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  • Come la stampa italiana parla di Deniz Resit Pinaroglu

    Che io sappia, nessun quotidiano italiano sta riportando la lettera di Deniz Pinaroglu, giornalista turco arrestato a Piacenza e rinchiuso nel CPR di Torino perché senza documenti, dopo aver fatto richiesta di asilo politico, e attualmente in sciopero della fame per denunciare le condizioni di una detenzione ingiusta.

    Molti giornali, specie nell’area liberale e progressista, stanno riportando la notizia con indignazione per il fatto che, come spiegato dal suo legale Federico Milano e riportato in una comunicazione della responsabile del comune di Torino Monica Gallo, garante dei diritti delle persone recluse, Deniz è un rifugiato politico (in Turchia, essendo attivista di sinistra, rischia di essere arrestato per motivi politici) e «non ha fatto niente». Dopo aver sottolineato nei titoli a caratteri cubitali che il giornalista non ha fatto niente facendo passare l’idea che la detenzione in un CPR sia solitamente riservata a persone che invece hanno fatto qualcosa in particolare, negli articoli in questione il passato e il presente di Deniz vengono raccontati brevemente, tralasciandone l’importante attività di documentazione che ha svolto negli ultimi anni alle frontiere europee e soprattutto nel presente, in questi giorni di detenzione a Torino, proprio a proposito delle condizioni inaccettabili all’interno del CPR e del meccanismo giuridico-amministrativo infernale del sistema della cosiddetta accoglienza. La Repubblica riporta a fine articolo le parole di Alda Re, dell’associazione Lasciateci entrare: «vuole essere trattato come rifugiato politico. Invece si ritrova in un inferno in terra». Non si aggiunge niente, nessun elemento che potrebbe stimolare la riflessione sul contesto degli eventi narrati. Forse che tutte le altre persone rinchiuse ingiustamente nel centro per l’unico motivo di non avere documenti in regola non vivono lo stesso inferno in terra? Forse che tutti gli altri e le altre non sono come Deniz rinchiuse “senza aver fatto niente”? Forse che l’«ingarbuglio giuridico» di cui parla La Stampa, in cui sarebbe intrappolato Deniz, è diverso dalla corsa a ostacoli dell’odissea amministrativa vissuta dagli stranieri indesiderati dalle politiche europee?

    Se i giornalisti che scrivono questi articoli avessero un minimo di etica professionale e di reale spessore morale, se provassero un qualche moto di solidarietà per un collega ingiustamente imprigionato insieme a decine di migliaia di altre persone che non hanno fatto nulla, se fossero veramente scandalizzati per le sue condizioni, se avessero davvero a cuore la sua causa e l’importanza del suo lavoro, pubblicherebbero la sua lettera e la diffonderebbero per aiutarlo a documentare questa situazione di cui le istituzioni sono responsabili, nel silenzio della stampa di sistema. Invece no: la lettera è del tutto ignorata, al giornalista imprigionato non viene data alcuna voce, e diventa soltanto il simbolo di quanto sia cattivo il regime di Erdogan.

    La lettera invece descrive piuttosto chiaramente la vita quotidiana all’interno di un CPR: parla di pressioni psicologiche, di ricatti, di ingiustizie e condizioni terribili e disumane, di atti di violenza e intimidazione, maltrattamenti sistematici, problemi di salute, attacchi di panico. Forse se questa lettera non è stata pubblicata è perché mette chiaramente in luce che la situazione assurda in cui si trova Deniz e le condizioni inaccettabili in cui sta vivendo non sono un caso isolato, ma la normalità del sistema di accoglienza e di detenzione europeo, che non ha colore politico distinguibile all’interno dello spettro delle posizioni attualmente rappresentate istituzionalmente, in una società sempre più xenofoba che accetta con sempre meno problemi una qualsiasi violazione dei diritti fondamentali. L’esilio di Deniz diventa sui giornali italiani simbolo di quanto sia cattivo il regime di Erdogan; su quanto sia cattivo anche il regime dell’altro lato del Bosforo e dei Dardanelli, sui giornali italiani non è ovviamente fatto cenno, ma di questo diventa simbolo il disinteresse l’indifferenza per le parole di Deniz mostrati da tali atteggiamenti.

    La lettera di Deniz Resit Pinaroglu (grazie a Blackpost per la traduzione in italiano)

    Alla stampa e alla pubblica opinione,

    Sono Deniz Resit Pinaroglu, un richiedente asilo dalla Turchia. Sono detenuto da un mese in un campo chiamato CPR a Torino. Sono stato soggetto di una serie di abusi e di pratiche contro la legge. Un poliziotto di Piacenza mi ha fermato e portato qui, in questo campo, ormai due mesi fa. Mi disse che sarei dovuto stare qui solo per 2 giorni. Senza fornirmi un avvocato ed avermi messo a disposizione un traduttore, mi hanno fatto firmare dei documenti in italiano, e mi hanno portato al CPR.

    Nella mia prima apparizione davanti a un giudice, è stata decisa la mia permanenza nel campo, senza neanche dare un’occhiata al mio caso.

    Ero in cerca di asilo, ma non in Italia. Una volta fermato mi dissero che nel caso in cui non avessi fatto la richiesta di asilo, sarei stato rimpatriato in Turchia, dove sono stato accusato di alcuni crimini, che qui non sono considerati tali. Mi hanno costretto dunque a firmare una richiesta di asilo. Sebbene io abbia comunicato anche il mio indirizzo di residenza, in seguito alla richiesta di asilo, il giudice ha deciso di continuare a tenermi recluso nel campo. I poliziotti e gli altri rifugiati, che sono attualmente prigionieri, mi dicono che il mio periodo di detenzione potrebbe andare da i 6 ai 12 mesi, e nessuno mi ha ancora comunicato quando potrò lasciare il campo. Ho dovuto lasciare il mio paese date le ingiustizie compiute dal mio governo, e per le assurde accuse mosse contro di me. Ora sono detenuto senza alcun titolo dalle autorità italiane. Per protestare contro questa situazione illegale, ho iniziato uno sciopero della fame dal 1 settembre alle ore 21:00. Le condizioni e il cibo qui sono terribili: il bagno, il luogo dove mangiamo e dormiamo, sono un unico ambiente non distinto. Per impedirci di documentare queste condizioni disumane, hanno rotto le fotocamere esterne dei nostri telefoni non appena siamo arrivati. Per un mese ci hanno fatto mangiare pollo secco e pasta fredda. Molte persone soffrono di attacchi di panico e si fanno male tra di loro, o a loro stessi. Le persone sono sottoposte sistematicamente a pressioni psicologiche. Coloro che arrivano sani, lasciano il campo con problemi di salute e mentali.

    La richiesta da parte mia, e dalle persone qui, è che chiunque sia in contatto con le istituzioni o con organizzazioni, e si trovi di fronte a questo testo, possa informarle al più presto, invece di rimanere in silenzio ed essere complice in questo crimine contro l’umanità, aiutateci.

    Dichiaro di essere in sciopero della fame, fino a quando qualcuno sentirà la mia voce, e sarò libero.

    Coloro che hanno deciso di detenermi qui sono responsabili di tutti i problemi di salute che avrò in seguito allo sciopero.

    deniz pinaroglu

    Qui qualche informazione in più sulla storia di Deniz, per chi vuole farsi un’idea del contesto della sua attività di giornalista e attivista.

  • La retorica autoassolutoria sulle stragi in mare

    Di chi è la responsabilità delle innumerevoli vite umane stroncate da naufragi su barchette instabili e sovraffollate nella pericolosa traversata del Mar Mediterraneo, ormai diventato tomba di migliaia e migliaia di esseri umani?

    La Repubblica, nel suo importante ruolo di faro nell’orientamento dell’opinione pubblica nazionale, si fa carico delle necessità di esprimere il punto di vista della borghesia illuminata, ovvero tutta l’area della sinistra progressista e riformista (se ancora esiste qualcosa che così si possa definire), e alla domanda risponde senza dubbio alcuno, attraverso le parole di un Roberto Saviano secondo cui «quei morti di nessuno pesano sulle nostre coscienze», o attraverso non tanto i contenuti quanto il titolo scelto per le riflessioni di un Ilvo Diamanti, ovvero «dobbiamo avere pietà di noi». Si tratta di due esempi, ma si potrebbe continuare a lungo, citando i commenti indignati giornalisti, politici, semplici cittadini che si esprimono in rete per dire all’unisono, in un moto di indignazione, che noi dobbiamo vergognarci.

    Come per le reazioni alla recente condanna dell’Italia per i fatti della Diaz, è opportuno analizzare di quale retorica sono sintomi queste manifestazioni di indignazione e di quali valori tale retorica è veicolo nella costruzione del dibattito pubblico.

    Il leitmotiv delle reazioni di area progressista è la condivisione della colpa: «siamo tutti responsabili», «dobbiamo vergognarci», «questi morti pesano sulle nostre coscienze». Non si può notare una certa insistenza di un «noi» che, in mancanza di ulteriori specificazioni, comprende l’intera società italiana, europea o addirittura “occidentale”. Secondo questa retorica, ogni italiano deve sentirsi colpevole e responsabile per le morti che riempiono di cadaveri il Mar Mediterraneo. Un pensiero del genere non solo è non corrispondente a verità, ma è anche politicamente dannoso in quanto assume la funzione di strumento autoassolutorio: in conformità con la tradizione morale cattolica, si intende imporre un senso di colpa pervasivo che, in fondo, assolve tutti. Dal momento che, si sa, se «siamo tutti responsabili», se è colpa di tutti, non è più colpa di nessuno.

    Ma davvero questo è soltanto un prodotto della morale cattolica? La redistribuzione della colpa non ha anche una funzione politica, più o meno consapevolmente contemplata da chi si unisce al coro degli autoflagellanti? L’impressione è che i giornalisti scrivano «siamo tutti responsabili» per non dover fare i nomi dei responsabili, perché attribuendo la colpa «agli italiani» si può evitare di attribuirla a quegli italiani che responsabili sono davvero, forse per paura di inimicarsi quei lettori che hanno votato la Lega Nord perché inventasse il reato di clandestinità e la legge Bossi-Fini, o quei lettori che hanno sostenuto ciecamente forze politiche favorevoli alle espulsioni, o quei lettori (e quei partiti) che dietro le mani tese e il sorriso affabile sul volto nascondono le chiavi delle prigioni note come CIE. Invece è più facile dire che la responsabilità è di tutti, senza indagare troppo.

    La retorica autoassolutoria del «siamo tutti responsabili» funziona e bene, tanto che la usa pure Federica Mogherini, quale Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (ovvero il Ministro degli Esteri europeo) in occasione della riunione straordinaria tenutasi per discutere sulla gestione dei flussi migratori. Mogherini dice, infatti, che «la priorità è costruire un senso comune di responsabilità europea per quanto succede nel Mediterraneo». Che è un modo per dire “non è colpa mia”. Ovviamente, in quanto esponente di un partito che si erge a difesa del grande capitale, Mogherini non può certo attribuire le responsabilità a chi andrebbero attribuite. Per esempio, a quella classe dirigente americana che «è impegnata in una guerra continua nel tentativo di dominare le regioni ricche di petrolio del Medio Oriente, dell’Asia Centrale e del Nord Africa. Queste guerre hanno distrutto stati e intere comunità, con sofferenze umane indicibili, fomentato un abisso di odio e di terrore. Le classi dirigenti, i partiti politici e tutte le istituzioni ufficiali del capitalismo americano e europeo sono implicati in questo crimine storico, o perché difendono gli interessi imperialisti delle multinazionali e delle banche o per sostanziale acquiescenza» (da qui).

    Di tanto in tanto, ma ormai sempre più insistentemente, la responsabilità è attribuita agli scafisti, questi traghettatori di anime, definiti «nuovi schiavisti» «trafficanti di schiavi» secondo il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che vengono arrestati e i cui identikit finiscono in prima pagina sui maggiori quotidiani nazionali, perché è comodo trovare il capro espiatorio su cui far ricadere ogni disprezzo per ciò che avviene tra l’Africa e l’Europa. Come la precedente retorica autoassolutoria, anche questa è una strategia diversiva. Anche senza spingerci troppo lontano, è possibile rintracciare le reali cause delle stragi in mare già nella continuazione del discorso di Mogherini: «per l’Europa è impe­ra­tivo sal­vare tutti insieme delle vite umane, così come tutti insieme dob­biamo pro­teg­gere i nostri con­fini e com­bat­tere il traf­fico di esseri umani». Qualcuno dovrebbe spiegare a Mogherini (o forse lo sa già fin troppo bene) che le stragi avvengono a causa dei confini, che gli scafisti e il traffico di esseri umani non esisterebbe se “noi” non proteggessimo i “nostri” confini e che dunque non si può allo stesso tempo invocare la difesa dei confini e la necessità di prevenire le stragi. Le stragi si prevengono smettendo di “proteggere” le frontiere, abbandonando l’idea della sacralità dei confini, peraltro già sconsacrati dall’ordine neoliberista.

    In effetti, questo è chiedere troppo. Stiamo parlando di gente che scrive “noi” per riferirsi agli italiani e “nostri” per riferirsi ai confini. E quel pronome e quell’aggettivo, tanto cari ai nazionalismi, agli identitarismi e ai fascismi novecenteschi, già da soli bastano a rafforzare, piuttosto che abbandonare, la sacralità dei confini.