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  • Le rivolte in Francia sono una questione di classe

    Queste riflessioni sono state pubblicate anche su Napoli Monitor.

    Il figlio che non è abbracciato dal villaggio
    lo brucerà per sentirne il calore
    (proverbio)

    L’ennesima esecuzione razzista da parte della polizia francese ha innescato una rivolta per certi versi molto più esplosiva di quella del 2005. Le reazioni del governo, della borghesia, di una parte della sinistra, sono di una cecità agghiacciante, lontana anni luce dalla comprensione dell’origine sociale dello scoppio di tale rivolta. All’Onu, che chiede alla Francia di rivedere i metodi della propria polizia e di assicurarsi di prevenire e punire ogni comportamento discriminatorio, il governo di Macron risponde che nella polizia francese non esiste alcun razzismo. Al raro giornalismo ancora lucido che fa notare che la legge votata nel 2017 dall’attuale ministro dell’interno Darmanin ha portato alla quintuplicazione del numero di morti ammazzati dalla polizia, il ministro semplicemente nega che tale aumento sia mai avvenuto, in barba alle statistiche e ai documenti ufficiali.

    Invece di parlare di ciò che ha condotto all’omicidio di Nahel, si evoca la sua morte solo come presunto “pretesto” per bruciare tutto. Se l’omicidio di Nahel è un pretesto, qual è il vero motivo? Secondo Macron sono i videogiochi. Per alcuni osservatori, anche in Italia, incapaci di dissimulare il razzismo, il motivo è semplicemente la provenienza della popolazione in rivolta: irrazionale e presa da una furia immotivata, sarebbe costantemente in attesa di una qualunque scusa per bruciare tutto senza un perché.

    La vera questione neanche si tocca: l’origine di gran parte della popolazione in rivolta è coloniale. Il trattamento che questa popolazione riceve quotidianamente da parte delle istituzioni è coloniale. La gestione politica razzista è coloniale. Le rivolte delle “banlieues” a cui si assiste ciclicamente sono solo un’infinitesima parte della violenza coloniale su cui da secoli si basa la società francese.

    La scarsa conoscenza della questione coloniale francese rischia però di essere letta in maniera limitata da un pubblico italiano. Il colonialismo è ben più del “semplice” razzismo, che ne costituisce il lato culturale: resta il piano economico. Riducendo tutto al razzismo, l’aspetto economico strutturale rischia di passare inosservato. Il colonialismo è stato ed è innanzitutto un sistema che gerarchizza gli esseri umani per colore, nazionalità, origine, statuto amministrativo, e opera su questa base per estrarre ricchezza e distribuirla in maniera socialmente iniqua. Storicamente, il colonialismo ha consentito in maniera sostanziale l’accumulazione originaria, l’appropriazione di risorse e lavoro da parte degli uomini d’affari europei, e ha contribuito allo sviluppo del capitalismo. Oggi, la gestione coloniale della popolazione povera e di origine straniera è ancora la più forte forma di disciplinamento che tiene in piedi il sistema di sfruttamento.

    Le rivolte di questi giorni esprimono ampiamente una rabbia contro questo sistema. Poco importa che non ci siano rivendicazioni politiche ufficiali. La stragrande maggioranza degli oltre mille incendi di edifici ha colpito particolari obiettivi: commissariati, stazioni di polizia, caserme, municipi. La rivendicazione è sotto gli occhi di tutti: basta volerla vedere.

    Inizialmente sono stati attaccati i luoghi del potere poliziesco e delle istituzioni. In un secondo tempo è stato appiccato il fuoco anche ad altri luoghi del servizio pubblico, come scuole e biblioteche. Molta gente, pur comprendendo la rabbia per il razzismo e l’omicidio di Nahel, ha interpretato questi atti come puramente criminali, senza alcun contenuto politico, dimenticando che scuole e biblioteche, per quanto possa dispiacere, sono di fatto strumenti di esclusione sociale. Nonostante il suo valore emancipatore ideale, la scuola è per molti giovani la prima istituzione in cui le disuguaglianze sociali si trasformano in disuguaglianze scolastiche, in cui si subiscono discriminazioni razziste e disciplinamento poliziesco: addirittura, alcuni presidi collaborano direttamente con la polizia segnalando gli allievi più “vivaci”. In questo senso, la scuola non è che un’estensione del sistema poliziesco. In molte biblioteche di quartieri in cui la maggior parte delle famiglie a casa non parla francese, è difficile trovare materiale in lingue diverse. Anche in questo caso, un encomiabile intento emancipatore assume le sembianze concrete di uno strumento di esclusione o di imposizione culturale. L’attacco a questi luoghi è da leggersi come un attacco al sistema di esclusione sociale che opera quotidianamente nei quartieri. Non è un attacco ai “simboli” di tale sistema, ma proprio ai luoghi in cui materialmente esso prende forme visibili.

    In risposta a chi sostiene che la rivolta non abbia rivendicazioni concrete, è ancora più significativo il fatto che rapidamente si siano diffusi a macchia d’olio i saccheggi di negozi di ogni tipo fino ad arrivare al cuore dei quartieri ricchi delle maggiori città – qualcosa che non era mai avvenuto in contesti simili. Come spiegare questa evoluzione? Numerose scene dai quartieri in rivolta testimoniano del dispiegarsi di un momento di apertura, in cui tutto sembra possibile. Cadono i freni inibitori sociali, guardiani del desiderio, e la gente pare voler fare tutto ciò che normalmente è vietato. In questa disinibizione, in questo slancio desiderante, immediatamente emerge il bisogno-volontà di redistribuzione della ricchezza: quella ricchezza da cui il sistema capitalista-coloniale esclude socialmente.

    In questa dinamica di apertura è storicamente normale che capiti un po’ di tutto, e spiace dover fare l’avvocato del diavolo, perché significa che c’è qualcuno che in questa dinamica vede, appunto il diavolo, trasformandola in una questione morale. Perché ci si indigna per delle macchine ribaltate e bruciate e non per le migliaia di ingiustizie quotidiane considerate normali? Il sistema capitalista-coloniale fa in modo che certe categorie di persone abbiano meno possibilità di accedere agli studi; se vi accedono, hanno meno possibilità di concluderli; se li concludono, hanno meno possibilità di trovare un lavoro; se lavorano, hanno meno possibilità di essere ben pagati. Si tratta di una questione prettamente sociale, e sollevarla è squisitamente politico, che lo si faccia scrivendo comunicati ben impaginati o saccheggiando centri commerciali.

    Come mostra il caso di scuole e biblioteche, si potrebbe trovare una motivazione praticamente per ogni edificio dato alle fiamme nell’ultima settimana; a prescindere dalla sua funzione teorica e ideale ci si accorge che si tratta sempre di luoghi in cui si manifestano le disuguaglianze. Perché il sistema di oppressione e di esclusione dalla ricchezza è ovunque, e quando la rivolta esplode riesce a rendere visibile la sua presenza. Per dirla con Brecht, “tutti vedono la violenza del fiume in piena, ma nessuno quella degli argini che lo costringono”.

    Le rivolte in Francia sono una questione sociale. Davanti all’esacerbarsi sempre più intenso della questione delle disuguaglianze, lo stato francese si trova a un bivio: da una parte, l’emancipazione e la redistribuzione sociale della ricchezza, ovvero la costruzione di una società più inclusiva, egalitaria ed emancipatrice; dall’altra, il pugno di ferro per ristabilire l’ordine che produce e perpetua tali disuguaglianze, la violenza nuda e cruda a difesa degli interessi del potere capitalista razzista e coloniale, ovvero la strada del fascismo. In linea con la tendenza degli ultimi anni, acceleratasi vistosamente negli ultimi sei mesi e precipitata apertamente la settimana scorsa, il governo francese ha scelto il fascismo. (monsieur en rouge)

  • Il “nuovo patriottismo” dell’UKIP in due esempi

    Il partito euroscettico UKIP, il più votato in UK alle ultime elezioni europee, è noto per la capacità che ha avuto, al pari di simili rigurgiti destrorsi continentali, di mascherare le proprie posizioni di estrema destra imponendo nel dibattito pubblico varie proposte radicali senza ricorrere ad argomenti apertamente razzisti o nostalgici del passato. Molto è stato scritto in proposito, tra cui un’interessante recensione sul fenomeno generale della “nuova internazionale nera” e, soprattutto dopo il trionfo elettorale dell’UKIP, altrettanti fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla natura di quest’ultimo. Resoconti di fuoriusciti, articoli d’inchiesta ed eventi giudiziari hanno rivelato inquietanti aspetti sulle tecniche di costruzione del consenso utilizzate dai partiti cosiddetti “populisti” che sarebbe più opportuno definire di “destra radicale”. Il successo di tali tecniche risiederebbe nel non dichiararsi apertamente razzisti o nostalgici del passato, evitando argomentazioni riconducibili a retoriche chia ramente identificabili.

    Come discusso altrove, il problema del razzismo è ridotto a una questione, puramente formale, di etica e di decoro borghese: è sufficiente dichiararsi contro e deprecare queste entità astratte che sono i razzisti, basta che nessuno si definisca razzista apertamente (pur continuando ad agire secondo le proprie posizioni) ed ecco eliminato il problema.

    Tuttavia, ogni tanto qualcosa traspare molto più di quanto si intenda lasciar trasparire. A titolo di esempio, sono significativi due casi, l’uno sul dichiararsi “apertamente razzisti”, l’altro sull’evitare di esternare sentimenti “nostalgici del passato”.

    Il primo esempio è il manifesto lanciato dall’UKIP per presentare i punti salienti del programma della forza politica. Nella seconda pagina del manifesto, che tratta di immigrazione, compare la frase seguente (traduzione mia, ndr): «Gli altri partiti si sono impegnati a favore dell’allargamento dell’UE a Turchia, Albania, Moldavia e molti altri paesi. Secondo le regole europee, tutti i loro cittadini saranno autorizzati a vivere e lavorare in UK». Agitare lo spauracchio di un’invasione di turchi, albanesi e moldavi, che sono nazionalità spesso oggetto di pregiudizi razzisti, non significa forse ammettere che francesi e tedeschi, ai quali è già concessa la regolare permanenza in UK, sono accettati molto più di buon grado? Non è questo dichiararsi apertamente razzisti? (Tralasciando il fatto che lo stesso utilizzo del concetto di “invasione” è fuorviante, una stortura utile esclusivamente a disinformare a fini razzisti.)

    Il secondo esempio è una dichiarazione rilasciata di recente da Peter Whittle, “Culture Spokesman” del partito, secondo il racconto di un giornalista. Whittle espone una «teoria emergente del patriottismo», un nuovo modo di intendere l’appartenenza nazionale. «Che c’è di male ad essere britannici?» si chiede il portavoce del partito prima di scagliarsi contro chi è «schiavo del senso di colpa per il passato coloniale britannico». Si tratta non solo di un’esternazione nostalgica, ma anche di un’accusa morale per coloro che, a detta di Whittle, non onorano né ricordano con i dovuti sentimenti di rispetto l’imperialismo e il colonialismo. Ovvero. Non si capisce poi come si possa accusare di essere schiave del senso di colpa per il passato coloniale quelle stesse istituzioni e autorità che cercano da sempre di insabbiare, censurare e rimuovere le tracce di tale passato. Il colonialismo britannico fu questo. L’imperialismo britannico fu questo. Le parole sono pietre.

  • Abusi in divisa: chi li rende possibili?

    Quando vai in piazza a fare il culo ai ragazzini delle superiori, lo stai facendo per un ente morale superiore. Quando durante un arresto dai un paio di calci nelle costole a un tossico di merda, lo fai perché è un momento necessario della sua rieducazione. Quando minacci le ragazze di stuprarle con il manganello d’ordinanza, lo fai perché deve essere chiaro chi è che comanda. Quando fai finta di non guardare il collega che riempie di botte il poverocristo in cella, lo fai perché non sei un infame. Quando sputi in faccia al negro di merda che hai preso con due canne in tasca, lo fai per lavarlo. Quando strappi il piercing dalle orecchie della zecca che hai di fronte, lo fai per dargli un contegno.

    Quelle riportate sono alcune frasi sfuse da un breve articolo. Non è così che sembrano ragionare molti esponenti delle forze dell’ordine? Non si ritengono, giustamente, preposti alla difesa dell’ordine costituito, che non è solo un ordine sociale e politico ma prima ancora un ordine morale, che di quello sociale e poitico è espressione e legittimazione teorica?

    Perché ragionano così? Sono semplicemente degli stronzi (il che in un certo numero di casi non è da escludere, soprattutto considerando che gli stronzi abbondano ed emergono nelle categorie a cui è garantita l’impunità) o esiste anche una influenza non indifferente proveniente dall’ambiente lavorativo e dai vertici che attraverso il proprio potere decisionale plasmano tale ambiente lavorativo?

    Come ha ricordato di recente Aldo Giannuli, «le cause sono nella storia stessa dei nostri corpi repressivi, mai veramente disintossicati dal ventennio fascista che, a sua volta, aveva trovato il precedente dell’epoca liberale che di liberale ebbe assai poco. E poi, anche la feroce rivalità fra carabinieri e polizia agisce da moltiplicatore di questa propensione alla violenza». I responsabili sono da ricercarsi nei politici che «danno carta bianca al loro braccio armato», nei vertici della polizia che «usano cinicamente i propri uomini per rafforzare il loro potere contrattuale nei confronti dei politici», nei quadri intermedi della polizia «che aizzano gli agenti, che li formano nello spirito del mazzieraggio irresponsabile, che li educano al disprezzo del cittadino», nei magistrati che «non hanno mai il coraggio di fare luce anche sui casi più gravi e che mandano regolarmente assolti poliziotti a carabinieri anche nel caso di omicidi, per la collusione fra le due corporazioni», nei giornalisti che «non sono capaci di una inchiesta sistematica su quello che accade nella polizia».

    Un’ulteriore considerazione si deve fare rispetto alle condizioni che addirittura precedono l’ingresso nei reparti delle forze dell’ordine. In particolare, in una dettagliata analisi sul fenomeno della violenza poliziesca in Italia con attenzione soprattutto per la Polizia di Stato, Salvatore Palidda fa notare, tra le altre cose, come la selezione, l’educazione e l’addestramento degli agenti non possono essere trascurati quando si cerca di indagare la natura di una tale propensione alla violenza. In primo luogo, «da circa 15 anni il reclutamento del personale nelle polizie italiane privilegia per legge i volontari che hanno svolto servizio militare nelle missioni all’estero, cioè nei diversi teatri di guerra», a dimostrazione del processo di militarizzazione delle polizie. In secondo luogo, in occasioni di gestione dell’ordine pubblico la frammentazione dei corpi di polizia produce scivolamenti verso un’estremizzazione della violenza, come già puntualizzato da Giannuli, ed un apparente disordine per cui «il personale di ogni unità segue sempre gli ordini del proprio capo che non sempre segue quelli del comandante della piazza», con conseguenze disastrose (e il G8 di Genova è solo un esempio).

    Per quanto riguarda la formazione professionale delle polizie, essa «è improntata soprattutto a una sorta di infarinatura giuridica del tutto superficiale, a qualche apprendimento tecnico e poi sempre all’apprendimento per “affiancamento” a chi ha più esperienza». Non c’è da stupirsi se questo genere di formazione generi un ambiente che «esaspera la tensione, l’aggressività, il rambismo se non addirittura il cameratismo fascista». E ancora, «perché il personale di polizia non è formato nelle scuole e università pubbliche insieme ai loro coetanei? Non sarebbe questo un momento di socializzazione forse più democratizzante di quanto lo siano i corsi nelle scuole di polizia che come raccontano tanti pare siano tenuti solo da docenti spesso di dubbia qualità accademica?»

    Anche se questo discorso potrebbe continuare a lungo, quanto detto finora è già sufficiente a rispondere alla domanda iniziale: gli abusi in divisa avvengono perché alcuni tutori dell’ordine sono semplicemente degli stronzi o esistono altri responsabili che generano situazioni in cui gli abusi sono incoraggiati (e non parlo degli incentivi diretti come le promozioni ottenute dai picchiatori in divisa, né della quasi certa impunità di cui godono le forze dell’ordine)? In altre parole: un tale ambiente è dovuto alla sola presenza di mele marce o alla struttura stessa della cesta che contiene tutte le mele?

    Per non andare troppo indietro nel tempo cercando i responsabili della mancata defascistizzazione dei corpi di polizia, basti sapere che la rivalità tra Carabinieri e Polizia che conduce alla progressione militare e “durista” è stata accentuata notevolmente dalla riforma dell’Arma dei Carabinieri (legge 78/2000) che le ha concesso più poteri e autonomia; che l’intoccabilità della struttura delle polizie esiste a causa di un gioco di favori tra politica e forze dell’ordine in cui la politica tutta ha sempre adottato riverenza e corteggiamento nei confronti delle gerarchie delle polizie; che l’impunità è dovuta in buona parte all’atteggiamento generale della magistratura; che le regole per la selezione e la formazione professionale sono stabilite per legge; che le strategie di addestramento sono una prassi che non viene messa in discussione; che le politiche repressive e securitarie riducono le questioni sociali essenzialmente a problemi di ordine pubblico, contribuendo a rafforzare il “potere contrattuale” delle polizie nell’interfacciarsi al cittadino e aumentando di conseguenza il rischio di abusi; che solidarizzare con le forze di polizia «senza se e senza ma» ogniqualvolta sia possibile, non mancare mai di esprimere incondizionato rispetto nei loro confronti, mai astenersi dal rivolger loro un plauso per il loro operato salvifico aumenta in tutti (anche tra i reparti) la convinzione che davvero «quando vai in piazza a fare il culo ai ragazzini delle superiori, lo stai facendo per un ente morale superiore».

    Insomma, rispondetevi da soli, senza farvi accecare da chi si lascia andare ad esternazioni di vuota solidarietà.

    Il problema non è soltanto che c’è chi utilizza la divisa come una seduta di psicoterapia andata male.

  • Mele marce un cazzo

    Al congresso del Sindacato autonomo di polizia (Sap), gli assassini di Federico Aldrovandi sono stati accolti da una platea già euforica e «caricata», stando alle parole di Massimo Montebove, portavoce del Sap, a causa dei discorsi che avevano preceduto il loro ingresso trionfale: si era parlato di poliziotti uccisi dalla mafia, di poliziotti condannati ingiustamente, di vittime del terrorismo e della criminalità.

    Questo spiega, a detta di alcuni, il lungo applauso che ha salutato l’arrivo in sala di Paolo Forlani, Luca Pollastri e Enzo Pontani, tre dei quattro agenti condannati dalla Corte di cassazione il 21 giugno del 2012 per l’omicidio di Federico Aldrovandi a tre anni e sei mesi (tre anni dei quali coperti dall’indulto). Chi spiega così l’accorato sostegno ai tre assassini, specifica che in ogni caso si è trattato di un applauso e di un apprezzamento che intendevano essere un gesto di solidarietà umana nei confronti di «persone che hanno avuto dei problemi».

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come il 12 aprile, quando il povero «cretino da sanzionare» (parole del capo della polizia Alessandro Pansa) ha calpestato deliberatamente una manifestante inerme già malmenata e distesa sull’asfalto, forse «per dare una mano ai suoi colleghi» o per «frenesia e frustrazione», come suggerisce il prefetto di Roma. La tesi del “cretino isolato” è veicolata non solo direttamente dagli uomini delle istituzioni e dagli uomini dell’ordine pubblico, ma anche indirettamente dal montaggio di certi video (esempio) da parte di quelle trasmissioni che intenderebbero denunciare le violenze (finendo spesso per alimentare il consumo di dissenso). Che senso ha zoomare e mostrare alla moviola il piede di un agente che calpesta una manifestante quando tutto intorno si assiste alla violenza gratuita dei manganelli che infieriscono sui corpi aggrovigliati di persone indifese? Che senso ha, se non condannare selettivamente lo scarpone legittimando implicitamente il manganello?

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come qualche giorno dopo, quando gli agenti in assetto anti-sommossa hanno sgomberato 200 famiglie in occupazione abitativa alla Montagnola a Roma (vedi), caricando, entrando negli appartamenti per gettare a terra i malcapitati e manganellarli, lasciandosi dietro feriti, bambini piangenti e nuclei familiari senza più un tetto (vedi). Anche di loro è stato detto fossero «frustrati» e dunque, poveretti, in qualche modo giustificati.

    Descrivere queste azioni come spinte da una frustrazione eccezionale in contrapposizione ad un equilibrio ordinario significa muoversi all’interno di una narrazione che ne addossa al singolo poliziotto, o qualunque altro membro delle forze dell’ordine a seconda del caso, tutta la responsabilità (si tratta della ben nota narrazione delle “mele marce”). Eppure, se si è capaci di giustificare le teste calde e le mele marce in quanto «persone che hanno avuto problemi» e che sono «frustrate» a causa della situazione personale o familiare che li circonda, questo tipo di retorica non riesce a fare altrettanto riguardo all’influenza che può esercitare l’ambiente lavorativo, perché ciò significherebbe ammettere che ad essere marce non sono le mele, bensì l’intera cesta.

    Il Sap vanta circa 20 mila aderenti a fronte di un numero complessivo dei membri della polizia di Stato pari a 105.000 unità effettive. Ciò significa che circa un poliziotto su cinque vi è iscritto (non solo vicino, proprio iscritto), e un numero indefinito di altri costituisce quell’area rosa costituita da simpatizzanti non aderenti, tipica di ogni organizzazione strutturata. Dunque, almeno un poliziotto su cinque si riconosce in un’organizzazione che ha attaccato personalmente (vi ricordate?) la madre di Federico Aldrovandi esponendo sotto il suo ufficio uno striscione in solidarietà agli assassini del figlio. Coloro che innumerevoli volte hanno parlato della necessità di «isolare i violenti», coi violenti solidarizzano.

    In quell’occasione, l’allora ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri osservò che «chi ha manifestato non rappresenta la maggioranza dei poliziotti» (li rappresentava invece lei che li mandava in anti-sommossa a reprimere le proteste degli studenti) e l’allora capo della Polizia Gianni De Gennaro definì l’azione un «fatto da condannare» (lui che di fatti da condannare se ne intende).

    Questa volta ancora un’unanime condanna morale da prima pagina: il presidente del consiglio Matteo Renzi , il ministro dell’Interno Angelino Alfano e il capo della Polizia Alessandro Pansa rivolgono i propri sentimenti di vicinanza e di solidarietà ai genitori di Federico, indignati e agghiacciati dall’accaduto. A tali manifestazioni di solidarietà si accodano una serie di voci provenienti soprattutto dal PD e da SEL. Chi, come Cecilia Strada, presidente di Emergency, invita i «poliziotti democratici» a «dire qualcosa» aspettandosi nette prese di posizione, ottiene timide e ambigue esternazioni da parte di altre organizzazioni di polizia, come quelle di Ruggero Strano (segretario generale Autonomi di polizia) secondo cui «gli applausi di oggi sono una cosa vergognosa» ma non bisogna dimenticare che «questa vicenda ha mietuto solo vittime, da una parte e dall’altra», ad ulteriore dimostrazione di quanto poco peso e voce in capitolo i poliziotti “democratici” abbiano tra i reparti della Polizia di Stato.

    Matteo Renzi si dice solidale con la madre di Federico Aldrovandi, sia a titolo personale sia a nome di tutto il governo. Ma se Renzi volesse essere solidale più che a parole (perché la solidarietà è tale solo se si fa carne) potrebbe cominciare a pensare di fare qualcosa in suo potere. Potrebbe pensare di invertire la rotta di chi lo ha preceduto, riformando il sistema di selezione e addestramento delle forze di polizia; riformando il sistema carcerario affinché non esistano mai, in nessun posto, celle zero e spazi in cui si assiste ad una sospensione dello stato di diritto; introducendo il reato di tortura; arginando le derive autoritarie e le politiche repressive; ponendo le basi per la costruzione di un ambiente in cui gli abusi in divisa non si verifichino; garantendo che eventuali abusi in divisa vengano puniti integralmente e con la rimozione degli incarichi di chi insabbia, copre e spalleggia assassini, torturatori e corruttori. Finora, chi doveva essere punito non è stato mai trovato oppure ha ricevuto apprezzamenti, riconoscimenti e promozioni. Se Renzi è solidale deve invertire questa tendenza.

    E invece gli assassini di Federico saranno reintegrati nonostante le vive proteste.

    E invece chi rompe una vetrina sta dentro 12 anni e chi ammazza di percosse gratuite sta dentro qualche mese (se va bene).

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come i tre «sadici», gli aguzzini del carcere di Poggioreale. Come i macellai della Diaz. Come i torturatori di Bolzaneto. Come quelli che dal cavalcavia lanciano sassi sui manifestanti. Come quelli che sparano ad altezza uomo lacrimogeni vietati dalle norme internazionali. Come quelli che infieriscono in strada sui corpi di semplici cittadini fino ad ammazzarli. Come quelli che seviziano i detenuti. Come quelli che sgomberano a manganellate i blocchi di protesta dei migranti. Come quelli che sanno che resteranno impuniti.

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come tutte le altre volte.

    Tutta quella gente applaudiva, in massa all’unisono e col cuore, degli assassini. Mele marce un cazzo.

    congresso sap

  • Di quale «guerriglia» state parlando?

    Venerdì si è svolta una manifestazione indetta dal movimento No MUOS. Il percorso del corteo si addentrava nella sughereta di Niscemi, dentro alla riserva naturale in cui il governo statunitense d’accordo con quello italiano vuole realizzare l’imponente sistema di coordinamento di attività belliche a livello continentale. Diverse migliaia di persone, un numero notevole per il periodo estivo che notoriamente intorpidisce corpi e menti, hanno preso parte alla marcia confermando la forza crescente di un movimento che ha saputo costruire il proprio consenso intorno a parole d’ordine come il principio dell’autodeterminazione, il diritto alla salute e la condanna della guerra e del servilismo delle autorità nostrane di fronte al volere dell’Impero.

    antennemuosDopo aver percorso il tratto all’interno dell’area della riserva, sbucata davanti ad uno dei cancelli, la testa del corteo si è trovata a fronteggiare uno schieramento di forze dell’ordine disposte in modo da impedire il passaggio verso l’ingresso della base militare USA. Alla richiesta di entrare simbolicamente nella base (anche perché: per quale altro motivo si potrebbe voler entrare?), la risposta è stata una serrata di scudi e la disposizione dell’anti-sommossa. Si è avuto quindi un contatto tra le forze dell’ordine e le prime file del corteo, un po’ perché queste pensavano di poter soverchiare gli uomini che impedivano loro l’accesso, un po’ perché spinte dal flusso della restante parte del corteo, e per qualche minuto la tensione ha portato a qualche spintone da una parte e qualche manganellata dall’altra. Subito dopo, risultando praticamente impossibile scavalcare il blocco, la testa del corteo ha cambiato direzione cominciando a costeggiare il confine della base, segnalato dalla presenza di un’alta recinzione e di filo spinato. Tutto il corteo si è così dispiegato intorno alla recinzione, per tutta la lunghezza che gli era possibile coprire. In due punti sono state tagliate le reti della recinzione e sono stati aperti dei varchi attraverso cui i manifestanti si sono riversati, in quasi un migliaio, sul suolo regalato dalle istituzioni italiane al dipartimento della difesa statunitense.

    La ragion d’essere di questo articolo è che secondo alcuni il taglio delle reti e la violazione del suolo militare sono state scelte strategicamente inefficaci che non hanno fatto altro che danneggiare il movimento: per costoro, la giornata di ieri è stata una disfatta.

    Ecco invece un punto di vista differente: la giornata di ieri è stata di straordinaria “disobbedienza civile” di massa, in cui una porzione considerevole del corteo non ha indietreggiato di fronte alla simbolica inviolabilità dei confini imposti dal potere, ha violato la legge che rende quel suolo «sito di interesse strategico nazionale» e ha concretizzato l’idea, che da sempre lo caratterizza, che quella «è casa nostra».

    «Ma cosa si è ottenuto?» potrebbero chiedere in molti, capitanati da chi condanna tutta la giornata basando il proprio giudizio sulla sua millesima parte, ovvero i due minuti in cui si è verificato il contatto fisico diretto tra la testa del corteo e alcuni uomini delle forze dell’ordine. Si è ottenuta innanzitutto la realizzazione di una primaria rivendicazione, perché se un movimento non fa altro che dire «questa è casa nostra» non può ritirarsi di fronte alla possibilità di calpestare il suolo che dichiara essere casa sua: si è così dimostrato che il suolo si può riprendere, lì come altrove, e che come ci si è appropriati di quel suolo ci si può riappropriare di altro. In altre parole, l’ingresso in massa nella base militare costituisce una lezione, educa alla riappropriazione e mostra che le parole d’ordine possono non rimanere semplici parole e farsi invece carne.

    Il taglio delle reti ha anche un significato politico simbolico e con risvolti psicologici. La recinzione non è infatti che la delimitazione di un luogo secondo l’arbitrio del potere, non si tratta soltanto di un luogo fisico: il limite imposto è spaziale, in quanto definisce l’esistenza di un’area inaccessibile e sotto costante controllo, ma anche astratto, in quanto sancisce la separazione giuridica di due aree sottoposte ad un controllo differente, in cui vigono regole differenti (la base militare è stata dichiarata da una legge «sito di interesse strategico nazionale»).

    invasione 2«Quello che è stato fatto» dicono alcuni «ha allontanato dal movimento una grande quantità di siciliani: ci si deve adeguare alla loro mentalità, non cercare di cambiarla». La giornata di venerdì non ha mostrato incompatibilità tra la “mentalità dei siciliani” (quale sarebbe? di che generalizzazioni andiamo parlando?) e la pratica di riappropriazione, perché in tanti sono entrati nella base: il fatto che altrettante persone abbiano scelto di non entrare fisicamente nella base è comprensibile, perché si tratta di un atto illegale, ma nessuno ha mai preteso che le pratiche di “disobbedienza civile” fossero immediatamente operate da tutti, anche perché la violazione volontaria di una legge è sempre, prima di tutto, una questione di coscienza individuale (moltissime delle persone che non sono entrate non erano in disaccordo con la pratica in sé: semplicemente non si sentivano di correre quel rischio, non per questioni etiche). Si può star certi che un tribunale non avrebbe difficoltà a condannare chi stava fuori con quello spirito, con l’accusa di “compartecipazione psichica”.

    Sulla mentalità cui ci si dovrebbe adeguare, tra l’altro, c’è da aggiungere una cosa: la necessità di adattarsi alla mentalità di un luogo è parzialmente reale. Tuttavia, abbattere lo stato di cose presente significa modificare la realtà. E la realtà si modifica costruendo una mentalità alternativa (qualcuno una volta parlava di egemonia culturale), decostruendo e abbattendo i miti: la mentalità si costruisce perché matura, misurandosi con il reale. Abbattere il mito dell’inviolabilità del potere o della sacralità della legge significa rendere consci tutti del fatto che quel mito non è che un mito, una convenzione culturalmente imposta, un prodotto sociale. Il taglio e la violazione assumono così la potenzialità di incidere sull’immaginario collettivo e sulla percezione sociale degli avvenimenti.

    Sarebbe ora di rivolgere, a chi chiede cosa si è ottenuto, la stessa identica domanda. Preferivate un comizio? E cosa risolve sul piano del reale? Controbatteranno loro: «e invece tagliare le reti?» Non ostacola il MUOS, è un gesto simbolico, come simbolico è il gesto del comizio. Tra due forme di azione simbolica, il movimento ha legittimamente scelto di usare la prima.

    C’è chi definisce le azioni di venerdì come «guerriglia» (ma lo sanno cosa significa questa parola?), come se fosse stato ucciso qualcuno, e sostiene che quella giornata «violenta» abbia danneggiato l’immagine del movimento No MUOS. Piuttosto, a me sembra si danneggi il movimento No MUOS molto più giudicando una giornata ingigantendo due minuti di spintoni e dimenticando tutto il resto. Questo significa danneggiare l’immagine: scrivere titoloni su un finanziere che nella calca riceve un colpo alla gamba, condannare il taglio di un oggetto inanimato bollandolo come «atto violento», deprecare l’invasione simbolica di una base definendola «guerriglia», dire che chi giustifica quelle azioni è complice di guerriglia e di violenza.
    Se volete stupidamente chiamare «guerriglia» quello che è successo a Niscemi il 9 agosto, allora ritenetemi pure complice della vostra fantomatica guerriglia.

  • Non esiste un tempo che non sia reo

    L’epoca in cui viviamo è un’epoca violenta: violento è il sistema economico, intrinsecamente autoritario, basato sulla gerarchia e sulla disciplina piuttosto che sulla partecipazione e sulla condivisione; violenta è l’esistenza precaria di milioni di persone, determinata dall’esigenza di una fonte inesauribile di schiavi ricattabili; violento è il destino di chi non possiede mezzi per vivere se non la possibilità di vendere la propria forza-lavoro; violenta è la negazione dei diritti a chi rifiuta di vivere seguendo questa regola; violenta è la costrizione cui sono soggetti esseri umani considerati da punire anziché da ascoltare; violento è il linguaggio che esecra le alternative, condanna la diversità, rafforza l’ordine costituito, accentua le discriminazioni e perpetua le disuguaglianze; violenti sono i luoghi comuni; violenta è la rimozione del processo di produzione dall’immaginario collettivo; violenta è la mercificazione di ogni cosa; violenta è l’imposizione culturale, la propagazione di stereotipi, la normazione dei comportamenti, la morbosità del decoro borghese.

    Violenta dunque è quest’epoca in cui viviamo, ma il “reo tempo” non è questo tempo: la Storia è una storia di oppressioni, prodotte dall’esistenza nelle organizzazioni sociali di interessi contrapposti e inconciliabili.
    Videro la storia all’opera gli schiavi che costruirono le grandi piramidi per i loro oppressori di millantata discendenza divina; la saggiarono i compagni di Spartaco nel risalire la penisola italica partendo dalla Sicilia per sfidare i loro padroni; l’attraversarono i contadini che si rivoltarono contro i signori che li affamavano; la sentirono sulla propria pelle i popoli invasi e conquistati; la misero alla prova i giacobini e i bolscevichi; la conobbero gli operai durante il processo di industrializzazione; l’assaggiarono i popoli sotto i regimi del Novecento; la sfidò la Resistenza europea; ne sperimentarono una manifestazione gli studenti e i lavoratori immateriali; la subirono le vittime della repressione, in tutte le epoche dall’inizio della storia e della società divisa in classi.

    Un faraone, un aristocratico romano, un re, un cardinale, un borghese ottocentesco, un dittatore militare, un banchiere affabile: sono i volti del potere che opprime.
    Non esiste tempo che non sia reo.
    upper class

  • Manganelli e scuse

    Due giorni fa una notizia è stata ripresa da tutti i maggiori quotidiani: un bambino di dieci anni è stato prelevato di peso dalla polizia di fronte alla sua scuola. La scena è stata registrata dalla zia in presenza anche del nonno, i quali invano hanno provato a impedire la “cattura” violenta del nipote. Insieme alla polizia era presente il padre del bambino, che ha aiutato gli agenti ad ultimare l’operazione, nonostante la resistenza opposta dal figlio. Questo allontanamento dalla madre con contestuale forzato riavvicinamento al padre è stato stabilito dalle autorità giudiziarie come «unica soluzione possibile», come risultato di una richiesta da parte del padre, il quale sostiene di essere stato vittima negli anni di «un processo di esautoramento che si sta pietrificando in un grumo di odio insostenibile per le spalle ancora tenere di Leonardo».

    Mettendo da parte, per mancanza di competenza in materia, un’analisi dell’opportunità di questa scelta, resta comunque un fatto: dal video risulta chiaramente che le forze dell’ordine hanno agito con violenza ingiustificata e gratuita ai danni di un bambino, prendendolo per mani e piedi, maltrattandolo fisicamente, costringendolo drammaticamente, causando un trauma che probabilmente lo segnerà a vita. La giustificazione degli uomini della questura di Padova è stata che «stavano eseguendo un ordine», ma è una scusa che non regge più dai tempi di Norimberga.

    Il questore Montemagno ha sostenuto fin dall’inizio la necessità di un’approfondita indagine interna per verificare se fossero state commesse irregolarità nel corso dell’operazione, in barba all’evidenza costituita dal video, per concludere che «l’operato dei miei uomini è stato cristallino».
    Nessuno che si faccia qualche domanda sui criteri di selezione delle forze dell’ordine, sulla loro preparazione professionale, sul loro addestramento. Tutto normale, solo che stavolta c’era il video.

    Allo stesso tempo la Questura di Padova, il capo della polizia Manganelli, addirittura il governo, si sono affannati a porgere le più sentite scuse ed esprimere profondo rammarico alla famiglia del bambino per i metodi utilizzati nell’applicazione dell’ordine costituito dalla sentenza del Tribunale del minori. Però, che professionalità questa Polizia di Stato italiana: fanno il massacro della Diaz e chiedono scusa, organizzano la più grave sospensione dei diritti umani in un paese occidentale dopo la Seconda Guerra e chiedono scusa, picchiano un ragazzo perché ha la pelle nera e chiedono scusa, maltrattano un bambino e chiedono scusa. Che educati! Peccato che chiedano scusa solo quando c’è un video ad incastrarli, e anche quando c’è, come in questo caso, si mette in dubbio la sua autenticità perché la documentazione «è parziale».

    Inoltre, ora, ad essere sotto denuncia non sono gli agenti violenti ma la zia e il nonno del bambino, accusati di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale oltre che di inosservanza di un provvedimento giudiziario.

    Ma funziona così: bastone e carota. Manganelli e scuse.

  • Critica della tolleranza

    «La distanza di sicurezza tra pensiero repressivo e azione repressiva si è pericolosamente accorciata» Herbert Marcuse, Critica della tolleranza

    Quando si legge un libro ben scritto, di frequente ci si imbatte in semplici frasi o in più complesse manifestazioni del pensiero in grado di esprimere l’universale, lo spirito del tempo, quella sensazione che tutti avvertono ma che solo gli scrittori coraggiosi osano mettere nero su bianco.

    Questo tipo di affermazioni è quello comunemente noto come aforisma, cioè una breve successione di parole che nella sua brevità riesce a cogliere la profondità del tutto, la sua densità e il suo significato: è una successione di simboli, i quali non sono intrinsecamente importanti, ma importante è la funzione che esplicano, quella di veicolare messaggi.

    Le parole sono importanti, diceva qualcuno, perché esse sono il mezzo per raggiungere il significato, diceva qualcun altro; non solo questo, ma anche: le parole sfidano la realtà e possono precederla e nutrirla, giacché per noi la realtà non è che una percezione, e avere coscienza di un pezzo di realtà e parole per descriverlo significa astrarre, distruggere e dividere la realtà stessa. Per questo il linguaggio è strumento potenzialmente rivoluzionario: distrugge e crea. Imponendo il linguaggio si impone una visione della realtà: lo sanno (o forse semplicemente lo fanno) bene i giornalisti, i politici, i tecnocrati del XXI secolo. Ma lo sapeva altrettanto bene Herbert Marcuse.

    La sua invettiva di neanche cinquanta pagine Critica della tolleranza meriterebbe quasi tutta d’esser citata: praticamente è un unico lungo aforisma, che sfidando la realtà permette di riconoscerla, illuminando il lettore, come un grande pensatore sa fare.

    La tolleranza che Marcuse critica è la tolleranza pura o astratta, quella senza eccezioni e condizioni, o come si direbbe oggi “senza se e senza ma”: una tolleranza siffatta «trattiene dal prender posizione, ma nel far così attualmente protegge il meccanismo già stabilito della discriminazione». Tanti sono gli esempi quotidiani del fenomeno in questione, da quelli che non sono “né di destra né di sinistra” a quelli che non sono “né razzisti né antirazzisti”. Le posizioni di costoro sono, come si rifletteva per il grillismo, «passive, deboli, in realtà non-posizioni che derivano direttamente dall’omologazione e dalla rassicurazione che dà l’imitazione di opinioni dominanti». Per dirla con Gramsci, «L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera». Si è anche parlato spesso, su questo blog, di come la pretesa velleitaria di porsi “oltre le ideologie” sia in effetti essa stessa un’ideologia o un prodotto ideologico.

    La tolleranza che ingrandì la portata e il contenuto della libertà fu sempre partigiana, intollerante verso i protagonisti dello status quo repressivo. La tolleranza necessaria per un processo di liberazione «non può essere indiscriminata ed eguale nei contenuti, non può proteggere le parole false e i fatti sbagliati che dimostrano che essi contraddicono e vanno contro alle possibilità di liberazione. Tale tolleranza indiscriminata è giustificata nei dibattiti innocui, nella conversazione, nella discussione accademica; ma la società non può esser priva di discriminazioni dove la pacificazione dell’esistenza, la libertà e la felicità stesse sono in pericolo: qui, alcune cose non possono venir dette, alcune idee non possono venir espresse, alcune politiche non possono esser proposte, alcuni comportamenti non possono esser permessi senza fare della tolleranza uno strumento per la continuazione della schiavitù».

    La democrazia totalitaria non teme la libertà di parola e di pensiero: «l’opposizione e il dissenso sono tollerati a meno che essi non sfocino nella violenza e/o nell’esortazione e nell’organizzazione della sovversione violenta. La supposizione sottesa è che la società stabilita è libera e che ogni miglioramento accadrebbe nel normale corso degli eventi, preparato, definito e collaudato nella discussione libera ed eguale, sull’aperta piazza del mercato delle idee». Le premesse nascoste in questa supposizione sono «l’espressione e sviluppo di pensiero indipendente, libero dall’indottrinamento, dalla manipolazione, dall’autorità esterna», ed essendo che esse non si verificano, «qualunque miglioramento posa succedere nel normale corso degli eventi e senza sovversione è probabile che sia un miglioramento nella direzione determinata dagli interessi particolari che controllano il tutto».

    Il motivo per cui la democrazia totalitaria non ha bisogno di un’ampia censura è che le parole e i pensieri potenzialmente rivoluzionari sono censurati a monte, nella mente degli individui, da una capillare opera di indottrinamento che comincia nell’infanzia (Marcuse nota come i liberali, storicamente paladini dell’idea di tolleranza, la ritenessero applicabile, parola di John Stuart Mill, «soltanto agli esseri umani nella maturità delle proprie facoltà», indirettamente rendendo accettabile l’indottrinamento).

    Perché avvenga piuttosto il contrario, è necessario che le persone siano «capaci di decidere e di scegliere sulla base delle proprie conoscenze, con accesso alle fonti autentiche dell’informazione, perché la loro valutazione sia il risultato d’un pensiero autonomo. […] Ma con la concentrazione del potere politico ed economico e l’integrazione degli opposti in una società che usa la tecnologia come strumento di dominio, il dissenso effettivo è bloccato laddove potrebbe liberamente emergere: nella formazione dell’opinione, nell’informazione e nella comunicazione. Sotto la guida dei mezzi monopolistici viene creata una mentalità per la quale giusto e sbagliato, vero e falso sono predefiniti ovunque concernono gli interessi vitali della società».

    «Il significato delle parole è rigidamente stabilito. Parole diverse possono esser dette e ascoltate, ma, sulla scala di massa, esse vengono immediatamente valutate nei termini del linguaggio pubblico, un linguaggio che determina a priori la direzione in cui si muove il ragionamento logico». Anche qui gli esempi non mancano: quante volte si assiste a dei veri e propri corti circuiti quando si parla di “anarchia”, “uguaglianza”, “rivoluzione”?

    L’imparzialità è innegabilmente uno strumento indispensabile per prendere delle decisioni nel processo democratico, ma nella democrazia totalitaria l’obiettività svolge un’altra funzione: «incoraggiare un’attitudine mentale che tenda a scoraggiare la differenza tra vero e falso, informazione e indottrinamento, giusto e sbagliato. Infatti, la decisione tra opinioni opposte è già stata presa prima che la presentazione e la discussione fossero iniziate».

    Per finire (altrimenti mi faccio prendere la mano e cito davvero tutta l’opera), per Marcuse il discorso sulla tolleranza porta a riesaminare la distinzione tradizionale tra azione violenta e azione non-violenta. Anche nelle civili società occidentali, la violenza è quotidiana: «è praticata dalla polizia, nelle prigioni e negli istituti per malati di mente, nella lotta contro le minoranze razziali, è portata fino nei paesi arretrati. Ma trattenersi dalla violenza di fronte alla violenza immensamente superiore è una cosa, rinunciare a priori a rispondere colla violenza alla violenza, in campo etico o in quello psicologico è un’altra. […] In termini di etica, ambedue le forme di violenza [rivoluzionaria e reazionaria] sono inumane e dannose –ma da quando in qua la storia è fatta in accordo alle norme etiche?– Cominciare ad applicarle laddove i ribelli oppressi lottano contro gli oppressori, quelli che non hanno niente contro i possidenti, è servire la causa della violenza reale».

    «Se quelli che soffrono a causa di questa legge e di quest’ordine e lottano contro di esso usano violenza, non dànno inizio a una catena di violenze ma cercano di spezzare quella stabilita. Da quando verranno puniti conosceranno il rischio, e quando lo corrono volontariamente, nessuna terza persona, e ultimi di tutti l’educatore e l’intellettuale, ha il diritto di predicar loro che se ne astengano».

  • L’asimmetria dell’immaginazione

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    Ho da poco finito di leggere La rivoluzione che viene di David Graeber, un saggio più antropologico che politico sottotitolato “come ripartire dopo la fine del capitalismo”. A mio parere, ad esser sincero, l’autore fallisce nel nobile intento; tuttavia fornisce interessanti spunti e suggestioni, come solo un buon scrittore sa fare. Nei prossimi post ho intenzione di riportare i punti salienti delle riflessioni di Graeber che più mi hanno colpito, a partire dalla teoria dell’immaginazione asimmetrica in condizioni di violenza strutturale.

    Graeber considera la violenza come «l’unico modo in cui è possibile per un essere umano ottenere effetti relativamente prevedibili sulle azioni di un altro, senza esserne consapevole». La violenza ha la capacità di semplificare operando sugli altri «senza essere comunicativa», nel senso che il suo utilizzo rende dispensabili (o minimizza) continui e complessi sforzi di interpretazione reciproca da parte degli attori di una certa situazione:

    «La maggior parte delle relazioni umane –in particolare quelle continuative, come tra amici o nemici di lunga data– sono estremamente complicate, infinitamente pregne di esperienza e significato. Richiedono uno sforzo di interpretazione continuo e sottile; tutti coloro che sono coinvolti nel processo devono impiegare costantemente energia per immaginare il punto di vista degli altri. Minacciare gli altri con la violenza fisica permette di dare un taglio netto a tutti questi procedimenti. Rende possibili relazioni di tipo molto più schematico, ovvero “supera questa linea e io ti sparo: non mi importa chi sei o cosa vuoi”».

    Questo però è possibile solo quando uno dei due attori ha il coltello dalla parte del manico, cioè quando la capacità di usare la violenza è distribuita in modo asimmetrico. Se ciò non accade, gli attori sono alla pari e sono costretti a ricorrere nuovamente alle armi dell’interpretazione reciproca (penso alla “guerra fredda”).

    «Se due rivali sono impegnati in una sfida di violenza relativamente paritaria, è un’ottima idea per ciascuno tentare di capire il più possibile dell’altro: un comandante militare cercherà in ogni modo di immedesimarsi nel suo nemico; due duellanti o due pugili cercheranno di anticipare la prossima mossa dell’avversario. Quando una parte ha un vantaggio schiacciante sull’altra per quanto riguarda la capacità di infliggere una ferita fisica, questa situazione non sussiste. Quando una parte gode di una netta superiorità, raramente è obbligata a dover sparare, picchiare o far saltare persone in aria. La minaccia è sufficiente».

    Questo secondo Graeber conduce ad una relazione asimmetrica non solo per quanto riguarda la superiorità fisica ma anche nelle capacità di immaginazione e interpretazione degli attori: il risultato è che la violenza diventa latente, ma questo squilibrio è proprio l’arma maggiore di un rivoluzionario. Questo accade perchè l’asimmetria nella capacità di usare la violenza e l’asimmetria nella capacità interpretativa e immaginativa favoriscono parti opposte: la prima gli oppressori, la seconda gli oppressi.

    Con le parole di Graeber, «la qualità più peculiare della violenza –la capacità di imporre relazioni sociali molto semplici che implicano uno sforzo di immaginazione ed immedesimazione minimo o nullo– diventa più importante in situazioni potenzialmente violente, ma nelle quali la violenza fisica effettiva è meno probabile. Tutte queste disuguaglianze sistematiche sono avvalorate dall’utilizzo della forza, e quindi possono essere percepite come una forma di violenza in se stesse: ci si riferisce a tutto ciò con l’espressione “violenza strutturale” […] I sistemi di violenza stutturale sembrano produrre invariabilmente strutture estremamente asimmetriche di “identificazione immaginativa”».

    Sono forniti degli esempi, a partire da quello della famiglia patriarcale: «un elemento fondamentale delle sit-com americane anni Cinquanta erano le battute sull’impossibilità di capire le donne. Queste battute di solito erano fatte da uomini. Nessuno aveva mai l’impressione, d’altro canto, che le donne facessero uno sforzo particolare per capire gli uomini. Questo perché non avevano scelta, dovevano capirli. […] Le donne cercano costantemente di immaginare come le cose possano apparire dal punto di vista degli uomini. Gli uomini non compiono quasi mai lo stesso sforzo rispetto alle donne. Questa è probabilmente la ragione per cui in molte società con una marcata divisione del lavoro per generi, le donne sanno molte cose di quello che gli uomini fanno ogni giorno, mentre gli uomini non hanno idea di cosa facciano le donne. Dinanzi all’idea di provare ad immaginare la vita quotidiana delle donne e il loro punto di vita generale sul mondo, molti uomini si ritraggono inorriditi: negli Stati Uniti, un esercizio di scrittura creativa nelle scuole superiori consiste nell’assegnare agli studenti il compito di scrivere un saggio immaginando di cambiare genere per un giorno. I risultati sono quasi sempre gli stessi:tutte le ragazze della classe scrivono saggi lunghi e dettagliati che dimostrano che hanno speso molto tempo ragionando su tali questioni; quasi la metà dei ragazzi si rifiuta categoricamente di produrre un saggio del genere. Viene espresso quasi invariabilmente un profondo risentimento all’idea di figurarsi come sarebbe essere donna».

    Esistono ancora molteplici esempi paralleli che avvalorano la tesi.

    «Quando qualcosa va male nella cucina di un ristorante e il capo vuole farsi un’idea di quanto stia accadendo, è improbabile che presti troppa attenzione ad un gruppo di lavoratori che si accapigliano per fornire la propria versione. Più probabilmente egli dirà a tutti di stare zitti e deciderà in modo arbitrario quello che pensa sia accaduto: “tu sei il nuovo arrivato, tu hai fatto il casino – se lo rifai sei licenziato”. Coloro che non hanno il potere di licenziare in modo arbitrario, invece, faranno lo sforzo di capire cosa sia realmente successo».

    Anche Adam Smith nella Teoria dei sentimenti notava un fenomeno simile: mentre coloro che stanno in basso spendono un sacco di tempo ad immaginare le prospettive di coloro che sono in cima e di solito le tengono in considerazione, il contrario non accade quasi mai. I poveri provano a immaginare cosa farebbero se fossero ricchi, i ricchi evitano di pensare cosa farebbero da poveri.

    La violenza strutturale crea invariabilmente le stesse strutture asimmetriche dell’immaginazione. Dato che l’immaginazione tende a legarsi all’empatia, le vittime della violenza strutturale tendono ad avere riguardo per quelli che ne sono i beneficiari, o almeno, ad avere molto più riguardo per loro di quanto i beneficiari non lo abbiano per le vittime del sistema.

  • Giustizia per Aldro

     

    Appello perche ciò che è accaduto a Federico Aldrovandi non succeda mai più.

    Il 21 giugno 2012 la Cassazione si è espressa in modo definitivo sul caso di Federico Aldrovandi, il diciottenne ucciso durante un controllo di Polizia all’alba del 25 settembre del 2005 a Ferrara. La Corte ha confermato la condanna dei quattro poliziotti per eccesso colposo in omicidio colposo riprendendo così le sentenze di primo e secondo grado.

    Alla luce della sentenza, chiediamo:

    – che i quattro poliziotti, condannati ora in via definitiva, vengano estromessi dalla Polizia di Stato, poiché evidentemente non in possesso dell’equilibrio e della particolare perizia necessari per fare parte di questo corpo;

    – che venga stabilito in maniera inequivocabile che le persone condannate in via definitiva, anche per pene inferiori ai 4 anni, siano allontanate dalle Forze dell’Ordine, modificando ove necessario le leggi e i regolamenti attualmente in vigore;

    – che siano stabilite, per legge, modalità di riconoscimento certe degli appartenenti alle Forze dell’Ordine, con un numero identificativo sulla divisa e sui caschi o con qualsivoglia altra modalità adeguata allo scopo;

    – che venga riconosciuto anche in Italia il reato di tortura – così come definita universalmente e identificata dalle Nazioni Unite in termini di diritto internazionale – applicando la Convenzione delle Nazioni Unite del 1984 contro la tortura e le altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti, ratificata dall’Italia nel 1988.

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