Le culture non esistono
«La cultura araba non rispetta le donne», «la cultura araba è bigotta», «la cultura araba è teocratica». Sono tutte frasi che è facile sentire pronunciare e che sono sempre più comuni e socialmente accettate. Simili generalizzazioni riguardo ad altri gruppi umani sono appannaggio di una relativamente ristretta cerchia di razzisti dichiarati e militanti xenofobi, mentre opinioni dello stesso tipo rivolte agli arabi (o ai musulmani, giusto per intorbidare le acque visto che non è la stessa cosa) sono ormai non più prerogativa di pochi ma fanno parte del senso comune, di quelle verità socialmente costruite che si danno per scontate nel dibattito pubblico e nell’informazione di massa.
Con spirito critico, intendo ragionare sulla logica fallace che sottende l’utilizzo di categorizzazioni come “cultura araba”, che possono essere efficaci nell’immediata comunicazione quotidiana ma hanno pesanti ripercussioni sul senso politico esplicito ed implicito dei discorsi che ne fanno usi poco attenti e circostanziati.
Per parlare di categorizzazioni, iniziamo trattandone una particolare, che nel mondo contemporaneo storicamente è stata la categorizzazione per eccellenza: la razza. Il razzismo biologico come ipotesi scientifica, nonostante sia passato di moda, è duro a morire ed esistono ancora oggi suoi sostenitori nella comunità scientifica. Nella logica del metodo scientifico è legittimo chiedersi se le razze esistano e provare a dimostrarlo. Come spiegato impeccabilmente dal genetista Guido Barbujani in L’invenzione delle razze, la teoria che propone la divisione della specie umana in razze, nelle sue varie formulazioni e nelle diverse modellizzazioni che sono state proposte, è stata sottoposta ad analisi scientifica a più riprese, con tecnologie sempre più precise e sofisticate, ed è emerso che tale teoria semplicemente non funziona: non permette di produrre modelli che descrivano adeguatamente la realtà, dunque il suo valore scientifico è nullo e chiunque sostenga di poter dimostrare scientificamente il contrario lo fa in cattiva fede. Come riporta l’Enciclopedia Treccani (qui), «il concetto di razza umana è considerato destituito di validità scientifica, dacché l’antropologia fisica e l’evoluzionismo hanno dimostrato che non esistono gruppi razziali fissi o discontinui».
Per una spiegazione esaustiva di come si è giunti a questa conclusione rimando al saggio di Barbujani, ma il principio è piuttosto semplice e si può riassumere facilmente. Per descrivere una razza, si dovrà elencare un insieme di caratteristiche condivise da tutti gli individui che la compongono e che permettano di dire con certezza di ogni individuo se è di quella razza oppure non lo è. Esiste nelle popolazioni una variabilità genetica data dalla presenza, in individui diversi, di versioni diverse dello stesso gene: tali differenze sono misurabili e si possono utilizzare per provare ad operare una categorizzazione su base genetica.
Gli studi di genetica umana dicono che se si considerano singoli caratteri, o meglio singoli geni, essi sono sempre presenti in quasi tutte le popolazioni umane, anche se con frequenza diversa. Nessun gene può essere utilizzato per distinguere una popolazione umana dall’altra. Le popolazioni umane sono geneticamente molto simili le une alle altre, c’è invece una grande variabilità genetica tra gli individui. La variabilità genetica all’interno delle singole popolazioni, per esempio tra gli europei o gli italiani, è elevatissima. Mentre le differenze genetiche tra i tipi mediani delle diverse popolazioni, tra gli italiani e gli etiopi, per esempio, sono modeste e pressocché irrilevanti rispetto alla variabilità interna alle singole popolazioni. Questa differenza si può quantificare e il risultato è che, come misurato a partire dal 1970, l’85% della variabilità genetica umana è presente all’interno delle singole popolazioni, il 5% tra popolazioni del medesimo continente e il 10% tra popolazioni di diversi continenti. C’è maggiore differenza tra due italiani posti all’estremo di un profilo genetico, che non tra un italiano e un etiope posti al centro dei profili delle rispettive popolazioni. Insomma, definire le razze umane non è utile neanche al fine pratico di descrivere le differenze presenti nella specie umana. Anzi, sostiene Barbujani: «più si studiano nuovi geni, più si fa esile la speranza di trovare chiari confini fra gruppi umani a cui possiamo dare il nome di razze».
Occorredunque tenere a mente queste tre importanti conclusioni interconnesse, che inficiano ogni fondamento del razzismo biologico:
- Assenza di geni assolutamente caratteristici di una particolare popolazione
- Grande variabilità genetica tra gli individui
- Variabilità interna alle popolazioni maggiore della variabilità tra le popolazioni
Per dare un’idea più chiara ed intuitiva, se non bastassero i numeri, ricorrerò ad un banale esempio pratico. Prendiamo una popolazione qualunque, e supponiamo di voler descrivere la razza a cui appartengono gli individui di tale popolazione. Supponiamo di scegliere come primo criterio il colore dei capelli: ovviamente non è sufficiente, perché nella razza sarebbero inclusi tutti gli individui che hanno i capelli di quel colore, anche quelli che non appartengono a quella popolazione. Si deve dunque affinare la descrizione aggiungendo un’altra caratteristica, per esempio considerando la forma del naso. Non è sufficiente, perché innumerevoli individui nel mondo avranno sia i capelli di quel colore sia il naso di quella forma. Dunque è necessario affinare ancora la descrizione con altre caratteristiche, per escludere gli individui “presi nel mucchio”, cioè individui che, per come è definita la razza in questione, saranno casualmente inclusi anche se non c’entrano niente. Questi individui intrusi, qualunque sia la descrizione della razza, saranno sempre troppo numerosi, renderanno il modello inaccettabilmente poco preciso e costringeranno ad aggiungere ulteriori caratteristiche per affinare la descrizione. Finché, a un certo punto, l’elenco è talmente lungo e la descrizione talmente specifica che ad ogni caratteristica aggiunta cominciano ad essere esclusi individui che dovrebbero essere inclusi, perché insomma, si tratta di una popolazione che vogliamo descrivere come razza, ma non si può certo pretendere che gli individui che la compongono condividano veramente tutte quelle caratteristiche, neanche fossero fatti con lo stampino. Il numero di inclusi che dovrebbero essere esclusi è sempre troppo grande, il numero di esclusi che dovrebbero essere inclusi è sempre troppo piccolo. Questo rende conto della particolare configurazione della diversità umana, che si rifiuta di essere categorizzata in razze. L’unica soluzione scientifica è considerare la specie umana divisa in tante razze quanti sono gli individui.
Tornando ora alla questione iniziale, dovrebbe esser chiaro il senso di questa lunga premessa: lo stesso identico ragionamento si può fare riguardo al concetto di cultura. Per definizione (qui) con “cultura” si intende «il complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche e scientifiche, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico». Ogni società nasce dall’incontro di interessi particolari, e in una visione di sinistra (in una qualunque visione di sinistra, dato che si tratta del minimo sindacale per poter sperare di essere considerata tale, come detto qui) non può che essere vista come campo di forze in cui si articola il conflitto tra innumerevoli interessi contrapposti. Se la cultura è il complesso di tutti quei comportamenti che caratterizzano la vita di una società, è espressione di tanta diversità quanto diversi sono gli interessi e i conflitti che la percorrono, con buona pace di chi sostiene che le culture siano monolitiche peccando di ingenuità o ignorando un fatto che si può riassumere con estrema facilità: la realtà è complessa, molto complessa. In ogni gruppo umano esistono interessi contrapposti, e che non sono mai solo bianco e nero. Ci sono progressisti e conservatori, ma tra i progressisti ci sono i riformisti e i rivoluzionari e tra i conservatori ci sono i moderati e i reazionari, poi tra i reazionari ci sono gli estremisti violenti armati e i reazionari istituzionali, e tra questi quelli più aperti su alcune questioni e quelli che lo sono meno, e tra quelli aperti ce ne sono che lo fanno per motivi di convenienza politica e compromesso e altri che lo fanno per sincera convinzione personale, mentre tra i rivoluzionari ci sono quelli disposti ad allearsi con altre forze popolari e quelli intransigenti, e tra gli intransigenti quelli che vogliono far subito la rivoluzione e quelli che vogliono preparare il terreno in attesa di tempi migliori… inutile continuare; questo esempio, che pure si limita esclusivamente alle posizioni politiche che si possono assumere all’interno di una stessa società, rende conto della straordinaria varietà possibile.
Si possono prendere in prestito gli argomenti contro il razzismo biologico, riformulandoli per mettere alla prova la convinzione che la varietà del comportamento umano in società sia effettivamente organizzata in culture ben definite (in maniera oggettiva, aldilà delle impressioni e delle autorappresentazioni).
Il primo argomento è che la descrizione generale di una cultura difficilmente può adattarsi bene a tutti i comportamenti individuali. Come nel caso delle razze, non esiste elenco di caratteristiche culturali che funzioni per tutti, senza essere violato dall’interno di quella specifica cultura da parte di individui che staranno pure agli estremi dello spettro di convinzioni, pratiche, modelli e valori, ma che di quella cultura fanno comunque innegabilmente parte. D’altra parte, non esistono elementi di una cultura che assolutamente non esistono nelle altre culture.
Esiste invece una grande variabilità “culturale” tra gli individui in termini di credenze, modelli e valori, e in tutte le culture è rappresentato largamente lo spettro delle possibilità, in proporzioni che dipendono dal contesto storico entro cui la cultura si articola e si esprime.
Nel caso della “cultura araba” o musulmana, come probabilmente in tutte le culture umane esistenti ed esistite, è possibile riscontrare la validità di queste osservazioni. Se «la cultura araba è teocratica», a che cultura appartengono tutti i musulmani laici che hanno preso parte ai processi di riappropriazione democratica e alle rivolte del 2011 e che combattono oggi contro il tentativo di gruppi come Daesh di imporre un ordine teocratico? E i tanti arabi atei che lottano per il riconoscimento sostanziale della libertà di non credere? Se «la cultura araba è violenta», che dire dei milioni di arabi a cui piacerebbe vivere senza alcuna violenza, come alla maggior parte degli esseri umani sulla faccia del pianeta? Se «la cultura araba non rispetta le donne», a che cultura appartengono le sempre più rumorose femministe arabe? E gli autonomisti curdi che con l’esperimento sociale del Rojava hanno invidiabilmente costruito una sostanziale parità di genere? E a che cultura appartenevano quei paesi mediorientali in cui negli anni Sessanta non esistevano limitazioni religiose alla libertà delle donne?
Cosa significa questo? Che si deve accettare un fatto: la varietà esiste, anche nella “cultura araba”, ed esiste sempre una complessità irriducibile a semplificazioni con l’accetta. C’è maggiore differenza tra due individui di “cultura occidentale” posti all’estremo dello spettro di credenze e valori, che non tra un individuo medio di “cultura occidentale” e un individuo medio di “cultura araba”. Per esempio, io mi sento (e spero di essere) molto più simile a un non credente di sinistra tunisino che non a un cattolico conservatore siciliano; così come mi sento molto più vicino ad un anarchico inglese che non ad un fascista italiano. Come le presunte razze, le presunte culture presentano limiti ontologici e implicano un salto logico che non è razionalmente giustificabile.
(Il fatto che confutando chi sostiene la superiorità di alcune culture si finisca facilmente per utilizzare gli stessi argomenti adatti a confutare chi sostiene la superiorità di alcune razze dovrebbe suggerire qualcosa sulla funzione sociale e politica assunta dal razzismo culturale. Ontologicamente ed eticamente, non c’è nulla di diverso tra credere che esistano razze superiori e credere che esistano culture superiori. Se la prima opzione è meno socialmente accettabile è più per una ragione storica che intellettuale: in generale, il razzismo biologico disgusta perché innesca un meccanismo riflesso che richiama la memoria condivisa del Demonio nazista, non perché è stato dimostrato che è scientificamente infondato. Diversamente, sostenere l’inferiorità di certe culture è considerato socialmente accettabile. Per capire cosa intendo dire, provate a sostituire la parola «arabi» con la parola «ebrei» in tutti i luoghi comuni che si dicono sugli arabi. Converrete con me che molta meno gente sarebbe disposta ad ascoltarvi senza storcere il naso.)
Qualcuno potrà legittimamente chiedersi se non sia questa un’opera di sapiente mistificazione della realtà ordita dai buonisti apologeti in difesa del politicamente corretto volta a nascondere l’evidenza che le società del mondo arabo qualche problema in materia di diritti delle donne innegabilmente ce l’hanno, così come qualche problema con la laicità dello Stato e le libertà individuali e sociali. Osservazione sensata, se non fosse che qui nessuno sta negando che questi problemi esistano, bensì che siano dovuti alla “cultura araba”. Non serve a molto affidarsi alla mera evidenza empirica senza un’elaborazione intellettuale, perché altrimenti dovremmo credere che un legnetto dritto immerso nell’acqua si spezza e diventa più corto. Se ogni cultura comprende una diversità che spazia tra gli estremi dello spettro di credenze, convinzioni, modelli e valori, il prevalere di certe credenze, convinzioni, modelli e valori nell’articolarsi della vita sociale è da attribuirsi allo sviluppo storico, al contesto sociopolitico, piuttosto che alla cultura in sé (che invece contiene tutte le sfumature possibili, dominanti e non).
I fascismi novecenteschi europei non erano dovuti alla cultura occidentale più di quanto i movimenti socialisti fossero dovuti alla stessa cultura: se negli anni Trenta i fascismi trionfarono fu per cause materiali ben individuabili, per i rapporti sociali di forza, non certo per un’impalpabile e astratta ineluttabilità intrinseca alla cultura occidentale. Analogamente, lo stesso vale per l’attuale mondo arabo: se, per esempio, esiste una creatura mostruosa come l’ISIS, è perché le condizioni politiche, economiche e militari lo hanno permesso. La “cultura araba” non spiega l’esistenza dell’ISIS, ma solo le forme della sua esistenza. Se l’ISIS fosse sorto in una cultura diversa, non sarebbe stato meno mostruoso e non avrebbe avuto meno difficoltà ad affermarsi (l’esempio dei fascismi europei è calzante). Ancora, il peso del contesto storico è esemplificato dalla condizione delle donne in Afghanistan, che negli anni Sessanta potevano uscire di casa, guidare, iscriversi all’università ed è ovvio che queste libertà sono state perse a causa degli avvicendamenti squisitamente geopolitici che hanno segnato la storia del paese, mentre il popolo è in maggioranza musulmano dagli inizi dell’Islam e l’occupazione sovietica non ha certo annullato secoli di cultura musulmana popolare.
Quello che avviene quando si attribuiscono alla cultura gli eventi sociali politici economici è uno scambio dialettico tra struttura e sovrastruttura, che porta a non riconoscere che la cultura non è causa dei comportamenti, ma è i comportamenti (le cui cause sono squisitamente materiali e risiedono nei rapporti forza, produzione e dominio esistenti nelle società).
Insomma, nessuno nega l’esistenza e la gravità dei problemi che affliggono purtroppo buona parte del mondo arabo. Si tratta di contestualizzare e di analizzare la complessità del reale, senza sostenere l’esistenza di culture monolitiche, in cui la diversità e i conflitti sono neutralizzati. Non si tratta di politicamente corretto: ciò che opprime, reprime, soffoca e limita le libertà individuali e sociali va combattuto, sempre, in quanto tale, in ogni cultura. Per questo motivo, si deve lottare contro tutto ciò che nella “cultura araba” è autoritario, violento e repressivo e per farlo occorre non neutralizzare i conflitti, ma anzi riconoscerli per sostenere ciò che al contrario è liberante ed emancipatore. Se di una cultura si considera arbitrariamente solo ciò che non piace e se ne fa una questione di cultura, allora tutte le culture sono conservatrici (se arbitrariamente si è scelto di vederne solo la componente conservatrice) o progressiste (se arbitrariamentre si è scelto di vederne solo la componente progressista). Chi invece riconosce il conflitto con le sue contraddizioni e ambiguità, riconosce che la cultura protestante ha prodotto le chiese strutturate autoritarie e istituzionali dei luterani ma anche i movimenti zwingliani e anabattisti; la cultura cattolica ha prodotto la Santa Inquisizione ma anche frati francescani che difendevano i diritti dei popoli colonizzati e la teologia della liberazione; la cultura marxista ha prodotto lo stalinismo ma anche il socialismo libertario; la cultura francese moderna ha prodotto l’assolutismo ma anche l’età dei lumi; la cultura illuminista ha prodotto la democrazia ma anche il capitalismo; la Rivoluzione francese ha prodotto i giacobini ma anche Napoleone; e così via.
Ecco perché, anche se il nazismo è nato ed cresciuto nella “cultura occidentale”, non viene detto che la “cultura occidentale” sia nazista. Anzi, oggi viviamo nella stessa cultura ma non ci sono nazisti al potere: non è cambiata la cultura, ma il contesto sociopolitico entro cui tale cultura è espressa. Non si capisce per quale motivo lo stesso non debba valere per la “cultura araba” quando si dice che è teocratica o che non rispetta i diritti delle donne. Ecco perché non esiste nessuno scontro di civiltà.
Infine, soprattutto, chi da questa sponda critica la “cultura araba” perché teocratica, bigotta, intollerante, discriminatoria, sessista, dovrebbe prima di tutto guardarsi in casa (anche se mi rendo conto che avere i fascisti in giardino non è assolutamente un buon motivo per astenersi dal criticarli quando sono nel giardino del vicino); inoltre rendersi conto che il modo migliore per combattere quanto di teocratico, bigotto, intollerante, discriminatorio, sessista esiste nella “cultura araba” è proprio evitare di immaginare una “cultura araba” in quanto tale. Per esempio, attualmente la concreta opposizione agli autoritarismi nel mondo arabo è quasi interamente composta da musulmani o gruppi in tutto e per tutto interni al mondo arabo. Parlando di “cultura araba” si comprendono nello stesso campo semantico, mentale e di riflesso anche politico, tanto l’autoritarismo quanto la maggioranza di coloro che lo stanno combattendo. Se l’obiettivo è sconfiggere l’estremismo autoritario, a che serve un concetto di “cultura” così definito, che traccia una immaginaria linea di confine in base alla quale l’autoritarismo e chi lo combatte stanno sullo stesso lato? Se si vuole migliorare le condizioni di vita del genere umano, le linee di divisione non vanno tracciate tra le culture, ma tra oppressi o oppressori.
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Senza dimenticare la vastità del ‘mondo arabo’ e dunque le miriadi di diversità che noi da qui non vedo come potremmo conoscere; quando già interrogarsi sulla propria di cultura a me sembra un mistero irrisolvibile! Nella prospettiva di, ad esempio, un inglese la ‘cultura italiana’ è fatta di mafia spaghetti e mandolino? ebbene, a che altezza d’Italia diventa cultura europea? Sopra Eboli? e sotto cos’è? cultura italiana? mediterranea? mediterranea come quella degli arabi? già solo la difficoltà di rispondere a questi banali stereotipi dovrebbe manifestare la complessità di questioni che viste scientificamente sono ancora più inafferrabili.
A tale proposito ti consiglio di dare un’occhiata alle tesi di Duffield, riprese da Barker (1982), condivise dall’antropologia contemporanea più attenta, sulle categorie di neo-barbarismo e multiculturalismo. A partire dal post-colonialismo “piuttosto che la superiorità naturale, questa volta è la differenza -tipicamente una differenza culturale- il fattore chiave. Questo adattamento ha reso il razzismo rispettabile, proprio perchè faceva a meno della screditata nozione di una superiorità innata. […] il nuovo razzismo accetta che la differenza culturale sia normale e allo stesso tempo inevitabile. L’utilità del nuovo razzismo sta nel fatto che non si deve più pensare a se stessi come superiori […], non comporta più la divisione gerarchica dei popoli.” Praticamente la convivenza diviene difficile non perchè un popolo è superiore all’altro, ma perchè questi monoliti culturali sono così intrinsecamente diversi da non poter coabitare. E ancora “La tesi del nuovo barbarismo vede il mondo contemporaneo sull’orlo dell’instabiltà e del caos. L’impulso alla violenza una tendenza naturale che potrebbe essere tenuta a freno solo da livelli di sviluppo che l’attuale polarizzazione economica del pianeta non è in grado di fornire a tutte le regioni. Tale modo di vedere è stato (è, ndr) ampiamente applicato da giornalisti, funzionari governativi e operatori dell’aiuto umanitario (il libro di Duffield analizza in particolare l’aiuto umanitario come tecnica politica di controllo, ndr) : circostanza che attesta l’ampia risonanza del nuovo pensiero razzista. A fronte della crescente polarizzazione globale (altro che ideale di globalizzazione! ndr), il discorso razziale contemporaneo contribuisce ad alimentare la tendenza all’isolazionismo dell’Occidente.” (M.Duffield, Guerre post-moderne. L’aiuto umanitario come tecnica politica di controllo: http://bit.ly/2aWrun3 ).
Pensare dunque che soprusi sociali o, ad esempio, violenze e oppressioni sulle donne (che vivo e ho vissuto più o meno gravi, anche nella ‘mia cultura’) siano in primo luogo manifestazioni culturali e che per questo non mi riguardano, mi sembra un ottimo gioco del potere per dimenticarci della dicotomia oppressi/oppressore e in quanto tale lo temo molto.
L’errore di questo tuo post non è quello di essere tacciato di buonismo, ma di non capire che sebbene non si possa parlare di cultura come non si può parlare di razza, le idee esistono come esistono i geni, e sono causa di certi comportamenti. E soprattutto i comportamenti delle persone non sono solo causati dai rapporti di forza, ma appunto anche dalle idee. Non capisco come si faccia a cadere ancora su questo punto. Oggi la cultura occidentale non è nazista perché il nazismo ha perso, e la cultura occidentale è cambiata eccome (se la cultura è i comportamenti, e oggi i comportamenti sono diversi, allora la cultura è diversa). Ma quando Hitler è nato vi erano in circolo parecchie credenze fatte proprie dal nazismo. Capisco che si rischia di dare corda a coloro che semplificano perché sono razzisti, ma questo non toglie il fatto che vi sono elementi attuali nella cultura araba che in altre culture non vi sono, o non in maniera così preponderante. Dal momento che sappiamo che le culture sono solo contenitori non vedo il problema nel parlare dei contenuti. L’unico problema è la generalizzazione. Quando il mondo arabo sarà un posto migliore in cui vivere si parlerà del mondo arabo in maniera differente. Se spiegare la complessità serve all’inizio per obiettare a un discorso razzista, a un certo punto diventa una pratica inutile, non sono certo le tue descrizioni che combattono gli elementi peggiori del mondo arabo. Una volta compreso che stiamo usando etichette, non ha più senso smettere di usare le etichette quando vengono usate nel modo corretto.
Grazie a Raffaella per l’intervento puntuale, che spiega meglio ciò che intendevo dire quando parlavo di funzione sociale del concetto cultura parallelo a quello di razza. Ovviamente questo non significa tacciare di razzismo chiunque usi il concetto di cultura nelle modalità generalizzanti descritte sopra, ma riconoscere che il risultato prodotto da tale utilizzo in termini di narrazione, opinione pubblica, linguaggio politico (e quindi pratiche politiche) spesso non si discosta in modo sostanziale da quello prodotto dal razzismo biologico.
Per rispondere a Stefano, di buonismo (a proposito, la parola “buonismo” è stata ben descritta per la sua funzione sociale di legittimazione delle disuguaglianze: nuovo olio di ricino dello squadrismo mediatico shakerato con un po’ di analfabetismo civile) credo sarebbe difficile tacciarmi, visto che come siamo d’accordo non sto in alcun modo difendendo ciecamente la “cultura araba”.
Se siamo d’accordo anche con il parallelismo tra idee e geni, allora ti rispondo che i geni non caratterizzano mai una “razza” e non vedo come un’idea caratterizzarebbe una “cultura”. L’autoritarismo o, al contrario, l’egualitarismo, così neanche l’attaccamento alle tradizioni o al contrario l’apertura alle novità, insomma ciascun elemento di questi binomi non appartengono specificamente ad una particolare cultura perché sono presenti in tutti i gruppi umani (a volte coesitono nella stessa persona, figuriamoci!) idee che spingono verso un estremo o il suo opposto. Cosa c’è di difficile da digerire in questa considerazione?
Poi dici: “dal momento che sappiamo che le culture sono solo contenitori non vedo il problema nel parlare dei contenuti”. E allora parliamo dei contenuti (cioè cosa è inaccettabile, immorale o da contrastare e rifiutare in una certa cultura) più che dei contenitori (cioè delle culture come blocchi monolitici). Se l’unico problema è la generalizzazione, risolverlo è facile: evitarle, evitando per esempio l’utilizzo di categorie che generalizzano. Proprio parlando dei contenuti anziché dei contenitori, come suggerisci tu, è possibile aprire margini di azione per cambiare in meglio: ecco perché ha senso smettere di usare le etichette. Forse anche quando vengono usate nel modo corretto, perché spesso ci si dimentica che siamo immersi in un contesto non ideale, in cui del concetto di cultura prendono piede proprio le interpretazioni negative e tendenti al razzismo (a meno di fare un lungo discorso per spiegare ogni volta, in maniera martellante, quanto detto sopra). Intendiamoci, se usiamo le etichette in modo corretto parlando tra noi che sappiamo già di condividere queste riflessioni è un conto; esprimersi pubblicamente tramite etichette è fin troppo rischioso, rischia di dare man forte a discorsi razzisti che magari non si vorrebbero neanche alimentare, o rispetto ai quali si è addirittura sinceramente contro.
è difficile digerirla perché non è proprio così che stanno le cose. Razza e cultura non esistono solo in un’ottica essenzialista, per cui smontata questa cadono come termini. I geni caratterizzano eccome una razza, nel caso in questione quella umana. In passato ci sono state specie umane, e il fatto che le razze non si sono selezionate non vuol dire che non possona esistere. E il problema del razzismo non è l’estistenza o meno di razze, ma quello che si fa dopo. Il fatto che non si possa parlare di razza e cultura in maniera essenzialista non fa sì che non se ne possa parlare in altri termini. Nel caso della cultura nessuno pensa che ci siano caratteristiche x che appartengono a culture y, ma certamente ci sono idee e abiti culturali che permettono eccome di caratterizzare le culture. Se nel caso in questione il mondo arabo è troppo complesso per una caratterizzazione è un conto, ma la cosa non si esclude a priori. Certi aspetti sono presenti in tutti i gruppi umani, ma non con la stessa prevalenza, e questo già permette di fare delle distinzioni. In certi posti del mondo, l’occidente, certe tradizioni ce le siamo lasciate alle spalle, e questo è un fatto che caratterizza la cultura occidentale, non in quanto occidentale, ma in quanto liberale, democratica e laica.
Il problema è che quello che “noi occidentali” crediamo sinceramente di esserci lasciati alle spalle in realtà continua ad esistere, mutatis mutandis. La pretesa di “linearità” del progresso si basa su assunti di cui mi sono nutrito ma che dopo aver letto Gorz, Illich e Foucault mi sono indigesti. D’altronde, cos’è la cultura occidentale? Perché, quando se ne parla, con questa espressione indichiamo la tendenza liberale e non quella illiberale e autoritaria che è la forma con cui essa nei fatti si presenta a buona parte del resto del mondo? Oserei dire che è per il semplice motivo che usiamo un linguaggio che legittima una parte della cultura occidentale e ne condanna un’altra sua parte, favorendone arbitrariamente una. La cultura occidentale, come tutte le culture contiene sia componenti di matrice liberale che illiberale (e perché, dopo due secoli di lotte operaie, non dovremmo allora definirla anche socialdemocratica o rivoluzionaria?), sia democratica cheautoritaria, sia laica che bigottamente conservatrice. Non ho al momento dati alla mano, ma la mia impressione è che queste anime convivano contradditoriamente in larghe o larghissime porzioni della cultura occidentale, è che sia difficile determinare che in assoluto nella cultura occientale prevalga di volta in volta l’una o l’altra matrice. E quello che non faccio con la “mia” cultura non mi arrogo il diritto di farlo con le culture altrui.
“Di conseguenza, la piccola ordinanza francese, è stata un’occasione agevole per parlare di cosa fare di questa questione di genere, che ci ricorda aree del passato che abbiamo lasciato da poco – e voglio ricordare che si le abbiamo lasciate e quindi basta con questi sciocchi e ingiusti paragoni il nostro presente è diverso e va difeso nella sua diversità – e a cui tutto sommato non abbiamo gran voglia di ritornare”
https://beizauberei.wordpress.com/2016/08/18/intorno-al-burkini/
Grazie per il suggerimento di lettura. Lo trovo interessante, perché mi da l’occasione di mettere alla prova pratica quanto teorizzato nel post che stiamo commentando: vista la diversità dei modi di indossare il velo e dei motivi che possono spingere all’uso del burkini da parte di una donna, che senso ha il divieto di un capo di abbigliamento? Se l’intento è colpire un contenuto (cioè salvaguardare i “valori morali” che si suppongono messi in discussione da burkini), si sbaglia colpendone il contenitore (cioè il burkini in sé, che è un simbolo a cui piuttosto arbitrariamente si attribuisce un certo contenuto).
A proposito: http://reotempo.net/?p=2675
Comunque vorrei far notare che il post da cui è tratta la citazione riportata nel tuo commento è letteralmente costellata di esempi di un maschilismo che continua ad esistere in forme molteplici, che cambiano secondo il contesto culturale. Su “ciò a cui non abbiamo gran voglia di ritornare” mi ripropongo di scrivere un pezzo apposito prossimamente.
Le idee esistono e sono causa di certi comportamenti uguale come i comportamenti esistono e sono causa di certe idee. Pensare di risalire al “primato” e’ impossibile oltre che inutile. Non è dato sapere se “il nazismo avesse vinto” tutte le persone (o la maggioranza) abbraccerebbe “idee” di superomismo e sopraffazione del debole come “cultura”. Uno ci può credere ovviamente, ma e’ più facile che la mentalita stessa (di superomismo e sopraffazione del debole come un “diritto”, per semplificare) porti a quella “fede”. Comportamenti positivi ce ne erano anche ai tempi del nazismo, solo che erano soppressi, sfiduciati e derisi dall’ alto. Ovvio che hitler non avesse l’ esclusiva nella mentalità della legge del più forte (prepotente) come diritto. E’ roba antica. E’ giusta la critica al “mondo arabo” nei suoi lati negativi ma infatti il problema e’ la generalizazione, infatti non e’ dividendo il mondo tra buoni e cattivi come compartimenti stagni non comunicanti che si superano certi “elementi” negativi. La critica allo “spiegare la complessità” come inutile assomiglia alle tante critiche verso ogni movimento, grande o piccolo, che auspica miglioramento. La risposta e’ sempre quella : Una goccia può poco da sola, ma tante goccie fanno l’ oceano. Pur che sia una metafora un pò banale, e’ molto simile al vero. Ogni cambiamento in meglio in ogni epoca (e non siamo per nulla arrivati al “ragionevolmente giusto”) ha avuto i suoi critici che dibattevano sull’ inutilità dei movimenti.
I geni caratterizzano la “razza” umana quanto i condizionamenti ricevuti dall’ ambiente, e le spinte di libero arbitrio che trovano rappresentanza e influenza. I fattori sono tanti e (mi ripeto) pensare di risalire al “primato” e’ impossibile oltre che inutile. Le “razze” non selezionate ma che “potrebbero esistere” e’ un assurdo, salvo pensare a qualche pazzo che stermina la maggioranza dell’ umanita perche “meticcia”, stabilire a suo insindacabile giudizio che certa gente con comuni caratteristiche morfologiche lo siano anche “per sangue e dna” e porle sul piedistallo della “selezione”. Un delirio ovviamente, ma forse ho frainteso. Cosa intende Stefano con “il fatto che le razze non si sono selezionate non vuol dire che non possono esistere”. Il problema del razzismo e’ in primo luogo le tante persone ingenue che ascoltano i pifferai “della razza” (oggi con altre parole saudenti, quali “cultura”..”etnia”..”storia comune” ecc..) che le danno implicitamente come “esistenti”, facendo intendere esistenti differenze psicologiche per dna non da individuo a individuo, ma tra gruppi umani distinti. Fermo restando che le differenze psicologiche da individuo e individuo, come innate, esistono ma sono fattori non sempre rilevanti, sono concause insieme all’ ambiente (sano o meno sano) che ne permettono lo sviluppo.
Quali sono gli “altri termini” con cui “si può parlare” di razze umane? A parte il vittimismo retorico nelle societa democratiche (e imperfette ovviamente) chiunque può parlare, ma i “termini” mistici e retorici non sono tanto credibili, nonostante possano generare truppe di ingenui settari. Ma forse intendevi altro.
Idee e “abiti” che caratterizzano le culture derivano dagli uomini e donne che le diffondono, sono gli uomini a fare le “culture” e non il contrario, salvo gli indottrinamenti che vero esistono, ma quelli non li cita Stefano, come se le “culture” fossero statiche e fisse. O il mondo arabo è troppo complesso per una caratterizzazione oppure no. Prima sembra che approvi, ma poi neghi (la cosa non si esclude a priori). E’ ovvio che si trae la conclusione “a posteriori”. A priori sembrano più quelli che giudicano non tenendo conto della complessità, perche amliati dei facili slogan, o “dati” selezionati apposta o a volte anche manipolati. Certi aspetti sono presenti in tutti i gruppi umani, ma non con la stessa prevalenza e’ vero, ma e’ anche la dimostrazione che il tempo (cioè il movimento di cose e idee) non e’ statico, fermo, quella “diversità di prevalenza” cambia, non e’ fissa. Ed e’ anche l’ auspicio di cambiamento in meglio, ma li bisognerebbe dibatterne caso per caso, non “distinzioni” sommarie. Se in certi posti del mondo, in occidente, certe tradizioni ce le siamo lasciate alle spalle (a parte il discorso sul “noi” che fa credere che siamo massa indistinta ed e’ falso) e’ grazie alle tante goccie nel mare che provano a dare un contributo. Vedi il discorso all’ inizio.