Tag: violenza

  • «Tutti gli uomini hanno due occhi»

    Immaginatevi una persona. Sì, una persona qualunque: non importa il sesso, l’etnia, le origini, il credo religioso o il colore degli capelli. Una persona qualunque, che sta lì davanti a voi e pronuncia distintamente la seguente affermazione: «Tutti gli uomini hanno due occhi».
    Saranno tutti d’accordo, innegabilmente, sul fatto che il contenuto dell’affermazione è generalmente corretto (tolta qualche rara eccezione), nel senso di aderente alla realtà dei fatti.
    Aggiungiamo ora dei dettagli alla situazione: questa persona qualunque sta correndo, e mentre corre pronuncia l’affermazione che abbiamo già avuto occasione di riportare: «Tutti gli uomini hanno due occhi». Il contenuto dell’affermazione è cambiato? No. Il suo grado di aderenza alla realtà è cambiato? No. L’affermazione si rivela, dunque, corretta a prescindere dall’azione compiuta da chi la pronuncia.
    Aggiungiamo ancora qualcosa: un contesto. Questa persona sta correndo nel bosco perché è in fuga da qualcuno, e mentre corre urla «Tutti gli uomini hanno due occhi». Cambia qualcosa nel contenuto della sua affermazione? No. Il suo grado di aderenza alla realtà è cambiato? Di nuovo no. E non sarebbe cambiato nemmeno se questa persona fosse stata inseguita non da qualcun altro ma da un rinoceronte, un unicorno o da un prodotto della sua fantasia.
    Abbiamo capito quindi qualcosa: che l’aderenza del contenuto di un’affermazione alla realtà si misura attraverso il confronto con la realtà, poco importa l’identità di chi afferma. Tanto che questa persona è una persona qualunque e ciascuno se la sarà immaginata in una maniera diversa, eppure tutti siamo d’accordo sul fatto che non si sta sbagliando quando afferma che «Tutti gli uomini hanno due occhi».
    Bene, ora sostituite la frase «Tutti gli uomini hanno due occhi» con «La TAV è un’opera inutile» e immaginate la persona qualunque come volete, seduta, che cammina, che corre, che lancia un sasso e carica la polizia o che prende manganellate e scappa dalla polizia. Il grado di aderenza della sua affermazione alla realtà dipenderà dalla realtà, non dalla violenza praticata o ricevuta. Non è la violenza che determina se il contenuto di una frase o di un’idea è vera o falsa.

    NO TAV!

  • La Lotta è il Tempo

    Ieri sera c’è stata a Pisa un’assemblea di Movimento a cui ho partecipato e in cui sono intervenuto.
    Dal momento che ho messo abbastanza carne al fuoco e che in seguito a questo mio intervento l’assemblea ha affrontato dei discorsi ricchi, interessanti e costruttivi, vorrei cercare di riportarlo per iscritto qui, almeno in linea di massima, per condividerlo con tutti sperando di affrontare nuovamente quegli argomenti che mi stanno a cuore e che secondo me sono centrali per la riuscita e il successo reale delle attuali proteste mondiali contro il predominio della finanza sulla politica e la società (leggasi socialità).
    Ho sentito molti parlare della questione del 15 ottobre e di come il movimento dovrà rapportarsi a questa data, come dovrà elaborarla, farla propria, digerire le sconfitte e le vittorie di quella giornata e trarne le dovute conclusioni. Però mentre noi ne parliamo è già passato da allora quasi un mese e il nostro problema principale è che questo movimento, in Italia, sembra scemare e trovarsi in una situazione di stallo se non di reflusso. Cerchiamo di capire perchè e partiamo da un’altra osservazione: la stessa cosa è successa nelle giornate di Luglio del 2001, con il movimento cosiddetto “noglobal” contro il G8, il 13 febbraio 2003, con il movimento, anch’esso mondiale, contro la guerra in Iraq, il 14 dicembre dell’anno scorso, con il movimento universitario. Ora si ripete il 15 ottobre. Evidentemente sono stati fatti degli errori e per di più ripetutamente. Ci sono però dei movimenti che non hanno conosciuto questo decorso e nei quali non si è verificato questo fenomeno di reflusso in seguito alla data principale di mobilitazione: per esempio il movimento NoTav o il movimento OccupyQualcosa nel resto del mondo.

    Il movimento NoTav non ha mai fissato delle scadenze, delle date più importanti di altre. Se il 3 luglio c’è stata una grande manifestazione nei boschi della Val Susa con scontri anche violenti (in verità più che altro era un attacco da parte della polizia), ora i NoTav non stanno a piangersi addosso e a parlare di un fantomatico “post-03/07”. Noi invece parliamo di “post-15/10”. Perchè? Perchè il 3 luglio i NoTav non hanno giocato il tutto per tutto, non hanno concentrato tutte le loro forze su una singola data sperando che andasse bene, salvo poi leccarsi le ferite e pigliarlo in quel posto se fosse andata male. Non hanno fatto assemblee intitolandole “verso il 3 luglio”: hanno deciso di porre dei punti fissi sugli obiettivi del movimento anziché sui metodi, hanno fatto crollare la retorica repubblichista di distinzione tra manifestanti violenti e non violenti, buoni e cattivi: i NoTav erano tutti buoni e tutti cattivi. Tanto che quando il raggiungimento dell’obiettivo prefissato, e su cui non si transige, ha richiesto l’uso della forze, non hanno esitato ad utilizzarla o ad applaudire chi l’aveva usata; e quando, al contrario, si sono resi conto che la violenza avrebbe danneggiato il movimento, com’è stato il 23 ottobre, hanno deciso, dico deciso, di non utilizzarla. Avevano la situazione sotto controllo. Un po’ diverso dal nostro 15 ottobre romano.

    Passiamo al movimento OccupyQualcosa. Solo il braccio italiano di questo movimento, cioè noi, stiamo risentendo del reflusso post-15/10. In altri paesi, piuttosto, è stato un crescendo da allora. A Oakland la cittadinanza ha saputo organizzare, per la prima volta dal 1947, uno sciopero generale cittadino autogestito, non convenzionale. Da Wall Street (la parte occupata, ovviamente) è partito un appello di mobilitazione mondiale. A Londra in queste ore stanno provando a occupare Trafalgar Square dopo un enorme corteo [quest’ultimo esempio lo aggiungo solo ora perchè la notizia è di oggi]. Perchè? Perchè solo in Italia si è preferita una protesta centralizzata e convergente sulla capitale, in tutti gli altri paesi del mondo che hanno aderito alla protesta la mobilitazione si è articolata in cortei e iniziative disseminate sul territorio, con una media di 10-11 luoghi di protesta per ogni nazione.

    Questi due esempi insegnano due cose: la prima è che si deve essere intransigenti sugli obiettivi e non sui metodi, la seconda è che la protesta non deve essere centralizzata. Anzi, deve essere ubiquitaria, come ubiquitario è il nostro avversario. La lotta non è in un posto preciso né in un tempo preciso, la lotta è il Tempo, la lotta è lo Spazio.

  • Il feticismo dei post-it

    Dedico le mie parole a tutti coloro che hanno condannato ciecamente le violenze (ostiniamoci ad etichettarle così, almeno ci capiamo, care anime belle) dello scorso 15 ottobre rivendicando la natura pacifica della manifestazione, anche se in realtà non ho intenzione di parlare direttamente di quei fatti. Ho scelto voi come interlocutori perché ritengo che il movimento (sì, mi ostino anche ad utilizzare questa parola per esprimere qualche cosa che forse in realtà non esiste) italiano debba rivedere le sue strategie per ritrovare la vitalità e l’efficacia che aveva un tempo e che prima del 15 ottobre era riuscito ad esprimere l’ultima volta verso la fine del 2003, quando era già agonizzante: e siccome voi fate parte del movimento tanto quanto me e io credo nella forza del dialogo e nelle armi della democrazia, vi dico da pari come la penso.

    Non mi va di rifare discorsi che sono già stati fatti sulla questione violenza-nonviolenza e che hanno prodotto un’immensa mole di materiale su cui riflettere. Ai fini dell’argomento che mi accingo ad esporre è però necessario rimarcare come la violenza sia da considerarsi, senza esprimere giudizi morali, uno strumento come tanti altri: può essere lo strumento del potere che si difende, del capitale che sfrutta, della mafia che minaccia, dell’autonomo che lancia il sampietrino, e come ogni altro strumento può essere usato bene o male, da intendersi come efficacemente o meno. Per esempio, i fatti dimostrano che la violenza del 15 ottobre è stata poco efficace per il raggiungimento degli obiettivi che ci si proponeva di raggiungere (a parte quello immediato di alcuni: esprimere un disagio, lanciare un segnale di rabbia e frustrazione).

    Ma sarebbe stata efficace la strategia che auspicavano quei tanti che intendevano recarsi a Roma per esprimere coloratamente o coloritamente la loro “indignazione”? Fa davvero paura al potere un corteo di centinaia di migliaia di persone, anche di un milione di persone, se queste camminano insieme, piantano tende, intonano cori? O fa forse più paura una folla di qualche decina di persone che minaccia di chiudere il proprio conto in banca?

    A chi condanna la violenza a priori vorrei ricordare che quando la violenza l’hanno praticata in Tunisia e in Egitto andava a tutti bene, anche ai giornalisti de La Repubblica che una settimana fa invitavano alla delazione di massa di coloro che potevano aver preso parte al respingimento delle cariche della polizia in piazza San Giovanni. Ma certo, in Egitto sono sporchi e con la pelle scura, in più parlano arabo e sono musulmani, quindi la violenza la possono usare perché sono degli animali, perchè sono violenti: questo è il messaggio implicato nella morale di certa informazione perbenista. Tanto che quando, in primavera, la protesta stava migrando dal mondo arabo alla più civile Europa (prima in Croazia poi in Spagna), i giornali occidentali inizialmente hanno pensato bene di non parlarne.

    A chi si illude di cambiare le cose solo accampandosi in una piazza a oltranza, come al Cairo, ricordo che l’occupazione di piazza Tahrir è stato un evento riuscito e di grande successo, efficace e non solo simbolico, grazie a successive ondate di scioperi che hanno paralizzato l’Egitto per settimane prima e durante la lotta di piazza.

    A chi ripete meccanicamente, come un bambolotto parlante, lo slogan «no alla violenza», vorrei ricordare cos’è la nonviolenza: una pratica attiva di resistenza a leggi o decisioni che si ritengono ingiuste. In altre parole: disobbedienza civile. E vorrei ricordare sempre a costoro che Gandhi, con le cui parole si riempiono la bocca e adornano gli striscioni, in India non ha vinto standosene seduto davanti alle forze di occupazione inglese o prendendo manganellate insieme a migliaia di persone, ma boicottando il sale inglese e permettendo agli autoctoni di riappropriarsi di un bene comune da sottrarre alle grinfie dell’Impero.

    Questo quindi si deve fare: ripartire dai beni comuni, dalla loro socializzazione, dal consumo critico. Ciascuno è importante. Inutile protestare contro la finanza con indosso un paio di scarpe fabbricate da bambini bengalesi, dei jeans scoloriti a costo di compromettere la salute degli operai che li hanno raschiati, una maglietta prodotta da lavoratori cinesi sottopagati, il tutto pubblicizzato attraverso i più infimi sistemi di controllo mentale magari da aziende quotate in borsa, la borsa che tanto si critica. Vano sputare nel piatto da cui si mangia: bisogna imparare a mangiare da un altro piatto. E dopodiché, invitare altri a mangiare dal nostro.

    Sia chiaro che non sto proponendo la ricetta che ci libererà dal male, ma semplicemente un poco di coerenza e un poco di riflessione sul significato della nostra azione politica: il consumo critico è solo un modo per tirarsi fuori dal problema, ma non ancora di far parte della soluzione. Il consumo critico da solo non basta. Neanche gli scioperi da soli bastano. Le acampadas da sole non bastano. Tutti questi eventi devono essere espressione di un’unica Lotta, con la maiuscola, che le unifica tutte (io direi che è quella contro l’Ancien Régime). Senza la coscienza della necessità di tale unificazione, ogni singolo tassello sarà troppo piccolo per formare un’immagine sensata.

    Avete tutti una scelta, a questo punto: o, in virtù del vostro “pacifismo nonviolento” continuate ad aderire ad appelli online, raccolte di firme e petizioni, mandate i vostri post-it a La Repubblica e affiggete i vostri striscioni e le vostre lenzuola per far contenta L’Unità (che poi in fondo, cosa cazzo sperano di ottenere?) oppure vi inventate un altro modo di praticare la nonviolenza. Anzi: la praticate e basta, niente feticismo dei post-it.

  • La violenza degli argini

    Volevo raccontare il 15 ottobre che ho vissuto senza parlare degli scontri, senza condividere o condannare la violenza, senza appoggiare o rifiutare teorie su infiltrati e sui cosiddetti black bloc, senza dover difendere o stigmatizzare il comportamento della polizia italiana o dei manifestanti, senza tirare nessuno per la giacchetta.

    Non so se infine sono riuscito nel mio intento di descrivere con oggettività la giornata (scopo che sempre mi riservo, in tutte le situazioni e nella maggior misura in cui è possibile farlo), ma di certo non sono riuscito mio malgrado ad evitare di parlare di tutte le questioni accennate sopra: avrei preferito non farlo, perché parlare della giornata di ieri come una giornata di violenza o di non violenza significa fare il gioco dei potenti e adottare il linguaggio e la retorica dei loro organi di informazione. Ma leggendo tanti commenti sulla rete e diversi articoli di giornali di aree diverse mi sono reso conto che è necessario mettere in chiaro qualche punto: ecco quindi cosa ho scritto. Sono pensieri sparsi.

    Questione violenza-nonviolenza. Il voler a tutti i costi dividere nettamente il corteo di ieri in due cortei, uno violento e uno pacifico, non solo non aiuta a capire le dinamiche di ieri ma rispecchia poco la realtà dei fatti, come qualsiasi altro tentativo di categorizzare le anime molteplici di un movimento, attribuendo loro nomi e nomignoli stupidi e contrapponendoli (es. indignados, black bloc > indignados VS black bloc). È troppo semplicistico ragionare in codice binario, funziona solo per il benpensante che guarda passivo le immagini dello schermo televisivo passargli sotto gli occhi.

    Che è necessario abbandonare questo frame è stato già detto mille volte ma non fa male ripeterlo. Bisogna prendere atto che in piazza San Giovanni c’erano tante persone diverse, non tutte col casco e armate di spranghe, mazze e molotov, che comunque erano disposte allo scontro: uno scontro non per forza premeditato, uno scontro che può essere stato causato dagli idranti sugli stand che attendevano l’arrivo del grosso del corteo o dai lacrimogeni lanciati in mezzo alla folla su un corteo autorizzato. Non sto parlando degli incappucciati, sto parlando dei tanti altri che sono rimasti coinvolti negli scontri: tra loro immagino ci siano tanti che sono equilibrati in situazioni normali ma che possono, come tutti, perdere il controllo in condizioni anormali e nel mezzo della folla.

    Personalmente trovo strumentali e del tutto fuorvianti i richiami alla Genova del 2001 in riferimento alla presenza di possibili infiltrati, perchè gli infiltrati ci sono in tutte le manifestazioni, anche le più pacifiche, e poi allora si trattava di un movimento e di circostanze completamente diverse: chi, come La Repubblica, scrive «violenze come a Genova» ha dimenticato quanto diverse fossero allora le strategie messe in campo dal black bloc (sì, al singolare) rispetto allo scontro fisico che c’è stato ieri e devia l’attenzione, attraverso analogie e  meccanismi di associazione tra concetti, dal fatto (scontri) alla sua interpretazione (black bloc).

    Il discorso sui possibili infiltrati lo lascio ai complottisti e ai politicanti, perché neanche questo aiuta a comprendere l’accaduto: quelle persone in piazza San Giovanni si sono difese dai lacrimogeni e dai manganelli, e lo avrebbero fatto comunque, con o senza infiltrati. Perciò secondo me la verifica di eventuali infiltrazioni è solo una questione “giuridica”, ma dal punto di vista dell’analisi politica dell’accaduto è irrilevante.

    Mancanza di sintesi. Come scriveva qualcuno, il germe della violenza è insito nella natura stessa di protesta e se a volte rimane potenziale ed altre si fa atto ciò è dovuto alle circostanze; questa volta, per settimane o mesi, fin dall’inizio si è affermata l’intenzione di andare oltre il corteo rituale e la sfilata per il centro di Roma. Su questo si era tutti d’accordo. Però, come conseguenza del campanilismo dei movimenti italiani (che, da quello che mi pare di capire, si è puntualmente manifestato nelle varie assemblee di organizzazione della mobilitazione del 15 ottobre), non ci si era accordati sulle strategie da adottare per superare la tradizionale estetica del conflitto: chi voleva assediare i palazzi governativi, chi occupare il Colosseo e altri monumenti, chi restare nelle strade e nelle piazze a oltranza e, sì, anche chi auspicava una insurrezione popolare. C’è stata una così profonda mancanza di sintesi che, per le differenti strategie, non si è stati capaci neanche di accordarsi sul percorso del corteo, per dirne una, o di organizzare un servizio d’ordine unitario, per dirne un’altra. In particolare, ritengo che quest’ultimo fatto sia stata una delle cause principali dei problemi che la massa ha dovuto fronteggiare. Questa frammentazione era percepibile, bastava farsi un giretto tra i diversi spezzoni del corteo.

    Comportamento della polizia. Tutti, come sempre, hanno fatto a gara a condannare per primi la violenza. Io non esiterei a condannare l’ipocrisia di chi condanna unilateralmente la violenza degli incappucciati o dei manifestanti e allo stesso tempo si dice soddisfatto dell’operato della polizia, che di violenza ne ha usata. Perché la violenza della polizia deve essere giustificata? Qualcuno risponderà che lo scopo della polizia era evitare i disordini. Ma allora il fine giustifica i mezzi? Se è così, la violenza dei manifestanti era altrettanto legittima. Anche perché, quando vedo scene come questa, posso non condividere ma di certo capisco la reazione della piazza.

    Aggiungo un fatto curioso (ma non troppo) sul comportamento delle forze dell’ordine. Il percorso concordato partiva da piazza Repubblica, con destinazione piazza San Giovanni: quest’ultima era la piazza in cui si sarebbero dovute svolgere assemblee parallele e l’eventuale acampada con l’organizzazione di vari stand (poi buttati giù dagli idranti della polizia), che si trovavano là già prima che arrivasse la testa del corteo. Piazza San Giovanni era quindi legalmente riservata ai manifestanti che, secondo me, avrebbero dovuto mantenere il pieno diritto legale di entrarci; dopo l’inizio degli scontri, la polizia ha privato i manifestanti di questo diritto da essa stessa concesso, anzi ha trattato da criminali tutti coloro volessero accedere alla piazza da via Merulana, e giù lacrimogeni e manganelli, quando l’unica colpa che avevano era di seguire il percorso concordato di un corteo autorizzato dalla questura di Roma. Quindi contraddittoria non solo nella sostanza, ma anche nella forma.

    Opinione personale. Personalmente la violenza degli incappucciati non la condivido, ma non condanno la violenza dei manifestanti che si sono difesi da cariche e da lacrimogeni che li cacciavano da una piazza che doveva essere loro.

    La violenza degli incappucciati, io non la condivido non per motivi etici, ma per una questione politica e strategica: semplicemente hanno fatto male al movimento. Poteva essere un’esperienza politica lunga mesi, con piazze occupate e tutto quello che ciò comporta e che in Spagna sono stati capaci di mettere in pratica, invece si è risolto tutto in poche ore fumo nero. Tutti i possibili contenuti del movimento saranno oscurati dalla condanna delle frange estremiste, dalle accuse di infiltrazioni, dalla necessità di dissociarsi dall’uso della violenza e di dimostrare che i “veri indignati” sono quelli pacifici, dalla denuncia di incapacità di gestione dell’ordine pubblico e da tutti quei discorsi che implicano l’accettazione del frame violenza-nonviolenza e, ove possibile, del frame casta-anticasta che tanto piace a La Repubblica. Nessuno parlerà di speculazione finanziaria, di predominio della finanza sulla politica, di banche armate, di sovranità monetaria, di privatizzazioni, di annullamento del debito pubblico, di tagli alla formazione e alla sanità, di beni comuni e di lavoro.

    In pratica, ora che si è manifestata la violenza del fiume in piena nessuno noterà quella degli argini che lo costringono.

  • Il manganello facile

    Sabato 9 luglio c’era una festa nei pressi della centralissima piazza dei Cavalieri a Pisa; ogni estate la Scuola Normale ne organizza una, aperta ai suoi studenti e a un certo numero di persone, limitato per le dimensioni degli ambienti in cui si svolge l’evento (il cortile interno del Palazzo della Carovana, la sede storica della Scuola).

    Poco dopo il secondo tocco, quindi a festa già parecchio inoltrata, si accalca davanti all’ingresso, controllato da vigilantes, un piccolo gruppo di persone senza biglietto che pretende di entrare comunque. I vigilantes rispondono che ciò non è possibile perchè la festa è a invito ed esiste una lista di invitati, quindi a chi non ha il biglietto, naturalmente, non è permesso l’accesso. Al gruppo la cosa non piace e ne nasce così una discussione piuttosto animata, che attira l’attenzione di altri giovani, i quali si avvicinano dalla piazza, incuriositi. A questo punto la calca davanti al portone di ingresso alla festa è tale che, a giudizio dei vigilantes, va oltre la loro capacità di controllo e questo li spinge ad invocare l’intervento delle forze dell’ordine, chiamando i carabinieri. Intanto, dentro il cortile, a nessuno è ben chiaro che cosa stia succedendo: il portone è chiuso per evitare che qualcuno si intrufoli dentro eludendo la sorveglianza.

    Una volta allontanata la calca davanti al portone, questo viene riaperto ed esce fuori Dario, un dottorando della Normale, con l’intento di capire bene perchè il portone era chiuso e perchè ci sono dei carabinieri all’ingresso di una festa. Alla sua richiesta di chiarimenti, uno dei carabinieri risponde con la richiesta dei documenti, che viene negata in mancanza di una motivazione valida. La reazione è inaspettata ed improvvisa: Dario si trova ammanettato, riceve un colpo in testa e viene strattonato dentro l’auto. Qualche ora dopo, risulterà avere riportato un trauma cranico, lesioni ai polsi e una ferita sotto il mento. Quando questo si viene a sapere Dario è in stato di arresto, e resterà in caserma tutta la notte, nonostante la solidarietà manifestata da tanti suoi amici, compagni e semplici cittadini che hanno tenuto un presidio quasi permanente davanti all’edificio di detenzione. Dario sarà processato per direttissima lunedì mattina. Informazioni più dettagliate le trovate qui e qui.

    Vorrei cogliere l’occasione per fare qualche riflessione.

    Gli stronzi sono ovunque, in tutte le categorie, ma abbondano ed emergono nelle categorie a cui è garantita l’impunità. Non si tratta di generalizzazioni, ma della constatazione di una verità, e anche di ragionevolezza: è ovvio che se sei stronzo e puoi vantare un potere che altri non hanno, non mancherai di far notare di averlo ogni volta che le circostanze lo rendano possibile, per esempio quando hai un manganello in mano e l’autorizzazione per usarlo. In poche parole, più potere ha uno stronzo, maggiore è la probabilità di abuso di potere.

    Agli illusi che si dicono contrari alla violenza (che c’è stata e che in generale deve esserci, per costituzione stessa) da parte delle forze dell’ordine e che confidano nella magistratura o nei gradi più alti di polizia affinché l’una o gli altri provvedano alla punizione di una evidente violazione di diritti in primo luogo, delle leggi democratiche in secondo luogo, in terzo luogo delle regole che le forze dell’ordine sono tenuti a osservare, non si può che domandare se a loro risulta che siano stati preso provvedimenti contro i finanzieri che il 3 luglio lanciavano sassi sui manifestanti e sparavano lacrimogeni vietati dalle norme internazionali ad altezza uomo in Val di Susa. O se i macellai torturatori della caserma di Bolzaneto e i responsabili dei pestaggi nella Diaz nel 2001 siano stati puniti giustamente per ciò che hanno commesso, ovvero «la più grave sospensione dei diritti umani in un paese occidentale dalla fine della seconda guerra mondiale» (e lo dice Amnesty International, non un covo di terroristi). No, sapete, perchè a me risulta che l’ambiente in certe frange delle forze dell’ordine non sia proprio quello tutto dedito alla difesa della legalità, ma piuttosto alcuni agiscano con la certezza che resteranno impuniti, e per questo possono permettersi di violare ogni diritto e ogni regola della convivenza civile. Mi risulta anche che, invece di essere puniti, molti abbiano invece ricevuto apprezzamenti, riconoscimenti e promozioni.

    Allora, perchè io non posso andare in giro con un manganello e picchiare per futili motivi il primo che passa, mentre un poliziotto può permettersi questo e altro, come è successo sabato sera a Pisa? Perchè c’è questa necessità, che i politici e i giornali non fanno altro che ripete allo spasimo, di isolare «i violenti»? E le forze dell’ordine i loro violenti non devono isolarli? Facciamoci qualche domanda.

  • Dalla parte sbagliata

    Una ragazza martedì scorso era davanti ai cordoni della polizia mentre loro avanzavano. Stavano per colpirla, ma lei non aveva né casco né sassi in mano, piangeva perchè sconvolta e stringeva nelle mani il testo della Costituzione Italiana. Loro si sono fermati; lei ha letto loro ad alta voce gli articoli 3, 4, 33 e 34 della Costituzione Italiana e ha chiesto loro che cosa stessero difendendo. Si sono girati dall’altro lato e hanno cercato di distogliere lo sguardo.