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  • Il disimpegno francese sul TAV visto da La Repubblica

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    Chi ieri pomeriggio ha aperto la prima pagina del sito de La Repubblica ha trovato a grandi lettere il titolo

    verticetav

    da cui si evince una volontà politica di entrambi i governi francese e italiano di confermare l’impegno nel progetto di costruzione della linea TAV.
    Tralasciando l’inaccuratezza dell’informazione data (visto che non si è trattato di un vertice specifico sulla questione TAV, come potrebbe sembrare da un titolo come quello proposto nonché dall’organizzazione dei contenuti dell’articolo, che la mette esageratamente in risalto rispetto al resto degli argomenti discussi da Letta e Hollande), cerchiamo di capire in che misura si può parlare di TAV come «priorità per entrambi i governi» italiano e francese.

    Dalla lettura dell’articolo emerge un solo dato in merito alle misure che i due governi intendono adottare in collaborazione, e dunque in merito ai contenuti di tale vertice spacciato per vertice TAV. E tale dato è: “…da Italia e Francia è stato confermato l’impegno ad adottare il prima possibile le misure necessarie per ottenere il cofinanziamento comunitario. Partendo, nel 2014, dalla presentazione alla Commissione europea di una domanda congiunta per avere il massimo sostegno finanziario nel periodo 2014-2020 (finanziamenti già in parte promessi da Bruxelles lo scorso 17 ottobre)”.

    A parte le richieste di finanziamenti all’UE da sostenere congiuntamente, non si parla di reali finanziamenti.

    E infatti Hollande, appena qualche mese fa, ha rinviato di 15 anni quella che secondo i giornali nostrani sarebbe una “priorità”: dal punto di vista politico, per Hollande significa lavarsene le mani, ovvero ammettere la mancanza di volontà politica di occuparsi del progetto e quindi di sostenerlo.

    In conclusione La Repubblica è riuscita a trasformare l’intenzione di una domanda congiunta di finanziamenti in parte promessi in impegno concreto, addirittura “prioritario”, del governo Hollande sulla questione TAV, ignorando deliberatamente che sul fronte francese il governo ha rinviato il progetto.
    Il titolo dell’articolo non è falso, ma di certo fuorviante, e tale ambiguità è data sia dall’omissione di un dato importante, sia dal peso dato al fatto che Hollande e Letta dicano di essere d’accordo, a prescindere da ciò che poi realmente fanno.

    Il motivo per cui tale scelta editoriale è stata operata è banale: ieri a Roma, durante il vertice Letta-Hollande, c’era un presidio cui hanno aderito i movimenti per il diritto alla casa e al reddito, nonché il movimento NoTAV. Occorreva criminalizzare il dissenso, e quale strategia adottare se non il richiamo al movimento NoTAV e a tutto ciò che ormai esso evoca nel lettore infarcito di narrazioni tossiche, quali violenza, estremismo, terrorismo? Definire il vertice come prevalentemente accentrato sulla questione TAV era necessario ad innescare il frame dominante e a richiamare tutta una sfera semantica che automaticamente le è associata: citare il TAV era necessario per rimandare alla contrapposizione con il movimento NoTAV.

    Ma la trappola editoriale de La Repubblica non è l’unica messa in moto ieri: è stata tesa anche una trappola di altra natura, in via Giubbonari a Roma.
    Infatti, dal presidio a Campo de Fiori si è staccato un corteo che è stato circondato dalla celere, in assetto antisommossa. La polizia ha anche bloccato tutte le possibili vie di uscita dalla piazza, trasformando il flusso di persone verso le vie laterali in una calca senza la possibilità di indietreggiare né avanzare, che è stata prontamente caricata. Una tale gestione della situazione non può che essere definita una provocazione: non si può pretendere di schierare la celere, circondare i manifestanti, bloccare ogni uscita per poi stupirsi se si verificano scontri. Lo scontro è voluto, cercato, progettato ad hoc da chi gestisce in questa maniera l’ordine pubblico (cosa a cui, tra l’altro, il dissenso non dovrebbe essere ridotto). Inoltre, è facile cercare lo scontro quando si è bardati, protetti, addestrati ed equipaggiati militarmente.

    Insomma, complimenti a La Repubblica e complimenti alla questura di Roma.

    EDIT:

    Qui un video per chiarire ancora meglio chi cercava lo scontro ieri a Roma.

  • La tristemente diffusa opinione sugli insegnanti come lavoratori privilegiati

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    «Più sfruttamento, meno lamento»: può essere considerato sia un’incitazione, come si vedrà, sia un’amara descrizione della realtà.
    Due giorni fa, Gianni Riotta ha avuto la brillante idea di chiedere pubblicamente: «I professori dicono di non poter lavorare un’ora in più al giorno. Secondo voi hanno ragione o torto?». Lasciando da parte, nonostante la grave distorsione della sostanza dei fatti, la parzialità e l’incompletezza della domanda posta (giacché non dice che queste ore di lavoro sarebbero prestate senza un corrispettivo aumento della retribuzione, né che i professori protestano per tale gratuità e non strettamente per il carico di lavoro, né che si sta riferendo ai docenti di scuole elementari, medie e superiori e non quelli universitari), che possiamo giustificare tirando per i capelli la necessità di sintesi, visto che ci troviamo su Twitter dove il massimo è 140 caratteri, trascurando, dicevo, questa pecca nella formulazione della domanda, c’è anche un altro elemento molto importante: Gianni Riotta chiede di parlare di un argomento serio a una platea (circa 80 mila persone ricevono automaticamente i suoi messaggi e chiunque in rete può leggerli) che difficilmente sa essere seria. Si tratta di una platea particolare, che si sente obbligata a commentare e dire la propria, anche quando a voce non saprebbe cosa dire (c’è chi l’ha chiamata psicologia della stronzata), ed ecco che risponde pappagallescamente con luoghi comuni e con disgustose opinioni ottenute acriticamente per sentito dire.

    Riporto di seguito alcune delle risposte ottenute dal “popolo della rete”, quello che secondo la Repubblica, il Corriere della Sera e Beppe Grillo (to’ che strana accoppiata) è informato, attivo, consapevole, critico, non dimentica e fa esplodere la rabbia sul web e dilagare il tam tam su internet.


     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    La cosa più triste è che molte di queste persone si dichiarano “di sinistra”, o almeno, così pare da ciò che pubblicano e condividono sui loro profili, dagli argomenti cui si interessano, dai canali con cui sono in contatto. Questo dovrebbe bastare a mostrare come lo spirito critico abbia abbandonato tutte le teste, tanto a destra quanto nella cosiddetta sinistra, al tempo del pensiero unico.

    Da tutti questi commentori, di cui quelli mostrati sono una piccolissima porzione, ne emerge uno specifico che mi ha colpito particolarmente e da cui deriva un’altra amarissima conclusione.
    Il personaggio risponde alla domanda di Riotta:

     

     

     

     

     

    Di fronte a cotanta superficialità, io non posso che rispondergli di informarsi meglio prima di sputare sentenze, perché il suo commento si basa su due assunzioni: la prima è che si stia parlando di una protesta per l’aumento delle ore, cosa non esattamente vera, la seconda richiama l’opinione diffusa che i professori siano una categoria lavorativa privilegiata, che lavora pochissimo e con stipendi d’oro.
    Ecco cosa risponde quando faccio notare l’erroneità delle prima assunzione:

     

     

     

     

     

    Ed ecco come reagisce invece al secondo appunto, quando osservo perentorio che «evidentemente il luogo comune degli insegnanti che non fanno nulla durante l’anno e un cazzo durante le vacanze ha fatto proseliti»:

     

     

     

     

     

    Bene, a questo punto uno si dice: tutte queste persone stanno parlando di cose che non conoscono, riferiscono per sentito dire, si mettono in coda tra le fila di quella buona parte della società che bistratta gli insegnanti non riconoscendone l’importantissimo ruolo sociale; che li considera dei fannulloni, senza sapere che le 18 ore che saranno aumentate a 24 settimanali sono solo nominali, che in queste ore non sono comprese né pagate quelle a casa per correggere i compiti e preparare la lezione, né i consigli di classe, i collegi dei docenti, gli scrutini, i ricevimenti, le ore di servizio volontario per coprire supplenze e buche, le ore di disponibilità durante mensa e intervallo; che si tratta dei lavoratori laureati che guadagnano meno, che avanzano solo per anzianità e restano comunque pagati poco fino a fine carriera; che le 18 o 24 ore di cattedra non sono affatto leggere ma si svolgono in classi pollaio affollate oltre i limiti consentiti dalle norme di sicurezza e in edifici il più delle volte fatiscenti e pericolosi, non costruiti secondo le norme antisismiche e di sicurezza generale; che altro che «devono stare seduti ad insegnare e basta», qua si tratta di formare persone, non macchine tutte uguali, perché l’educazione, tanto meno è diversificata, tanto più è indottrinamento.

     

     

     

     

     

    Uno, dicevo, quando legge certi commenti pensa tra sé queste cose: stanno parlando così perché non sanno cosa significa lavorare in quelle condizioni, in situazioni di sfruttamento in cui praticamente la maggior parte del lavoro non viene retribuito e in cui, di conseguenza, un’ulteriore aggiunta di 6 ore settimanali gratuite non è che l’ennesima vessazione ed elemento di sfruttamento. Invece no. Ad un altro commentatore che gli rimproverava di «parlare senza sapere un cazzo», il nostro risponde:

     

     

     

     

     

    Quindi lo sa. Lo sa! È sfruttato e chiede di essere ancora più sfruttato, condannando le lamentele e le proteste contro lo sfruttamento. Chissà in giro quanti ce n’è come lui.

     

     

     

     

     

    E così si chiude una triste finestra sul panorama del “popolo della rete”.

  • «Tutti gli uomini hanno due occhi»

    Immaginatevi una persona. Sì, una persona qualunque: non importa il sesso, l’etnia, le origini, il credo religioso o il colore degli capelli. Una persona qualunque, che sta lì davanti a voi e pronuncia distintamente la seguente affermazione: «Tutti gli uomini hanno due occhi».
    Saranno tutti d’accordo, innegabilmente, sul fatto che il contenuto dell’affermazione è generalmente corretto (tolta qualche rara eccezione), nel senso di aderente alla realtà dei fatti.
    Aggiungiamo ora dei dettagli alla situazione: questa persona qualunque sta correndo, e mentre corre pronuncia l’affermazione che abbiamo già avuto occasione di riportare: «Tutti gli uomini hanno due occhi». Il contenuto dell’affermazione è cambiato? No. Il suo grado di aderenza alla realtà è cambiato? No. L’affermazione si rivela, dunque, corretta a prescindere dall’azione compiuta da chi la pronuncia.
    Aggiungiamo ancora qualcosa: un contesto. Questa persona sta correndo nel bosco perché è in fuga da qualcuno, e mentre corre urla «Tutti gli uomini hanno due occhi». Cambia qualcosa nel contenuto della sua affermazione? No. Il suo grado di aderenza alla realtà è cambiato? Di nuovo no. E non sarebbe cambiato nemmeno se questa persona fosse stata inseguita non da qualcun altro ma da un rinoceronte, un unicorno o da un prodotto della sua fantasia.
    Abbiamo capito quindi qualcosa: che l’aderenza del contenuto di un’affermazione alla realtà si misura attraverso il confronto con la realtà, poco importa l’identità di chi afferma. Tanto che questa persona è una persona qualunque e ciascuno se la sarà immaginata in una maniera diversa, eppure tutti siamo d’accordo sul fatto che non si sta sbagliando quando afferma che «Tutti gli uomini hanno due occhi».
    Bene, ora sostituite la frase «Tutti gli uomini hanno due occhi» con «La TAV è un’opera inutile» e immaginate la persona qualunque come volete, seduta, che cammina, che corre, che lancia un sasso e carica la polizia o che prende manganellate e scappa dalla polizia. Il grado di aderenza della sua affermazione alla realtà dipenderà dalla realtà, non dalla violenza praticata o ricevuta. Non è la violenza che determina se il contenuto di una frase o di un’idea è vera o falsa.

    NO TAV!

  • Il feticismo dei post-it

    Dedico le mie parole a tutti coloro che hanno condannato ciecamente le violenze (ostiniamoci ad etichettarle così, almeno ci capiamo, care anime belle) dello scorso 15 ottobre rivendicando la natura pacifica della manifestazione, anche se in realtà non ho intenzione di parlare direttamente di quei fatti. Ho scelto voi come interlocutori perché ritengo che il movimento (sì, mi ostino anche ad utilizzare questa parola per esprimere qualche cosa che forse in realtà non esiste) italiano debba rivedere le sue strategie per ritrovare la vitalità e l’efficacia che aveva un tempo e che prima del 15 ottobre era riuscito ad esprimere l’ultima volta verso la fine del 2003, quando era già agonizzante: e siccome voi fate parte del movimento tanto quanto me e io credo nella forza del dialogo e nelle armi della democrazia, vi dico da pari come la penso.

    Non mi va di rifare discorsi che sono già stati fatti sulla questione violenza-nonviolenza e che hanno prodotto un’immensa mole di materiale su cui riflettere. Ai fini dell’argomento che mi accingo ad esporre è però necessario rimarcare come la violenza sia da considerarsi, senza esprimere giudizi morali, uno strumento come tanti altri: può essere lo strumento del potere che si difende, del capitale che sfrutta, della mafia che minaccia, dell’autonomo che lancia il sampietrino, e come ogni altro strumento può essere usato bene o male, da intendersi come efficacemente o meno. Per esempio, i fatti dimostrano che la violenza del 15 ottobre è stata poco efficace per il raggiungimento degli obiettivi che ci si proponeva di raggiungere (a parte quello immediato di alcuni: esprimere un disagio, lanciare un segnale di rabbia e frustrazione).

    Ma sarebbe stata efficace la strategia che auspicavano quei tanti che intendevano recarsi a Roma per esprimere coloratamente o coloritamente la loro “indignazione”? Fa davvero paura al potere un corteo di centinaia di migliaia di persone, anche di un milione di persone, se queste camminano insieme, piantano tende, intonano cori? O fa forse più paura una folla di qualche decina di persone che minaccia di chiudere il proprio conto in banca?

    A chi condanna la violenza a priori vorrei ricordare che quando la violenza l’hanno praticata in Tunisia e in Egitto andava a tutti bene, anche ai giornalisti de La Repubblica che una settimana fa invitavano alla delazione di massa di coloro che potevano aver preso parte al respingimento delle cariche della polizia in piazza San Giovanni. Ma certo, in Egitto sono sporchi e con la pelle scura, in più parlano arabo e sono musulmani, quindi la violenza la possono usare perché sono degli animali, perchè sono violenti: questo è il messaggio implicato nella morale di certa informazione perbenista. Tanto che quando, in primavera, la protesta stava migrando dal mondo arabo alla più civile Europa (prima in Croazia poi in Spagna), i giornali occidentali inizialmente hanno pensato bene di non parlarne.

    A chi si illude di cambiare le cose solo accampandosi in una piazza a oltranza, come al Cairo, ricordo che l’occupazione di piazza Tahrir è stato un evento riuscito e di grande successo, efficace e non solo simbolico, grazie a successive ondate di scioperi che hanno paralizzato l’Egitto per settimane prima e durante la lotta di piazza.

    A chi ripete meccanicamente, come un bambolotto parlante, lo slogan «no alla violenza», vorrei ricordare cos’è la nonviolenza: una pratica attiva di resistenza a leggi o decisioni che si ritengono ingiuste. In altre parole: disobbedienza civile. E vorrei ricordare sempre a costoro che Gandhi, con le cui parole si riempiono la bocca e adornano gli striscioni, in India non ha vinto standosene seduto davanti alle forze di occupazione inglese o prendendo manganellate insieme a migliaia di persone, ma boicottando il sale inglese e permettendo agli autoctoni di riappropriarsi di un bene comune da sottrarre alle grinfie dell’Impero.

    Questo quindi si deve fare: ripartire dai beni comuni, dalla loro socializzazione, dal consumo critico. Ciascuno è importante. Inutile protestare contro la finanza con indosso un paio di scarpe fabbricate da bambini bengalesi, dei jeans scoloriti a costo di compromettere la salute degli operai che li hanno raschiati, una maglietta prodotta da lavoratori cinesi sottopagati, il tutto pubblicizzato attraverso i più infimi sistemi di controllo mentale magari da aziende quotate in borsa, la borsa che tanto si critica. Vano sputare nel piatto da cui si mangia: bisogna imparare a mangiare da un altro piatto. E dopodiché, invitare altri a mangiare dal nostro.

    Sia chiaro che non sto proponendo la ricetta che ci libererà dal male, ma semplicemente un poco di coerenza e un poco di riflessione sul significato della nostra azione politica: il consumo critico è solo un modo per tirarsi fuori dal problema, ma non ancora di far parte della soluzione. Il consumo critico da solo non basta. Neanche gli scioperi da soli bastano. Le acampadas da sole non bastano. Tutti questi eventi devono essere espressione di un’unica Lotta, con la maiuscola, che le unifica tutte (io direi che è quella contro l’Ancien Régime). Senza la coscienza della necessità di tale unificazione, ogni singolo tassello sarà troppo piccolo per formare un’immagine sensata.

    Avete tutti una scelta, a questo punto: o, in virtù del vostro “pacifismo nonviolento” continuate ad aderire ad appelli online, raccolte di firme e petizioni, mandate i vostri post-it a La Repubblica e affiggete i vostri striscioni e le vostre lenzuola per far contenta L’Unità (che poi in fondo, cosa cazzo sperano di ottenere?) oppure vi inventate un altro modo di praticare la nonviolenza. Anzi: la praticate e basta, niente feticismo dei post-it.

  • Sardigna pesa, ischìda Sardigna

    Cosa esattamente nella testimonianza trasmessa da Annozero il 5 maggio lasci turbati non è facile da dire, perchè sono tante cose insieme.

    Prima di tutto essa stona con il contesto in cui viene a trovarsi: da una programmazione televisiva asservita al potere, che censura preventivamente ogni possibile riferimento al referendum popolare del prossimo 12-13 giugno, che distoglie gli italiani dai problemi del paese dirottando i loro interessi su pettegolezzi e modelli comportamentali che minano alla base le conquiste di millenni di civiltà come il dialogo e il predominio della ragione sugli istinti, che nasconde la natura della crisi e le sue conseguenze o, nei rari casi in cui non può permettersi di farlo, la minimizza e ne parla come di acqua passata, è difficile aspettarsi di ricevere informazioni che non siano di qualità minore di quegli articoli delle riviste che generalmente le persone tengono accanto al cesso.

    Eppure, la sera del 5 maggio la diretta è riuscita a evadere i giochetti della censura, che ha avuto una falla dalla quale si è riversato impetuosamente in studio un mondo diverso da quello dipinto dai telegiornali di partito, dai talk show, dai reality: era un mondo, quello reale, che si esprimeva senza filtri, senza copioni, senza cerone e altri trucchi  e senza mediazione tra la telecamera e la realtà. Insomma un mondo genuino, che appare così come è.

    Ed è sfruttato, dilaniato, oppresso, disperato e non ha paura di dire davanti a tutti, a volto scoperto, che «l’Africa è vicina» non solo geograficamente. Nel Sulcis è successo quello che potrebbe succedere ovunque sia portato ad estreme conseguenze il predominio dell’economico sul sociale, del finanziario sul politico. L’unico modo possibile di difesa che hanno trovato gli abitanti del Sulcis (120 mila abitanti, 30 mila disoccupati) è la condivisione delle rivendicazioni: artigiani, commercianti, operai, pastori, tutti padri e madri di famiglia che ogni mese devono «decidere se fare la spesa, pagare le tasse o licenziare dipendenti».

    In risposta a una politica cieca di fronte al disastro sociale, i comitati cittadini del Sulcis hanno organizzato una grande manifestazione regionale per giorno 12 maggio, che si terrà a Cagliari fin sotto gli edifici della Regione.

    E i giornali nazionali e l’informazione tutta… come hanno reagito di fronte alle ripetute esternazioni di rabbia del popolo? Ovviamente dando il minimo rilievo possibile alla notizia e, se possibile, ignorandola completamente: nessun telegiornale ne parla, tra i giornali nazionali solo L’Unità tratta della vicenda, limitandosi a scrivere che la Sardegna è come un laboratorio e che «in passato ha spesso anticipato tendenze politiche nazionali», mentre la rivoluzionaria La Repubblica vede bene di non farne assolutamente cenno (perchè certo non si sputa nel piatto in cui si mangia).

    Questo perchè la condivisione delle lotte al fine di rivendicare diritti dà comprensibilmente fastidio a tutti, in quanto questa volta la condivisione non parte dalla tanto balbettata esigenza di un “rinnovamento morale” né della trita riscoperta del senso di appartenenza all’identità nazionale ultimamente sbandierato a destra e a manca, bensì dal bisogno di soddisfare necessità materiali e di primaria importanza.

    Per questo il Movimento che si sta autorganizzando in Sardegna dovrebbe far paura a chi vive nel mondo dei sogni e dei paradisi fiscali; per questo lo si censura e si evita di fornire notizie sulla questione; per questo non ci viene detto dagli organi di informazione della grande protesta sarda che sta montando nell’isola e che per ora ha una data di riferimento: il 12 maggio.

    Sarebbe bene che gli studenti sardi si unissero alla protesta, portando al compimento il tentativo di unificare le lotte. E voglio anche un giuramento della pallacorda, un’Assemblea Costituente, una comune e dei comitati.

    FORZA PARIS! TUTTI INSIEME!

  • Pseudofemminismo dell’otto marzo

    Oggi è la Giornata Internazionale della Donna, meglio conosciuta come Festa della Donna.

    Ed è dunque per restare in tema che vi propongo alcune mie considerazioni su recenti dichiarazioni; se, come al solito, vi aspettate che parli del famigerato puttaniere fascista, vi starete sbagliando ancora una volta. Infatti, voglio parlare di una dichiarazione di ieri rilasciata da Umberto Veronesi, l’oncologo complottista a favore del nucleare e degli inceneritori come fonti di energia.

    Secondo Veronesi, «è inevitabile che le donne prenderanno in mano tutti gli affari del mondo nei prossimi 20-30 anni, ma gli uomini devono ancora capirlo». Da cosa è motivata questa insolita dichiarazione? La risposta risiede in una sfilza di luoghi comuni e dati alla rinfusa: hanno «potenza, equilibrio e fantasia»; sono «più istruite degli uomini», considerando che «le laureate sono più dei laureati»; vantano «un sistema immunitario migliore, si lamentano meno» e, soprattutto, la loro missione è scritta nel DNA: «difendere la pace e garantire la prosecuzione della specie»; per questo «il loro destino è dominare il pianeta».

    Insomma, tutto questo ha un’aria da best-seller fantascientifico. Sarebbe interessante capire come, partendo da questi dati, si possa giungere ad affermare, anzi ad annunciare, che entro due decenni le donne controlleranno l’economia, la politica o comunque qualcosa del mondo. Perdipiù parlandone in questi termini, come se “le donne” fossero una specie di setta o di loggia massonica.

    Il significato di queste frasi è da inquadrare nel contesto della giornata odierna: alla vigilia dell’8 marzo, si sottolinea ancora una volta la straordinaria potenza del gentil sesso. Infatti, puntualmente, a conferma la FAO presenta un rapporto dal messaggio inequivocabile: «una maggiore eguaglianza di opportunità e mezzi per donne contadine di tutto il mondo potrebbe essere l’arma cruciale per vincere la lotta alla fame» commenta Jacques Diouf, Direttore Generale.

    Dal rapporto emerge che se le donne delle zone rurali avessero le stesse opportunità degli uomini in termini di accesso alla terra, alla tecnologia, ai servizi finanziari, alla scolarizzazione ed ai mercati, la produzione agricola potrebbe aumentare ed il numero delle persone che soffrono la fame potrebbe ridursi di 100-150 milioni.

    Per chiunque sappia interpretare un rapporto statistico, sarà chiaro che è sbagliato sbandierare sui giornali elogi delle donne coltivatrici come se l’eventuale aumento di produzione fosse dovuto al sesso di chi coltiva piuttosto che «all’accesso alla terra, alla tecnologia, ai servizi finanziari, alla scolarizzazione ed ai mercati», com’è scritto proprio sul rapporto.

    Praticamente, invece, si è preferito costruire lo scoop, il sensazionale, lo spettacolare, con dichiarazioni che forzatamente usano i dati come mezzo per dare un po’ di speranza alle donne oggi maltrattate e sfruttate e un po’ di sollievo a chi le maltratta e le sfrutta, che potrà continuare a comportarsi come ha sempre fatto, dopo aver dato un contentino al popolino incredulo il giorno dell’8 marzo, un giorno che non dovrebbe avere nulla di diverso da qualsiasi altro giorno del calendario.

    Rendiamo onore, piuttosto, ad una donna particolare, che contro questo modo di pensare, ingannevole e dannoso, combatté per tutta la vita e che per questo fu uccisa, proprio giorno 8 marzo dell’anno 415: Ipazia d’Alessandria, martire della ragione.

    Andate in pace, e che tutti i giorni siano della Donna e dell’Uomo.