Le lenti pervasive che non sai di avere: riflesso coloniale e guerra in Ucraina
Esistono cose talmente normali da essere invisibili. Quando un valore è alla base stessa della società e ne struttura ogni aspetto, perché intrinsecamente integrato alla realtà sociale non solo ideologicamente, in quanto legato al pensiero comune e alla logica politica dominante, ma anche proprio materialmente, in quanto incorporato nei rapporti di forza presenti nella società e percepito da tutte o quasi tutte le sue componenti come naturale, allora ovviamente quel valore si fatica a vederlo e riconoscerlo. Proprio perché è ovunque: non è un particolare valore, è la normalità.
Chi dalla nascita indossasse un paio di lenti rosse, incollate al viso senza possibilità di sfilarsele, avrebbe serie difficoltà a concepire un mondo non pervaso da una particolare sfumatura color sangue. L’Europa, e in particolare l’Europa occidentale, ha un problema: indossa da secoli un paio di lenti di cui non ha alcuna intenzione di sbarazzarsi e attraverso cui vede, interpreta, giudica, agisce. Queste lenti sono il riflesso coloniale. Non si tratta soltanto del retaggio ottocentesco di chi, sotto il peso del fardello dell’uomo bianco dell’opera di Kipling, cioè della presunta responsabilità storica e morale di “civilizzare” il resto del mondo, organizzava spedizioni militari con l’elmetto e la camicia color kaki; o di chi, rispettivamente nel 1896, 1899 e 1900, in divisa statunitense e britannica, inventava i campi di concentramento a Cuba, nelle Filippine e in Sudafrica, idea poi ripresa dai nazisti dopo decenni di rodaggio da parte delle potenze coloniali; si tratta anche di chi concepisce la storia come un percorso lineare e progressivo verso forme “più elevate” di organizzazione sociale (occorre dire che corrispondono al modello occidentale?); di chi crede che la democrazia e il sapere scientifico siano prodotti di una “cultura occidentale” che parte dalla civiltà greco-romana e prosegue verso l’Illuminismo passando per le “radici giudaico-cristiane” dell’Europa; di chi, con riflesso eurocentrico e orientalista consapevole o inconsapevole, ritiene la razionalità un carattere unico e distintivo del mondo occidentale moderno. Il riflesso coloniale è una questione di lettura di se e degli eventi del mondo, e il razzismo esplicito è solo un suo caso particolare.
Restando in tema di lenti e di ottica, il riflesso coloniale è quindi uno spettro: si può scomporre come la luce che attraversando un prisma genera lo spettro dei colori da un unico fascio di luce bianca. Il riflesso coloniale si scompone in uno spettro che va dal razzismo genocidiario all’umanitarismo terzomondista e a un certo tipo di solidarietà. Sono colori diversi ma appartengono allo stesso fascio di luce.
Nelle ultime settimane, parlando della guerra in Ucraina, il riflesso coloniale si è manifestato in diverse sue sfumature, nella lettura di diversi aspetti della situazione attuale: nella narrazione che viene fatta del popolo ucraino, nel trattamento della persone in fuga dalla guerra, nella demonizzazione di Vladimir Putin e il retroterra ideologico della politica delle sanzioni, infine nella narrazione di ciò che avviene in Russia sotto il fascismo putiniano.
La narrazione che vede il popolo ucraino solo come passivo
Il riflesso coloniale è innanzitutto un atteggiamento collettivo. Tale atteggiamento riflette un ordine materiale costituito da ben precisi rapporti di forza che seguono la linea del colore, il regime della bianchezza; è anche allo stesso tempo prodotto e origine di precisi modelli di comportamento e di visione di sé che costituiscono il nocciolo psicologico del suprematismo bianco. Riflesso coloniale non è solo credere nella superiorità di chi è nato da questo lato delle frontiere del mondo, ma anche in quella del suo punto di vista: le altre prospettive sono viste come incomplete, ingenue, deviate, manovrate, parziali. Il punto di vista occidentale si spaccia invece per oggettività: è descrittivo e aderisce ai fatti, si basa su principi universali, valuta scientificamente il corso degli eventi.
Questo atteggiamento si riscontra, in forma esplicita o velata, nella stragrande maggioranza delle persone, incluse quelle che, nel così detto Occidente, si reputano di sinistra, alcune delle quali nelle ultime settimane rischiano di rivelarsi i più fieri giustificazionisti dell’imperialismo russo: condannano l’aggressione ma con riserva, criticano aspramente qualunque ipotesi di aiuto logistico o militare alla popolazione ucraina aggredita, organizzano manifestazioni genericamente “contro la guerra” senza nominare chi la fa (nominando invece la NATO, unico vero nemico), sbandierano gli stessi argomenti addotti da Putin come giustificazione della guerra (la presenza del battaglione di Azov nell’esercito ucraino, le violenze nelle regioni russofone dell’Ucraina orientale, l’espansionismo della NATO; manca solo la corruzione morale dell’Ucraina governata da “gay, lesbiche e trotzkisti”, ma forse Marco Rizzo potrebbe essere d’accordo anche su quello).
Praticamente tutti i sondaggi in Ucraina (senza eccezioni, almeno stando ai sondaggi pubblicati) mostrano che la maggioranza degli intervistati vorrebbe l’ingresso del paese nella NATO e auspicherebbero un intervento da parte della NATO in caso di invasione da parte della Russia? Dei sempliciotti, non sanno veramente cosa fanno. Certamente il giudizio di queste persone è manovrato dalla NATO, unico vero potere contro cui valga la pena lottare, cioè ovviamente quello designato, perché giustamente percepito come tale, da chi vive nei paesi “occidentali”. Guai a chiedersi il perché di questo interesse per l’ingresso in un’organizzazione militare internazionale espressione dell’imperialismo statunitense, oltre alla semplice manipolazione dell’opinione pubblica ucraina da parte della NATO espansionista e dei suoi servi: il punto di vista di quelle persone non si chiede nemmeno, e se lo si chiede non lo si ascolta, e se lo si ascolta non lo si prende molto seriamente. Perché esiste un solo punto di vista che sia veramente universale, che descrive la vera realtà dei fatti del mondo, e che dovrebbe essere una guida, una luce nella notte per tutte le pecorelle smarrite: il punto di vista di chi vive in un paese occidentale (e magari è anche bianco, maschio, eterosessuale, benestante e così via, ma meglio non aggiungere carne al fuoco) e che giustamente vede nella NATO la principale minaccia alla pace nel mondo. Chi ragiona così non riesce neanche a concepire che cercare un modo -un qualsiasi modo, anche disperato- di difendersi militarmente anche in maniera preventiva può essere una questione letteralmente di vita o di morte: per chi non ha il privilegio strutturale di vivere in un paese che non rischia di essere invaso dall’oggi al domani dalla superpotenza della regione, la priorità maggiore potrebbe essere difendersi dalla Russia, non dalla NATO.
Questa posizione non da ascolto alle persone direttamente coinvolte nel conflitto. Esse vengono schiacciate in un falso bipolarismo geopolitico che soffoca la voce di qualunque forma di vita irriducibile a una rappresentazione. L’incapacità di riconoscere la legittimità di chi si trova in posizione di potere strutturalmente sfavorevole e di ascoltarne seriamente la voce è una delle forme in cui si manifesta il riflesso coloniale. La solidarietà con una vittima è prima di tutto legittimare la sua versione dei fatti, non lasciarla sola, non parlare per suo conto a meno che ciò non sia espressamente richiesto: altrimenti, è sovradeterminazione. E la sovradeterminazione, compagne e compagni, è riflesso coloniale.
Solidarietà con una persona vittima di discriminazione razzista o sessista significa rifiuto di argomentazioni sistematicamente addotte a difesa dell’aggressore che immancabilmente mettono in dubbio la parola della vittima (“bisogna approfondire”, “cosa ne sappiamo noi di come sono andate le cose”, “la questione è più complessa di quello che sembra”). Ciò non significa che la vittima ha sempre ragione, che la sua versione è sempre quella che corrisponde alla realtà scientifica oggettiva e misurabile dei fatti; ma il primo riflesso di una persona che si dichiari in solidarietà dovrebbe essere far sentire la vicinanza alla vittima, evitare di parlarle sopra o al posto suo, considerare e sostenere il suo punto di vista, anche avendo qualche dubbio. Pensate a come vi sentireste voi se foste vittime di violenza (di qualsiasi tipo) e qualcuno minimizzasse. La chiamereste solidarietà?
La maggior parte delle piazze convocate dalla comunità ucraina in Italia contro l’invasione del 24 febbraio non hanno tra le parole d’ordine riferimenti alla NATO. Chi vuole partire dalla questione dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ed estendere la critica all’imperialismo in generale, e dunque anche quello statunitense o quelli europei, può farlo senza scavalcare la comunità con cui si sostiene di essere in solidarietà. Per esempio, può denunciare “ogni imperialismo”; invece, parificare il ruolo di Russia e NATO nell’invasione dell’Ucraina dichiarandosi “né con Putin né con la NATO” sarebbe come chiamare piazze in solidarietà col popolo palestinese con la parola d’ordine “né con Israele né con l’Iran”, solo perché l’Iran è nemico di Israele nello scacchiere geopolitico.
Alcune persone oggi sono alle prese con questioni di vita o di morte. Se non vi piace esattamente il loro posizionamento politico e volete convincerle ad aderire al vostro, innanzitutto aiutatele a sopravvivere alle bombe. Nessuno nasce con la linea corretta impressa nel cervello. Date loro la solidarietà che meritano in quanto vittime di aggressione militare.
Questo è un buon momento (l’ennesimo, a dire il vero) perché la sinistra occidentale ripensi il proprio approccio alle questioni di potere che coinvolgono persone o regioni del mondo che non godono degli stessi privilegi strutturali. Un buon inizio, adesso, sarebbe smettere di considerare gli oltre 40 milioni di persone in Ucraina come dei sempliciotti senza chiavi di lettura per comprendere a fondo la realtà del proprio paese e incapaci di compiere scelte politiche consapevoli. Continuare a fare questo, come sottolineato da un anarchico in Gran Bretagna, di origine polacca, sarebbe westplaining. Ovvero, un atteggiamento tipico del riflesso coloniale. A conferma di ciò, non è un caso che le letture più lucide sulla questione, fuori dall’Ucraina, si manifestino nelle parole del comunicato del movimento zapatista, che di colonialismo sa qualcosa, e di quello dei rivoluzionari siriani in esilio in Francia, che hanno subito le conseguenze della stessa incomprensione e arroganza da parte della sinistra occidentale quando l’assassino era Assad. In queste letture, il primo punto è: ascolta le voci di coloro che sono stati immediatamente colpiti dagli eventi.
Due pesi, due misure: il colore di chi fugge
“So cosa vuol dire dover lasciare la propria casa, la propria famiglia, per fuggire dalla guerra, e voglio aiutare chi, adesso, sta vivendo questo in Ucraina. Ma voglio anche sapere perché noi in fuga non dall’Europa abbiamo dovuto morire di freddo nella foresta. […] Com’è possibile che a una frontiera si picchia la gente e all’altra si offrono zuppa e biscotti? Non è forse razzismo?”. Queste le parole di Ibrahim, che ha vissuto il razzismo delle politiche migratorie europee al confine tra Polonia e Bielorussia, dove da mesi migliaia di persone sono bloccate senza via d’uscita, rifiutate dalla polizia bielorussa e respinte dalle guardie di confine polacche, con cui collaborano gruppi di neonazisti armati a caccia di stranieri.
Le frontiere sono state subito aperte e l’accoglienza nei paesi dell’Unione Europea subito garantita alle persone provenienti dall’Ucraina, ma non è riservato a tutte lo stesso trattamento: fin dall’inizio della fuga, centinaia di persone afrodiscendenti hanno raccontato che dopo aver vissuto la difficoltà ad accedere ai treni speciali organizzati in Ucraina per l’evacuazione dei civili, in cui era regola la precedenza a “donne e bambini” bianchi, seguiti da uomini bianchi e solo infine da donne e bambini non bianchi, è stato ostacolato loro in ogni modo l’ingresso in Polonia, accompagnando tutto questo ancora una volta a una separazione fisica da tutte le altre persone e aggiungendo la minaccia di sparare, in una pratica che è letteralmente politica di apartheid (nazista, sudafricano, o statunitense degli anni Sessanta?).
Chi ha continuato a viaggiare verso ovest ha visto la polizia tedesca alla frontiera tra Polonia e Germania bloccare tutti i treni, salire e letteralmente chiedere alle persone nere di scendere dal treno. La richiesta è stata motivata dalla necessità di controllare gli ingressi di persone di nazionalità diversa da quella ucraina, ma la spiegazione non regge: se fosse stata una questione di nazionalità, la polizia avrebbe parlato di nazionalità, non di colore della pelle.
In questo caso, il riflesso coloniale è evidente e si esprime nella sua forma più conosciuta e spettacolarizzata: il razzismo vecchio stile, quello basato sull’aspetto fisico. Lo stesso razzismo è all’origine dei commenti sgomenti che hanno popolato fin da subito la descrizione del teatro di guerra ucraino: “questo non è un paese del terzo mondo, ma un paese europeo civilizzato”, “sto vedendo morire ammazzati bambini con gli occhi azzurri”, “stiamo parlando di persone che fanno una vita simile alla nostra, lasciano una casa con la TV e scappano in auto”, il repertorio potrebbe continuare a lungo e molte di queste frasi sono state pronunciate da giornalisti in diretta televisiva, dando a intendere neanche troppo velatamente che la guerra in un paese non civilizzato (qualunque cosa significhi), la morte di bambini dagli occhi neri e la tragedia di lasciare la propria casa senza possedere un televisore sarebbero meno toccanti.
Un’infelice dichiarazione di Riccardo Chiaberge, giornalista e inspiegabilmente direttore scientifico per l’Enciclopedia Treccani, spiega il perché di tale differenza di trattamento: “Hanno più o meno le nostre abitudini di vita, la TV il frigorifero l’auto il fast food, quindi facciamo meno fatica a immedesimarci. Chi di voi riesce a immedesimarsi in un bambino yemenita? Giusto provarci, ma non è facile” (il tweet è poi stato rimosso, ma era così).
A chi dice che questa particolare simpatia per chi fugge dalla guerra in Ucraina è dovuta al fatto che “l’Ucraina è più vicina”, andrebbe fatto notare che l’est dell’Ucraina non è più vicino di quanto lo sia la Siria (paese di provenienza di milioni di rifugiati dal 2011, trattati come bestiame dall’Unione Europea e da paesi compiacenti, come la Turchia, pagati dall’Unione Europea in miliardi di euro). Per non parlare della Libia, che dalle coste italiane dista qualche centinaio di chilometri ma da cui si fa di tutto per limitare gli arrivi e a cui si finanzia, invece, la costruzione di lager per contenere i flussi migratori mentre le guardie libiche abbandonano la gente nel deserto senz’acqua. Se poi qualcuno si affrettasse a correggere il tiro precisando che l’empatia per chi fugge dalla guerra in Ucraina è dovuta al fatto che l’Ucraina è “vicina” ma non in senso geografico, si potrebbe obiettare che anche per la Siria sulle pagine di alcuni giornali a tiratura nazionale (come Il Fatto Quotidiano, Famiglia Cristiana o La Repubblica) si era evocata una “terza guerra mondiale” che potrebbe coinvolgere i paesi europei, senza per questo suscitare tale moto di empatia e solidarietà. Chiaramente il distinguo non è dovuto a quel rischio, ma piuttosto all’eurocentrismo e al razzismo di chi è capace di solidarizzare solo con chi scappa da un paese che nella gerarchia razziale globale occupa una posizione relativamente elevata, o perlomeno sufficiente per meritarsi sincera solidarietà. La Danimarca, che dal 2016 confisca i beni dei rifugiati afgani e siriani oltre una certa soglia di ricchezza, ha annunciato che non applicherà questa odiosa legge razzista sui rifugiati ucraini (a conferma del fatto che si tratta di una legge scritta con intenti razzisti).
Due pesi, due misure. Nelle piazze solidali con l’Ucraina si trovano bellissime parole sull’accoglienza di chi fugge dalla violenza e dalla morte, ma è molto difficile trovare riferimenti alla totale assenza di solidarietà dell’Unione Europea ai propri confini nei confronti di praticamente tutte le persone diverse da quelle provenienti dall’Ucraina (e con gli occhi azzurri). Nessun accenno al fatto che quell’avamposto dei sacri e tanto sventolati valori dell’Unione Europea che è la Polonia sta costruendo un muro anti-migranti alto più di 5 metri, dotato di telecamere, sensori termici e filo spinato al confine bielorusso, mentre impedisce selettivamente il passaggio delle persone non bianche in fuga al confine ucraino. Nel frattempo, media vicini ai paesi del patto di Visegrad dichiarano (per poi eliminare le dichiarazioni) che “gli africani in Ucraina non dovrebbero scappare, ma restare a combattere” contro l’esercito russo, come carne da macello.
In Italia, quando Salvini ha detto che “l’Italia ha il dovere di spalancare le porte a chi scappa” perché “questi profughi sono veri e scappano da guerre vere” è veramente incredibile che a nessuno sia venuta voglia di insorgere contro la Lega; al contrario, seppure la cosa ha stupito alcuni giornalisti, questi hanno continuato a porgergli il microfono. Per quanto se ne sa, assolutamente nessuno di loro, né nessuna tra le figure politiche di rilevanza nazionale, ha reagito accusandolo di razzismo. Lo stesso vale per la vicenda di Salvini a Przemysl, in Polonia, dove è stato contestato dal sindaco in persona (di estrema destra pure lui) che si è rifiutato di rivolgergli la parola per le sue precedenti simpatie per Putin: parte del giornalismo italiano ha riportato la notizia sogghignando, ma avrebbe difficoltà a spiegare il fatto che molto spesso, invece di fare lo stesso e umiliare Salvini per le vergognose posizioni razziste, lo si intervista senza battere ciglio, lo si invita ai salotti televisivi, non gli si ribatte mai. La legittimazione che il giornalismo italiano offre a Salvini ogni giorno lo rende razzista tanto quanto Salvini: chi non lo umilia quando può è complice, perché non è antirazzista, ma solo antisalviniano, una posizione interna al campo razzista.
Se l’avere a che fare così intensamente ed emotivamente con la questione delle frontiere non apre alcun dibattito sulla natura e la gestione generale delle frontiere; se le dichiarazioni razziste di un noto esponente politico non suscitano accuse di razzismo, ciò non può essere per caso. In psicologia, si dice che è un rimosso. Come il rimosso coloniale.
La demonizzazione di Putin per difendere l’Europa
La più grande manifestazione contro la guerra in Ucraina è stata quella di Berlino del 27 febbraio, partecipata da circa mezzo milione di persone. Difficile fare una statistica, ma la stragrande maggioranza dei cartelloni e degli slogan di quella manifestazione parlavano di Putin. Molti lo accostavano alla figura di Hitler. Esistono qui due problemi: il primo è la personalizzazione, il secondo la demonizzazione.
Chiaramente, in questo contesto specifico, Putin è il volto dato a una forma di fascismo che si afferma tramite una politica di aggressione imperialista. Tuttavia, nonostante i numerosi accostamenti a Hitler, il fascismo non è quasi mai nominato (e ancor meno lo è l’imperialismo). Il motivo è abbastanza facile da intuire: riconoscere il fascismo di Putin e nominarlo per ciò che è significherebbe dover fare i conti con i vari fascismi nei paesi europei e dei paesi europei – che guardacaso sono stati o sono tuttoggi molto vicini a Putin, finanziariamente e politicamente. Cosa si può fare, da questo lato del continente, per solidarizzare con chi subisce l’aggressione e contrastare il potere fascista imperialista della Russia di Putin? Gli slogan contro Putin sono facili (del resto, anche il nome si presta a una miriade di giochi di parole almeno in tutte le lingue romanze), ma dove sono gli slogan contro gli amici di Putin? Il primo è lontano, ma i secondi sono spesso letteralmente sotto casa, o sui santini elettorali, se non tra gli scranni del Parlamento. Governi, capitalisti, istituzioni europee che con Putin e la sua cricca fanno affari da decenni. A loro, come ricordato nella parte precedente, si porge il microfono.
Concentrarsi su Putin anziché su ciò che Putin rappresenta permette quindi di distogliere in generale l’attenzione dall’Europa, che ne esce candida e pulita: tutta la colpa è della Russia di Putin. Si badi bene che questa analisi non è in contraddizione con quanto detto sopra riguardo alla NATO. Se la colpa non è tutta della Russia, si potrebbe rispondere, allora non avrà colpe anche della NATO? La risposta -non ironica- è sì: la NATO ha sempre colpe. Tuttavia, anche parlare delle colpe della NATO significa puntare il dito su qualcosa di relativamente lontano: gli Stati Uniti (non ci si prenda in giro dicendo che l’Italia fa parte della NATO: è ovvio, ma non è questo il punto, visto che negli ambienti dell’anti-atlantismo non si fa altro che dire che essere parte della NATO rende i paesi membri burattini servi dell’imperialismo statunitense). Il risultato di questa operazione è molto simile: difende l’immagine dell’Europa. Chi, dall’alto del privilegio europeo, si preoccupa di difendere l’Europa, sta adottando un riflesso coloniale.
Vi è poi la questione della demonizzazione. Non è un caso l’accostamento a Hitler, e non è un caso il fatto che tale accostamento anziché richiamare il fascismo ne allontani lo spettro: Hitler, e in generale il nazismo, è stato presentato come male assoluto da più di mezzo secolo di propaganda. Hitler era un folle, uno psicopatico, un demone. Non un fascista che agiva guidato precisamente dai propri principi politici. Nelle ultime settimane hanno abbondato analisi del personaggio Vladimir Putin, ipotesi sul suo profilo psicologico, riferimenti al suo essere folle, paranoico, psicopatico, narcisista, tra le altre cose (si cerchi su un qualcunque motore di ricerca “profilo psicologico Putin”).
Si noti che, evidentemente, anche questa operazione difende l’immagine di un’Europa seria, saggia, composta, ragionevole, assennata, al contrario del folle Putin. Migliaia di utenti di Twitter capaci di prendere le difese dei manifestanti che nelle maggiori città della Russia hanno protestato contro la guerra in Ucraina, sarebbero pronti a chiedere l’arresto indiscriminato di migliaia di persone nelle manifestazioni che in Europa dissentono da scelte compiute da governi europei. Se Putin non è umano ma un demone, un qualcosa di ontologicamente diverso da Macron o Draghi, allora protestare contro Putin è accettabile e addirittura auspicabile, ma i movimenti che mettono in questione il potere in Europa occidentale sono teppisti, violenti, inaccettabile sfida al sistema democratico. I gilet gialli che dal 2018 protestano contro il ragionevole e assennato Macron sono degli incivili e dunque si sono meritati di essere arrestati e condannati a migliaia (oltre 12 mila), di essere repressi nel sangue (4500 feriti), accecati e mutilati dalla polizia (decine di vittime). Essere contro Putin va bene, ma mai e poi mai mettere in questione i governi “buoni”.
Ricapitolando, i “due minuti d’odio” contro Putin sono giustissimi, ma bisognerebbe ricordare che in1984 di George Orwell i due minuti d’odio erano un dispositivo di costruzione del consenso. Che consenso si sta costruendo contro Putin se non quello intorno all’idea di un Occidente, in particolare un’Europa, ragionevole e razionale? E l’idea che l’Occidente sia ragionevole e razionale in contrapposizione alla Russia (fatta ovviamente coincidere con Putin – si veda di seguito) e magari a tutto il resto del mondo, cos’è se non riflesso coloniale?
Il dissenso oscurato dalla narrazione geopolitica
Un caso particolare del riflesso coloniale si trova infine nella narrazione di quanto avviene in Russia e Bielorussia, che vengono concepite e raccontate come blocchi monolitici, sovrapponendo governo e paese governato. Questa è una tendenza tipica delle letture puramente geopolitiche, che schiacciano ogni altro conflitto su quello tra potenze regionali o mondiali, ignorando la diversità di interessi interni a ogni singolo paese e le forze e i conflitti che ne scaturiscono. Nelle letture puramente geopolitiche, esistono la Russia, la Francia, la Turchia, ciascuna coi propri interessi da difendere, ma non le singole persone: gli interessi delle singole persone (o gruppi di persone) saranno sempre schiacciati da quelli delle entità geopolitiche, le uniche che scrivono veramente la storia, con cui si dovranno sempre misurare: alla Russia conviene invadere l’Ucraina, la Francia fa la Rivoluzione francese, la Turchia è contro la Grecia. Come nel gioco del Risiko.
Inutile dire che, solitamente, chi adotta questo approccio e promuove questa visione è ben cosciente dei propri interessi particolari e della diversità di interessi e variegate posizioni politiche interne al proprio paese. Questa diversità, tuttavia, sembra sparire quando si parla di paesi altri: l’Altro è sempre indistinto, una rappresentazione astratta fatta di preconcetti e stereotipi, e non lo si conosce mai veramente, perché non è mai concepito in quanto individuo. E questa idea, a questo punto lo si sarà già capito, è riflesso coloniale. Si tratta letteralmente del mondo in cui l’Europa coloniale ha rappresentato e rappresenta i popoli nativi di ogni angolo del globo.
Questa concezione sta dietro alla narrazione del tipo “noi contro loro” ampiamente adottata dai media occidentali (e certamente, in maniera speculare, anche da quelli russi), che da un lato ignora o depotenzia il dissenso in Russia e Bielorussia – così come fa con il filoputinismo in Europa costituito da gran parte dell’estrema destra e, involontariamente o meno, da parte della sinistra -, dall’altro alimenta il sentimento anti-russo a sostegno della politica di sanzioni abbracciata dai governi e le istituzioni occidentali. Allora fioccano – parallelamente alle sanzioni dirette contro “gli oligarchi”, cioè i capitalisti di nazionalità russa – le misure volte a discriminare le persone di nazionalità russa in quanto tali: studenti, attrici, atleti, ricercatrici. Sarebbero “loro” – questa entità indistinta – a sostenere il regime di Putin: avere la nazionalità russa equivale ad essere complice del governo russo, cioè contro di “noi”.
L’opposizione di blocchi monolitici, cornice di lettura della realtà già ampiamente rodata nella retorica dello “scontro di civiltà” tra Occidente e Islam, non è una grossolana semplificazione: è una falsità. Basta parlare con le persone, ascoltare le loro storie e quelle delle loro famiglie. Gli esseri umani soffrono, partono, si innamorano, migrano, lottano, vivono spesso e volentieri contro le istituzioni di potere che controllano il territorio in cui sono nati, dalla notte dei tempi e in ogni angolo del mondo. La realtà pullula di esempi, è davvero improbabile non averne conosciuti anche da molto vicino. La facile accettazione della falsità che nega questi esempi è resa possibile dalla capillare diffusione nella società di una precisa ideologia, quella dello Stato-nazione, secondo cui nascere in un certo territorio è ragione sufficiente per finire sotto la tutela dello Stato che lo controlla e si dovrebbe poter trarre una qualche conclusione su di una persona esclusivamente dal fatto che è sotto tale tutela – il più delle volte per caso. Se si accetta questo meccanismo come “normale”, si percepiranno come “eccezioni” tutti gli innumerevoli esempi contrari, per quanto innumerevoli possano essere.
Il dibattito è intossicato dal concetto insensato dello Stato-nazione a tal punto che pare impossibile immaginarsi altro, ragionare fuori da quella logica. Quasi nessun è capace di pensare al di fuori del prendere posizione come Stato, come se ciascun individuo fosse sovrapponibile, nelle sue scelte, a quelle dello Stato sul cui territorio si trova a vivere, o addirittura della cui nazionalità si trova, non per scelta, ad avere. Da qui i dibattiti poco entusiasmanti, tutti rigorosamente in prima persona plurale, su “cosa dovremmo fare”, che posizione “dovremmo avere”, che segnale “dovremmo mandare” in quanto Italia. L’Italia, in quanto Stato-nazione, non è meglio della Russia, e non si capisce per quale motivo chi ha a cuore i valori della solidarietà dovrebbe farvi affidamento.
La narrazione “noi contro loro” non è che un diversivo e l’obiettivo è sempre lo stesso: fare apparire l’Occidente molto più diverso dalla Russia di quanto non sia. Mentre un ballerino russo o una ricercatrice russa non possono più lavorare perché fino a prova contraria sostengono la guerra voluta da Putin, al sottoscritto, di nazionalità italiana, nessuno ha mai chiesto di dissociarsi dalla guerra ai flussi migratori fatta di politiche omicide attuata dallo Stato italiano. In entrambi i casi, si tratta sempre di migliaia di persone che muoiono per precise scelte governative. Anche in questo caso, due pesi e due misure.
E pensare che si potrebbero colpire specificamente gli interessi di Putin e dei suoi amici, ma non lo si fa perché salterebbe fuori che sono gli stessi interessi dei bravi capitalisti occidentali, che fanno parte della stessa cricca in un sistema di alleanze incrociate solo un po’ meno contorto di quello che unisce l’Occidente al terrorismo dell’ISIS.
A dimostrazione di ciò, ai governi occidentali non sembrano essere piaciute le “sanzioni dal basso” messe in pratica da connazionali. A Biarritz due persone hanno fatto irruzione nella villa del genero di Putin, Kirill Shamalov, cambiato le serrature e invitato i rifugiati dall’Ucraina, per essere poi entrambi prontamente arrestati; a Colonia gli edifici di proprietà dello Stato russo occupati da un gruppo anti-militarista per dare alloggio a persone straniere e senzatetto sono a rischio di espulsione; a Londra il collettivo di occupanti della mega-proprietà del miliardario russo Oleg Deripaska, in Belgrave Square, è stato espulso manu militari quasi immediatamente, subendo quattro arresti. (Per chi avesse voglia di allungare la lista, qui si può trovare qualche idea). Tra gli “oligarchi russi” e chi sequestra dal basso le loro ricchezze in solidarietà col popolo ucraino aggredito, i secondi subiscono la repressione armata da parte dei governi “occidentali” a parole favorevoli alle sanzioni: gli stati “occidentali” proteggono con le armi le proprietà degli oligarchi russi, perché prima che russi sono miliardari, proprio come i miliardari occidentali, con cui condividono, fatta eccezione per brevi momenti storici, la gran parte degli interessi. Queste “sanzioni dal basso” hanno suscitato una certa simpatia e incontrato un certo favore presso l’opinione pubblica, perché dirette contro chi finanzia violenze imperialiste. E se qualcuno occupa la proprietà di un miliardario occidentale, non è la stessa cosa? Del resto, è veramente improbabile che un miliardario non abbia mai finanziato direttamente o indirettamente alcun progetto imperialista, inclusa la vendita di armi alla Russia, a ricordare ancora una volta il sistema di alleanze incrociate dissimulato dalla falsa narrazione del “noi contro loro”.
E si pensi a quanto accaduto sui treni tedeschi, al muro della Polonia, ai rimpatri forzati, ai barconi nel Mediterraneo: le politiche di muri, respingimenti, prigioni, esclusioni sono la norma della gestione dei flussi migratori a livello sovranazionale. In generale questo accade lungo tutte le migliaia di chilometri di frontiera della così detta Fortezza Europa: discriminazione, disumanizzazione, migliaia di persone annegate, assiderate, soffocate ogni anno. Non per incidenti ineluttabili, ma per deliberate scelte politiche. Dal punto di vista di quelle persone, nella loro esperienza materiale, le istituzioni europee non sono meno fasciste del regime di Putin.
Ogni volta che si usa la prima persona plurale parlando di geopolitica, o più banalmente in qualunque discorso in cui si faccia cenno ad altri paesi; ogni volta che si traggono conclusioni su una persona basandosi solo sulla sua nazionalità; ogni volta che si identifica un governo col paese che governa, si conferma e si alimenta l’ideologia dello Stato-nazione alla base della guerra. Ideologia che, col corrispondente riflesso nazionalista, appare a troppe persone del tutto normale, proprio come il colonialismo e il riflesso coloniale, perché struttura intimamente la società e ne pervade ogni aspetto. Sarebbe ora di abbandonare entrambi questi riflessi prima che sia troppo tardi. Anzi, è già tardi, di qualche secolo.
“Se ho un messaggio da dare, è che il mondo non è diviso in paesi. Il mondo non è diviso tra Est e Ovest. Voi siete americani, io sono iraniana, non ci conosciamo, ma comunichiamo tra noi e ci capiamo perfettamente. La differenza tra voi e il vostro governo è molto più grande della differenza tra voi e me; la differenza tra me e il mio governo è molto più grande della differenza tra me e voi; e i nostri governi sono molto simili” Marjane Satrapi
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