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  • Le lenti pervasive che non sai di avere: riflesso coloniale e guerra in Ucraina

    Esistono cose talmente normali da essere invisibili. Quando un valore è alla base stessa della società e ne struttura ogni aspetto, perché intrinsecamente integrato alla realtà sociale non solo ideologicamente, in quanto legato al pensiero comune e alla logica politica dominante, ma anche proprio materialmente, in quanto incorporato nei rapporti di forza presenti nella società e percepito da tutte o quasi tutte le sue componenti come naturale, allora ovviamente quel valore si fatica a vederlo e riconoscerlo. Proprio perché è ovunque: non è un particolare valore, è la normalità.

    Chi dalla nascita indossasse un paio di lenti rosse, incollate al viso senza possibilità di sfilarsele, avrebbe serie difficoltà a concepire un mondo non pervaso da una particolare sfumatura color sangue. L’Europa, e in particolare l’Europa occidentale, ha un problema: indossa da secoli un paio di lenti di cui non ha alcuna intenzione di sbarazzarsi e attraverso cui vede, interpreta, giudica, agisce. Queste lenti sono il riflesso coloniale. Non si tratta soltanto del retaggio ottocentesco di chi, sotto il peso del fardello dell’uomo bianco dell’opera di Kipling, cioè della presunta responsabilità storica e morale di “civilizzare” il resto del mondo, organizzava spedizioni militari con l’elmetto e la camicia color kaki; o di chi, rispettivamente nel 1896, 1899 e 1900, in divisa statunitense e britannica, inventava i campi di concentramento a Cuba, nelle Filippine e in Sudafrica, idea poi ripresa dai nazisti dopo decenni di rodaggio da parte delle potenze coloniali; si tratta anche di chi concepisce la storia come un percorso lineare e progressivo verso forme “più elevate” di organizzazione sociale (occorre dire che corrispondono al modello occidentale?); di chi crede che la democrazia e il sapere scientifico siano prodotti di una “cultura occidentale” che parte dalla civiltà greco-romana e prosegue verso l’Illuminismo passando per le “radici giudaico-cristiane” dell’Europa; di chi, con riflesso eurocentrico e orientalista consapevole o inconsapevole, ritiene la razionalità un carattere unico e distintivo del mondo occidentale moderno. Il riflesso coloniale è una questione di lettura di se e degli eventi del mondo, e il razzismo esplicito è solo un suo caso particolare.

    Restando in tema di lenti e di ottica, il riflesso coloniale è quindi uno spettro: si può scomporre come la luce che attraversando un prisma genera lo spettro dei colori da un unico fascio di luce bianca. Il riflesso coloniale si scompone in uno spettro che va dal razzismo genocidiario all’umanitarismo terzomondista e a un certo tipo di solidarietà. Sono colori diversi ma appartengono allo stesso fascio di luce.

    Nelle ultime settimane, parlando della guerra in Ucraina, il riflesso coloniale si è manifestato in diverse sue sfumature, nella lettura di diversi aspetti della situazione attuale: nella narrazione che viene fatta del popolo ucraino, nel trattamento della persone in fuga dalla guerra, nella demonizzazione di Vladimir Putin e il retroterra ideologico della politica delle sanzioni, infine nella narrazione di ciò che avviene in Russia sotto il fascismo putiniano.

    Civili cercano riparo sotto un ponte distrutto dai bombardamenti dell’aviazione russa, sul fiume Irpin (AP: Emilio Morenatti)

    La narrazione che vede il popolo ucraino solo come passivo

    Il riflesso coloniale è innanzitutto un atteggiamento collettivo. Tale atteggiamento riflette un ordine materiale costituito da ben precisi rapporti di forza che seguono la linea del colore, il regime della bianchezza; è anche allo stesso tempo prodotto e origine di precisi modelli di comportamento e di visione di sé che costituiscono il nocciolo psicologico del suprematismo bianco. Riflesso coloniale non è solo credere nella superiorità di chi è nato da questo lato delle frontiere del mondo, ma anche in quella del suo punto di vista: le altre prospettive sono viste come incomplete, ingenue, deviate, manovrate, parziali. Il punto di vista occidentale si spaccia invece per oggettività: è descrittivo e aderisce ai fatti, si basa su principi universali, valuta scientificamente il corso degli eventi.

    Questo atteggiamento si riscontra, in forma esplicita o velata, nella stragrande maggioranza delle persone, incluse quelle che, nel così detto Occidente, si reputano di sinistra, alcune delle quali nelle ultime settimane rischiano di rivelarsi i più fieri giustificazionisti dell’imperialismo russo: condannano l’aggressione ma con riserva, criticano aspramente qualunque ipotesi di aiuto logistico o militare alla popolazione ucraina aggredita, organizzano manifestazioni genericamente “contro la guerra” senza nominare chi la fa (nominando invece la NATO, unico vero nemico), sbandierano gli stessi argomenti addotti da Putin come giustificazione della guerra (la presenza del battaglione di Azov nell’esercito ucraino, le violenze nelle regioni russofone dell’Ucraina orientale, l’espansionismo della NATO; manca solo la corruzione morale dell’Ucraina governata da “gay, lesbiche e trotzkisti”, ma forse Marco Rizzo potrebbe essere d’accordo anche su quello).

    Praticamente tutti i sondaggi in Ucraina (senza eccezioni, almeno stando ai sondaggi pubblicati) mostrano che la maggioranza degli intervistati vorrebbe l’ingresso del paese nella NATO e auspicherebbero un intervento da parte della NATO in caso di invasione da parte della Russia? Dei sempliciotti, non sanno veramente cosa fanno. Certamente il giudizio di queste persone è manovrato dalla NATO, unico vero potere contro cui valga la pena lottare, cioè ovviamente quello designato, perché giustamente percepito come tale, da chi vive nei paesi “occidentali”. Guai a chiedersi il perché di questo interesse per l’ingresso in un’organizzazione militare internazionale espressione dell’imperialismo statunitense, oltre alla semplice manipolazione dell’opinione pubblica ucraina da parte della NATO espansionista e dei suoi servi: il punto di vista di quelle persone non si chiede nemmeno, e se lo si chiede non lo si ascolta, e se lo si ascolta non lo si prende molto seriamente. Perché esiste un solo punto di vista che sia veramente universale, che descrive la vera realtà dei fatti del mondo, e che dovrebbe essere una guida, una luce nella notte per tutte le pecorelle smarrite: il punto di vista di chi vive in un paese occidentale (e magari è anche bianco, maschio, eterosessuale, benestante e così via, ma meglio non aggiungere carne al fuoco) e che giustamente vede nella NATO la principale minaccia alla pace nel mondo. Chi ragiona così non riesce neanche a concepire che cercare un modo -un qualsiasi modo, anche disperato- di difendersi militarmente anche in maniera preventiva può essere una questione letteralmente di vita o di morte: per chi non ha il privilegio strutturale di vivere in un paese che non rischia di essere invaso dall’oggi al domani dalla superpotenza della regione, la priorità maggiore potrebbe essere difendersi dalla Russia, non dalla NATO.

    Lo striscione di Rifondazione Comunista in risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia

    Questa posizione non da ascolto alle persone direttamente coinvolte nel conflitto. Esse vengono schiacciate in un falso bipolarismo geopolitico che soffoca la voce di qualunque forma di vita irriducibile a una rappresentazione. L’incapacità di riconoscere la legittimità di chi si trova in posizione di potere strutturalmente sfavorevole e di ascoltarne seriamente la voce è una delle forme in cui si manifesta il riflesso coloniale. La solidarietà con una vittima è prima di tutto legittimare la sua versione dei fatti, non lasciarla sola, non parlare per suo conto a meno che ciò non sia espressamente richiesto: altrimenti, è sovradeterminazione. E la sovradeterminazione, compagne e compagni, è riflesso coloniale.

    Solidarietà con una persona vittima di discriminazione razzista o sessista significa rifiuto di argomentazioni sistematicamente addotte a difesa dell’aggressore che immancabilmente mettono in dubbio la parola della vittima (“bisogna approfondire”, “cosa ne sappiamo noi di come sono andate le cose”, “la questione è più complessa di quello che sembra”). Ciò non significa che la vittima ha sempre ragione, che la sua versione è sempre quella che corrisponde alla realtà scientifica oggettiva e misurabile dei fatti; ma il primo riflesso di una persona che si dichiari in solidarietà dovrebbe essere far sentire la vicinanza alla vittima, evitare di parlarle sopra o al posto suo, considerare e sostenere il suo punto di vista, anche avendo qualche dubbio. Pensate a come vi sentireste voi se foste vittime di violenza (di qualsiasi tipo) e qualcuno minimizzasse. La chiamereste solidarietà?

    La maggior parte delle piazze convocate dalla comunità ucraina in Italia contro l’invasione del 24 febbraio non hanno tra le parole d’ordine riferimenti alla NATO. Chi vuole partire dalla questione dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ed estendere la critica all’imperialismo in generale, e dunque anche quello statunitense o quelli europei, può farlo senza scavalcare la comunità con cui si sostiene di essere in solidarietà. Per esempio, può denunciare “ogni imperialismo”; invece, parificare il ruolo di Russia e NATO nell’invasione dell’Ucraina dichiarandosi “né con Putin né con la NATO” sarebbe come chiamare piazze in solidarietà col popolo palestinese con la parola d’ordine “né con Israele né con l’Iran”, solo perché l’Iran è nemico di Israele nello scacchiere geopolitico.

    Alcune persone oggi sono alle prese con questioni di vita o di morte. Se non vi piace esattamente il loro posizionamento politico e volete convincerle ad aderire al vostro, innanzitutto aiutatele a sopravvivere alle bombe. Nessuno nasce con la linea corretta impressa nel cervello. Date loro la solidarietà che meritano in quanto vittime di aggressione militare.

    Questo è un buon momento (l’ennesimo, a dire il vero) perché la sinistra occidentale ripensi il proprio approccio alle questioni di potere che coinvolgono persone o regioni del mondo che non godono degli stessi privilegi strutturali. Un buon inizio, adesso, sarebbe smettere di considerare gli oltre 40 milioni di persone in Ucraina come dei sempliciotti senza chiavi di lettura per comprendere a fondo la realtà del proprio paese e incapaci di compiere scelte politiche consapevoli. Continuare a fare questo, come sottolineato da un anarchico in Gran Bretagna, di origine polacca, sarebbe westplaining. Ovvero, un atteggiamento tipico del riflesso coloniale. A conferma di ciò, non è un caso che le letture più lucide sulla questione, fuori dall’Ucraina, si manifestino nelle parole del comunicato del movimento zapatista, che di colonialismo sa qualcosa, e di quello dei rivoluzionari siriani in esilio in Francia, che hanno subito le conseguenze della stessa incomprensione e arroganza da parte della sinistra occidentale quando l’assassino era Assad. In queste letture, il primo punto è: ascolta le voci di coloro che sono stati immediatamente colpiti dagli eventi.

    Due pesi, due misure: il colore di chi fugge

    “So cosa vuol dire dover lasciare la propria casa, la propria famiglia, per fuggire dalla guerra, e voglio aiutare chi, adesso, sta vivendo questo in Ucraina. Ma voglio anche sapere perché noi in fuga non dall’Europa abbiamo dovuto morire di freddo nella foresta. […] Com’è possibile che a una frontiera si picchia la gente e all’altra si offrono zuppa e biscotti? Non è forse razzismo?”. Queste le parole di Ibrahim, che ha vissuto il razzismo delle politiche migratorie europee al confine tra Polonia e Bielorussia, dove da mesi migliaia di persone sono bloccate senza via d’uscita, rifiutate dalla polizia bielorussa e respinte dalle guardie di confine polacche, con cui collaborano gruppi di neonazisti armati a caccia di stranieri.

    Una giornata come tutte le altre al confine tra Polonia e Bielorussia (immagine Reuters). The Guardian pubblica questa immagine in un articolo che da a Bielorussia e Russia la colpa per il trattamento disumano di queste persone da parte della Polonia.

    Le frontiere sono state subito aperte e l’accoglienza nei paesi dell’Unione Europea subito garantita alle persone provenienti dall’Ucraina, ma non è riservato a tutte lo stesso trattamento: fin dall’inizio della fuga, centinaia di persone afrodiscendenti hanno raccontato che dopo aver vissuto la difficoltà ad accedere ai treni speciali organizzati in Ucraina per l’evacuazione dei civili, in cui era regola la precedenza a “donne e bambini” bianchi, seguiti da uomini bianchi e solo infine da donne e bambini non bianchi, è stato ostacolato loro in ogni modo l’ingresso in Polonia, accompagnando tutto questo ancora una volta a una separazione fisica da tutte le altre persone e aggiungendo la minaccia di sparare, in una pratica che è letteralmente politica di apartheid (nazista, sudafricano, o statunitense degli anni Sessanta?).

    Chi ha continuato a viaggiare verso ovest ha visto la polizia tedesca alla frontiera tra Polonia e Germania bloccare tutti i treni, salire e letteralmente chiedere alle persone nere di scendere dal treno. La richiesta è stata motivata dalla necessità di controllare gli ingressi di persone di nazionalità diversa da quella ucraina, ma la spiegazione non regge: se fosse stata una questione di nazionalità, la polizia avrebbe parlato di nazionalità, non di colore della pelle.

    In questo caso, il riflesso coloniale è evidente e si esprime nella sua forma più conosciuta e spettacolarizzata: il razzismo vecchio stile, quello basato sull’aspetto fisico. Lo stesso razzismo è all’origine dei commenti sgomenti che hanno popolato fin da subito la descrizione del teatro di guerra ucraino: “questo non è un paese del terzo mondo, ma un paese europeo civilizzato”, “sto vedendo morire ammazzati bambini con gli occhi azzurri”, “stiamo parlando di persone che fanno una vita simile alla nostra, lasciano una casa con la TV e scappano in auto”, il repertorio potrebbe continuare a lungo e molte di queste frasi sono state pronunciate da giornalisti in diretta televisiva, dando a intendere neanche troppo velatamente che la guerra in un paese non civilizzato (qualunque cosa significhi), la morte di bambini dagli occhi neri e la tragedia di lasciare la propria casa senza possedere un televisore sarebbero meno toccanti.

    Un’infelice dichiarazione di Riccardo Chiaberge, giornalista e inspiegabilmente direttore scientifico per l’Enciclopedia Treccani, spiega il perché di tale differenza di trattamento: “Hanno più o meno le nostre abitudini di vita, la TV il frigorifero l’auto il fast food, quindi facciamo meno fatica a immedesimarci. Chi di voi riesce a immedesimarsi in un bambino yemenita? Giusto provarci, ma non è facile” (il tweet è poi stato rimosso, ma era così).

    Sana’a, capitale dello Yemen. Come vedete, zero automobili.

    A chi dice che questa particolare simpatia per chi fugge dalla guerra in Ucraina è dovuta al fatto che “l’Ucraina è più vicina”, andrebbe fatto notare che l’est dell’Ucraina non è più vicino di quanto lo sia la Siria (paese di provenienza di milioni di rifugiati dal 2011, trattati come bestiame dall’Unione Europea e da paesi compiacenti, come la Turchia, pagati dall’Unione Europea in miliardi di euro). Per non parlare della Libia, che dalle coste italiane dista qualche centinaio di chilometri ma da cui si fa di tutto per limitare gli arrivi e a cui si finanzia, invece, la costruzione di lager per contenere i flussi migratori mentre le guardie libiche abbandonano la gente nel deserto senz’acqua. Se poi qualcuno si affrettasse a correggere il tiro precisando che l’empatia per chi fugge dalla guerra in Ucraina è dovuta al fatto che l’Ucraina è “vicina” ma non in senso geografico, si potrebbe obiettare che anche per la Siria sulle pagine di alcuni giornali a tiratura nazionale (come Il Fatto Quotidiano, Famiglia Cristiana o La Repubblica) si era evocata una “terza guerra mondiale” che potrebbe coinvolgere i paesi europei, senza per questo suscitare tale moto di empatia e solidarietà. Chiaramente il distinguo non è dovuto a quel rischio, ma piuttosto all’eurocentrismo e al razzismo di chi è capace di solidarizzare solo con chi scappa da un paese che nella gerarchia razziale globale occupa una posizione relativamente elevata, o perlomeno sufficiente per meritarsi sincera solidarietà. La Danimarca, che dal 2016 confisca i beni dei rifugiati afgani e siriani oltre una certa soglia di ricchezza, ha annunciato che non applicherà questa odiosa legge razzista sui rifugiati ucraini (a conferma del fatto che si tratta di una legge scritta con intenti razzisti).

    Due pesi, due misure. Nelle piazze solidali con l’Ucraina si trovano bellissime parole sull’accoglienza di chi fugge dalla violenza e dalla morte, ma è molto difficile trovare riferimenti alla totale assenza di solidarietà dell’Unione Europea ai propri confini nei confronti di praticamente tutte le persone diverse da quelle provenienti dall’Ucraina (e con gli occhi azzurri). Nessun accenno al fatto che quell’avamposto dei sacri e tanto sventolati valori dell’Unione Europea che è la Polonia sta costruendo un muro anti-migranti alto più di 5 metri, dotato di telecamere, sensori termici e filo spinato al confine bielorusso, mentre impedisce selettivamente il passaggio delle persone non bianche in fuga al confine ucraino. Nel frattempo, media vicini ai paesi del patto di Visegrad dichiarano (per poi eliminare le dichiarazioni) che “gli africani in Ucraina non dovrebbero scappare, ma restare a combattere” contro l’esercito russo, come carne da macello.

    In Italia, quando Salvini ha detto che “l’Italia ha il dovere di spalancare le porte a chi scappa” perché “questi profughi sono veri e scappano da guerre vere” è veramente incredibile che a nessuno sia venuta voglia di insorgere contro la Lega; al contrario, seppure la cosa ha stupito alcuni giornalisti, questi hanno continuato a porgergli il microfono. Per quanto se ne sa, assolutamente nessuno di loro, né nessuna tra le figure politiche di rilevanza nazionale, ha reagito accusandolo di razzismo. Lo stesso vale per la vicenda di Salvini a Przemysl, in Polonia, dove è stato contestato dal sindaco in persona (di estrema destra pure lui) che si è rifiutato di rivolgergli la parola per le sue precedenti simpatie per Putin: parte del giornalismo italiano ha riportato la notizia sogghignando, ma avrebbe difficoltà a spiegare il fatto che molto spesso, invece di fare lo stesso e umiliare Salvini per le vergognose posizioni razziste, lo si intervista senza battere ciglio, lo si invita ai salotti televisivi, non gli si ribatte mai. La legittimazione che il giornalismo italiano offre a Salvini ogni giorno lo rende razzista tanto quanto Salvini: chi non lo umilia quando può è complice, perché non è antirazzista, ma solo antisalviniano, una posizione interna al campo razzista.

    Se l’avere a che fare così intensamente ed emotivamente con la questione delle frontiere non apre alcun dibattito sulla natura e la gestione generale delle frontiere; se le dichiarazioni razziste di un noto esponente politico non suscitano accuse di razzismo, ciò non può essere per caso. In psicologia, si dice che è un rimosso. Come il rimosso coloniale.

    La demonizzazione di Putin per difendere l’Europa

    La più grande manifestazione contro la guerra in Ucraina è stata quella di Berlino del 27 febbraio, partecipata da circa mezzo milione di persone. Difficile fare una statistica, ma la stragrande maggioranza dei cartelloni e degli slogan di quella manifestazione parlavano di Putin. Molti lo accostavano alla figura di Hitler. Esistono qui due problemi: il primo è la personalizzazione, il secondo la demonizzazione.

    Manifestazione contro la guerra in Ucraina, Berlino, 27 febbraio 2022

    Chiaramente, in questo contesto specifico, Putin è il volto dato a una forma di fascismo che si afferma tramite una politica di aggressione imperialista. Tuttavia, nonostante i numerosi accostamenti a Hitler, il fascismo non è quasi mai nominato (e ancor meno lo è l’imperialismo). Il motivo è abbastanza facile da intuire: riconoscere il fascismo di Putin e nominarlo per ciò che è significherebbe dover fare i conti con i vari fascismi nei paesi europei e dei paesi europei – che guardacaso sono stati o sono tuttoggi molto vicini a Putin, finanziariamente e politicamente. Cosa si può fare, da questo lato del continente, per solidarizzare con chi subisce l’aggressione e contrastare il potere fascista imperialista della Russia di Putin? Gli slogan contro Putin sono facili (del resto, anche il nome si presta a una miriade di giochi di parole almeno in tutte le lingue romanze), ma dove sono gli slogan contro gli amici di Putin? Il primo è lontano, ma i secondi sono spesso letteralmente sotto casa, o sui santini elettorali, se non tra gli scranni del Parlamento. Governi, capitalisti, istituzioni europee che con Putin e la sua cricca fanno affari da decenni. A loro, come ricordato nella parte precedente, si porge il microfono.

    Concentrarsi su Putin anziché su ciò che Putin rappresenta permette quindi di distogliere in generale l’attenzione dall’Europa, che ne esce candida e pulita: tutta la colpa è della Russia di Putin. Si badi bene che questa analisi non è in contraddizione con quanto detto sopra riguardo alla NATO. Se la colpa non è tutta della Russia, si potrebbe rispondere, allora non avrà colpe anche della NATO? La risposta -non ironica- è sì: la NATO ha sempre colpe. Tuttavia, anche parlare delle colpe della NATO significa puntare il dito su qualcosa di relativamente lontano: gli Stati Uniti (non ci si prenda in giro dicendo che l’Italia fa parte della NATO: è ovvio, ma non è questo il punto, visto che negli ambienti dell’anti-atlantismo non si fa altro che dire che essere parte della NATO rende i paesi membri burattini servi dell’imperialismo statunitense). Il risultato di questa operazione è molto simile: difende l’immagine dell’Europa. Chi, dall’alto del privilegio europeo, si preoccupa di difendere l’Europa, sta adottando un riflesso coloniale.

    Vi è poi la questione della demonizzazione. Non è un caso l’accostamento a Hitler, e non è un caso il fatto che tale accostamento anziché richiamare il fascismo ne allontani lo spettro: Hitler, e in generale il nazismo, è stato presentato come male assoluto da più di mezzo secolo di propaganda. Hitler era un folle, uno psicopatico, un demone. Non un fascista che agiva guidato precisamente dai propri principi politici. Nelle ultime settimane hanno abbondato analisi del personaggio Vladimir Putin, ipotesi sul suo profilo psicologico, riferimenti al suo essere folle, paranoico, psicopatico, narcisista, tra le altre cose (si cerchi su un qualcunque motore di ricerca “profilo psicologico Putin”).

    Si noti che, evidentemente, anche questa operazione difende l’immagine di un’Europa seria, saggia, composta, ragionevole, assennata, al contrario del folle Putin. Migliaia di utenti di Twitter capaci di prendere le difese dei manifestanti che nelle maggiori città della Russia hanno protestato contro la guerra in Ucraina, sarebbero pronti a chiedere l’arresto indiscriminato di migliaia di persone nelle manifestazioni che in Europa dissentono da scelte compiute da governi europei. Se Putin non è umano ma un demone, un qualcosa di ontologicamente diverso da Macron o Draghi, allora protestare contro Putin è accettabile e addirittura auspicabile, ma i movimenti che mettono in questione il potere in Europa occidentale sono teppisti, violenti, inaccettabile sfida al sistema democratico. I gilet gialli che dal 2018 protestano contro il ragionevole e assennato Macron sono degli incivili e dunque si sono meritati di essere arrestati e condannati a migliaia (oltre 12 mila), di essere repressi nel sangue (4500 feriti), accecati e mutilati dalla polizia (decine di vittime). Essere contro Putin va bene, ma mai e poi mai mettere in questione i governi “buoni”.

    Ricapitolando, i “due minuti d’odio” contro Putin sono giustissimi, ma bisognerebbe ricordare che in1984 di George Orwell i due minuti d’odio erano un dispositivo di costruzione del consenso. Che consenso si sta costruendo contro Putin se non quello intorno all’idea di un Occidente, in particolare un’Europa, ragionevole e razionale? E l’idea che l’Occidente sia ragionevole e razionale in contrapposizione alla Russia (fatta ovviamente coincidere con Putin – si veda di seguito) e magari a tutto il resto del mondo, cos’è se non riflesso coloniale?

    Manifestazione a Monaco: contro Putin ma non contro il fascismo?

    Il dissenso oscurato dalla narrazione geopolitica

    Un caso particolare del riflesso coloniale si trova infine nella narrazione di quanto avviene in Russia e Bielorussia, che vengono concepite e raccontate come blocchi monolitici, sovrapponendo governo e paese governato. Questa è una tendenza tipica delle letture puramente geopolitiche, che schiacciano ogni altro conflitto su quello tra potenze regionali o mondiali, ignorando la diversità di interessi interni a ogni singolo paese e le forze e i conflitti che ne scaturiscono. Nelle letture puramente geopolitiche, esistono la Russia, la Francia, la Turchia, ciascuna coi propri interessi da difendere, ma non le singole persone: gli interessi delle singole persone (o gruppi di persone) saranno sempre schiacciati da quelli delle entità geopolitiche, le uniche che scrivono veramente la storia, con cui si dovranno sempre misurare: alla Russia conviene invadere l’Ucraina, la Francia fa la Rivoluzione francese, la Turchia è contro la Grecia. Come nel gioco del Risiko.

    Inutile dire che, solitamente, chi adotta questo approccio e promuove questa visione è ben cosciente dei propri interessi particolari e della diversità di interessi e variegate posizioni politiche interne al proprio paese. Questa diversità, tuttavia, sembra sparire quando si parla di paesi altri: l’Altro è sempre indistinto, una rappresentazione astratta fatta di preconcetti e stereotipi, e non lo si conosce mai veramente, perché non è mai concepito in quanto individuo. E questa idea, a questo punto lo si sarà già capito, è riflesso coloniale. Si tratta letteralmente del mondo in cui l’Europa coloniale ha rappresentato e rappresenta i popoli nativi di ogni angolo del globo.

    Questa concezione sta dietro alla narrazione del tipo “noi contro loro” ampiamente adottata dai media occidentali (e certamente, in maniera speculare, anche da quelli russi), che da un lato ignora o depotenzia il dissenso in Russia e Bielorussia – così come fa con il filoputinismo in Europa costituito da gran parte dell’estrema destra e, involontariamente o meno, da parte della sinistra -, dall’altro alimenta il sentimento anti-russo a sostegno della politica di sanzioni abbracciata dai governi e le istituzioni occidentali. Allora fioccano – parallelamente alle sanzioni dirette contro “gli oligarchi”, cioè i capitalisti di nazionalità russa – le misure volte a discriminare le persone di nazionalità russa in quanto tali: studenti, attrici, atleti, ricercatrici. Sarebbero “loro” – questa entità indistinta – a sostenere il regime di Putin: avere la nazionalità russa equivale ad essere complice del governo russo, cioè contro di “noi”.

    L’opposizione di blocchi monolitici, cornice di lettura della realtà già ampiamente rodata nella retorica dello “scontro di civiltà” tra Occidente e Islam, non è una grossolana semplificazione: è una falsità. Basta parlare con le persone, ascoltare le loro storie e quelle delle loro famiglie. Gli esseri umani soffrono, partono, si innamorano, migrano, lottano, vivono spesso e volentieri contro le istituzioni di potere che controllano il territorio in cui sono nati, dalla notte dei tempi e in ogni angolo del mondo. La realtà pullula di esempi, è davvero improbabile non averne conosciuti anche da molto vicino. La facile accettazione della falsità che nega questi esempi è resa possibile dalla capillare diffusione nella società di una precisa ideologia, quella dello Stato-nazione, secondo cui nascere in un certo territorio è ragione sufficiente per finire sotto la tutela dello Stato che lo controlla e si dovrebbe poter trarre una qualche conclusione su di una persona esclusivamente dal fatto che è sotto tale tutela – il più delle volte per caso. Se si accetta questo meccanismo come “normale”, si percepiranno come “eccezioni” tutti gli innumerevoli esempi contrari, per quanto innumerevoli possano essere.

    “No alla guerra, libertà per i prigionieri politici”, Mosca (Evgenia Novozhenina/Reuters)

    Il dibattito è intossicato dal concetto insensato dello Stato-nazione a tal punto che pare impossibile immaginarsi altro, ragionare fuori da quella logica. Quasi nessun è capace di pensare al di fuori del prendere posizione come Stato, come se ciascun individuo fosse sovrapponibile, nelle sue scelte, a quelle dello Stato sul cui territorio si trova a vivere, o addirittura della cui nazionalità si trova, non per scelta, ad avere. Da qui i dibattiti poco entusiasmanti, tutti rigorosamente in prima persona plurale, su “cosa dovremmo fare”, che posizione “dovremmo avere”, che segnale “dovremmo mandare” in quanto Italia. L’Italia, in quanto Stato-nazione, non è meglio della Russia, e non si capisce per quale motivo chi ha a cuore i valori della solidarietà dovrebbe farvi affidamento.

    La narrazione “noi contro loro” non è che un diversivo e l’obiettivo è sempre lo stesso: fare apparire l’Occidente molto più diverso dalla Russia di quanto non sia. Mentre un ballerino russo o una ricercatrice russa non possono più lavorare perché fino a prova contraria sostengono la guerra voluta da Putin, al sottoscritto, di nazionalità italiana, nessuno ha mai chiesto di dissociarsi dalla guerra ai flussi migratori fatta di politiche omicide attuata dallo Stato italiano. In entrambi i casi, si tratta sempre di migliaia di persone che muoiono per precise scelte governative. Anche in questo caso, due pesi e due misure.

    E pensare che si potrebbero colpire specificamente gli interessi di Putin e dei suoi amici, ma non lo si fa perché salterebbe fuori che sono gli stessi interessi dei bravi capitalisti occidentali, che fanno parte della stessa cricca in un sistema di alleanze incrociate solo un po’ meno contorto di quello che unisce l’Occidente al terrorismo dell’ISIS.

    A dimostrazione di ciò, ai governi occidentali non sembrano essere piaciute le “sanzioni dal basso” messe in pratica da connazionali. A Biarritz due persone hanno fatto irruzione nella villa del genero di Putin, Kirill Shamalov, cambiato le serrature e invitato i rifugiati dall’Ucraina, per essere poi entrambi prontamente arrestati; a Colonia gli edifici di proprietà dello Stato russo occupati da un gruppo anti-militarista per dare alloggio a persone straniere e senzatetto sono a rischio di espulsione; a Londra il collettivo di occupanti della mega-proprietà del miliardario russo Oleg Deripaska, in Belgrave Square, è stato espulso manu militari quasi immediatamente, subendo quattro arresti. (Per chi avesse voglia di allungare la lista, qui si può trovare qualche idea). Tra gli “oligarchi russi” e chi sequestra dal basso le loro ricchezze in solidarietà col popolo ucraino aggredito, i secondi subiscono la repressione armata da parte dei governi “occidentali” a parole favorevoli alle sanzioni: gli stati “occidentali” proteggono con le armi le proprietà degli oligarchi russi, perché prima che russi sono miliardari, proprio come i miliardari occidentali, con cui condividono, fatta eccezione per brevi momenti storici, la gran parte degli interessi. Queste “sanzioni dal basso” hanno suscitato una certa simpatia e incontrato un certo favore presso l’opinione pubblica, perché dirette contro chi finanzia violenze imperialiste. E se qualcuno occupa la proprietà di un miliardario occidentale, non è la stessa cosa? Del resto, è veramente improbabile che un miliardario non abbia mai finanziato direttamente o indirettamente alcun progetto imperialista, inclusa la vendita di armi alla Russia, a ricordare ancora una volta il sistema di alleanze incrociate dissimulato dalla falsa narrazione del “noi contro loro”.

    Video dell’operazione della polizia anti-sommossa britannica in difesa degli interessi dell’oligarca russo Oleg Deripaska tanto odiato dal governo

    E si pensi a quanto accaduto sui treni tedeschi, al muro della Polonia, ai rimpatri forzati, ai barconi nel Mediterraneo: le politiche di muri, respingimenti, prigioni, esclusioni sono la norma della gestione dei flussi migratori a livello sovranazionale. In generale questo accade lungo tutte le migliaia di chilometri di frontiera della così detta Fortezza Europa: discriminazione, disumanizzazione, migliaia di persone annegate, assiderate, soffocate ogni anno. Non per incidenti ineluttabili, ma per deliberate scelte politiche. Dal punto di vista di quelle persone, nella loro esperienza materiale, le istituzioni europee non sono meno fasciste del regime di Putin.

    Ogni volta che si usa la prima persona plurale parlando di geopolitica, o più banalmente in qualunque discorso in cui si faccia cenno ad altri paesi; ogni volta che si traggono conclusioni su una persona basandosi solo sulla sua nazionalità; ogni volta che si identifica un governo col paese che governa, si conferma e si alimenta l’ideologia dello Stato-nazione alla base della guerra. Ideologia che, col corrispondente riflesso nazionalista, appare a troppe persone del tutto normale, proprio come il colonialismo e il riflesso coloniale, perché struttura intimamente la società e ne pervade ogni aspetto. Sarebbe ora di abbandonare entrambi questi riflessi prima che sia troppo tardi. Anzi, è già tardi, di qualche secolo.

    “Se ho un messaggio da dare, è che il mondo non è diviso in paesi. Il mondo non è diviso tra Est e Ovest. Voi siete americani, io sono iraniana, non ci conosciamo, ma comunichiamo tra noi e ci capiamo perfettamente. La differenza tra voi e il vostro governo è molto più grande della differenza tra voi e me; la differenza tra me e il mio governo è molto più grande della differenza tra me e voi; e i nostri governi sono molto simili” Marjane Satrapi

  • Sui fatti di Parigi

    Di fronte ai fatti parigini, occorre riflettere. Esiste oggi un’organizzazione che attacca popolazioni straniere in nome di una pretesa superiorità morale, che è fermamente convinta di agire nel giusto, è sostenuta da ingenti risorse finanziarie e fa ampio ricorso alla propaganda ideologica per incutere terrore ed ottenere consenso e, all’occorrenza, sottomissione. Questa organizzazione, negli ultimi quindici anni, ha mietuto centinaia di migliaia di vittime e prende il nome di Stati Uniti d’America. Con il supporto morale, economico e militare di altre organizzazioni (Stati alleati, aziende, potentati economici), essa ha assoggettato per decenni le popolazioni del Medio Oriente tramite il finanziamento di regimi dispotici e autoritari, ne ha calpestato il diritto all’autodeterminazione con la costruzione di governi fantoccio al servizio degli interessi neocoloniali, li ha depredati delle risorse dei loro territori, ha distrutto interi ecosistemi o ne ha minacciato l’esistenza mettendo in pericolo di vita innumerevoli comunità umane in ogni parte del globo terrestre.

    Dopo le morti di Parigi, si fa strada in Europa, con una forza di portata paragonabile forse solo a quella dei fatti dell’11 settembre 2001, l’idea che “ormai non ci si può più sentire al sicuro”, e anche se la probabilità di morire per un incidente su un volo di linea o cadendo da un’impalcatura resta ordini di grandezza più alta di quella di morire a causa di un attentato terroristico, forse ciò può esser vero; eppure, nella maggior parte del pianeta, è da parecchio tempo che “non ci si sente più al sicuro”, direttamente o indirettamente a causa di meccanismi appositamente costruiti per garantire che in piccole aree isolate ci si possa ancora sentire al sicuro: regimi repressivi che offrono il proprio apparato poliziesco per arrestare scomodi flussi migratori, governi compiacenti che promuovono legislazioni permissive in materia di sfruttamento del lavoro e dell’ambiente, totalitarismi conniventi che concedono la possibilità di trattare i prezzi del mercato petrolifero mondiale in cambio della facoltà di violare sistematicamente la dignità e i diritti umani, apparati di controllo che schiacciano la libertà di parola, servizi segreti che orchestrano e appoggiano sanguinosi colpi di Stato. L’ISIS in Iraq è nato proprio perché, anche grazie all’intervento statunitense, “non ci si sentiva al sicuro”. L’integralismo religioso ha fatto leva sul sentimento di rivalsa nei confronti dell’Occidente che occupa militarmente, sfrutta economicamente e impone propri modelli culturali, sociali e politici: da questo all’aggressivo espansionismo il passo è breve, dato che ad azione bellica statunitense ha corrisposto una reazione uguale e contraria, altrettanto bellica.

    Scopo di questa riflessione non è, tuttavia, parlare di chi ha organizzato gli attentati di Parigi. Stragi paragonabili per tributo di sangue e morte avvengono con una frequenza altissima, ma finché ci si sente al sicuro al di qua del filo spinato delle frontiere e finché quelle stragi sono patrocinate da un “totalitarismo buono”, lo spettatore non è scosso nella coscienza.Certamente, da spettatori europei non si può non restare allibiti e scossi di fronte a quanto è successo, già solo per una mera questione di più facile immedesimazione: le oltre centoventi persone morte a Parigi sono molto simili a noi, mediamente avranno avuto una giornata e una vita molto simili alle nostre giornate e alle nostre vite. Ma bisogna riconoscere che, aldilà di questo, l’indignazione, lo sconcerto e l’orrore che ci riserviamo di provare in occasioni come questa molto più che in altre sono arbitrari. Anzi, non proprio arbitrari: sono in buona parte indotti, così come in buona parte è sapientemente indotto il terrore che sarebbe significativamente ridimensionato se i giornali si esimessero dal raccontare la tragedia come “scontro di civiltà” (quando, a ben vedere, lo scontro è tra poteri legati da alleanze incrociate).

    Se, come c’è da aspettarsi, il terrore dell’opinione pubblica sarà usato come pretesto per la riduzione delle libertà individuali e collettive e degli spazi di agibilità politica, per la revisione delle politiche migratorie (come sta già accadendo in Polonia, nonostante immigrazione e terrorismo abbiano ben poco a che fare l’uno con l’altra), per favorire interessi geopolitici tramite guerre, violazioni di sovranità e “interventi umanitari” in cui si bombardano ospedali, allora mi dispiace ma tenetevi il terrore. “Al sicuro” devono potercisi sentire tutti, non voglio scegliere tra barbarie per cui parteggiare.

  • La contraddizione del cosmopolitismo

    «Non si integrano», si sente dire degli immigrati: non rinunciano alle proprie usanze, né alla propria lingua, né alla propria cultura, né smettono di nutrire un più o meno profondo senso di appartenenza alla propria comunità, cieco e irrazionale. In realtà, tutto questo è normale e comprensibile per chiunque sia stato emigrato per almeno un certo periodo della propria vita, incluso il sottoscritto, che in un paese straniero ha stabilito in generale molti più contatti e relazioni più robuste con italiani che non con la popolazione autoctona, nonostante la relativa somiglianza e vicinanza geografica, storica e culturale tra il paese di emigrazione e quello di immigrazione (figuriamoci dunque l’entità e l’intensità dei meccanismi individuali e collettivi che si innescano quando la differenza è parecchio più marcata). Il motivo è chiaro: tra persone appartenenti alla stessa comunità esiste un substrato, una base culturale e linguistica comune, che permette di stabilire con più facilità legami interpersonali. Pertanto, niente di strano si può attribuire alla tendenza degli immigrati a non privarsi del supporto, anche solo immateriale, della propria comunità originaria, perché si tratta di un consueto fenomeno sociologico, osservato in tutte le epoche e in tutte le società che sono state interessate da flussi migratori. Questo fenomeno, tuttavia, non previene necessariamente l’integrazione nella società di immigrazione; ma allora, perché chi conserva un senso di appartenenza alla comunità di origine è tacciato di mancata integrazione, spesso anche da chi è dotato di una mentalità aperta al confronto, al dialogo e al rispetto delle diversità e si professa progressista in materia di immigrazione?

    Per rispondere, escludendo a priori le possibili risposte chiaramente conservatrici o di matrice nazionalistica e xenofobica, bisogna capire cosa intende una parte del pensiero progressista quando accusa le comunità di immigrati di essere “chiuse”, di ghettizzarsi, di non volersi integrare o conformare ad una serie di principi minimi la cui adesione è ritenuta imprescindibile per la convivenza nella società occidentale. Queste accuse sono formulate sulla base di alcune evidenze: molte comunità di immigrazione spesso conservano una forte autonomia in termini di gestione delle controversie all’interno dei gruppi, di religione, di lingua, di istruzione e formazione dei giovani, di tradizione e folklore, rispettano usanze e regole tipiche della comunità. Si mantengono dunque almeno parzialmente autonomi dalla restante società. Tuttavia, essi sono integrati nella società: per definizione, l’integrazione è «il processo attraverso il quale gli individui diventano parte integrante di un qualsiasi sistema sociale, aderendo in tutto o in parte ai valori che definiscono l’ordine normativo» e in un modo o nell’altro queste comunità, interagendo con il resto della società, sono parte di essa e in essa funzionano come ogni sua altra parte, attraverso concessioni e compromessi.

    Invece, secondo l’altra concezione dell’integrazione, questa consisterebbe nella ridefinizione delle priorità dei valori tale da subordinare le proprie origini e appartenenze particolari ad un sentimento universalistico, o addirittura nella rinuncia di tali origini e tali appartenenze particolari, per abbracciare un sentimento universalistico che induce piuttosto a vedersi come “cittadini del mondo” scevri da atteggiamenti considerati provinciali, arretrati ed escludenti (sebbene, per esempio, de facto in Italia la procedura amministrativa che riconosce formalmente e istituzionalizza l’integrazione prevede la sottoscrizione di una Carta dei valori tutt’altro che lontana dall’essere provinciale, arretrata ed escludente; si veda L’accordo di integrazione come caso di discriminazione istituzionale in Italia, saggio di Paolo Cuttitta in Razzismi, discriminazioni e confinamenti, a cura di Mario Grasso, edizioni Ediesse, 2013).

    Eppure, «la prospettiva universalistica e cosmopolitica non implica affatto che ciascuno di noi rinunci a valori, vocabolari o virtù ed eccellenze che assumono il loro senso pertinente entro contesti dati e assegnati. […] Essa è il frutto maturo […] di una tribù. Si tratta di nient’altro che della tribù o del clan “occidentale”. Questa tribù ha fra i suoi usi e costumi quello di autoclassificarsi come universalistica e cosmopolitica. Per dare alla classificazione una maggiore stabilità e forza, la tribù definisce gli esterni o gli stranieri come tribali. […] Noi ci impegniamo ad adottare una prospettiva universalistica entro un contesto e una tradizione» (si legga la validissima Prefazione di Salvatore Veca a Per la pace perpetua, Immanuel Kant, edizioni Feltrinelli, 1991). In fondo, sentirsi cittadino del mondo equivale a sentirsi occidentale: non esistono società che non producano culturalmente il senso di una qualche forma di identità o appartenenza alla comunità, e la società occidentale non fa eccezione.

    E, del resto, come puoi sentirti cittadino del mondo quando nel mondo in cui vivi «una minoranza di nazioni costituisce un arcipelago di isole di relativo benessere in un mare di tirannia e di miseria disumana e la preservazione di un tenore di vita elevato dipende assolutamente dal rigido controllo dell’immigrazione» (la metafora dell’arcipelago e del mare è un prestito da Thomas Nagel)? Come puoi sentirti cittadino del mondo quando  il mondo ti opprime, e non lo sai solo a parole, ma ti pesa ogni giorno in tutta la sua oppressione? Come puoi sentirti cittadino del mondo, quando del mondo non sei cittadino ma suddito o schiavo? Essere cittadini del mondo è una prerogativa di chi può vantare l’appartenenza alla cultura occidentale, un lusso che ti puoi permettere solo se il mondo ti è assoggettato.

    Tuttavia, nonostante questo, si può ragionevolmente ritenere che questo principio di fratellanza e solidarietà che porta ad essere e a sentirsi cittadini del mondo sia espressione di un valore moralmente superiore, ma se così è, lo è solo nella misura in cui il cosmopolitismo è liberazione più che assoggettamento. Chiedere la rinuncia a qualsiasi forma di tradizione o attaccamento alla cultura o comunità di provenienza come prezzo da pagare per essere cittadini del mondo (la classica retorica che legittimava e legittima ancora il colonialismo e l’imperialismo come azioni benevole intraprese per civilizzare i popoli estranei alla tradizione europea: il cosiddetto “fardello dell’uomo bianco” della celebre poesia di Rudyard Kipling) è un livellamento di abitudini e valori a canoni socialmente e storicamente determinati, conformi ad una particolare cultura, quella occidentale, dunque è una forma di assoggettamento a tale cultura. Al contrario, riconoscere il diritto di esistenza alle diverse forme di vita ed espressioni di cultura umana presenti nel mondo, ovunque esse siano, conferendo così loro una cittadinanza effettiva e gestendo le tensioni e le differenze entro tale cornice di equità, costituirebbe un cosmopolitismo liberante. Peraltro non c’è da stupirsi della duplicità contraddittoria del concetto di cosmopolitismo: il cosmopolitismo è parallelo alla globalizzazione, e come questa non può non essere duale e contraddittorio, paradossalmente non può generare connessioni e spazi di azione senza generare anche frontiere e organi di repressione. La direzione che la globalizzazione e il cosmopolitismo possono prendere nella loro inevitabile continua oscillazione tra liberazione e assoggettamento dipende dai rapporti tra le forze in gioco. Non bisogna lasciare che questa direzione la decida chi ne predilige l’aspetto assoggettante, sentendosi o meno cittadino del mondo.

  • Il “nuovo patriottismo” dell’UKIP in due esempi

    Il partito euroscettico UKIP, il più votato in UK alle ultime elezioni europee, è noto per la capacità che ha avuto, al pari di simili rigurgiti destrorsi continentali, di mascherare le proprie posizioni di estrema destra imponendo nel dibattito pubblico varie proposte radicali senza ricorrere ad argomenti apertamente razzisti o nostalgici del passato. Molto è stato scritto in proposito, tra cui un’interessante recensione sul fenomeno generale della “nuova internazionale nera” e, soprattutto dopo il trionfo elettorale dell’UKIP, altrettanti fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla natura di quest’ultimo. Resoconti di fuoriusciti, articoli d’inchiesta ed eventi giudiziari hanno rivelato inquietanti aspetti sulle tecniche di costruzione del consenso utilizzate dai partiti cosiddetti “populisti” che sarebbe più opportuno definire di “destra radicale”. Il successo di tali tecniche risiederebbe nel non dichiararsi apertamente razzisti o nostalgici del passato, evitando argomentazioni riconducibili a retoriche chia ramente identificabili.

    Come discusso altrove, il problema del razzismo è ridotto a una questione, puramente formale, di etica e di decoro borghese: è sufficiente dichiararsi contro e deprecare queste entità astratte che sono i razzisti, basta che nessuno si definisca razzista apertamente (pur continuando ad agire secondo le proprie posizioni) ed ecco eliminato il problema.

    Tuttavia, ogni tanto qualcosa traspare molto più di quanto si intenda lasciar trasparire. A titolo di esempio, sono significativi due casi, l’uno sul dichiararsi “apertamente razzisti”, l’altro sull’evitare di esternare sentimenti “nostalgici del passato”.

    Il primo esempio è il manifesto lanciato dall’UKIP per presentare i punti salienti del programma della forza politica. Nella seconda pagina del manifesto, che tratta di immigrazione, compare la frase seguente (traduzione mia, ndr): «Gli altri partiti si sono impegnati a favore dell’allargamento dell’UE a Turchia, Albania, Moldavia e molti altri paesi. Secondo le regole europee, tutti i loro cittadini saranno autorizzati a vivere e lavorare in UK». Agitare lo spauracchio di un’invasione di turchi, albanesi e moldavi, che sono nazionalità spesso oggetto di pregiudizi razzisti, non significa forse ammettere che francesi e tedeschi, ai quali è già concessa la regolare permanenza in UK, sono accettati molto più di buon grado? Non è questo dichiararsi apertamente razzisti? (Tralasciando il fatto che lo stesso utilizzo del concetto di “invasione” è fuorviante, una stortura utile esclusivamente a disinformare a fini razzisti.)

    Il secondo esempio è una dichiarazione rilasciata di recente da Peter Whittle, “Culture Spokesman” del partito, secondo il racconto di un giornalista. Whittle espone una «teoria emergente del patriottismo», un nuovo modo di intendere l’appartenenza nazionale. «Che c’è di male ad essere britannici?» si chiede il portavoce del partito prima di scagliarsi contro chi è «schiavo del senso di colpa per il passato coloniale britannico». Si tratta non solo di un’esternazione nostalgica, ma anche di un’accusa morale per coloro che, a detta di Whittle, non onorano né ricordano con i dovuti sentimenti di rispetto l’imperialismo e il colonialismo. Ovvero. Non si capisce poi come si possa accusare di essere schiave del senso di colpa per il passato coloniale quelle stesse istituzioni e autorità che cercano da sempre di insabbiare, censurare e rimuovere le tracce di tale passato. Il colonialismo britannico fu questo. L’imperialismo britannico fu questo. Le parole sono pietre.

  • L’asservimento tecnico

    Articoli correlati: Il manganello tecnico

    La questione che in questo articolo si intende affrontare verte soprattutto su vicende recenti, degli ultimi giorni; tuttavia, vista la scarsissima informazione sull’argomento nei mezzi di comunicazione nazionali, ecco un breve riassunto introduttivo (per approfondimenti, c’è il blog di Antonio Mazzeo, giornalista e attivista per la smilitarizzazione).

    Il MUOS (Mobile User Objective System) è un sistema di comunicazioni satellitari gestito dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, con l’obiettivo di coordinare efficacemente gli spostamenti di mezzi navali, aerei e terrestri per integrare le forze militari statunitensi e di paesi che gravitano nella stessa orbita. Il progetto si configura come un enorme strumento non solo di eventuale difesa, ma di possibile attacco automatizzato grazie all’utilizzo di aerei senza pilota (i cosiddetti droni, di cui è previsto l’uso intensivo e di cui un gran numero è già stato installato alla base militare di Sigonella, destinata a diventare capitale mondiale dei droni), e di missili e armi intelligenti, che potranno essere radiocomandati direttamente dal personale militare di stanza nella base operativa, nella prospettiva di condurre in futuro conflitti globali sempre più automatizzati e disumanizzati, in cui i soldati uccideranno altri esseri umani semplicemente giocando con leve e bottoni da casa, come in un videogioco.

    Per la vasta copertura di ciascun impianto, il MUOS si articolerà su 4 terminali terrestri e 5 satelliti geostazionari e consentirà di trasmettere gli ordini e le informazioni necessarie per qualsivoglia azione di guerra, convenzionale, chimica, batteriologica, nucleare in qualsiasi parte del mondo.
    Il progetto prevede la realizzazione di quattro basi, dislocate in punti strategici in modo da raggiungere tutti i continenti: uno in Virginia negli Stati Uniti, uno nelle isole Hawaii, uno in Australia. Il quarto in Sicilia, a pochi chilometri da Niscemi, nel cuore dell’ecosistema protetto costituito da una sughereta.

    Fin dall’inizio, la realizzazione dell’opera in Sicilia si è configurata come una violazione: le autorizzazioni necessarie per l’inizio dei lavori sono state concesse dal governatore regionale Raffaele Lombardo, senza che questa decisione fosse discussa dall’ARS (il Parlamento regionale siciliano) o dal Parlamento nazionale, e in piena contraddizione con la norma che istituisce nell’area interessata una riserva naturale protetta, soggetta a vincoli paesaggistici e di natura ambientale che in questo caso non sono rispettati per l’inquinamento elettromagnetico, la vistosità delle antenne, l’allestimento di un cantiere in una zona in cui è possibile solo la manutenzione e il restauro di edifici preesistenti.

    Inoltre, studi di diverse istituzioni accademiche e scientifiche indicano, nelle loro previsioni, un aumento del tasso di incidenza di tumori nelle vicinanze dell’impianto e esprimono preoccupazioni per i rischi connessi a possibili malfunzionamenti o errori umani che potrebbero avere effetti anche letali sugli esseri viventi (compresi ovviamente gli esseri umani) nel raggio di alcuni chilometri. La potenza delle onde elettromagnetiche emesse dalle antenne sarà così elevata da costituire pure rischi di interferenza per il traffico aereo facente capo all’aeroporto di Catania, oltre che al più vicino aeroporto di Comiso, plausibilmente prossimo all’apertura.

    Si aggiunga che, tanto per cambiare, le imprese a cui è stata affidata la gestione del cantiere sono sospettate di essere infiltrate dalla mafia.

    I rischi connessi, le violazioni lampanti, gli obiettivi militari ed imperialistici del MUOS e le modalità con cui è stata finora gestita, in ogni sua fase, l’intera faccenda, hanno suscitato un’ondata di indignazione e di opposizione popolare che ha preso forma nel movimento NO MUOS.

    Veniamo ora al dunque. Il neoeletto presidente del PD, Rosario Crocetta, che in campagna elettorale aveva promesso l’immediato ritiro delle autorizzazioni concesse dal precedente governo regionale (di cui tuttavia il PD faceva parte senza muovere un dito), dopo un mese di indugi si è limitato a chiedere ulteriori ricerche per valutare la gravità di eventuali danni all’ambiente e alla salute. Gli indugi di Crocetta, se hanno deluso, soprattutto per la timidissima rottura di questi ultimi, il movimento di opposizione, hanno anche dato tempo al moribondo governo nazionale di provvedere a promulgare norme legislative che garantiscano la tutela degli interessi militari dei padroni Stati Uniti: infatti, proprio un giorno prima che la questione MUOS approdasse per la prima volta all’ARS, il ministro Cancellieri ha comunicato di aver dichiarato il cantiere «sito di interesse strategico per la difesa militare della nazione e dei nostri alleati». Questo provvedimento toglie ogni margine di azione al governo regionale, che pure ha infine avuto il mandato dell’ARS per il ritiro delle autorizzazioni ma si trova con le mani legate (vedi).

    Ministro, interesse di chi? Degli abitanti contrari alla realizzazione? Degli esseri umani che verranno ammazzati grazie alla nuova tecnologia? Dei cittadini che presumibilmente subiranno una costellazione di effetti negativi sulla salute? Della riserva naturale che sarà deturpata dal cantiere e dalle onde ad alta frequenza? No: con questa manovra codarda e infame, che scavalca de facto ogni possibile meccanismo di controllo democratico (e che ci aspettavamo da un governo che non è eletto neanche de iure?) un governo peraltro già caduto intende, un attimo prima di andarsene, mettere fine alla faccenda e chiuderla in favore degli interessi di una potenza militare aggressiva e imperialista.

    A questo si aggiungono le parole del presidente Monti, secondo cui «non sono accettabili comportamenti che impediscano l’attuazione delle esigenze di difesa nazionale e la libera circolazione connessa a tali esigenze, tutelate dalla Costituzione».

    Qui Monti mente sapendo di mentire, definendo strumento di difesa una tecnologia finalizzata all’eliminazione radiocomandata di esseri umani, e parlando per di più di difesa nazionale quando l’opera è voluta da una potenza estera. Il tutto sarebbe tutelato dalla Costituzione. Qualcuno spieghi a Monti cos’è il MUOS.

    Le analogie tra MUOS e TAV sono numerose: entrambe le opere sono dannose per l’ambiente e per la salute, entrambe rappresentano il condizionamento della politica da parte di interessi altri, entrambe fanno gola alla criminalità organizzata, entrambe sono militarizzate e dichiarate siti strategici di interesse nazionale, entrambe hanno risvegliato la conflittualità dei territori nei confronti delle imposizioni dall’alto, entrambe pongono dei problemi sulla natura delle istituzioni democratiche.

    In effetti, Monti tratta i NoMUOS esattamente come i NoTAV: zecche fastidiose e inaccettabili, giacché il dissenso è bandito, e non si possono mettere in discussione i dettami della scienza economica, neutrale, imparziale e scevra da condizionamenti ideologici, di cui egli è espressione sobria ed austera. Cosa vogliono questi comitati, non lo sanno che queste scelte non sono politiche e di parte ma si limitano esclusivamente all’applicazione di principi necessari, a cui non c’è nessuna alternativa?

    I comportamenti simili che il governo ha adottato nei confronti delle proteste contro il MUOS in Sicilia e il TAV in Val Susa riflettono bene la situazione: da Nord a Sud, per tutta la sua lunghezza, l’Italia è attraversata da movimenti contro le grandi opere inutili, contro il militarismo, contro la devastazione e lo sfruttamento dei territori, contro l’asservimento della politica a interessi di oligarchie economiche globali, e la risposta del potere è sempre la stessa: siamo tecnici, non si discute.

    Siamo servi, non si discute.

  • Contro l’Ancien Régime

    Alla fine ho dato forma al mio motto. Non so in verità se avrei preferito evitare di ingabbiarmi lasciandomi andare a presentazione di me e del blog che, si sa, spesso lasciano il tempo che trovano, perchè una persona, un carattere, una mente, una vita, un pensiero, non si possono giudicare in qualche riga e assolutamente non si possono riassumere.

    Comunque, Contro l’Ancien Régime è una pagina ancora incompleta. È stata scritta stanotte per effetto di un raptus espressivo che minava seriamente alla base la mia concentrazione per affrontare lo studio. Come molti noteranno, non è ancora una pagina di presentazione del blog né di me stesso. Ma datemi un po’ di tempo.


    I borghesi hanno fatto la Rivoluzione Francese ma sembrano avere dimenticato che ciò che ha fatto della Francia une Grande Nation è stato il trinomio «Liberté, Égalité, Fraternité». Appena ne hanno avuto la possibilità, hanno abbandonato il cappello frigio dei sanculotti giacobini per sostituirlo con un ben più sontuoso cilindro di feltro nero da abbinare al panciotto e a dorati gemelli da camicia. Hanno inventato il mito del realizzarsi, si sono industriati come mai prima nella storia moderna per il progresso e la crescita economica in nome di una storiella, molto in voga all’epoca, che parlava di una mano invisibile. Hanno armato migliaia di uomini per reprimere le azioni e soffocare le voci di chi alla storiella non credeva o non poteva crederci, di fronte all’evidenza lampante della sua fallacità; hanno mandato quegli uomini con fucili e manganelli contro le folle affamate esattamente come poco tempo prima i Re e i Principi ne avevano mandati contro di loro; poi li hanno mandati in terre lontane, a imporre con la forza la nuova religione del dio denaro a popoli increduli e indifesi; alla fine non era più rimasto niente e li hanno mandati ad ammazzarsi tra di loro, come carne da macello. Non contenti di questo, hanno cominciato a monetizzare oggetti e concetti di ogni tipo, anche i più impensabili: dall’aria all’acqua, dalle parole alla musica, dalla scienza alla conoscenza, dalla vita alla morte, dall’immaginazione alla coscienza; e una volta monetizzati, comprarli è stato per loro facile come rubare le caramelle a un bambino.

    Non è molto diverso dall’Ancien Régime. Quale Liberté, quale libertà di scelta consapevole posso vantare di avere se quando compro qualcosa non c’è alcuna trasparenza tra il marchio e il consumatore? Se quando voto democraticamente indicando qualcuno le decisioni le prende qualcun altro? Se non posso scegliere che lavoro fare per contribuire allo sviluppo civile e alla vita collettiva? Se non c’è reale partecipazione in scelte decisionali i cui effetti ricadono sulla testa di tutti? Che libertà ho, di fare cosa? Libertà di religione? È uno strumento di controllo sociale e limita la libertà nella misura in cui si basa su dogmi. Libertà di parola? Gli sgherri manzoniani sono pronti in ogni momento a manganellare o a censurarti se ti lasci sfuggire verità scomode. Libertà di scegliere che lavoro fare? Appartengo ad una generazione precaria sul piano lavorativo e sul piano esistenziale. Libertà di pensiero? «Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate», diceva una canzone, «e in cambio pretendete» la libertà di indossare vestiti firmati, di avere l’ultimo modello del cellulare, di aggiornare il vostro profilo di Facebook, di seguire i reality show, di accendere la televisione per contare, sorridendo beffardi dentro di voi, quante disgrazie sono capitate oggi ad altri.

    Dov’è l’Égalité quando l’economia è controllata da un’oligarchia dispotica e strutturata nel modo più vicino al totalitarismo che l’Occidente abbia saputo produrre dopo i Fascismi del Novecento? Quando la ricchezza è distribuita con un’asimmetria impressionante, per cui un decimo della popolazione sfrutta nove decimi delle risorse, mentre i restanti nove decimi della popolazione sono costretti a patire la fame, la sete, la miseria, le malattie nonostante che l’esistente sarebbe sufficiente per tutti? Dov’è la ragionevolezza dei padri illuministi della Rivoluzione, in tutto questo?

    Che Fraternité posso dire di vedere in un mondo in cui si riesce a giudicare una persona, pur fatta di una sua individualità, basandosi sul colore della sua pelle o sulla forma dei suoi occhi, annullando così completamente ogni possibile forma di comunicazione e comprensione? Dov’è la fratellanza tra i popoli quando si sganciano bombe su civili inermi, e tra le persone quando alcune vengono rinchiuse per anni in lager di detenzione per scontare la pena per il reato di essere clandestini? E dov’è ancora quando, una volta usciti dai lager, li si infila in un bastimento come capi di bestiame per riportarli nell’inferno da cui provenivano? E, nell’eventualità che riuscissero a evitare questa triste sorte, dov’è la fratellanza e l’umanità quando, restando, non trovano che insulti e discriminazioni?

    Non ci sono dubbi, questo è ancora l’Ancien Régime.