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  • La vita di una città-vetrina

    Il 13 maggio, il sindaco di Firenze Dario Nardella ha dichiarato che senza le entrate da turismo cultura e commercio nelle case del Comune verranno a mancare 200 milioni rispetto ai ricavi previsti e che di fronte a problemi di tale entità è stata addirittura presa in considerazione la possibilità di spegnere l’illuminazione pubblica la sera. Come fatto notare da altri, una città che deve spegnere l’illuminazione pubblica perché senza turisti per una paio di mesi è un non-luogo, più simile a un’aeroporto senza più voli o a un’autostrada caduta in disuso che ad una città. Il concetto di non luogo è stato introdotto dall’antropologo francese Marc Augé in riferimento a “spazi architettonici e urbani di utilizzo transitorio, pubblico e impersonale, destinati a essere utilizzati in assenza di ogni forma di ‘appropriazione’ psicologica e in cui il movimento e orientamento dei fruitori è prevalentemente affidato alla segnaletica; si tratta di spazi altamente omologati nei quali l’uomo contemporaneo vive per tempi significativamente lunghi, non più riferiti a una struttura sociale organizzata in grado di favorire rapporti durevoli, privi di radicamento al contesto, alle tradizioni e alla storia”.

    Questa impressione può essere confermata da praticamente chiunque abbia visitato Firenze con occhio attento all’architettura urbana, con interesse per i temi che si articolano intorno ai concetti di diritto alla città e di città vetrina o semplicemente con sufficiente sensibilità per gli effetti sociali e culturali dei processi di valorizzazione capitalistica. Sono andato a ripescare un mio scritto dell’agosto 2018, quando seguendo la Via degli Dei che collega Bologna a Firenze in un percorso di quattro giorni di cammino raggiunsi infine quest’ultima. Quel giorno, l’asprezza dell’impatto fu probabilmente amplificata dal contrasto tra i giorni (lunghissimi, come sempre quando si viaggia camminando) passati in ambiente montano o rurale e le dinamiche e i ritmi di una grande città, ma è anche vero che certi caratteri tipici delle città turistiche sono particolarmente spiccati nella città tra le più turistiche, se non la più turistica, d’Italia. Ecco cosa scrivevo sul treno allontanandomi da Firenze.

    «Firenze è una città inospitale: non è fatta per la vita, solo per una sua rappresentazione. Una città che vuole essere fotografata, ammirata, guardata nella sua maestosità quasi barocca, ma che non vuole essere vissuta. Non esiste a Firenze un bar, un posto in cui veramente ti siedi per il puro piacere di lasciar scorrere il tempo: solo trappole per turisti, macchine tritacarne nel gioiello della città-vetrina. È una città dissociata nel puro senso del termine: è popolata da esseri umani che le sono alieni e dunque non è realmente popolata in modo sano, vero, genuino, è l’incarnazione dei principi religioso del cristianesimo e filosofici del platonismo, si nutre cioè di un mondo altro, mai di questo, tutto di essa ruota intorno a cose che non le appartengono. Nelle chiese -ma questo è un discorso generale- non si può più entrare stanchi e in cerca di rifugio, ma con voglia di spendere soldi e vestiti in maniera decorosa nella casa del Signore che dovrebbe essere aperta a tutti, poveri e bisognosi per primi. Alla stazione di S. M. Novella non esiste una fontanella d’acqua, simbolo banalissimo della vita, e se c’era è stata tolta come alla stazione centrale di Bologna in nome della guerra ai poveri la cui crosta più esterna e purulenta è l’ideologia del decoro. Una volta, solo qualche anno fa, c’era un self-service in stazione, di cui oggi non rimane che l’indicazione scolpita in pietra e affissa sopra quello che ne era l’ingresso: quello spazio accessibile a tutti oggi è chiuso, sostituito da una sala d’attesa Trenitalia Business Class, con le pareti di vetro oscurate e al suo interno le uniche panchine, a testimonianza dell’avanzare di un mondo non più distopico ma compiutamente neoliberale in cui possono sedersi solo i ricchi… e in cui solo se hai un biglietto puoi avvicinarti ai binari e non si può quindi neanche salutare un amico che parte nel momento in cui parte. Firenze è la città esclusiva, che più di tutte le altre città italiane incarna il paradigma della dissociazione intellettuale, prima che sociale. Non a caso, è a Firenze che la vita di un senegalese vale meno di un paio di vasi da decorazione della pubblica via»

    «A Firenze non ci sono parchi verdi e accoglienti e ben tenuti: se non si paga, non si capisce perché occuparsene. Per vivere? Non è un’attività contemplata. Nei periodi più turistici, le trattorie più buone e antiche di Firenze chiudono per ferie: quelle buone, infatti, hanno un giro che prescinde dai turisti, e va in ferie coi clienti locali, che dal carnaio quale Firenze diventa scappano volentieri non appena possibile, come da una scena dell’Inferno dantesco, così che i quartieri appena fuori del gioiellino vetrina che è il centro storico si spopolano diventando strade fantasma in cui l’unica presenza umana è costituita da militari e turisti diretti in centro. Turisti e guardie: come nei parcheggi e le biglietterie dei parchi di divertimenti»

    «Tutto ciò che serve a vivere bene e non solo a farsi guardare o ergersi a imperitura memoria dei bei tempi andati dell’abbiamo inventato la lingua italiana o dell’abbiamo prodotto le più belle opere d’arte sono qui considerati privi di valore, o meglio: non sono considerati affatto. Non potrei mai vivere a Firenze, forse nessuno potrebbe mai viverci… e infatti non ci vive nessuno. Come in tutte le cose, qualcosa si salva, e la vita resiste come la ginestra di Leopardi, inspiegabilmente: il lato buffo delle frasi di un netturbino apparentemente non in contrasto con la continua, terribile impressione di trovarsi in una scena di un film di Pieraccioni, la comunità dei migranti nel finto verde dei parchi fiorentini, il sapore del cibo dell’Antico Vinaio nonostante le orride e insensate magliette del personale piene di frasi con hashtag, la Strega Nocciola e la sua bontà al netto del prezzo, unico in Italia a competere col prezzo medio lionese di un gelato»

  • L’invenzione della tradizione nel turismo responsabile

    Chi è amante del viaggio lento avrà avuto occasione di notare che ultimamente in Italia è possibile trovare in vendita intere collane dedicate al turismo a piedi o in bicicletta: sono guide che forniscono una serie di consigli pratici su come affrontare il viaggio, organizzano le tappe secondo uno schema predefinito, contengono le relative carte con il tracciato del percorso da seguire e informazioni di natura storico-culturale.

    Esistono guide per percorsi di fama mondiale come il cammino di Santiago de Compostela o la Via Francigena, ma anche per tratte meno conosciute e meno trafficate. Di recente ho avuto l’occasione di conoscere, usandola per organizzare un viaggio, una di queste ultime, una guida che a cominciare dal titolo si presenta con un nome molto retorico e poco convincente: Con le ali ai piedi, della camminatrice pellegrina Angela Maria Seracchioli, 2011, edizioni Terre di mezzo. Il percorso si propone di accompagnare il viaggiatore, come da sottotitolo «nei luoghi di San Francesco e dell’Arcangelo Michele», per circa 500 km dal Lazio fino in Puglia.

    Prima di recensire e commentare il percorso, una premessa è fondamentale: il motivo per cui sono a favore del viaggio lento è che lo ritengo carico di un senso profondamente politico. Come mi è altre volte capitato di scrivere, chi viaggia lentamente a piedi abbandona l’eteronomia per trovare l’autonomia. Quando cammini non dipendi da nessuno se non dai tuoi piedi e dalla tua volontà: non devi sottostare a tempi, orari e percorsi e coincidenze imposte o stabilite più o meno esplicitamente da altri, lo spostamento da un punto all’altro non dipende dalla quantità di denaro che hai in tasca né da «un traffico alimentato da armi di distruzione di massa [che] tradisce l’esistenza di un più letale sistema plasmato dall’irrazionalità capitalistica» (citazione dalla chiamata ufficiale della Ciemmona 2016, visto che lo stesso discorso si può fare per la bicicletta). O ancora, parafrasando l’Ivan Illich di Elogio della bicicletta, solo a piedi (lui dice in bicicletta) c’è vera eguaglianza e giustizia sociale negli spostamenti. Insomma, in ogni momento, sei libero di fermarti, di fare una pausa o cambiare direzione. Ciascuno scopre un ritmo di vita proprio, non imposto dalla standardizzazione e potenzialmente scevro da scadenze e impegni, in cui è la libertà di scelta che misura concretamente il valore del tempo. Camminando fuori dal contesto urbano, anche nell’alimentazione si impara ad essere autonomi, almeno parzialmente, ed automaticamente rispettosi dell’ambiente e dei suoi cicli naturali. Si è anche a stretto contatto con il territorio, i suoi sentieri e le sue strade, le piccole località secondarie ignorate nei viaggi d’altro tipo, i loro prodotti tipici, le loro usanze e tradizioni e i loro abitanti spesso molto più gentili e disponibili di quanto ci si aspetti: così si crea e si espande una rete sociale nonché una rete di saperi condivisi dalla comunità, che fa apprezzare le altrimenti impercettibili differenze tra un paesino e quello successivo, o tra una valle e quella successiva, e che resiste alla paradossale coesistenza nel modello neoliberista tra omologazione sociale e individualismo corrosivo.

    Purtroppo, non ho trovato tutto questo nella porzione del cammino che ho percorso seguendo Con le ali ai piedi, e non per sfortuna ma per il taglio che tale guida ha, per la struttura intrinseca del percorso e per l’impalcatura ideologica contraddittoria da cui tale struttura prende le mosse (e non sto parlando dello spirito religioso che anima il pellegrinaggio in luoghi legati alle agiografie di San Francesco o di Celestino V).

    Andiamo con ordine. Prima di tutto, le indicazioni sulle carte del percorso (come in tutte le guide della stessa collana) sono troppo stringate: non sono indicati i nomi di molte strade e sentieri e soprattutto l’intera cartografia è incentrata sul percorso di interesse, con uno zoom selettivo che impedisce di spaziare oltre. Tale mancanza nasce probabilmente dalla fiducia che la guida ripone nel viaggiatore, presumendolo sempre dedito e attento a non uscire fuori dal tracciato suggerito dalla guida. Non occorre chiarire che si tratta di una mancanza che crea una dipendenza del viaggiatore dalla guida in questione, se questi non è sufficientemente attrezzato con altro (spesso costoso) materiale cartografico. Per fare un viaggio lento occorre tuttavia avere strumenti di orientamento per conoscere il territorio in cui ci si trova, e conoscere veramente la geografia del territorio significa averne una chiara idea del contesto, anche cartografico. La conoscenza del territorio garantisce autonomia di scelta e consapevolezza nell’organizzazione del viaggio, sia prima della partenza sia tra una tappa e l’altra: per questo, una cartografia completa e il più possibile ampia e dettagliata sarebbe necessaria per intraprendere un cammino che realmente garantisca a ciascuno il massimo dell’autonomia riducendo per quanto possibile le costrizioni organizzative.

    In secondo luogo, un elemento di cui si accorge subito anche il camminatore meno esperto è la natura del tracciato: una lunga, troppo lunga, porzione del percorso è asfaltata. Nella premessa, l’autrice mette le mani avanti: «l’asfalto pare essere lo spauracchio dei camminatori ma può non esserlo se lo si affronta con spirito pellegrino, la cui qualità è anche l’accettazione e la trasformazione al positivo di tutto ciò che si incontra». Seguendolo, viene quasi da chiedersi se gli autori l’hanno percorso veramente (come sarebbe che l’asfalto pare essere lo spauracchio dei camminatori?) o soltanto progettato il tracciato a tavolino su una carta, perché la sovrabbondanza di asfalto rende tutto il percorso poco “vissuto”. Seguendolo, non ci si sente parte di una comunità di camminatori, non viene da pensare a quanti hanno percorso gli stessi passi prima di te; al contrario, ci si sente intrusi, perché su quelle strade le automobili magari saranno poche e dunque il traffico poco inquinante, ma l’asfalto è stato concepito per loro, e non certo per gli spostamenti a piedi. L’impressione che se ne ricava, per quanto il paesaggio circostante sia di inestimabile bellezza e permeato di un’estetica piacevolmente rurale o montana, è di essere non inclusi nel territorio, ma respinti da esso. Inoltre, ed è ciò che più di tutto porta a chiedersi se il percorso, come vorrebbe l’etimologia della parola, sia effettivamente stato percorso, camminare sull’asfalto fa male ai piedi, li affatica e aumenta notevolmente il rischio che si formino vesciche, cosa che ogni buon camminatore impara molto presto e che in questo caso rende meno piacevole il paradiso dei sensi dato dal bel paesaggio (perché la vista è solo uno dei sensi, ma c’è anche il tatto).

    Che per alcuni spostamenti sia impossibile evitare strade asfaltate è un’amara verità che deriva dai fattori economici, sociali, politici e culturali che hanno storicamente determinato le modalità di circolazione di persone e merci, dunque che parte dei cammini abbiano finito per essere inglobati o sostituiti da colate di asfalto è del tutto comprensibile. L’assenza di sentieri alternativi potrebbe giustificare l’eccessiva presenza di strade asfaltate lungo il tracciato in questione, ma a questo punto si apre un’altra critica: i sentieri alternativi ci sono. Dai sentieri mantenuti dalla sezione CAI de L’Aquila (purtroppo piuttosto disastrata dal terremoto del 2009) ai cammini celestiniani passando per i tratturi usati per secoli nella pratica della transumanza, esistono innumerevoli percorsi alternativi. Di queste alternative la guida fa cenno come curiosità intellettuali più che come importante conoscenza per vivere il territorio, anche se solo di passaggio. Ovvero, non solo indirettamente nasconde conoscenze utili, ma anche si rivolge al lettore considerandolo più un turista che un viaggiatore (sottigliezza non irrilevante).

    Ora, c’è da fare una precisazione per evitare fastidiosi fraintendimenti. Qualcuno potrebbe legittimamente osservare che se intendo fare un certo tipo di viaggio e invece mi sono andato a scegliere una guida che non mi consente di fare quel tipo di viaggio la colpa è solo mia e non mi posso lamentare: la prossima volta scelgo meglio, problema risolto. Resta però un fatto su cui riflettere. Non sono certo il primo a dare un significato politico al viaggio, anzi esiste una nutrita schiera di enti e associazioni che si occupano di “turismo responsabile” sotto l’ombrello dell’Associazione Italiana Turismo Responsabile (AITR), a cui tra l’altro aderisce anche Terre di mezzo Editore, la casa editrice della collana di Con le ali ai piedi. Così come accade in certi movimenti per il “cibo responsabile” analizzati dall’indagine del bolognese Wolf Bukowski (in La danza delle mozzarelle), anche nel movimento per il “turismo responsabile” la narrazione e la struttura nascondono una profonda contraddizione.

    Secondo la definizione dell’AITR,

    il turismo responsabile è il turismo attuato secondo principi di giustizia sociale ed economica e nel pieno rispetto dell’ambiente e delle culture. Il turismo responsabile riconosce la centralità della comunità locale ospitante e il suo diritto ad essere protagonista nello sviluppo turistico sostenibile e socialmente responsabile del proprio territorio. Opera favorendo la positiva interazione tra industria del turismo, comunità locali e viaggiatori.

    Tale attenzione può essere declinata e intesa in parecchi modi, come si evince dal numero di denominazioni alternative e parziali, di significato qualitativamente differente usate per riferirvisi: “turismo consapevole”, “ecoturismo”, “turismo culturale”, “turismo comunitario”, “turismo sostenibile”, “turismo equo-solidale”. L’AITR stessa si premura di specificare che ciò che promuove è una somma di tutte queste accezioni parziali, qualcosa di potenzialmente radicale (pur non mettendo in discussione il concetto stesso di “turismo”).

    Certamente le collane commerciali che propongono i viaggi a piedi rientrano nella categoria di turismo responsabile, per il basso impatto ambientale e per il tipo di viaggio che si discosta dalla consuetudine del turismo di massa, ma in base alle osservazioni formulate sopra si rischia di ritrovare riprodotti nel turismo responsabile gli stessi principi di alienazione, mercificazione e privatizzazione dei saperi che si osserva nel turismo di massa.

    In particolare, è interessante pensare all’omissione di conoscenze relative ai secolari o millenari percorsi alternativi come esempio di «nuova accumulazione originaria», per usare un’espressione di Francesco Raparelli in Rivolta o barbarie, mutuata dal classico concetto marxista di «accumulazione originaria». Secondo Karl Marx,

    «Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione tra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro… Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione» (Il Capitale, libro I)

    Storicamente tale processo si è manifestato sotto forma di recinzioni che cominciarono a comparire in Inghilterra alla fine del XV secolo che separavano materialmente i lavoratori dai mezzi di produzione, espropriando i contadini, i produttori immediati. Soltanto con la privazione dei propri mezzi di produzione è stato possibile che i produttori diventassero dipendenti da un nuovo bisogno, quello cioè di vendere la propria forza-lavoro ai nuovi proprietari capitalisti in cambio di un salario. Ovvero, il rapporto di subordinazione e di sfruttamento, l’intera natura gerarchica dei rapporti di produzione nel capitalismo deriva dalla separazione tra i produttori e i mezzi di produzione, da un processo che rende impossibile per i produttori l’utilizzo immediato dei mezzi di produzione.

    In analogia con questo concetto, in molti hanno esteso la nozione di «accumulazione originaria» ad altri aspetti della della vita economica e sociale che hanno interessato e interessano non soltanto il periodo di formazione del sistema capitalistico ma anche il presente, ipotizzando che l’«accumulazione originaria» non si limiti ad essere una condizione iniziale del capitalismo, ma anche una vera e propria condizione strutturale, per cui continuamente, per esistere e svilupparsi, il capitale produce “recinzioni” che separano i produttori dai mezzi instaurando rapporti gerarchici di sfruttamento. Per Raparelli, è la vita stessa il mezzo di produzione post-fordista su cui si esercita la nuova accumulazione «originaria», ma un discorso analogo può farsi riguardo alla privatizzazione delle conoscenze della comunità open source o alla valorizzazione capitalistica dei dati digitali da parte di grosse multinazionali come Facebook o Google. Più banalmente, si è di fronte allo stesso fenomeno ogniqualvolta si convincano individui di non possedere adeguate conoscenze, in modo da potergliele vendere ad hoc, come quando si convincono le mamme di non saper allattare per potergli rifilare fior di riviste sull’argomento.

    Tornando al turismo responsabile, l’omissione di informazioni utili sui percorsi alternativi a quello principale può essere visto come una forma di “recinzione” che rende impossibile al camminatore l’utilizzo immediato dei percorsi e genera un rapporto di subordinazione, come già spiegato in precedenza. Questo rapporto è capace di generare un profitto, perché saperi e nozioni storicamente tramandate dalla comunità diventano una merce che può essere inserita in una guida e venduta sotto una forma poco riconoscibile.

    La scarsa riconoscibilità dei saperi originari è legata ad un altro fatto interessante, che riguarda la presunta continuità con la storia del territorio: il percorso proposto dalla guida Con le ali ai piedi ricalca in parecchi punti alcuni dei percorsi alternativi, a cui dunque deve molto. A questi fa solo qualche cenno (o addirittura li ignora, a cominciare dal titolo, che per questo motivo all’inizio di questo articolo è stato definito “molto retorico e poco convincente”), nella premessa l’autrice scrive: «Questo […] è un Cammino nuovo, non particolarmente difficile. […] Il percorso è stato parzialmente segnato da me e da volontari. […] un nuovo Cammino su tracce antiche che ripercorre, in parte, i tratturi della transumanza». Eppure, a parte il rapido riferimento nella premessa e una pagina informativa sui tratturi qualche tappa dopo, sparisce dalla guida ogni riferimento pratico all’esistenza degli stessi, ogni reale legame con la storia del territorio che sia diverso da “i luoghi di San Francesco”.

    Per spiegare questo fatto, può essere utile il concetto di “invenzione della tradizione”. Secondo Eric Hobsbawm, che introdusse il concetto in un omonimo saggio storico nel 1983,

    per «tradizione inventata» s’intende un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato. Di fatto, laddove è possibile, tentano in genere di affermare la propria continuità con un passato storico opportunamente selezionato.

    Inutile dire che il passato storico opportunamente selezionato è in questo caso costituito in primo luogo dalle porzioni dei percorsi alternativi sovrapposti al, e in parte rimossi dal, “nuovo” percorso; in secondo luogo dai luoghi di importanza religiosa che finiscono con l’apparire l’unica motivazione per incamminarsi in un territorio come quello dell’Abruzzo che, al contrario, di altre motivazioni sarebbe generoso. Tutto ciò cozza contro i principi del turismo responsabile, ma non c’è da stupirsi, perché stiamo parlando di un fenomeno contraddittorio. In Viaggiare, conoscere e rispettare l’ambiente, un saggio sul turismo pubblicato nel 2003, Osvaldo Pieroni al capitolo Le contraddizioni dell’ecoturismo scrive l’ovvia conclusione che

    […] il turismo rappresenta un fatto sociale totale, che porta con sé le contraddizioni e le ambiguità che sono caratteristiche di ogni società, né più e né meno di ciò che accade con ogni altro fenomeno caratteristico dell’organizzazione sociale in genere.

    Ancora una volta, non esiste un aspetto della vita umana che non dipenda dalla natura sociale della vita umana stessa. Anche quando si cammina, da soli, in mezzo alle montagne.

  • Camminare con lentezza

    Cercavo da almeno due anni di ritagliare una finestra di libertà da impegni e scadenze per poter camminare, camminare fino a sentir male ai piedi. Camminare costringe a prendere il ritmo. Eppure non costringe, perché il ritmo puoi deciderlo tu, come puoi decidere di interromperlo in ogni momento. Non è lo stesso ritmo del viaggio in macchina, bicicletta, treno o aereo, né in qualità né in quantità. Non è lo stesso in quantità per evidenti motivi: è lento e per quanto rapidi si possa camminare, si sarà relativamente lenti rispetto ad un qualunque altro mezzo di trasporto. Non è lo stesso in qualità: la sua natura rende possibile un’ampia modulazione e prevede la possibilità di modificarlo o arrestarlo in qualunque momento. Si perde il ritmo fatto di sveglie, appuntamenti, impegni. Si perde il ritmo della città. Si prende un altro ritmo, determinato esclusivamente da te. Si perde l’eteronomia per l’autonomia. Si perde il ritmo prendendo il ritmo.

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    Prima di partire da Bologna, città eternamente splendida, alla volta di Roma, città splendidamente eterna, qualcosa era stato pianificato. La partenza fissata a Perugia, l’arrivo a Monterotondo, vicino Roma. In tale città potremmo dormire qui, per tale tappa impiegheremo tale durata, tale parte di percorso la tagliamo per di là… poche di queste previsioni si sono concretizzate. Perché l’idea, diciamo pure velleitaria e presuntuosa, di conoscere in anticipo tappe, tempi, sistemazione, è tutta figlia di quel ritmo eteronomo che camminando si perde, poco a poco, sostituendolo con un ritmo autonomo, che si adatta di volta in volta alle circostanze, che non può essere previsto perché è plasmato sull’attimo, su ogni singolo passo e ogni singola piccola coincidenza. Che bel frutteto, anticipiamo il pasto riempiendoci lo stomaco di frutta. Una fontanella, facciamo una lunga pausa non prevista. Che villaggio ospitale, restiamo qui una mezza giornata in più. Un campo, dormiamo qui invece di raggiungere il centro abitato. Sono scelte che non puoi prevedere. Naturalmente situazioni del genere di verificano nel corso di qualunque tipo di viaggio, tuttavia raramente finiscono per determinare del tutto la sua stessa struttura. Invece, a piedi succede esattamente questo, in continuazione.

    Passa qualche giorno prima che ci si renda conto che l’eteronomia ha lasciato il posto all’autonomia. Sorrido, come si fa teneramente di fronte a un bimbo ingenuo, ripensando all’attenzione che prestavo nel corso del primo giorno di cammino alle indicazioni preventivamente stampate da casa. Non sapevo ancora che il cammino si lascia seguire: è sufficiente camminare. E ripensando all’ansia di non trovare un posto in cui passare la notte. Non sapevo che spesso l’ospitalità delle persone in cui ci si imbatte è più squisita di quanto ci si aspetti, né che in mancanza di persone a cui chiedere, basta fermarsi lungo il cammino e dormire. E che dire della preoccupazione per la pioggia? Come consigliato da Luca Gianotti (autore di L’arte del camminare), è meglio occuparsi che preoccuparsi. E del ridicolo timore di non avere da mangiare a sufficienza? O di incontrare lungo la via chissà quale mostro del mondo animale? Molte di queste paranoie non sono che miti di città, che nascono, crescono e proliferano nella testa di persone immerse completamente nel ritmo eteronomo, incapaci di immaginarne uno diverso. Solo per fare qualche esempio, sarà difficile dimenticare lo stupore dipinto sui volti di chi, chiedendoci se avessimo mangiato, apprendeva che ci eravamo rimpinzati di frutta colta durante il cammino. Come sarebbe? State attenti! Con i frutti non si scherza! Potrebbero essere velenosi! Ma solo chi non conosce la frutta che come merce da acquistare al supermercato identificandola dall’etichetta opportunamente disposta sul prodotto può davvero risultare tanto preoccupato all’idea di mangiare qualcosa che di etichetta non ne ha. A distinguere un albero da frutto anche a una certa distanza, o a distinguerne uno dall’altro, si impara facilmente. La prima barriera è psicologica.

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    Un altro mito è quello dei cinghiali: state attenti ai cinghiali, i cinghiali vi mangeranno vivi, se ne incontrate uno scappate senza voltarvi indietro. Comprendo l’apprensione di chi è rassicurato dal paesaggio urbano e vive con terrore una passeggiata nel bosco, ma c’è da dire che l’incontro ravvicinato con un cinghiale è estremamente raro, soprattutto se si percorrono sentieri battuti e che molto spesso costeggiano terreni coltivati. E, anche quando se ne incontra uno, deve darsi il caso che sia una femmina in presenza dei suoi piccoli e che li veda minacciati, prima di manifestare aggressività. Normalmente, gli animali selvatici cercano di evitare il contatto con l’uomo.
    Un fatto curioso riscontrato nelle persone di città è più una rimozione che un mito: non esistono sentieri. Da un punto all’altro ci si sposta seguendo l’asfalto, nel peggiore dei casi esiste una strada sterrata. Tra una striscia di asfalto e l’altra non c’è niente di percorribile. In realtà, dato che la maggior parte si sposta in macchina, questo è del tutto comprensibile: per riprendere le parole di Wu Ming 2, quando ci si muove in macchina si è chiusi dentro una scatola. Non solo non esiste niente di percorribile aldilà della striscia di asfalto su cui rotolano gli pneumatici: è la quasi totalità della realtà esterna a non esistere.

    Il mezzo di trasporto influenza profondamente il modo di percepire la realtà circostante. In macchina, se si dispone di aria condizionata funzionante, addirittura la temperatura esterna diventa irrilevante. A piedi, si impara ad apprezzare piccole cose che diversamente sarebbe stato difficile immaginare di apprezzare a tal punto: l’ombra di un albero, un minuscolo corso d’acqua, una brezza rinfrescante, un albero di fichi sul ciglio del sentiero. In una giornata di cammino sotto il sole intenso lungo un percorso scarsamente ombreggiato, siamo stati per almeno mezz’ora a discutere della possibilità che una nuvola si avvicinasse e nascondesse la fonte del nostro momentaneo patimento termico, naso all’insù guardando il cielo e parlando della forma della nuvola che avrebbe dovuto salvare la nostra pelle sudata, della direzione del vento, dei movimenti e le mutazioni del bianco e dell’azzurro. Quando l’agognata nuvola ha esaudito i nostri desideri. Cambiano gli argomenti di discussione, cambiano le proporzioni del tempo loro dedicato, cambia la percezione della realtà. Chi vuole fare una passeggiata domenicale, spera di trovare una giornata di sole. Chi cammina per una settimana, spera di trovare il sole coperto che magari farebbe rinunciare alla passeggiata domenicale perché “c’è brutto tempo”.

    La lentezza del cammino permette di accorgersi di dettagli inesistenti per chi si sposta più rapidamente. Quello che per un conducente di macchina è un generico “paesaggio umbro”, il camminatore lo analizza, in senso etimologico, lo spezzetta, passo dopo passo, avverte le piccole differenze tra un sentiero e l’altro, tra un versante di una collina e l’altro. Ci si accorge subito delle altrimenti impercettibili differenze di microclima tra una valle e quella successiva, perché da una valle all’altra variano i tempi di maturazione dei frutti, con grande gioia del camminatore. Se poco prima gli alberi di fico e le more erano immature o del tutto assenti, svoltata quella curva che si arrampica sul costone sopraelevato apre ad una vallata in cui mele e pere lasciano il posto a fichi e more in abbondanza, come se il tempo accelerasse di un mese.

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    Il cammino è indicato da un codice di simboli che il camminatore impara ben presto a interpretare. Le città e le campagne traboccano di segni ben evidenti per chi li conosce, ma insignificanti se non invisibili per chiunque altro. Chissà quanti messaggi nascosti sono invisibili ai più. Strisce e simboli in giallo, o rosso e bianco, o giallo e blu, ci aiutavano nel seguire la via o nel riprenderla quando l’avevamo persa. Ci rincuoravano quando li vedevamo dopo molto tempo, ci infastidivano quando si facevano insistenti. Il cammino è un continuo dialogo coi simboli, tra i quali e il camminatore si stabilisce una rapporto contraddittorio fatto di fiducia ma anche di stizza. Il camminatore sa che quel simbolo è l’ultimo relitto dell’eteronomia che ha lasciato gradualmente spazio all’autonomia. Quel simbolo è utile perché gli indica una strada, è amichevole perché può aiutare a ritrovarla, ma al tempo stesso costringe il suo percorso entro una via più o meno definita. La scelta di seguire o meno il cammino indicato dipende tuttavia esclusivamente dal tipo di viaggio che si vuole intraprendere. In particolare, noi l’abbiamo seguito da Perugia a Spoleto, poi abbandonato per fare di testa nostra, poi ripreso in prossimità delle Marmore.

    Infine, c’è una cosa che rende il viaggio a piedi unico: l’inaspettata quantità di persone che si incontrano. Non si direbbe, ma soprattutto le campagne e i piccolissimi paesi traboccano di forme di vita umana. Il più delle volte saranno ben contente di dare aiuto, fornire indicazioni, offrire ristoro, cibo o acqua, regalare il piacere di una chiacchierata, raccontare storie e trasmettere conoscenze. Camminare significa creare una rete di relazioni, dare vita e voce a racconti e narrazioni. Questo aspetto, per me, è senza dubbio il più bello di questo modo di viaggiare.