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  • La resa dei conti in Africa occidentale: imperialismi e rivoluzioni

    Il 26 luglio, il presidente nigerino Mohamed Bazoum è stato posto in stato di arresto dalla propria guardia presidenziale, il cui capo Abdourahamane Tchiani ha preso il potere appoggiato dall’esercito. La giunta militare ha immediatamente preso possesso delle comunicazioni, dei palazzi governativi, ha chiuso le frontiere e indetto un coprifuoco a tempo indeterminato.

    Sono state già scritte e dette molte cose sul significato storico del colpo di Stato in Niger come sintomo del declino del controllo della regione da parte della Francia, come risultato dell’instabilità crescente degli Stati del Sahel, preda di gruppi armati capaci di strappare loro porzioni sempre più grandi di territorio, e come terremoto geopolitico che delineerebbe una strategia di influenza della Russia in Africa.

    Tuttavia, nelle varie analisi e letture degli eventi che stanno circolando, due cose non traspaiono adeguatamente: una traspare ma senza darle la dovuta importanza, l’altra sembra del tutto assente.

    L’Africa: immenso serbatoio di risorse

    Quello che sta succedendo nel Sahel e in Africa occidentale da un decennio dovrebbe essere oggetto di attenzione e preoccupazione da parte di chiunque intenda capire a fondo i processi che interesseranno il mondo intero nei prossimi anni, tra cambiamento climatico, devastazione ecologica globale e ristrutturazione del capitalismo.

    L’Africa è un immenso serbatoio di risorse economiche. Per via della sue caratteristiche geologiche, detiene circa un terzo delle risorse minerarie del pianeta, la qual cosa ha fatto di essa una torta da spartire tra le potenze dominanti fin da quando il capitalismo coloniale ha creato una rete di sfruttamento planetario basata sullo schiavismo. In Africa sono presenti tra il 20% e il 90% delle riserve mondiali di 11 minerali necessari per la transizione energetica (e alcune stime potrebbero essere al ribasso): da solo, il Sudafrica ha il 91% delle risorse mondiali di platino, il Marocco il 70% di quelle di fosfato, la Repubblica Democratica del Congo il 50% delle riserve di cobalto, e il continente detiene oltre il 90% delle riserve di metalli del gruppo del platino (rutenio, rodio, palladio, osmio, iridio, platino e renio). La lista è lunga ed è ovvio che faccia gola alle potenze che intendono accaparrarsi le risorse necessarie per controllare la filiera tecnologica dei mercati emergenti, come pannelli fotovoltaici, turbine eoliche, veicoli elettrici, produzione di idrogeno verde e catalizzatori automobilistici.

    Per non parlare dell’energia fossile: notoriamente gas naturale, petrolio e carbone abbondano in diverse regioni del continente. In aggiunta ai siti di estrazione attivi e ai giacimenti conosciuti, solo dal 2017 a oggi sono state date concessioni esplorative su un’area del continente di quasi 900 000 km2, equivalente alla superficie di Francia e Italia insieme. Questi progetti alimentano speranze di arricchimento rapido e hanno l’effetto di allontanare molti paesi attualmente privi di idrocarburi dal proprio potenziale di investimento nelle risorse rinnovabili.

    Tutto lascia pensare che l’Africa sarà nel prossimo decennio il principale campo di battaglia per il controllo delle risorse energetiche o dei materiali per il loro sfruttamento e, conseguentemente nel contesto attuale, per la supremazia economica: il controllo degli impianti di estrazione, lavorazione e smistamento delle risorse minerarie sarà decisivo, e senz’altro non per l’eliminazione della cause del riscaldamento globale e il ripristino degli equilibri ecologici. Al contrario, l’approvvigionamento di suddette risorse sarà all’origine di disastri ambientali e umanitari ancora maggiori e i tanto sbandierati obiettivi “verdi” saranno sacrificati (esattamente come adesso) sull’altare della corsa al profitto.

    Miniera di uranio di Tamgak, ad Arlit, Niger

    Il portato politico

    In questa cornice, le strategie di influenza delle varie potenze assumono una valenza molto più significativa. Se la competizione per il controllo economico è il motore cruciale che determina interessi e obiettivi delle forze in gioco, esiste anche una diversità di processi prettamente politici da cui dipende la forma dell’espressione e dell’attuazione di tali desideri di controllo.

    Questa è la prima delle due cose che mancano nelle letture attuali: il portato politico profondo. Il punto traspare solo superficialmente dalle analisi di questi giorni. Per esempio, quando si nota che il 25% dell’uranio che alimenta le centrali nucleari europee viene dal Niger e che il governo francese si è affrettato a precisare che un taglio alla fornitura nigerina non comprometterebbe in alcun modo la produzione energetica francese (mentre comunque il colosso minerario francese Areva-Orano continua a operare in Niger nonostante il golpe), ci si concentra sul dato economico ma non su quello politico. Il Kazakhstan è il maggiore produttore mondiale di uranio (oltre il 40%) nonché il maggiore fornitore della Francia (43% a fronte del 18% dal Niger) e le rivolte del gennaio 2022 ebbero un impatto sul prezzo dell’uranio nel mercato globale, ma all’epoca il governo francese non si scomodò a rilasciare alcuna dichiarazione e le sole rassicurazioni vennero da Areva-Orano.

    Perché delle tensioni in Kazakhstan con un reale impatto materiale sulle forniture di uranio non suscitano alcun appello alla calma, mentre delle tensioni in Niger senza impatto materiale spingono il governo francese a esprimersi? L’incertezza per ciò che rappresentano politicamente. Allarghiamo lo sguardo.

    L’intervento militare francese nel Sahel, cominciato nel 2013 con l’intento di coordinare la lotta contro il terrorismo islamico nella regione, con l’operazione Serval poi ribattezzata Barkhane, non è stato affatto capace di arginare la minaccia. Al contrario, la situazione si è aggravata: la presenza dell’esercito francese ha spinto migliaia di giovani verso la ribellione jihadista e oggi i gruppi armati controllano ampie regioni rurali, minacciano di espandersi a sud verso la costa toccando paesi prima al sicuro (Benin, Togo, Costa d’Avorio), e il tasso di violenza criminale, religiosa e politica è aumentato vertiginosamente.

    Carta pubblicata su The Economist basata sui dati ACLED sulla violenza armata in Africa occidentale.
    Africa coup belt
    La “cintura di instabilità”, carta ideata da Ken Opalo e pubblicata sulla sua newsletter

    Dopo anni di relativa calma, sono tornati in voga i colpi di Stato, tentati o riusciti: in Mali, Burkina Faso, Guinea, tradizionalmente allineati alle politiche neocoloniali francesi, hanno preso il potere giunte militari golpiste ostili: l’esercito francese è stato espulso dal Mali nel novembre 2022 e si è ritirato dal Burkina Faso del febbraio 2023, il Mali ha vietato radio e associazioni finanziate dalla Francia, e l’operazione Barkhane è stata dichiarata terminata così come la missione di pace dell’ONU in Mali (MINUSMA) nata inizialmente per stabilizzare il paese dopo la rivolta Tuareg del 2012. La Francia è stata costretta a rimodulare la propria presenza nel Sahel, sia in termini militari, con il trasferimento delle forze da Mali e Burkina Faso verso Niger e Ciad, sia in termini di strategie utilizzate, per renderla meno visibile sul piano politico e militare.

    Lo sfaldamento degli equilibri in Africa occidentale

    Questa ridotta visibilità è il punto cruciale, perché rispecchia un minore riconoscimento della Francia come cane da guardia della regione. La rete di alleanze e interessi intessuta in secoli di colonialismo si sta sfaldando sempre più clamorosamente e il campo filofrancese sta perdendo la prima indiscussa posizione dominante, aprendo un vuoto politico. A riprova di questo, un crescente sentimento “anti-francese” (potenzialmente anticolonialista) serpeggia tra la popolazione di tutta l’Africa occidentale, che si permette ormai di esprimerlo apertamente e in forme conflittuali (da slogan e bandiere bruciate ad attacchi a simboli del dominio francese, incendi e saccheggi di multinazionali).

    Questo vuoto è oggetto di contese tra forme politiche concorrenti. Da un lato è occupato dai regimi militari, che per parte della popolazione sembrano essere diventati la forma preferibile per l’espressione del sentimento “anti-francese”; da un altro dalle ribellioni tradizionaliste e fondamentaliste guidate dai numerosi gruppi armati jihadisti; infine, in paesi con una più solida tradizione democratica, da movimenti di opposizione popolari dichiaratamente anticolonialisti, che il campo filofrancese non riesce più a tenere sotto controllo.

    Quest’ultimo è il caso del Senegal, dove il governo filofrancese di Macky Sall è da mesi alle prese con un’opposizione in stato di mobilitazione permanente in difesa di Ousmane Sonko, carismatico militante panafricanista e potenziale candidato alle prossime elezioni presidenziali, sostiene l’uscita dal franco CFA, strumento coloniale per eccellenza che strangola le economie delle ex-colonie francesi. Il governo ha risposto con il pugno di ferro: esercito e squadracce armate per strada, decine di morti, arresti indiscriminati, blocco di internet, oscuramento dell’unico canale televisivo vicino all’opposizione, scioglimento del principale partito di opposizione.

    Il 26 luglio, nel solco di questa dinamica di riconfigurazione dei rapporti di forza tra i vari attori istituzionali e sociali, gruppi di interesse e gruppi militari nel Sahel, si è aggiunto alla lista il colpo di Stato in Niger.

    La fragilità dell’ascendente della Francia si riflette anche nell’incapacità della CEDEAO (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, ECOWAS in inglese) ad accordarsi su una linea politica riguardo alla gestione della situazione in Niger. Finora, la linea dominante era sempre stata quella che favoriva la tutela degli interessi francesi nella regione: anche dopo i colpi di Stato in Mali, Guinea e Burkina Faso, la sospensione di questi paesi aveva mantenuto l’allineamento.

    Dopo il colpo di Stato in Niger, la CEDEAO, presieduta per adesso dalla Nigeria e forte dell’appoggio di esponenti di spicco della diplomazia occidentale (da Parigi, Washington, Bruxelles), ha staccato l’erogazione di corrente elettrica al Niger (fornita al 70% dalla Nigeria) e ha dato un ultimatum per ripristinare l’ordine costituito entro una settimana, pena l’uso della forza militare. In reazione, i governi militari di Mali e Burkina Faso, hanno annunciato che in caso di intervento entrerebbero in guerra in difesa del Niger. Ovvero, in guerra contro altri Stati della stessa CEDEAO di cui fanno parte, sebbene sospesi.

    Non solo: per dar seguito alla minaccia, il presidente della Nigeria ha sottoposto al parlamento nigeriano la richiesta di intervento militare, ma la proposta è stata respinta a larghissima maggioranza. La maggior parte degli altri Stati membri, pur approvando l’idea, non ha mobilitato le forze armate e la Nigeria è l’unico Stato con una forza militare che conterebbe qualcosa in questo frangente. Insomma, il presidente della CEDEAO è partito fiducioso di raccogliere l’usuale consenso, ma non ha avuto l’approvazione neanche del proprio paese. Difficile immaginare una disfatta politica più goffa. Quello che conta in questa analisi è che solitamente quel consenso era dato dall’allineamento sugli interessi francesi. Oggi non è più così e si assiste a un’accelerazione importante del processo di sfaldamento degli equilibri politici della regione.

    Le mire espansionistiche russe

    L’assenza di un cane da guardia nella regione si manifesta in un’ultima dinamica, da non sottovalutare: l’avanzamento delle mire espansionistiche russe.

    In questo, il Mali del generale Assimi Goïta è stato un caso lampante: mentre espelleva l’esercito francese, chiudeva i canali diplomatici e vietava associazioni e radio francesi, la giunta militare faceva accordi con il gruppo Wagner assumendolo come “supporto militare” e concedendo sottobanco lo sfruttamento di diversi siti minerari. Il Mali è diventato un modello da manuale: il Burkina Faso ha seguito rapidamente; e nel giro di solo una settimana i golpisti in Niger hanno preso molte delle misure osservate in Mali negli ultimi anni. Mentre le giunte al potere negano, la diplomazia russa conferma. Quando il primo ministro maliano Choguel Kokalla Maïga si è schierato a favore dei golpisti in Niger, lo ha fatto da San Pietroburgo, dove presenziava il vertice Russia-Africa.

    La giunta filorussa in Mali è la forma politica visibile delle ambizioni espansionistiche della Russia, ma la presenza di forze che tutelano gli interessi russi è attestata in diverse altre forme più discrete. Per esempio, il gruppo Wagner è presente nella Repubblica Centrafricana dal 2018 tramite due società prestanome che forniscono “supporto militare” (leggasi: massacri di civili) e si assicurano il controllo delle miniere di oro. La COSI (agenzia prestanome) il 31 luglio ha diramato un comunicato di appoggio al golpe in Niger, strumentalizzando la legittimità del sentimento anticoloniale.

    Una carta che riassume le “operazioni militari” del gruppo Wagner in Repubblica Centrafricana, tratto dal rapporto ACLED del 2 agosto 2023.

    Altre strategie si collocano nel solco del soft power costruito pazientemente nel corso di anni o decenni,, tramite l’apertura, il finanziamento e la coordinazione di centri studi, associazioni culturali, organi di informazione, gruppi di pressione che hanno fatto circolare materiale in linea con gli interessi strategici del blocco espansionista e imperialista russo, in maniera simile a quanto successo in Donbass.

    Questo spiega la presenza di così tanti slogan pro-Putin, rivendicazioni filorusse e bandiere russe nelle manifestazioni di piazza degli ultimi anni, dal Mali alla Repubblica Centrafricana, fino ad arrivare agli attacchi dell’ambasciata francese a Niamey.

    Una disamina dettagliata delle attività che indicano la volontà del blocco imperialista russo di impiantarsi nella regione approfittando della crescente instabilità e vuoto di potere, sostituendosi almeno in parte al blocco neocolonialista francese, sarebbe ancora molto lunga. Il punto principale che emerge, ancora una volta, è che gli equilibri in Africa occidentale stanno saltando e che solo un’analisi prospettica di lungo termine può cogliere le implicazioni degli eventi in corso.

    L’altra risorsa economica dell’Africa

    All’inizio di queste considerazioni, è stato detto che due cose non traspaiono adeguatamente nelle letture attuali. Una è lo sfaldamento generale di tutti gli equilibri istituzionali e sociali in Africa occidentale, che spesso viene colto solo di sfuggita. L’altro punto invece sembra completamente assente. Qual è?

    Come citato sopra, l’Africa detiene un’enorme quantità di risorse e per molte di queste addirittura il primato delle riserve mondiali. Di questi dati si parla molto nelle analisi geopolitiche, negli studi delle relazioni internazionali e nelle valutazioni politiche di buona parte della sinistra. Tuttavia, in una prospettiva rivoluzionaria e materialista, manca qualcosa di fondamentale, e cioè la presa in considerazione di un’altra risorsa economica dell’Africa: la forza lavoro.

    Complessivamente, l’Africa detiene di gran lunga il primato mondiale per la crescita democrafica, con un tasso medio del 2,45% dal 2000 in poi. Il Niger registra il tasso di fertilità più elevato al mondo (6,89%) e ha la popolazione più giovane del pianeta (il 50% ha meno di 15 anni). Entro una quindicina d’anni, la popolazione totale dell’Africa potrebbe agevolmente superare i 2,5 miliardi di persone.

    Nonostante la disponibilità in materie prima e risorse di immenso valore economico, l’Africa detiene il primato per tasso di povertà e per indice di sviluppo umano medio. Sui motivi di questo divario, sono già stati scritti fiumi di inchiostro e gran parte della responsabilità è da attribuirsi a secoli di colonialismo europeo che hanno devastato e saccheggiato territori e popolazioni sottoponendole a incredibili livelli di violenza politica e economica. L’Africa non è povera: è impoverita, o per dirla con Walter Rodney, “è stata sottosviluppata“.

    Percentuale della popolazione sotto la soglia di povertà nel 2019 (soglia di povertà: 2,15 $ al giorno, corretta tenendo conto di inflazione e costo della vita). Fonte: Our World in Data.

    Negli ultimi anni, molti Stati africani hanno registrato altissimi tassi di crescita economica, tra i più alti al mondo. Se l’Africa cresce così tanto ma la popolazione anche così tanto povera, dove va a finire tutta questa ricchezza? Non serve chissà quale perspicacia per capire che esistono due processi paralleli e parzialmente sovrapposti: l’appropriazione neocoloniale e lo sfruttamento capitalistico.

    I dati mostrano che nell’ultimo decennio si è assistito a un aumento delle disuguaglianze economiche nella maggior parte dei paesi dell’Africa subsahariana, con una distribuzione della ricchezza che ha visto il 10% più ricco della popolazione concentrare nelle proprie mani quote sempre maggiori, e un 1% che da solo detiene fino al 36% della ricchezza (per informazione: in Niger detiene tra il 16% e il 19%).

    E questa è solo una parte della ricchezza non redistribuita: una grossa parte è direttamente spostata al di fuori dei confini seguendo schemi neocoloniali che tengono le popolazioni africane strette in una morsa micidiale.

    Imperialismi e rivoluzioni

    Ricapitolando: l’Africa produce sempre più ricchezza e ha un potenziale strategico sempre maggiore; questa ricchezza è sempre più concentrata nelle mani di pochi sia nei paesi africani che nelle potenze neocoloniali; e questo avviene nonostante l’espansione demografica, il che crea ulteriore “scarsità” per la popolazione povera a cui questa ricchezza viene sottratta.

    Questo scenario di “scarsità” delle risorse dovuto alla competizione di forze concorrenti, con aumento di violenza economica e politica intra- e interstatale a opera di attori istituzionali e non, è lo scenario che si prospetta a livello mondiale nel prossimo futuro, di cui la situazione in Africa e in particolare nel Sahel è un’anticipazione.

    Bisogna considerare un punto cruciale: la popolazione povera dell’Africa lavora per produrre tutta questa ricchezza. Sarebbe difficile che continuasse ancora a lungo a vedersi depredata, senza battere ciglio, della ricchezza che produce da parte di cricche locali in combutta coi padroni coloniali, di aziende multinazionali eredi indirette (e a volte dirette) dello schiavismo atlantico, di signori della guerra senza scrupoli.

    In questa prospettiva, molte delle forze citate sopra assumono una funzione storica precisa: quella di scongiurare la nascita di un movimento rivoluzionario che faccia seguito alle logiche rivendicazioni di redistribuzione della ricchezza, scardinando i principi chiave dell’appropriazione coloniale e dello sfruttamento capitalistico.

    L’uso del sentimento anti-francese da parte del blocco imperialista russo, appiattendo ogni narrazione su un piano geopolitico e “multipolare” in cui è naturale che i territori del mondo si dividano in sfere di influenza tra grandi potenze regionali, soffoca l’emergere potenziale di un blocco anticolonialista rivoluzionario. Per la Francia e il resto dell’Occidente, nonostante la competizione con la Russia in Africa sia un piatto indigesto, è comunque preferibile rispetto all’affermarsi di un movimento rivoluzionario, che avrebbe un potenziale di destabilizzazione del capitalismo mondiale molto più pericoloso dal punto di vista della borghesia in quanto arriverebbe a toccare la madrepatria coloniale.

    I movimenti rivoluzionari che lottarono per l’indipendenza nell’impero coloniale portoghese condussero alla fine della dittatura di Salazar: armandosi per la liberazione dei propri paesi, contribuirono alla liberazione del Portogallo dal fascismo. Le colonie italiane conobbero una dinamica simile: la prima Resistenza antifascista fu quella anticoloniale, condotta da Omar al-Mukhtar in Libia a partire dal 1923 e seguita da movimenti di guerriglia in Etiopia e Eritrea contro il colonialismo e l’occupazione da parte dell’Impero italiano.

    In quest’ottica, non sarebbe azzardato tracciare un parallelo tra la crescita del sentimento “anti-francese” nel Sahel e l’aumento della conflittualità politica in Francia, particolarmente elevata rispetto agli altri paesi europei nell’ultimo decennio, partendo dal movimento dei gilet gialli alle rivolte dello scorso giugno, passando per il movimento contro la riforma delle pensioni, accompagnati da una svolta autoritaria e repressiva dello Stato francese, che è oggi possibile includere nel club delle “democrazie illiberali”.

    Questa idea dell’imperialismo come argine alla rivoluzione non riguarda solo ciò che la Francia subisce in Africa occidentale, ma anche ciò che attivamente promuove. Come già ricordato, l’intervento francese nel Sahel e la conseguente militarizzazione del conflitto alimentano i gruppi armati conservatori e fondamentalisti: questi ultimi trovano nel sentimento anti-francese terreno fertile su cui far leva e incanalano in ribellioni e insurrezioni di carta tendenze che altrimenti potrebbero finire per organizzarsi politicamente colpendo il cuore del sistema economico.

    I vertici dello Stato francese ne sono coscienti, ma preferiscono questo scenario di morte e distruzione piuttosto che alleggerire la pressione della morsa del capitalismo neocolonialista: scelgono di impedire preventivamente la nascita di un movimento anticoloniale radicale, popolare e rivoluzionario. Sanno che arriverà un momento in cui coloro che da secoli producono ricchezza per il resto del mondo chiederanno inevitabilmente i conti.

    Repressione contro le proteste a Dakar, 3 giugno 2023.
  • 11 luglio: possiamo ancora vederci

    Non sovraccaricate le date, non sovraccaricate i luoghi. Attenti a Frankenhausen.

    Il vertice europeo sulla disoccupazione giovanile è stato rimandato a data da destinarsi, comunque dopo l’estate. Tra le strutture che hanno contribuito alla costruzione della mobilitazione prevista giorno 11 luglio in risposta a quel vertice, si vocifera il rinvio o l’annullamento della contestazione. Senza intento polemico, ma a sincero scopo propositivo, vorrei dire la mia.

    1 – Lasciare che data e luogo di una manifestazione continentale dipendano dalle scelte del potere, così che il potere possa determinarne lo spostamento a suo piacimento semplicemente annullando o spostando un vertice, è indice di non-autonomia. Se si vuole combattere solo la manifestazione simbolica e temporanea del potere, è sufficiente legittimarne le scelte, inseguendole nel tempo e nello spazio. È significativo che il vertice sia stato spostato sia nel tempo (almeno a novembre) sia nello spazio (da Torino a Bruxelles): è sintomo del fatto che un punto preciso del tempo (11 luglio) e dello spazio (Torino) era stato sovraccaricato di contenuti e aspettative, rendendo possibile lo spegnimento di quelle aspettative ad un semplice cenno di modifica.

    2 – Le motivazioni addotte dalle istituzioni per lo spostamento del vertice possono essere variamente interpretate. Da più parti giungono indizi che la scelta sia stata operata sulla base di considerazioni legate all’ordine pubblico, che avrebbero intimorito il PD, il governo e la questura di Torino. Il PD ha reso noto attraverso l’esponente torinese Esposito che intorno a quella data si temeva l’acuirsi di un clima di tensione già esistente e che, secondo le immancabili indiscrezioni dei servizi segreti, i teppisti di tutta l’Italia stavano cominciando a prepararsi per la guerriglia. Il governo non ha mai amato le contestazioni (non nasce nemmeno da un conflitto, da un competizione, seppur nella sua forma elettorale) e questo sarebbe stato il primo evento di rilevanza ad intaccare la sua purezza. La questura di Torino, pur minimizzando, lascia trasparire preoccupazione, considerando anche il fatto che una quantità insolita di forze dell’ordine era stata messa in allerta con disponibilità per tutto il mese di luglio.

    3 – Qualcuno potrebbe gridare vittoria: hanno spostato il vertice, abbiamo vinto. Eppure, spostare il vertice potrebbe essere stata una mossa astuta per esaurire la spinta propulsiva della chiamata alla mobilitazione. La reazione di alcuni è stata: «Ovviamente, se la notizia sarà confermata, viene meno la data di mobilitazione». Come se,senza quella manifestazione parziale, temporanea e simbolica del potere che è un vertice, non ci fosse nulla da contestare. In La rivoluzione che viene, David Graeber descrive come, spesso, i movimenti perdano un alto livello di mobilitazione perché ottengono troppo presto ciò che intendono ottenere, così presto da non rendersene conto: in questo caso, l’obiettivo di ostacolare il vertice europeo sulla disoccupazione giovanile è riuscito e quindi la mobilitazione non è più immediatamente necessaria. Questo è un problema di metodo ma anche di contenuto. Si tratta di un problema di metodo perché si subordina la mobilitazione al calendario. Si tratta di un problema di contenuto perché… siamo sicuri che quello che i movimenti vogliano davvero solo ostacolare un vertice? E se non è così, perché insistere su questo punto? La risposta è semplice: è un obiettivo di per sé capace di determinare la natura delle azioni di mobilitazione. Se l’obiettivo è bloccare, l’azione da condurre è il blocco, nelle sue varie forme possibili. Ovvero, è un obiettivo concreto e immediato, e la consapevolezza della possibilità concreta di influire sull’esistente è necessaria per la partecipazione delle masse. I movimenti non vogliono solo ostacolare un vertice, ma se in termini di “concretezza” insistono su questo punto particolare, ci si dimentica il resto, e quindi “niente vertice, niente mobilitazione”.

    4 – Tutti questi problemi sono riconducibili alla logica del grande evento sovraccaricato di significati e aspettative, in cui si gioca il tutto per tutto. All’assemblea che ha lanciato la data dell’11 luglio, non sono mancate spinte contrarie: qualcuno proponeva di «immaginarsi una giornata di blocchi e azioni diffuse dove la controparte se l’aspetta meno». È fuori di dubbio che per contrastare efficacemente bisogna agire dove il potere non se lo aspetta, ma ritrovarsi nella sede simbolica del potere è esattamente ciò che il potere si aspetta. Se il potere si manifesta simbolicamente a Torino, in risposta si dovrebbe creare contropotere, anche simbolico, altrove. O forse mancano luoghi di lotta, con forti rivendicazioni? Perché non a Taranto, simbolo della connivenza tra politica e capitale, distruttrice di persone e ambiente? Perché non a Napoli, capoluogo di una terra che è fabbrica di veleni? Perché non a Roma, sede di un’importante e cruciale lotta per il diritto alla casa? Perché non mille altre città, in cui fanno ormai parte della quotidianità sgomberi di spazi sociali e di occupazioni abitative, violazioni di diritti dei migranti, sfruttamento e precarizzazione delle vite, abusi in divisa, devastazioni dei territori? Qualcuno potrebbe dire che tutte queste istanze non riguardano la disoccupazione giovanile, ma non avevamo detto che non è solo un vertice ciò contro cui i movimenti lottano?

    5 – Che lo spostamento del vertice sia una vittoria dei movimenti o piuttosto una strategia per neutralizzare il conflitto, in entrambe le interpretazioni il potere mostra una debolezza, per sincero timore di contestazioni o semplicemente perché non ha assolutamente nulla da dire sulla disoccupazione giovanile e ambisce a prendere tempo. Bisogna sfruttare questa debolezza. Non ritiriamoci. Si era deciso Torino? Si era decisa la giornata dell’11 luglio? Si sono organizzati per mesi i preparativi per questa contestazione? Facciamola. Non diamo sollievo alla questura di Torino per il rientro dell’allerta, né al governo per aver evitato il confronto con il conflitto sociale.

    Vediamoci lo stesso, perché loro possono rimandare il vertice, ma le nostre rivendicazioni non sono rinviabili.

  • “Quando non c’erano i forconi”: domande sulla fertilità del terreno

    Questo blog non ha mai pubblicato un pezzo scritto altrove e neanche il suo predecessore Cultura Libertà era solito farlo.
    Tuttavia, dopo il successo (in termini di visualizzazioni e condivisioni) della riflessione sui forconi dal titolo Fascismo in sé e fascismo per sé e l’evidente perplessità che gli ultimi eventi hanno suscitato nel dibattito politico tra e sui movimenti sociali su scala nazionale, stavolta ce n’è bisogno.
    Ecco di seguito il contributo del blog La pentola d’oro, che è tra l’altro il blog che, due anni fa, fece avvicinare e interessare il sottoscritto a ciò che stava accadendo in Italia e che è passato, in certi ambienti, forse un po’ troppo sotto silenzio rispetto a quanto abvrebbe dovuto. In fondo alla pagina si trova un breve commento.

    Quando non c’erano i #forconi

    Ho abbandonato da tempo questo blog al suo destino, ma mi sembra che possa essere utile recuperarlo per rievocare dei ricordi, ricordi punzecchiati dagli eventi recenti e dal dibattito che ne è seguito. Parlo ovviamente dei famigerati forconi e della reazione che hanno suscitato in molti siti di movimento. La discussione sulla necessità di intervenire o meno è a dir poco accesa, e ha prodotto un fiume di articoli con cui è praticamente impossibile restare al passo.

    Ebbene, a me i forconi non hanno fatto venire in mente gli eventi di Piazza Statuto del 1962, per niente, e invece mi hanno portato alla mente fatti ben più vicini nel tempo, ma per contrasto. Era il 2011, mese di maggio, quando in Spagna le piazze erano abitate notte e giorno da migliaia di persone, a loro volta ispirate dalle piazze tunisine ed egiziane, e negli Stati Uniti si preparava quel ciclo di lotte che ha portato, due anni dopo, tra le altre cose all‘incredibile elezione di una socialista nel consiglio comunale di una metropoli come Seattle.

    Dalle nostre parti, a maggio, quell’onda anomala era arrivata in modo appena percepibile, un singhiozzo d’acqua di laguna. Eppure i numeri complessivi delle sconclusionate piazze “indignate” italiane non erano diversi da quelli visti in questi giorni. Sottraete alle mobilitazioni odierne i fasci e i personaggi in odore di criminalità organizzata, e avrete all’incirca i numeri delle acampade nostrane, con l’indiscutibile di più di una distribuzione più capillare, non relegata (sempre nella formula manifestazioni meno fasci) a Torino e a pochi altri sprazzi.

    C’erano indubbiamente molta confusione, molta ingenuità e disorganizzazione; ignoranza e populismo, anche, a volte. Ma fascisti non ce n’erano. Non c’erano realtà organizzate che stavano cercando di costruire un fronte sociale reazionario, né imprenditori in Jaguar, né mafiosi, né padroncini vari con in cuore il sogno delle giunte sudamericane. Non c’erano neanche i media, e questo è un punto da tenere a mente.

    A Bologna – parlo di quello che è successo qui perché, visto il carattere davvero spontaneo di quelle piccole mobilitazioni, avere un’idea esaustiva di quello che accadeva altrove non era facile – in piazza c’erano studenti universitari e medi, giovani precari, disoccupati, operai, migranti, senzatetto, poveri di ogni tipo. Tra le azioni che avevamo, nel nostro piccolo, compiuto, c’erano iniziative di solidarietà verso i rifugiati che dormivano ai giardini della Montagnola, assemblee di rudimentale auto-coscienza sulle problematiche di genere, gruppi di discussione su temi come precarietà e reddito minimo, sostegni ai presidi anti-sfratto e alle lotte per il diritto all’abitare, assemblee nelle quali erano invitati a portare le loro testimonianze militanti No Tav e operai in lotta.

    Il tutto in piazza Maggiore, con un sistema di amplificazione raffazzonato mettendo insieme pezzi dati in prestito da persone comuni e con le cene nelle quali ognuno portava qualcosa, compresi i senzatetto, che quando potevano prendevano qualche merendina in più alla mensa della Caritas. A volte erano degli sconosciuti passanti a portarci qualche panino e un pacco di biscotti. Avevamo persino trovato il modo di fare delle vere e proprie tavolate comuni.

    Avevamo una piccola biblioteca di strada e una mostra fotografica, appesa ai muri esterni di Palazzo d’Accursio, e avevamo adornato il monumento ai partigiani di piante vive, che con le loro radici dovevano opporsi alle corone di fiori morenti deposte dalle autorità. Gli spazzini venivano a salutare quelli di noi ancora svegli nel cuore della notte, e poi passavano oltre, senza neanche scendere dal furgoncino. Piazza del Nettuno, nonostante il caos di pentole, cartelli, coperte, teli anti-pioggia, a detta sempre degli stessi spazzini, non era mai stata più pulita.

    Noi, poi, avevamo l’assemblea, una cosa che non si è vista, che io sappia, nelle proteste di questi giorni. Tra i forconi bolognesi, per lo meno, so di per certo che l’unico vago scimmiottamento di questa pratica è stato portato da un pittoresco personaggio locale, e non certo dai promotori. Da noi, l’assemblea prendeva le decisioni, ed era davvero aperta e libera da scelte predeterminate, persino troppo. È vero, assomigliava a un raduno di fricchettoni fuori tempo massimo, ma tanto quanto i gruppi che oggi vanno a minacciare i negozianti, tra cui quelli di una libreria di sinistra, sembrano squadracce fasciste.

    Militanti politici se ne videro, certo. Erano diversi i/le compagn* che passavano e che avevano voglia di “sporcarsi le mani”. Pochissimi, però, in confronto ai numeri che contavano allora le realtà di movimento bolognesi. Meno ancora le realtà organizzate che erano intervenute, per così dire, mettendoci la faccia. Molt* di noi scrutavano l’orizzonte in attesa di quella stragrande maggioranza di realtà di movimento, con le loro analisi avanzate e la loro capacità organizzativa, che ci ignoravano, insieme al 90% di giornali, radio e tv, anche locali. Continuarono a ignorarci, lanciandoci persino addosso il sospetto di cripto-fascismo, oggi tanto stigmatizzato quando pure in piazza ci sono i fascisti veri. Quel movimento confuso, sconclusionato, ignorante – ma lo eravamo poi tanto? – finì come era iniziato, senza analisi sociologiche o dilanianti discussioni a dirimerne le ambivalenze, quelle sì, proficue.

    Ora, perché a due anni di distanza, con i forconi ci si comporta così diversamente? Perché d’improvviso quel movimento che di spontaneo ha davvero poco, che risponde a parole d’ordine reazionarie, che picchia e minaccia, che applaude Forza Nuova e fischia la Fiom, diventa un terreno d’intervento così imprescindibile? Non dico che sia sbagliato intervenire, laddove in piazza ci sono i poveri che Revelli descrive, ma perché ora sì e allora no? Non è che il fatto che su quelle proteste siano accesi tutti i riflettori del paese c’entra qualcosa? Non è che il senso comune di sinistra è finito anche un po’ perché in passato è stato ignorato, considerato troppo spurio e irrecuperabile?

    È vero, c’è un grande lavoro di rialfabetizzazione da fare e c’era anche allora. Ma allora c’era gente comune – non militanti politici o lavoratori della cultura, ma studenti, operai, disoccupati, lavoratori sepolti nel sotterraneo del nero, senzatetto e migranti – che in piazza, invece della bandiera italiana, spontaneamente, perché sembrava loro un bisogno, portava una biblioteca.

    tratto da qui

    Non partecipai attivamente a quelle piazze, due anni fa, ma sono tanto, tanto, tanto d’accordo con te. Allora mi ero entusiasmato pure io all’idea di ricomporre una dimensione umana ancor prima che sociale, e non riuscivo a spiegarmi perché tanta puzza sotto il naso da parte di un buon numero di strutture di movimento. “Occupare le piazze da noi non funziona”, “non possiamo investire energie in un progetto del genere, è troppo rischioso”, “non è mica come l’anno scorso, quando c’era una macrovertenza (politiche gelminiane) intorno a cui costruire la mobilitazione”. Questo mi si rispondeva quando chiedevo perché non provarci, perché non essere presenti, condividendo tutte quelle parole d’ordine, idee, pratiche, accumulate in anni e anni di militanza e di esperienza. I movimenti sociali decisero di non rischiare, decisero che non era terreno fertile su cui intervenire.

    Ora invece spunta fuori che è stando nelle piazze, anche quando non le si è convocate, che si riesce a incidere sul reale. Spunta fuori che non è “troppo rischioso” cercare di conquistare certe simpatie (che è anche vero, ma perché due anni fa lo era?). Spunta fuori che della macrovertenza ce ne possiamo anche infischiare, l’importante è la radicalità diffusa, nelle pratiche prima che nei contenuti.

    Quegli stessi che decisero che non valeva la pena investire energie sulle piazze diffuse del 2011, ora hanno deciso che questo è terreno fertile. Del resto, è la merda a fare fertile il terreno.

  • Il disimpegno francese sul TAV visto da La Repubblica

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    Chi ieri pomeriggio ha aperto la prima pagina del sito de La Repubblica ha trovato a grandi lettere il titolo

    verticetav

    da cui si evince una volontà politica di entrambi i governi francese e italiano di confermare l’impegno nel progetto di costruzione della linea TAV.
    Tralasciando l’inaccuratezza dell’informazione data (visto che non si è trattato di un vertice specifico sulla questione TAV, come potrebbe sembrare da un titolo come quello proposto nonché dall’organizzazione dei contenuti dell’articolo, che la mette esageratamente in risalto rispetto al resto degli argomenti discussi da Letta e Hollande), cerchiamo di capire in che misura si può parlare di TAV come «priorità per entrambi i governi» italiano e francese.

    Dalla lettura dell’articolo emerge un solo dato in merito alle misure che i due governi intendono adottare in collaborazione, e dunque in merito ai contenuti di tale vertice spacciato per vertice TAV. E tale dato è: “…da Italia e Francia è stato confermato l’impegno ad adottare il prima possibile le misure necessarie per ottenere il cofinanziamento comunitario. Partendo, nel 2014, dalla presentazione alla Commissione europea di una domanda congiunta per avere il massimo sostegno finanziario nel periodo 2014-2020 (finanziamenti già in parte promessi da Bruxelles lo scorso 17 ottobre)”.

    A parte le richieste di finanziamenti all’UE da sostenere congiuntamente, non si parla di reali finanziamenti.

    E infatti Hollande, appena qualche mese fa, ha rinviato di 15 anni quella che secondo i giornali nostrani sarebbe una “priorità”: dal punto di vista politico, per Hollande significa lavarsene le mani, ovvero ammettere la mancanza di volontà politica di occuparsi del progetto e quindi di sostenerlo.

    In conclusione La Repubblica è riuscita a trasformare l’intenzione di una domanda congiunta di finanziamenti in parte promessi in impegno concreto, addirittura “prioritario”, del governo Hollande sulla questione TAV, ignorando deliberatamente che sul fronte francese il governo ha rinviato il progetto.
    Il titolo dell’articolo non è falso, ma di certo fuorviante, e tale ambiguità è data sia dall’omissione di un dato importante, sia dal peso dato al fatto che Hollande e Letta dicano di essere d’accordo, a prescindere da ciò che poi realmente fanno.

    Il motivo per cui tale scelta editoriale è stata operata è banale: ieri a Roma, durante il vertice Letta-Hollande, c’era un presidio cui hanno aderito i movimenti per il diritto alla casa e al reddito, nonché il movimento NoTAV. Occorreva criminalizzare il dissenso, e quale strategia adottare se non il richiamo al movimento NoTAV e a tutto ciò che ormai esso evoca nel lettore infarcito di narrazioni tossiche, quali violenza, estremismo, terrorismo? Definire il vertice come prevalentemente accentrato sulla questione TAV era necessario ad innescare il frame dominante e a richiamare tutta una sfera semantica che automaticamente le è associata: citare il TAV era necessario per rimandare alla contrapposizione con il movimento NoTAV.

    Ma la trappola editoriale de La Repubblica non è l’unica messa in moto ieri: è stata tesa anche una trappola di altra natura, in via Giubbonari a Roma.
    Infatti, dal presidio a Campo de Fiori si è staccato un corteo che è stato circondato dalla celere, in assetto antisommossa. La polizia ha anche bloccato tutte le possibili vie di uscita dalla piazza, trasformando il flusso di persone verso le vie laterali in una calca senza la possibilità di indietreggiare né avanzare, che è stata prontamente caricata. Una tale gestione della situazione non può che essere definita una provocazione: non si può pretendere di schierare la celere, circondare i manifestanti, bloccare ogni uscita per poi stupirsi se si verificano scontri. Lo scontro è voluto, cercato, progettato ad hoc da chi gestisce in questa maniera l’ordine pubblico (cosa a cui, tra l’altro, il dissenso non dovrebbe essere ridotto). Inoltre, è facile cercare lo scontro quando si è bardati, protetti, addestrati ed equipaggiati militarmente.

    Insomma, complimenti a La Repubblica e complimenti alla questura di Roma.

    EDIT:

    Qui un video per chiarire ancora meglio chi cercava lo scontro ieri a Roma.

  • La Convenzione Nazionale si parlava addosso

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    Se non si fosse parlato, niente sarebbe accaduto
    Victor Hugo, Novantatré

    Ai tempi del liceo, ero molto attivo in un’associazione studentesca e questa attività impegnava una parte rilevante del mio tempo. Le assemblee, o meglio le riunioni come le chiamavamo, erano essenzialmente condotte per curare i dettagli organizzativi e fare il punto della situazione delle iniziative in corso o in progetto.
    Chi si occupa di fare queste fotocopie? Quando facciamo una colletta? Cosa ci scriviamo sul cartellone? Qualcuno ha aggiornato il sito? Com’è andata a finire per quel progetto?
    Il risultato era che, alla fine della riunione, ti sentivi molto attivo e impegnato, ma non avevi imparato nulla che non fosse contingente: la riunione si riduceva a un momento di definizione dei compiti e della loro assegnazione. Conosco bene, così, la sensazione di aver discusso per ore senza aver costruito qualcosa di più grande, importante e generale delle singole azioni, insomma senza aver definito esplicitamente una linea politica basata sull’analisi delle circostanze.

    Oggi riconosco in questo fatto una tendenza generale, che deriva dall’abbandono di una visione alternativa della società. È la tendenza secondo la quale l’era delle grandi narrazioni è finita, che propugna la fine delle ideologie e la necessità di un pensiero debole, che non aspira più a sistemi onnicomprensivi o a progetti di emancipazione globale, ma solo a forme specifiche di resistenza e intervento.

    Questa rinuncia è visibile sia dall’interno che dall’esterno delle associazioni e dei movimenti. Dall’interno, come appena descritto, manifestandosi come incapacità di discutere criticamente il reale creando una visione alternativa totale; dall’esterno, il fenomeno è altrettanto evidente, e l’esempio più lampante e chiaro nella sua immagine è senza dubbio costituito non solo da eventi organizzati da movimenti “non proprio movimenti”, come i V-Day di Beppe Grillo e il No Berlusconi Day del Popolo Viola, ma anche da altri costruiti e sostenuti da movimenti nel vero senso del termine, come il “No Monti Day” (mi sento idiota solo a scriverlo) e tutta una carrellata di No Qualcosa Day, ormai una moda, anche per questioni di marketing.
    Non sfuggono del tutto alla trappola neanche movimenti al di sopra di ogni sospetto, come i NoTAV, la cui battaglia rischia di passare per particolaristica (nonostante l’impegno dei militanti atto a scongiurare una visione “NIMBY” delle loro motivazioni) e richiedente un intervento circoscritto e non un cambiamento generale.

    C’è davvero bisogno di una giornata contro Monti, una distinta contro il debito, una separata per difendere l’articolo 18, un’altra contro la corruzione, una ancora per la libertà di stampa, un’ultima per difendere gli operai Alcoa, Ilva, Fiat e così via?

    Il Movimento per eccellenza in Italia, quello con la M maiuscola, cioè quello studentesco, che è anche l’unico movimento democratico di massa che la storia repubblicana abbia conosciuto dopo la Resistenza (forse anche da quando la storia repubblicana non era), ci ricorda che, quando esiste un movimento radicato, nelle strade e nelle piazze non si scende per questo o per quello, ma “per il movimento”. E il movimento include tutte le lotte, è onnicomprensivo, è globale, è totale. Può anche sembrare un discorso misticheggiante, ma questo dovrebbe essere un movimento: dovrebbe volersi appropriare anche del mistico, dello spirituale, dei sogni (non ci credo che lo sto scrivendo). Con questo non voglio scadere in una retorica romantica e ingenuamente inconcludente, bensì cercare di dire che non è solo il materiale che conta nell’impegno, ma anche l’immateriale. È l’immateriale che trascina il materiale, e non viceversa. Chi chiede di stare “coi piedi per terra” soffoca la spinta creativa: l’impegno è qualcosa che noi facciamo “per sentirci noi stessi come entità fisico-psichiche”, come dice Verdone.

    Che effetti ha un approccio episodico e strettamente programmatico e a breve, al massimo medio termine, sulla radicazione dei movimenti? Sicuramente ne ha uno negativo: l’incapacità di parlare. Oggi siamo convinti che un forum o una chat comune possano sostituire il dialogo di persona; che un invito sui social network possa fungere da volantino; che ragionare, analizzare, discutere fino a notte fonda dei massimi sistemi, parlare sia una perdita di tempo rispetto all’imminente necessità di realizzare azioni e organizzare eventi; perché pensiamo che parlare non sia altro che parlarsi addosso senza concludere mai niente.
    Ma sbagliamo, perché è questo “parlarsi addosso” che fa crescere i movimenti.
    La Convenzione Nazionale si parlava addosso.
    Impariamo a parlare, le parole sono armi in quanto idee.