Contro il consumo di dissenso
Tutta la vita delle società nelle quali regnano le condizioni moderne di produzione si annuncia come un cumulo immenso di spettacoli. […] Nello spettacolo, immagine dell’economia imperante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole riuscire a nient’altro che a se stesso.
Guy Debord, La società dello spettacolo
Ho smesso anni fa di guardare la televisione. Le uniche trasmissioni che mi sembravano interessanti erano quelle di satira o quelle di inchiesta. Ogni tanto mi capitava di seguire dei dibattiti televisivi, ormai comunemente chiamati con l’espressione, in realtà non sinonima ma forse più azzeccata, di talk show: letteralmente, lo “spettacolo della conversazione”. Certe volte, scremavo il palinsesto selezionando qualche intervista, di quelle a quattr’occhi: un numero di intervistati già superiore a uno aumentava esponenzialmente la possibilità che l’intervista si trasformasse in una rissa come quelle dei cosiddetti talk show, in cui non si capiva una parola che fosse una, mancavano gravemente frasi di senso compiuto che esprimessero concetti elaborati dall’inizio alla fine e di “conversazione” non c’era traccia. In effetti, anche il formato dell’intervista singola, sicuramente comodo e per lo spettatore perché facile da seguire per la sua linearità e la mancanza di continue interruzioni, poteva rivelarsi fin troppo comodo per l’intervistato, qualora quest’ultimo si fosse preventivamente accordato con l’intervistatore sulle domande, al fine di eliminare il rischio di imbarazzanti e fastidiosi incidenti di percorso poco convenienti per l’immagine e il prestigio (se esistente). Sempre, ovviamente, che non fosse l’intervistatore ad autocensurarsi, per puro autocompiacimento o suo naturale servilismo.
Dicevo, guardavo programmi di satira e di inchiesta. Poi, a un certo punto, mi sono reso conto di quanto fosse una perdita di tempo. Report, Presa diretta, Servizio pubblico, mettiamoci addirittura pure Le Iene (ahahah, Le Iene!), e tutte quelle altre trasmissioni dello stesso genere (di cui davvero non saprei fare i nomi, perché, come già spiegato, non guardo la televisione) hanno una funzione sociale che non è fare inchiesta, ma dire al pubblico ciò che vuole sentirsi dire. E ciò che il pubblico vuole sentirsi dire è esattamente ciò che queste trasmissioni gli hanno insegnato a volersi sentir dire.
Di che parlano stasera? Dell’omicidio di Aldrovandi? Si saranno affrettati a precisare che si tratta di mele marce e non di parte integrante e fisiologica di un sistema poliziesco, penitenziario e giudiziario marcio fino al midollo, perché ci sono tanti esponenti delle forze dell’ordine in cui dobbiamo riporre la nostra fiducia e che fanno bene il proprio lavoro, anche quando il lavoro fatto bene consiste nel manganellare chi non è d’accordo con l’ultima decisione del governo. Dell’ostentazione di ricchezza da parte dell’alta borghesia italiana? Si premureranno di evitare una qualunque analisi economica e sociologica di classe, parlando di ricchezza come se questa piovesse spontaneamente dal cielo e astenendosi dall’affrontare la questione da un punto di vista strutturale, assicurandosi di non mettere al repentaglio il potere nemmeno sfiorandolo con le parole.
Queste trasmissioni mostrano immagini, raccontano storie e dicono cose che fanno audience, perché si sono ritagliati un pubblico mirato, la loro fetta di mercato dell’informazione, accontentando i bassi istinti di masse pronte a indignarsi davanti allo schermo e stando ben attente a scongiurare la possibilità che queste non si indignino nella vita reale, quando lo schermo è spento. Una sublimazione, come i “due minuti d’odio” in 1984 di George Orwell: quando i due minuti si concludono, la dose quotidiana di rabbia e indignazione è già stata provata, assunta come una droga. Perché affidare al caso il momento del prossimo moto di indignazione quando possiamo avere la certezza che domani, alla prossima sessione dei due minuti d’odio, ne assumeremo la nostra dose quotidiana? In questo modo i sentimenti, ivi compresi rabbia e indignazione, sono sottoposti ad un controllo sociale. Tutto è scandito temporalmente. Tutto è ordinato. Non è ammessa indignazione che superi i limiti della poltrona davanti allo schermo.
Questa fetta di mercato è mercato di consumo e questo consumo è consumo di dissenso. I consumatori sono il pubblico, un pubblico che guarda le trasmissioni e che quasi gode di indignarsi: i più incalliti non se ne perdono una puntata e non aspettano altro, per tutta la settimana, che il grande momento in cui potranno sentirsi cittadini attivi e informati per il solo fatto di sapersi indignare a comando.
Qualcuno potrebbe chiedersi se non è la stessa cosa leggere le notizie o le inchieste sui giornali: del resto, se uno si indigna può indignarsi allo stesso modo davanti allo schermo del televisore come davanti a una pagina di giornale e quello che succede dopo dipende dall’indignato. In una certa misura questo è vero, con alcune differenze rilevanti.
Prima di tutto, la televisione è il mezzo della spettacolarizzazione per eccellenza. Il pubblico sa in anticipo che a una certa ora di un certo giorno andrà in onda una certa trasmissione, tutti si riuniscono sapendo che si indigneranno. In generale, tale desiderio di indignazione sarà soddisfatto molto più efficacemente da un’inchiesta televisiva incalzante accompagnata da una colonna sonora che trasporti emotivamente lo spettatore, per consentirgli di godere al meglio della scossa civica che lo pervade. Difficilmente un articolo giornalistico possiede questa capacità e questa immediatezza.
In secondo luogo, questi programmi fanno ormai parte, come accennato poco sopra, di un vero e proprio mercato di consumo del dissenso: alimentare il consumo di dissenso è la loro ragion d’essere e la loro funzione sociale, molto più che la comunicazione di informazioni in sé. Questo è vero anche per i giornali, ma consultare le notizie, specialmente online, da la possibilità di approfondire e confrontare senza accettare passivamente un singolo punto di vista calato dall’alto, nonché di guardare notizie scelte da me e non da qualcun altro con il semplice scopo di fare audience.
Quindi, siccome il giorno dopo non succede mai un cazzo, per me guardare questo tipo di trasmissioni è una perdita di tempo, perché a me non va di indignarmi e avere il sangue amaro per due ore o anche più a lungo. In fin dei conti, che senso ha indignarsi e basta? Non faccio meglio io che non guardo e salto i due minuti d’odio? In 1984 era Winston, che li disertava, il vero dissidente.
Short Link:
Bel post! 🙂
Ti lascio una riflessione che ho fatto mentre lo leggevo. Io la vedo pressapoco come te, ma per “deformazione professionale” – che brutta espressione – non posso fare a meno di distinguere le trasmissioni in sotto insiemi. È una distinzione che va forse fatta nella premessa del tuo intero ragionamento.
Da una parte metto trasmissioni di inchiesta: Presa Diretta, Report, ecc
Dall’altra metto quelle considerate “infotainment”: Le Iene (in primis)
Dall’altra ci sono quelle sempre di infotainment ma con un mix di talk show e mini inchieste: Servizio Pubblico.
Quest’ultima è un ossimoro bello e buono. Perché ad essere pignoli viene trasmessa su La7, che è una TV privata, del gruppo Cairo Communication. Quindi “servizio pubblico” un corno. Poteva chiamarlo così se andava in RAI coi soldi dei contribuenti, ma pure così avrebbe avuto soldi dalla pubblicità. E la stessa faccenda dei 10 euro non è altro che un “finanziamento privato”. Vabbè, dicevamo…
La distinzione che fai tra scritto e audiovisivo è azzeccata, anzi aggiungo un’altra cosa, se leggo un’articolo di giornale lo leggo in fondo con “la mia voce”, con “i miei tempi” e con le mie riflessioni. Decido io come e quando leggere, come e quando interrompere la mia attenzione e riprenderla. Invece l’audiovisivo dà meno spazio alla scelta, ti tiene incollato, non ti da “tempo” per ragionare.
Ma saprai meglio di me che molte critiche simili sono state mosse a la stampa ai tempi di Gutemberg da reazionari che non volevano che il sapere si diffondesse così facilmente.
È ovvio che non siamo a quei livelli, ed è ovvio che ormai le trasmissioni televisive rischiano di trasmettere più bugie che verità, o meglio: punti di vista discutibili e narrazioni tossiche al posto di promuovere un dibattito e una qualità di informazione che aiuti a ragionare con la propria testa lo spettatore. Una delle più tristi, e purtroppo azzeccate, obbiezioni al fatto che lo spettatore dovrebbe ricevere solo informazione neutra è che l’informazione “neutra” non è mai esistita.
È un discorso complessissimo, ma va detto che spesso tutti tendiamo a scordarci che in fondo i “produttori” di informazione ragionano secondo la logica di mercato, e quindi una trasmissione televisiva, così come un giornale di carta, sono ascritti in questo moto capitalistico. Al che riprendiamo la citazione che hai fatto, perché se la trasmissione vuole vendere, e se il giornale vuole vendere, tocca creare spettacolo.
Appunto importante: ragioniamo anche sul fatto che lo spettatore è non solo consumatore ma anche *prodotto* che viene venduto. Il prodotto che la trasmissione televisiva vende è l’audience, e la vende agli inserzionisti. Quindi la trasmissione crea spettacolo, per attirare le persone, e mentre lo spettacolo è in corso gli schiaffa davanti un bel annuncio pubblicitario.
Uno dei motivi per cui non mi piace guardare tv, e comunque sia la guardo, è proprio la pubblicità. Mi sento appunto “venduto”. (e non facciamo l’errore di credere che i social network privati, tra cui twitter, facebook, ecc, siano esenti. Non lo sono, è solo che veniamo venduti in maniere diverse).
Ad ogni modo, buon punto 😉
Saluti
Santiago
Carissimo, benvenuto: questo è il tuo primo intervento su questo spazio!
Lo so che dovrei distinguere Le Iene da Report, infatti il senso di “mettiamoci addirittura Le Iene” era proprio quello: stona con gli altri elementi della breve lista. Il motivo per cui ho inserito una trasmissione come Le Iene è duplice: prima di tutto, questa riflessione è stata sviluppata grazie a un discorso privatamente avvenuto (in realtà su Facebook, quindi per privatamente intendo dire che era leggibile da me, la mia interlocutrice e la CIA) il cui argomento iniziale era proprio Le Iene; inoltre, esiste una larga fetta di publico che si accontenta di Le Iene e Striscia La Notizia come surrogato di trasmissioni di approfondimento giornalistico e questo è dovuto al fatto che esse si spacciano come tali, perché fingono di fare inchiesta.
Sulla critica alla stampa di Gutenberg, so bene che è controproducente cadere in trappole antistoriche come quella del rifiuto della televisione tout court. Per rispondere in merito, riporto un commento di anni fa che riguardava una critica simile mossa rispetto al rifiuto di Facebook e che può applicarsi, forse, anche a questo caso.
“Non è Facebook in sé ad essere dannoso per i rapporti umani, ma l’uso che se ne fa. Anche per quanto riguarda la letteratura: certo è qualcosa di artificiale, ma non lede i rapporti umani (generalmente). Può anch’essa, come Facebook, diventare dannosa se alienante. È l’alienazione dall’essere umano che è dannosa, non lo strumento in sé per cui avviene l’alienazione. Anche il bovarismo è una forma patologica e alienante di rapportarsi alla letteratura. Tuttavia il bovarismo non è sistemico; e di facebook è difficile fare un uso piuttosto che un altro, se gli effetti alienanti derivano non dall’uso ma dalla struttura stessa dello strumento, che è indipendente da chi ne usufruisce”.
Cosa voglio dire con ciò? Che bisognerebbe fare un uso diverso della televisione. Ma questa televisione, questo sistema televisivo, lascia spazio ad usi diversi da quelli sviluppatisi socialmente? La mia opinione, al momento attuale, è no. Ciò non toglie, comunque, che le cose possano cambiare, ma fino a quel giorno più che informazione la televisione sarà strumento di intrattenimento e di imposizione dell’egemonia culturale.
Giungiamo così all’ultimo punto, che ritengo il più importante: l’informazione come prodotto di mercato. Sappiamo bene quanto la logica di mercato abbia conosciuto, specie negli ultimi trent’anni, un’espansione inedita. Sappiamo bene che tale espansione ha inaugurato la fase cognitiva del capitalismo neoliberale e gli ultimi due decenni sono stati un fiorire di movimenti e di analisi del fenomeno. Tutto questo, tu, che sei un hacker cattivo, lo sai bene. E lo so anche io. Infatti, sono d’accordo quando affermi che non esiste la neutralità dell’informazione, come non esiste la neutralità di nulla, perché ogni cosa è espressione del contesto in cui esiste socialmente. L’idea, tanto cara al Fatto Quotidiano, che l’unico modo per garantire l’imparzialità dell’informazione sia la sua subordinazione alla logica di mercato, oltre ad essere di per sé una fesseria, parte anche da un presupposto inesatto: ciò che si dovrebbe garantire è non l’imparzialità, ma l’indipendenza.
Detto questo, un anno fa mentre qui si discuteva di ingenuità della retorica pentastellata si parlò anche di informazione e i limiti di una visione semplicistica dell’informazione furono più che evidenti…
Questa risposta sta diventando way too long, quindi mi accingo a chiuderla. Intanto sta’ tranquillo, che nell’errore di credere che Facebook e Twitter siano esenti dalla logica del mercato dell’informazione non ci caschiamo di certo 😉
Sono completamente d’accordo per quanto riguarda i talk show, le interviste, le tribune politiche: non fanno che aggiungere al chiasso paralizzante generale.
[…] verrebbe da fare un paragone azzardatissimo con un bellissimo pezzo che ci è capitato tra le mani “contro il consumo di dissenso“ ma che ci porterebbe indubbiamente fuori strada perché se è vero che gli antefatti hanno la loro […]