suo volto stilizzato in bianco e nero), un CEO (Gianroberto Casaleggio), una società di marketing (Casaleggio Associati), uno spazio di promozione e di vendita (il blog), un mercato di consumatori “fedeli” (i simpatizzanti). Qual è il valore aggiuntivo che il marchio Beppe Grillo conferisce ai prodotti? Un’analisi del capitalismo etico, cioè del «godere della privazione del nostro denaro a fin di bene», azzarda alcune ipotesi plausibili: il marchio Beppe Grillo si basa su surplus del nuovo, surplus del vero, surplus del popolo (vedi). La dicitura del titolo, per esempio, contiene il surplus del nuovo: il blog è stato «il primo».

    Vignetta di Quink

    La descrizione del blog di Grillo come fenomeno di strategia pubblicitaria non è una novità: due anni fa l’inchiesta Grillo e il suo spin doctor: la Casaleggio Associati (su Micromega, qui) faceva luce sulla gestione del blog come struttura commerciale appendice del mercato azionario. Tra i contatti aziendali della Casaleggio Associati, figurano personalità di spicco del mondo imprenditoriale italiano e statunitense. Nello spirito dell’azienda, la rete è uno strumento importantissimo di marketing virale che sfrutta la non-orizzontalità della trasmissione dei messaggi: Casaleggio è un teorico e uno dei guru delle nuove frontiere del marketing digitale ed è ben conscio del fatto che «online il 90 per cento dei contenuti è creato dal 10 per cento degli utenti: queste persone sono gli influencer» (alla faccia di ‘“uno vale uno”…). Le strategie usate sono tipiche del guerrilla advertising di scuola americana: teasing (il blog, le inserzioni a pagamento sui quotidiani); guerrilla (meetup, V-day); consolidating (liste civiche col bollino blu, Movimento di liberazione nazionale poi Movimento cinque stelle).

    Ovviamente, Beppe Grillo è il maggiore influencer per il pubblico di consumatori del blog: il marchio Beppe Grillo è per la Casaleggio Associati ciò che Michael Jordan fu all’inizio per la Nike, uno strumento di ottimizzazione della diffusione, massimizzazione delle vendite, costruzione della fiducia nel pubblico, creazione di un’identità aziendale trascendente, basata cioè non su questo o quel prodotto, bensì sull’idea che i prodotti veicolano, ovvero l’idea di novità, di democrazia, di orizzontalità, di trasparenza, come l’idea di sport con cui la Nike mira a identificarsi.

    A consolidare la natura di brand del M5S, ci pensano gli innumerevoli video, non ultimi quelli prodotti dagli aspiranti candidati per le prossime elezioni, che somigliano molto più a spot pubblicitari che a video di presentazione di un progetto politico. (qui i candidati e qui un esempio di pubblicità del movimento).

    Per prima cosa, Beppe Grillo ha formalizzato l’esistenza di un marchio personale, di sua proprietà legale (vedi), registrando il simbolo alla sezione Marchi e brevetti del Ministero dello sviluppo economico. In parte, questa mossa era stata anticipata di anni dall’articolo 3 del “Non statuto” del M5S, che fin dalla sua prima pubblicazione recita: «il nome del MoVimento 5 Stelle viene abbinato a un contrassegno registrato a nome di Beppe Grillo, unico titolare dei diritti d’uso dello stesso». Questo conferisce a Grillo il potere di revocare il diritto all’uso del simbolo a chiunque, secondo la sua volontà e discrezione, il che è puntualmente accaduto con i casi Salsi e Favia, che saranno affrontati in seguito.

    Un marchio, secondo la normativa, deve essere registrato sotto particolari codici che ne stabiliscano gli usi previsti e dunque consentiti dalle leggi sul diritto d’autore, sui brevetti e sulla concorrenza. Il marchio a cinque stelle è stato registrato con tre codici (vedi) che lo identificano come:

    35 – pubblicità; gestione di affari commerciali; amministrazione commerciale; lavori di ufficio; ricerche di mercato.
    41 – educazione; formazione , divertimento; attività sportive e culturali.
    45 – servizi resi in campo politico, civico e sociale.

    Né più né meno della Nike.

    [continua…]