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  • Il disimpegno francese sul TAV visto da La Repubblica

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    Chi ieri pomeriggio ha aperto la prima pagina del sito de La Repubblica ha trovato a grandi lettere il titolo

    verticetav

    da cui si evince una volontà politica di entrambi i governi francese e italiano di confermare l’impegno nel progetto di costruzione della linea TAV.
    Tralasciando l’inaccuratezza dell’informazione data (visto che non si è trattato di un vertice specifico sulla questione TAV, come potrebbe sembrare da un titolo come quello proposto nonché dall’organizzazione dei contenuti dell’articolo, che la mette esageratamente in risalto rispetto al resto degli argomenti discussi da Letta e Hollande), cerchiamo di capire in che misura si può parlare di TAV come «priorità per entrambi i governi» italiano e francese.

    Dalla lettura dell’articolo emerge un solo dato in merito alle misure che i due governi intendono adottare in collaborazione, e dunque in merito ai contenuti di tale vertice spacciato per vertice TAV. E tale dato è: “…da Italia e Francia è stato confermato l’impegno ad adottare il prima possibile le misure necessarie per ottenere il cofinanziamento comunitario. Partendo, nel 2014, dalla presentazione alla Commissione europea di una domanda congiunta per avere il massimo sostegno finanziario nel periodo 2014-2020 (finanziamenti già in parte promessi da Bruxelles lo scorso 17 ottobre)”.

    A parte le richieste di finanziamenti all’UE da sostenere congiuntamente, non si parla di reali finanziamenti.

    E infatti Hollande, appena qualche mese fa, ha rinviato di 15 anni quella che secondo i giornali nostrani sarebbe una “priorità”: dal punto di vista politico, per Hollande significa lavarsene le mani, ovvero ammettere la mancanza di volontà politica di occuparsi del progetto e quindi di sostenerlo.

    In conclusione La Repubblica è riuscita a trasformare l’intenzione di una domanda congiunta di finanziamenti in parte promessi in impegno concreto, addirittura “prioritario”, del governo Hollande sulla questione TAV, ignorando deliberatamente che sul fronte francese il governo ha rinviato il progetto.
    Il titolo dell’articolo non è falso, ma di certo fuorviante, e tale ambiguità è data sia dall’omissione di un dato importante, sia dal peso dato al fatto che Hollande e Letta dicano di essere d’accordo, a prescindere da ciò che poi realmente fanno.

    Il motivo per cui tale scelta editoriale è stata operata è banale: ieri a Roma, durante il vertice Letta-Hollande, c’era un presidio cui hanno aderito i movimenti per il diritto alla casa e al reddito, nonché il movimento NoTAV. Occorreva criminalizzare il dissenso, e quale strategia adottare se non il richiamo al movimento NoTAV e a tutto ciò che ormai esso evoca nel lettore infarcito di narrazioni tossiche, quali violenza, estremismo, terrorismo? Definire il vertice come prevalentemente accentrato sulla questione TAV era necessario ad innescare il frame dominante e a richiamare tutta una sfera semantica che automaticamente le è associata: citare il TAV era necessario per rimandare alla contrapposizione con il movimento NoTAV.

    Ma la trappola editoriale de La Repubblica non è l’unica messa in moto ieri: è stata tesa anche una trappola di altra natura, in via Giubbonari a Roma.
    Infatti, dal presidio a Campo de Fiori si è staccato un corteo che è stato circondato dalla celere, in assetto antisommossa. La polizia ha anche bloccato tutte le possibili vie di uscita dalla piazza, trasformando il flusso di persone verso le vie laterali in una calca senza la possibilità di indietreggiare né avanzare, che è stata prontamente caricata. Una tale gestione della situazione non può che essere definita una provocazione: non si può pretendere di schierare la celere, circondare i manifestanti, bloccare ogni uscita per poi stupirsi se si verificano scontri. Lo scontro è voluto, cercato, progettato ad hoc da chi gestisce in questa maniera l’ordine pubblico (cosa a cui, tra l’altro, il dissenso non dovrebbe essere ridotto). Inoltre, è facile cercare lo scontro quando si è bardati, protetti, addestrati ed equipaggiati militarmente.

    Insomma, complimenti a La Repubblica e complimenti alla questura di Roma.

    EDIT:

    Qui un video per chiarire ancora meglio chi cercava lo scontro ieri a Roma.

  • La violenza degli argini

    Volevo raccontare il 15 ottobre che ho vissuto senza parlare degli scontri, senza condividere o condannare la violenza, senza appoggiare o rifiutare teorie su infiltrati e sui cosiddetti black bloc, senza dover difendere o stigmatizzare il comportamento della polizia italiana o dei manifestanti, senza tirare nessuno per la giacchetta.

    Non so se infine sono riuscito nel mio intento di descrivere con oggettività la giornata (scopo che sempre mi riservo, in tutte le situazioni e nella maggior misura in cui è possibile farlo), ma di certo non sono riuscito mio malgrado ad evitare di parlare di tutte le questioni accennate sopra: avrei preferito non farlo, perché parlare della giornata di ieri come una giornata di violenza o di non violenza significa fare il gioco dei potenti e adottare il linguaggio e la retorica dei loro organi di informazione. Ma leggendo tanti commenti sulla rete e diversi articoli di giornali di aree diverse mi sono reso conto che è necessario mettere in chiaro qualche punto: ecco quindi cosa ho scritto. Sono pensieri sparsi.

    Questione violenza-nonviolenza. Il voler a tutti i costi dividere nettamente il corteo di ieri in due cortei, uno violento e uno pacifico, non solo non aiuta a capire le dinamiche di ieri ma rispecchia poco la realtà dei fatti, come qualsiasi altro tentativo di categorizzare le anime molteplici di un movimento, attribuendo loro nomi e nomignoli stupidi e contrapponendoli (es. indignados, black bloc > indignados VS black bloc). È troppo semplicistico ragionare in codice binario, funziona solo per il benpensante che guarda passivo le immagini dello schermo televisivo passargli sotto gli occhi.

    Che è necessario abbandonare questo frame è stato già detto mille volte ma non fa male ripeterlo. Bisogna prendere atto che in piazza San Giovanni c’erano tante persone diverse, non tutte col casco e armate di spranghe, mazze e molotov, che comunque erano disposte allo scontro: uno scontro non per forza premeditato, uno scontro che può essere stato causato dagli idranti sugli stand che attendevano l’arrivo del grosso del corteo o dai lacrimogeni lanciati in mezzo alla folla su un corteo autorizzato. Non sto parlando degli incappucciati, sto parlando dei tanti altri che sono rimasti coinvolti negli scontri: tra loro immagino ci siano tanti che sono equilibrati in situazioni normali ma che possono, come tutti, perdere il controllo in condizioni anormali e nel mezzo della folla.

    Personalmente trovo strumentali e del tutto fuorvianti i richiami alla Genova del 2001 in riferimento alla presenza di possibili infiltrati, perchè gli infiltrati ci sono in tutte le manifestazioni, anche le più pacifiche, e poi allora si trattava di un movimento e di circostanze completamente diverse: chi, come La Repubblica, scrive «violenze come a Genova» ha dimenticato quanto diverse fossero allora le strategie messe in campo dal black bloc (sì, al singolare) rispetto allo scontro fisico che c’è stato ieri e devia l’attenzione, attraverso analogie e  meccanismi di associazione tra concetti, dal fatto (scontri) alla sua interpretazione (black bloc).

    Il discorso sui possibili infiltrati lo lascio ai complottisti e ai politicanti, perché neanche questo aiuta a comprendere l’accaduto: quelle persone in piazza San Giovanni si sono difese dai lacrimogeni e dai manganelli, e lo avrebbero fatto comunque, con o senza infiltrati. Perciò secondo me la verifica di eventuali infiltrazioni è solo una questione “giuridica”, ma dal punto di vista dell’analisi politica dell’accaduto è irrilevante.

    Mancanza di sintesi. Come scriveva qualcuno, il germe della violenza è insito nella natura stessa di protesta e se a volte rimane potenziale ed altre si fa atto ciò è dovuto alle circostanze; questa volta, per settimane o mesi, fin dall’inizio si è affermata l’intenzione di andare oltre il corteo rituale e la sfilata per il centro di Roma. Su questo si era tutti d’accordo. Però, come conseguenza del campanilismo dei movimenti italiani (che, da quello che mi pare di capire, si è puntualmente manifestato nelle varie assemblee di organizzazione della mobilitazione del 15 ottobre), non ci si era accordati sulle strategie da adottare per superare la tradizionale estetica del conflitto: chi voleva assediare i palazzi governativi, chi occupare il Colosseo e altri monumenti, chi restare nelle strade e nelle piazze a oltranza e, sì, anche chi auspicava una insurrezione popolare. C’è stata una così profonda mancanza di sintesi che, per le differenti strategie, non si è stati capaci neanche di accordarsi sul percorso del corteo, per dirne una, o di organizzare un servizio d’ordine unitario, per dirne un’altra. In particolare, ritengo che quest’ultimo fatto sia stata una delle cause principali dei problemi che la massa ha dovuto fronteggiare. Questa frammentazione era percepibile, bastava farsi un giretto tra i diversi spezzoni del corteo.

    Comportamento della polizia. Tutti, come sempre, hanno fatto a gara a condannare per primi la violenza. Io non esiterei a condannare l’ipocrisia di chi condanna unilateralmente la violenza degli incappucciati o dei manifestanti e allo stesso tempo si dice soddisfatto dell’operato della polizia, che di violenza ne ha usata. Perché la violenza della polizia deve essere giustificata? Qualcuno risponderà che lo scopo della polizia era evitare i disordini. Ma allora il fine giustifica i mezzi? Se è così, la violenza dei manifestanti era altrettanto legittima. Anche perché, quando vedo scene come questa, posso non condividere ma di certo capisco la reazione della piazza.

    Aggiungo un fatto curioso (ma non troppo) sul comportamento delle forze dell’ordine. Il percorso concordato partiva da piazza Repubblica, con destinazione piazza San Giovanni: quest’ultima era la piazza in cui si sarebbero dovute svolgere assemblee parallele e l’eventuale acampada con l’organizzazione di vari stand (poi buttati giù dagli idranti della polizia), che si trovavano là già prima che arrivasse la testa del corteo. Piazza San Giovanni era quindi legalmente riservata ai manifestanti che, secondo me, avrebbero dovuto mantenere il pieno diritto legale di entrarci; dopo l’inizio degli scontri, la polizia ha privato i manifestanti di questo diritto da essa stessa concesso, anzi ha trattato da criminali tutti coloro volessero accedere alla piazza da via Merulana, e giù lacrimogeni e manganelli, quando l’unica colpa che avevano era di seguire il percorso concordato di un corteo autorizzato dalla questura di Roma. Quindi contraddittoria non solo nella sostanza, ma anche nella forma.

    Opinione personale. Personalmente la violenza degli incappucciati non la condivido, ma non condanno la violenza dei manifestanti che si sono difesi da cariche e da lacrimogeni che li cacciavano da una piazza che doveva essere loro.

    La violenza degli incappucciati, io non la condivido non per motivi etici, ma per una questione politica e strategica: semplicemente hanno fatto male al movimento. Poteva essere un’esperienza politica lunga mesi, con piazze occupate e tutto quello che ciò comporta e che in Spagna sono stati capaci di mettere in pratica, invece si è risolto tutto in poche ore fumo nero. Tutti i possibili contenuti del movimento saranno oscurati dalla condanna delle frange estremiste, dalle accuse di infiltrazioni, dalla necessità di dissociarsi dall’uso della violenza e di dimostrare che i “veri indignati” sono quelli pacifici, dalla denuncia di incapacità di gestione dell’ordine pubblico e da tutti quei discorsi che implicano l’accettazione del frame violenza-nonviolenza e, ove possibile, del frame casta-anticasta che tanto piace a La Repubblica. Nessuno parlerà di speculazione finanziaria, di predominio della finanza sulla politica, di banche armate, di sovranità monetaria, di privatizzazioni, di annullamento del debito pubblico, di tagli alla formazione e alla sanità, di beni comuni e di lavoro.

    In pratica, ora che si è manifestata la violenza del fiume in piena nessuno noterà quella degli argini che lo costringono.