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  • Chi fa scienza ha un ruolo politico

    La settimana scorsa, Lundi Matin ha pubblicato l’appello di una dottoranda per la politicizzazione delle cosiddette “scienze dure”. Si tende, per lo meno in Francia, a ritenere che le questioni politiche e sociali interessino poco chi si occupa delle cosiddette “scienze dure”, in quanto tali questioni ricadrebbero in una qualche maniera al di fuori del loro campo e sarebbero riservate piuttosto ai ricercatori in scienze sociali. Eppure, in questi ultimi anni, l’importanza assunta dalle questioni climatiche, ambientali ed ecologiche sta scombinando le carte e spinge sempre più scienziati e scienziate a partecipare al dibattito pubblico ed schierarsi politicamente. Proprio a ciò incoraggia questo testo.

    Il testo affronta una serie di questioni che in Italia sono già state discusse in maniera più o meno ampia a livello della teoria politica, ma forse non abbastanza metabolizzate sul piano della pratica e dell’impostazione discorsiva. L’ultima prova lampante è la quasi totale inconsistenza dei movimenti rispetto alle misure adottate in Italia in nome della pandemia, ma si potrebbero fare altri esempi in relazione alla fiducia cieca e al rispetto incondizionato che la generica sinistra “istruita” ripone nelle istituzioni scientifiche o nel Burioni di turno, a prescindere da ogni analisi che tenga conto dei rapporti di forza e dei conflitti che operano nella società, spesso a costo di reagire con una saccenza classista ed elitaria. Questo atteggiamento si chiama “scientismo” ed è esattamente quanto intende denunciare il testo che mi è sembrato opportuno tradurre. Visto che sono questioni già discusse in Italia, una parte di lettori e lettrici vi troverà asserite delle ovvietà, ma ripeterle di questi tempi non fa certo male, specie se si sottolinea la necessità di agire sul piano delle pratiche politiche e non fermarsi alla sola riflessione teorica.

    In materia di ecologia, il discorso scientifico occupa oggi una posizione considerevole, in particolare per quanto riguarda le scienze della natura (espressione qui usata per riferirsi a scienze come la meteorologia, l’oceanografia, la climatologia, la glaciologia, la biologia, l’ecologia scientifica, l’ornitologia, ovvero scienze il cui oggetto di ricerca rende conto, direttamente o indirettamente, delle devastazioni ecologiche attuali come il riscaldamento globale o l’erosione della biodiversità; si noti che si tratta di scienze la cui parola gode di una legittimazione forte da parte della stampa e che gli e le scienziate della natura sono relativamente poco politicizzati). Ogni nuovo rapporto dell’IPCC (gruppo inter-governativo sul cambiamento climatico, foro scientifico dell’ONU nato per studiare il riscaldamento globale) o del simile IPBES (piattaforma inter-governativa scientifico-politica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici) è riportato e commentato dalla stampa. Le analisi scientifiche del cambiamento climatico e dell’erosione della biodiversità compaiono tanto sui cartelli alle manifestazioni quanto nei discorsi del ceto politico (si noti che in Francia, contrariamente al altri paesi, esiste un consenso abbastanza solido a tale riguardo e il “negazionismo climatico” resta molto minoritario). Gli e le scienziate della natura ne sono pienamente coscienti e considerano che il loro staturo conferisca loro un preciso dovere di divulgazione delle proprie conoscenze. Per varie ragioni, c’è tra loro chi raccomanda o si vede imporre la “neutralità”, sia in termini di discorso che di posizione. Sebbene tale tentativo possa apparire legittimo, esso si basa su ignoranze e fraintendimenti che confondono il metodo scientifico con la neutralità, l’ecologia in senso scientifico con l’ecologia in senso politico.

    Discorso neutro o discorso vuoto?

    Quando si tratta di descrivere gli oceani, le nuvole, le specie animali e vegetali, le foreste, i suoli, o quando si tratta di rendere conto delle attuali devastazioni ambientali, il solo modo di essere neutri sarebbe tacere, il che ovviamente non sarebbe affatto soddisfacente in termini di comunicazione scientifica.

    Infatti, la scelta delle parole riflette i valori, la cultura e la visione del mondo di chi parla. Se esiste una battaglia di idee in merito alle parole impiegate per descrivere le distruzioni ecologiche, è perché esse sono di fondamentale importanza politica. Il termine “antropocene” è un caso eclatante: benché usato spesso dai media e da scienziati e scienziate della natura, è stato fortemente criticato e diverse alternative sono state proposte per sopperire ai suoi limiti. Il problema è che identificando un’ipotetica umanità indivisibile come agente delle devastazioni ecologiche attuali, il termine reso popolare alla fine del XX° secolo dal meteorologo e chimico Paul Josef Crutzen non permette di cogliere la ripartizione ineguale delle responsabilità all’interno della specie umana. Per esempio, si considerano insieme le società industriali e i popoli cosiddetti autoctoni o indigeni (la versione originale parla anche di popoli “primitivi” o “selvaggi”, ma mi rifiuto di utilizzare questi vocaboli, NdT), eppure questi ultimi non hanno niente a che vedere con ciò che chiamiamo, per questo a torto, “antropocene”. Anzi, alcune delle società non industriali sembrano addirittura fornire la prova vivente del fatto che la specie umana può vivere in equilibrio con il suo ambiente e rappresentano una fonte di ispirazione per immaginare le profonde trasformazioni a cui le devastazioni ecologiche dovrebbero spingere le nostre società. Per questo, c’è chi preferisce parlare di “industrialocene” o ancora di “occidentalocene”. Oppure chi identifica nel capitalismo il principale responsabile del disastro, e parla allora di “capitalocene”. Quest’ultimo concetto ha il merito di puntare il dito sul fatto che anche all’interno delle società industriali la responsabilità non è ugualmente condivisa tra gli individui (per esempio, il 7% più ricco produce il 50% di emissioni di diossido di carbonio, il 45% più povero solo il 7% delle emissioni): sono coloro che amministrano il capitalismo e supportano l’ideologia corrispondente ad esser chiamati in causa.

    È dunque chiaro che la scelta del termine “antropocene” per designare l’epoca geologica attuale, sebbene sia comune in certi ambienti scientifici e giornalistici, non ha nulla di neutro e, come molti termini derivanti dal campo delle scienze della natura, ha acquisito un portato fortemente politico. Il suo utilizzo rinforza certi preconcetti che ci impediscono di immaginare un mondo desiderabile per il “dopo” e alimenta una visione misantropica secondo cui gli umani in generale sarebbero il virus che devasta il pianeta. Se è certo che l’uso della parola “capitalocene” costerebbe a una scienziata la qualifica, da parte della stampa e dei colleghi, di essere schierata, se non proprio accusata di non-neutralità, lo stesso non può dirsi del termine “antropocene”. Voler descrivere il mondo in una maniera che si presume neutra porta in fondo a plasmare il proprio discorso sull’ideologia dominante, favorendo quindi lo status quo.

    Neutralità e status quo

    Consideriamo il caso di una presentazione su delle proiezioni climatiche della temperatura della superficie terrestre, in cui la persona che presenta sia portata a mettere le proprie ricerche in prospettiva e fornire un contesto che inquadri e giustifichi il proprio lavoro. Si parlerà per esempio di “transizione ecologica” o ancora di “obiettivi di sviluppo sostenibile”. In generale, si darà per scontata la necessità delle attività industriali, la disponibilità delle tecnologie attuali, un livello elevato di consumo di energia e materiali (questo è l’approccio tenuto, per esempio, dall’IPCC e l’IPBES). Benché la sobrietà e il risparmio siano sempre raccomandati, non si precisa mai dove si colloca il limite tra la sobrietà e lo spreco. L’istituzione statale sarà presa come norma e considerata come forma democratica di gestione. Si condanneranno i danni all’ambiente unicamente nella misura in cui avranno effetti sull’umanità: per esempio, la scomparsa di specie vegetali a causa del cambiamento climatico sarà messa in evidenza per le eventuali proprietà medicinali di questa o quella pianta, non per il loro valore intrinseco. Nel proporre eventuali soluzioni si dimenticherà, come spesso accade, l’impatto che l’estrazione mineraria necessaria alla transizione energetica occidentale ha sulle popolazioni locali in Asia, in Africa o America Latina. Una visione contabile, antropocentrica, etnocentrica e sociocentrica del mondo animerà i propositi scientifici della persona che interviene. La stessa cosa potrebbe verificarsi per una presentazione sull’acidificazione degli oceani, lo scioglimento dei ghiacci o la circolazione atmosferica. Una tale posizione non sarà considerata “di parte”, eppure lo è.

    Scienziati e scienziate della natura che fanno propria tale visione del mondo potranno esprimerla senza arrossire, a volte senza neppure rendersi conto che le proprie affermazioni non sono ovvie e scontate. Chi invece nelle scienze della natura pensa che è necessario cambiare radicalmente prospettiva, rimettere in causa i valori e i modelli sociali attuali, non oserà difendere le proprie idee per timore della disapprovazione dei colleghi, o addirittura di vedere messa in dubbio la propria integrità scientifica. Eppure, la documentazione scientifica delle devastazioni ambientali dovrebbe proprio portarci ad uscire dallo status quo, a sovvertire il nostro immaginario per trovare soluzioni in cui la specie umana, le altre specie animali e il loro ambiente di vita siano preservati.

    L’illusione della posizione neutra

    È impossibile avere una posizione neutra in un contesto politico. Quest’ultimo è fatto di opposizioni, di rapporti di forza, di conflitti, di vittorie per alcuni e sconfitte per altri. Evitare di prendere posizione significa agire in favore dello status quo, avallare le oppressioni invece che combatterle. Tra l’altro, come fa notare Jean-Baptiste Fressoz, storico delle scienze e dell’ambiente, la questione della “militanza politica” delle persone di scienza viene sempre posta quando esse mettono in questione l’ordine sociale, mai quando lo sostengono. Credere nella possibilità di una posizione neutra ricade in una concezione idealizzata del dibattito politico, che si vorrebbe mero scambio di idee da cui risulterebbe una decisione comune organizzata democraticamente dalle istituzioni politiche. Non è affatto così. Le attuali forme di governo sono autoritarie, dalle aristocrazie elettive che sono gli Stati alle grandi imprese gerarchiche sottoposte esse stesse al mercato. In tale contesto, non prendere posizione significa lasciare il potere decisionale ai “responsabili” politici e alla “razionalità” economica che hanno portato proprio alla situazione attuale mettendo in pericolo le condizioni di vita e devastando il mondo vivente sulla Terra.

    La figura dell’esperto è il problema

    La ricerca di neutralità da parte delle persone di scienza deriva dalla posizione di “esperte” che è loro attribuita nella società e nel dibattito pubblico. I sistemi di governo autoritari che conosciamo sono fondati sul primato del sapere tecnico su ogni altra forma di sapere. Lo scientismo (che altrove è stato definito una “nuova chiesa universale”) ritiene che solo il metodo scientifico permetta di accedere alla verità e che quindi ogni decisione deve essere presa sulla base di fatti stabiliti scientificamente. Questo postulato conferisce alla figura dell’esperto uno statuto di autorità. Come persona di scienza è allora legittimo non voler prendere una posizione in nome della scienza in un dibattito di idee politiche, per non scalfire lo statuto di autorità per la difesa di posizioni personali. Questo proposito è in effetti ingannevole, perché la conoscenza scientifica non permette mai da sola di affermare se questa o quella posizione politica sono buone. D’altro canto, un tale abuso rischierebbe di mettere in crisi la credibilità della parola scientifica. Eppure, una persona di scienza non deve privarsi di esprimere la propria posizione come individuo, perché non si può non prendere posizione, come visto già sopra.

    Del resto, se una persona di scienza quando esprime la propria opinione come individuo deve mostrarlo chiaramente e non farlo in nome della scienza, ciò non deve dar l’impressione che il suo lavoro scientifico sia, in sé, neutro. Sbaglierebbe chi dicesse che chi fa scienza deve comunicare in modo esplicito separando i momenti in cui milita in quanto cittadino e quelli in cui si posizione in quanto ricercatore. Da un lato, l’individuo e il ricercatore sono indissociabili, dall’altro metodo scientifico non significa neutralità ma piuttosto attendibilità (essendo i risultati verificabili e riproducibili). Questi fatti sono da esplicitare fin dall’inizio quando una persona di scienza interviene in un dibattito pubblico.

    Inoltre, lo scientismo inibisce in chi fa scienza della natura la capacità di esprimersi su questioni di società diverse dall’oggetto diretto dei propri lavori di ricerca. Di fatto, se solo gli esperti hanno ragione, allora la parola di un non esperto non è mai legittima, così come un oceanografo non dovrebbe esprimersi in questioni di agricoltura, un biologo non dovrebbe esprimersi in questioni di produzione energetica e così via.

    Tuttavia, questo funzionamento tecnocratico ha dato prova di non essere capace di risolvere i problemi che produce, in particolare in materia di difesa della natura. La specializzazione a oltranza delle competenze tecniche impedisce agli individui di comprendere il mondo nella sua globalità e la delega delle decisioni a un’aristocrazia (sia pur eletta) porta all’accaparramento della natura da parte di una minoranza. Peraltro, nonostante la serie di nuove soluzioni tecniche ai problemi ambientali provocati dalle attività industriali, i danni non accennano a ridursi.

    Infine, va tenuto ben presente che la prospettiva di un potere autoritario “ecologico” in cui la gestione delle risorse naturali fosse assicurata da un estremo controllo della popolazione non è affatto felice. Lo spettro dell’ecofascismo è presente, incombe fin dal Rapporto sui Limiti dello Sviluppo e si avvicina sempre più con il fiorire delle “smart cities” (si suppone che le città intelligenti dovrebbero migliorare la gestione e la distribuzione delle risorse, ma sono un ottimo pretesto per il dispiegamento di politiche securitarie, di sorveglianza e controllo della popolazione, che spesso il capitalismo si affretta a dotare di un’aura verde ecosostenibile). Esistono svariate società possibili che prendano in considerazione i limiti del pianeta e non saranno gli esperti a poter decidere quale progetto politico ecologico sia “migliore”. Esiste una grande differenza tra ambientalismo ed ecologia politica: quest’ultima permette di comprendere che non esistono traiettorie univoche dettate da considerazioni ecologiche.

    La scelta del pubblico

    I rapporti scientifici dell’IPCC o dell’IPBES non vengono dal nulla: conformemente all’organizzazione tecnocratica delle nostre società, essi sono inizialmente destinati ai responsabili politici (così come da loro sono commissionati), per consentire loro di prendere quelle che si presumono le migliori decisioni. Questi rapporti hanno tuttavia assunto un peso considerevole nel dibattito pubblico: permettono ai non esperti, cioè cittadini e cittadine, di informarsi sulle devastazioni ecologiche, di comprendere meglio il funzionamento del mondo naturale in cui viviamo e sono anche un mezzo di fare pressione su chi governa. In questo modo le persone di scienza, attraverso uno strumento tecnocratico come i rapporti scientifici destinati a chi decide, alimentano paradossalmente una trasmissione di sapere e di potere verso il basso.

    Nelle scienze della natura, molte persone sono tuttavia persuase che i rapporti scientifici non siano abbastanza e che sia necessario andare incontro al pubblico per trasmettere le proprie conoscenze: si impegnano così nella divulgazione e nella comunicazione, e ciò non può che essere accolto positivamente. La scelta del pubblico cui si rivolgono ha anch’essa carattere politico. Il fatto che Jean Jouzel, ex-vicepresidente dell’IPCC nonché ex direttore dell’Institut Pierre Simon Laplace, tenga delle conferenze sul clima a bordo di navi da crociera di lusso è stato fortemente criticato da parte del movimento ecologista. Non si può considerare neutro neanche il fatto che Hervé Le Treut, neodirettore dello stesso istituto, abbia tenuto una conferenza a un meeting del partito di Macron, En Marche. In Francia, Valérie Masson-Delmotte è probabilmente la ricercatrice più attiva nella diffusione dell’informazione scientifica sul clima. Oltre a intervenire nelle università e nella stampa, sceglie di andare a incontrare chi milita nel movimento per il clima e anche di discutere con Assa Traoré (che lotta tenacemente per reclamare verità e giustizia dopo l’assassinio di suo fratello Adama Traoré da parte della polizia francese nel 2016). Tale iniziativa è di particolare importanza visto che la popolazione che si considera “ecologista” è in maggioranza bianca e proveniente da classi sociali agiate. Si vede dunque dalla diversità di pratiche che la scelta del pubblico a cui ci si rivolge non è mai neutra, proprio come la natura del discorso e la posizione assunta da chi parla in quanto persona di scienza.

    Chi fa scienza è un soggetto politico

    Se il metodo scientifico permette di controllare oggettivamente la veridicità di un’affermazione, l’oggetto di studio è comunque sempre definito da valori e priorità che sono, esse, politiche. Le istituzioni, le modalità di finanziamento e di funzionamento della scienza non sono né oggettive né razionali. È indispensabile che coloro che fanno scienza si approprino, se non lo hano ancora fatto, della dimensione politica delle proprie discipline. In realtà, molte persone sono impegnate in un impostazione di riflessione politica profonda, e attingono alle scienze umane e sociali informazioni preziose: cominciano a prendere posizione nelle tribune o in occasione delle presentazioni scientifiche, si impegnano in azioni sindacali, partecipano attivamente ai movimenti, creano collettivi di ecologia politica. Questo testo è un appello per l’amplificazione di questo movimento di politicizzazione delle scienze della natura.

    Verso la politicizzazione

    Per trasformarsi da scienze ridotte ad analisi tecniche in scienze capaci di assumere e cogliere la propria funzione politica, è necessario aprire i mondi della ricerca. Le scienze della natura non avrebbero che da guadagnare mescolandosi a discipline come l’antropologia, l’economia, la filosofia, la sociologia o la storia, essenziali per comprendere ciò che porta alle devastazioni ecologiche. Dei collettivi di ricerca, come l’Atécopol di Tolosa, si muovono già in quest’ottica di scambio tra le discipline. Questa impostazione permette di capire il mondo nella sua globalità per assumere una posizione politica piuttosto che allinearsi automaticamente a uno status quo potenzialmente devastatore. Una simile apertura e presa di posizione implicano di uscire dal ruolo di esperti ed esperte e di condannare la tecnocrazia, come alcuni collettivi quali Survivre et Vivre fecero già negli anni 1970. Il prolungamento naturale di questo percorso è l’apertura all’insieme dei non esperti che lottano per una nuova società in cui l’ecologia sia centrale e non si riduca a qualche aggiustamento marginale di pratiche invariabilmente distruttive.

  • Le culture non esistono

    «La cultura araba non rispetta le donne», «la cultura araba è bigotta», «la cultura araba è teocratica». Sono tutte frasi che è facile sentire pronunciare e che sono sempre più comuni e socialmente accettate. Simili generalizzazioni riguardo ad altri gruppi umani sono appannaggio di una relativamente ristretta cerchia di razzisti dichiarati e militanti xenofobi, mentre opinioni dello stesso tipo rivolte agli arabi (o ai musulmani, giusto per intorbidare le acque visto che non è la stessa cosa) sono ormai non più prerogativa di pochi ma fanno parte del senso comune, di quelle verità socialmente costruite che si danno per scontate nel dibattito pubblico e nell’informazione di massa.

    Con spirito critico, intendo ragionare sulla logica fallace che sottende l’utilizzo di categorizzazioni come “cultura araba”, che possono essere efficaci nell’immediata comunicazione quotidiana ma hanno pesanti ripercussioni sul senso politico esplicito ed implicito dei discorsi che ne fanno usi poco attenti e circostanziati.

    Per parlare di categorizzazioni, iniziamo trattandone una particolare, che nel mondo contemporaneo storicamente è stata la categorizzazione per eccellenza: la razza. Il razzismo biologico come ipotesi scientifica, nonostante sia passato di moda, è duro a morire ed esistono ancora oggi suoi sostenitori nella comunità scientifica. Nella logica del metodo scientifico è legittimo chiedersi se le razze esistano e provare a dimostrarlo. Come spiegato impeccabilmente dal genetista Guido Barbujani in L’invenzione delle razze, la teoria che propone la divisione della specie umana in razze, nelle sue varie formulazioni e nelle diverse modellizzazioni che sono state proposte, è stata sottoposta ad analisi scientifica a più riprese, con tecnologie sempre più precise e sofisticate, ed è emerso che tale teoria semplicemente non funziona: non permette di produrre modelli che descrivano adeguatamente la realtà, dunque il suo valore scientifico è nullo e chiunque sostenga di poter dimostrare scientificamente il contrario lo fa in cattiva fede. Come riporta l’Enciclopedia Treccani (qui), «il concetto di razza umana è considerato destituito di validità scientifica, dacché l’antropologia fisica e l’evoluzionismo hanno dimostrato che non esistono gruppi razziali fissi o discontinui».

    Per una spiegazione esaustiva di come si è giunti a questa conclusione rimando al saggio di Barbujani, ma il principio è piuttosto semplice e si può riassumere facilmente. Per descrivere una razza, si dovrà elencare un insieme di caratteristiche condivise da tutti gli individui che la compongono e che permettano di dire con certezza di ogni individuo se è di quella razza oppure non lo è. Esiste nelle popolazioni una variabilità genetica data dalla presenza, in individui diversi, di versioni diverse dello stesso gene: tali differenze sono misurabili e si possono utilizzare per provare ad operare una categorizzazione su base genetica.

    Gli studi di genetica umana dicono che se si considerano singoli caratteri, o meglio singoli geni, essi sono sempre presenti in quasi tutte le popolazioni umane, anche se con frequenza diversa. Nessun gene può essere utilizzato per distinguere una popolazione umana dall’altra. Le popolazioni umane sono geneticamente molto simili le une alle altre, c’è invece una grande variabilità genetica tra gli individui. La variabilità genetica all’interno delle singole popolazioni, per esempio tra gli europei o gli italiani, è elevatissima. Mentre le differenze genetiche tra i tipi mediani delle diverse popolazioni, tra gli italiani e gli etiopi, per esempio, sono modeste e pressocché irrilevanti rispetto alla variabilità interna alle singole popolazioni. Questa differenza si può quantificare e il risultato è che, come misurato a partire dal 1970, l’85% della variabilità genetica umana è presente all’interno delle singole popolazioni, il 5% tra popolazioni del medesimo continente e il 10% tra popolazioni di diversi continenti. C’è maggiore differenza tra due italiani posti all’estremo di un profilo genetico, che non tra un italiano e un etiope posti al centro dei profili delle rispettive popolazioni. Insomma, definire le razze umane non è utile neanche al fine pratico di descrivere le differenze presenti nella specie umana. Anzi, sostiene Barbujani: «più si studiano nuovi geni, più si fa esile la speranza di trovare chiari confini fra gruppi umani a cui possiamo dare il nome di razze».

    Occorredunque tenere a mente queste tre importanti conclusioni interconnesse, che inficiano ogni fondamento del razzismo biologico:

    1. Assenza di geni assolutamente caratteristici di una particolare popolazione
    2. Grande variabilità genetica tra gli individui
    3. Variabilità interna alle popolazioni maggiore della variabilità tra le popolazioni

    Per dare un’idea più chiara ed intuitiva, se non bastassero i numeri, ricorrerò ad un banale esempio pratico. Prendiamo una popolazione qualunque, e supponiamo di voler descrivere la razza a cui appartengono gli individui di tale popolazione. Supponiamo di scegliere come primo criterio il colore dei capelli: ovviamente non è sufficiente, perché nella razza sarebbero inclusi tutti gli individui che hanno i capelli di quel colore, anche quelli che non appartengono a quella popolazione. Si deve dunque affinare la descrizione aggiungendo un’altra caratteristica, per esempio considerando la forma del naso. Non è sufficiente, perché innumerevoli individui nel mondo avranno sia i capelli di quel colore sia il naso di quella forma. Dunque è necessario affinare ancora la descrizione con altre caratteristiche, per escludere gli individui “presi nel mucchio”, cioè individui che, per come è definita la razza in questione, saranno casualmente inclusi anche se non c’entrano niente. Questi individui intrusi, qualunque sia la descrizione della razza, saranno sempre troppo numerosi, renderanno il modello inaccettabilmente poco preciso e costringeranno ad aggiungere ulteriori caratteristiche per affinare la descrizione. Finché, a un certo punto, l’elenco è talmente lungo e la descrizione talmente specifica che ad ogni caratteristica aggiunta cominciano ad essere esclusi individui che dovrebbero essere inclusi, perché insomma, si tratta di una popolazione che vogliamo descrivere come razza, ma non si può certo pretendere che gli individui che la compongono condividano veramente tutte quelle caratteristiche, neanche fossero fatti con lo stampino. Il numero di inclusi che dovrebbero essere esclusi è sempre troppo grande, il numero di esclusi che dovrebbero essere inclusi è sempre troppo piccolo. Questo rende conto della particolare configurazione della diversità umana, che si rifiuta di essere categorizzata in razze. L’unica soluzione scientifica è considerare la specie umana divisa in tante razze quanti sono gli individui.

    Tornando ora alla questione iniziale, dovrebbe esser chiaro il senso di questa lunga premessa: lo stesso identico ragionamento si può fare riguardo al concetto di cultura. Per definizione (qui) con “cultura” si intende «il complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche e scientifiche, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico». Ogni società nasce dall’incontro di interessi particolari, e in una visione di sinistra (in una qualunque visione di sinistra, dato che si tratta del minimo sindacale per poter sperare di essere considerata tale, come detto qui) non può che essere vista come campo di forze in cui si articola il conflitto tra innumerevoli interessi contrapposti. Se la cultura è il complesso di tutti quei comportamenti che caratterizzano la vita di una società, è espressione di tanta diversità quanto diversi sono gli interessi e i conflitti che la percorrono, con buona pace di chi sostiene che le culture siano monolitiche peccando di ingenuità o ignorando un fatto che si può riassumere con estrema facilità: la realtà è complessa, molto complessa. In ogni gruppo umano esistono interessi contrapposti, e che non sono mai solo bianco e nero. Ci sono progressisti e conservatori, ma tra i progressisti ci sono i riformisti e i rivoluzionari e tra i conservatori ci sono i moderati e i reazionari, poi tra i reazionari ci sono gli estremisti violenti armati e i reazionari istituzionali, e tra questi quelli più aperti su alcune questioni e quelli che lo sono meno, e tra quelli aperti ce ne sono che lo fanno per motivi di convenienza politica e compromesso e altri che lo fanno per sincera convinzione personale, mentre tra i rivoluzionari ci sono quelli disposti ad allearsi con altre forze popolari e quelli intransigenti, e tra gli intransigenti quelli che vogliono far subito la rivoluzione e quelli che vogliono preparare il terreno in attesa di tempi migliori… inutile continuare; questo esempio, che pure si limita esclusivamente alle posizioni politiche che si possono assumere all’interno di una stessa società, rende conto della straordinaria varietà possibile.

    Si possono prendere in prestito gli argomenti contro il razzismo biologico, riformulandoli per mettere alla prova la convinzione che la varietà del comportamento umano in società sia effettivamente organizzata in culture ben definite (in maniera oggettiva, aldilà delle impressioni e delle autorappresentazioni).

    Il primo argomento è che la descrizione generale di una cultura difficilmente può adattarsi bene a tutti i comportamenti individuali. Come nel caso delle razze, non esiste elenco di caratteristiche culturali che funzioni per tutti, senza essere violato dall’interno di quella specifica cultura da parte di individui che staranno pure agli estremi dello spettro di convinzioni, pratiche, modelli e valori, ma che di quella cultura fanno comunque innegabilmente parte. D’altra parte, non esistono elementi di una cultura che assolutamente non esistono nelle altre culture.
    Esiste invece una grande variabilità “culturale” tra gli individui in termini di credenze, modelli e valori, e in tutte le culture è rappresentato largamente lo spettro delle possibilità, in proporzioni che dipendono dal contesto storico entro cui la cultura si articola e si esprime.

    Nel caso della “cultura araba” o musulmana, come probabilmente in tutte le culture umane esistenti ed esistite, è possibile riscontrare la validità di queste osservazioni. Se «la cultura araba è teocratica», a che cultura appartengono tutti i musulmani laici che hanno preso parte ai processi di riappropriazione democratica e alle rivolte del 2011 e che combattono oggi contro il tentativo di gruppi come Daesh di imporre un ordine teocratico? E i tanti arabi atei che lottano per il riconoscimento sostanziale della libertà di non credere? Se «la cultura araba è violenta», che dire dei milioni di arabi a cui piacerebbe vivere senza alcuna violenza, come alla maggior parte degli esseri umani sulla faccia del pianeta? Se «la cultura araba non rispetta le donne», a che cultura appartengono le sempre più rumorose femministe arabe? E gli autonomisti curdi che con l’esperimento sociale del Rojava hanno invidiabilmente costruito una sostanziale parità di genere? E a che cultura appartenevano quei paesi mediorientali in cui negli anni Sessanta non esistevano limitazioni religiose alla libertà delle donne?

    Cosa significa questo? Che si deve accettare un fatto: la varietà esiste, anche nella “cultura araba”, ed esiste sempre una complessità irriducibile a semplificazioni con l’accetta. C’è maggiore differenza tra due individui di “cultura occidentale” posti all’estremo dello spettro di credenze e valori, che non tra un individuo medio di “cultura occidentale” e un individuo medio di “cultura araba”. Per esempio, io mi sento (e spero di essere) molto più simile a un non credente di sinistra tunisino che non a un cattolico conservatore siciliano; così come mi sento molto più vicino ad un anarchico inglese che non ad un fascista italiano. Come le presunte razze, le presunte culture presentano limiti ontologici e implicano un salto logico che non è razionalmente giustificabile.

    (Il fatto che confutando chi sostiene la superiorità di alcune culture si finisca facilmente per utilizzare gli stessi argomenti adatti a confutare chi sostiene la superiorità di alcune razze dovrebbe suggerire qualcosa sulla funzione sociale e politica assunta dal razzismo culturale. Ontologicamente ed eticamente, non c’è nulla di diverso tra credere che esistano razze superiori e credere che esistano culture superiori. Se la prima opzione è meno socialmente accettabile è più per una ragione storica che intellettuale: in generale, il razzismo biologico disgusta perché innesca un meccanismo riflesso che richiama la memoria condivisa del Demonio nazista, non perché è stato dimostrato che è scientificamente infondato. Diversamente, sostenere l’inferiorità di certe culture è considerato socialmente accettabile. Per capire cosa intendo dire, provate a sostituire la parola «arabi» con la parola «ebrei» in tutti i luoghi comuni che si dicono sugli arabi. Converrete con me che molta meno gente sarebbe disposta ad ascoltarvi senza storcere il naso.)

    Qualcuno potrà legittimamente chiedersi se non sia questa un’opera di sapiente mistificazione della realtà ordita dai buonisti apologeti in difesa del politicamente corretto volta a nascondere l’evidenza che le società del mondo arabo qualche problema in materia di diritti delle donne innegabilmente ce l’hanno, così come qualche problema con la laicità dello Stato e le libertà individuali e sociali. Osservazione sensata, se non fosse che qui nessuno sta negando che questi problemi esistano, bensì che siano dovuti alla “cultura araba”. Non serve a molto affidarsi alla mera evidenza empirica senza un’elaborazione intellettuale, perché altrimenti dovremmo credere che un legnetto dritto immerso nell’acqua si spezza e diventa più corto. Se ogni cultura comprende una diversità che spazia tra gli estremi dello spettro di credenze, convinzioni, modelli e valori, il prevalere di certe credenze, convinzioni, modelli e valori nell’articolarsi della vita sociale è da attribuirsi allo sviluppo storico, al contesto sociopolitico, piuttosto che alla cultura in sé (che invece contiene tutte le sfumature possibili, dominanti e non).

    I fascismi novecenteschi europei non erano dovuti alla cultura occidentale più di quanto i movimenti socialisti fossero dovuti alla stessa cultura: se negli anni Trenta i fascismi trionfarono fu per cause materiali ben individuabili, per i rapporti sociali di forza, non certo per un’impalpabile e astratta ineluttabilità intrinseca alla cultura occidentale. Analogamente, lo stesso vale per l’attuale mondo arabo: se, per esempio, esiste una creatura mostruosa come l’ISIS, è perché le condizioni politiche, economiche e militari lo hanno permesso. La “cultura araba” non spiega l’esistenza dell’ISIS, ma solo le forme della sua esistenza. Se l’ISIS fosse sorto in una cultura diversa, non sarebbe stato meno mostruoso e non avrebbe avuto meno difficoltà ad affermarsi (l’esempio dei fascismi europei è calzante). Ancora, il peso del contesto storico è esemplificato dalla condizione delle donne in Afghanistan, che negli anni Sessanta potevano uscire di casa, guidare, iscriversi all’università ed è ovvio che queste libertà sono state perse a causa degli avvicendamenti squisitamente geopolitici che hanno segnato la storia del paese, mentre il popolo è in maggioranza musulmano dagli inizi dell’Islam e l’occupazione sovietica non ha certo annullato secoli di cultura musulmana popolare.

    Due studentesse di medicina afgane discutono di anatomia umana con la loro professoressa, a Kabul nel 1962

    Quello che avviene quando si attribuiscono alla cultura gli eventi sociali politici economici è uno scambio dialettico tra struttura e sovrastruttura, che porta a non riconoscere che la cultura non è causa dei comportamenti, ma è i comportamenti (le cui cause sono squisitamente materiali e risiedono nei rapporti forza, produzione e dominio esistenti nelle società).

    Insomma, nessuno nega l’esistenza e la gravità dei problemi che affliggono purtroppo buona parte del mondo arabo. Si tratta di contestualizzare e di analizzare la complessità del reale, senza sostenere l’esistenza di culture monolitiche, in cui la diversità e i conflitti sono neutralizzati. Non si tratta di politicamente corretto: ciò che opprime, reprime, soffoca e limita le libertà individuali e sociali va combattuto, sempre, in quanto tale, in ogni cultura. Per questo motivo, si deve lottare contro tutto ciò che nella “cultura araba” è autoritario, violento e repressivo e per farlo occorre non neutralizzare i conflitti, ma anzi riconoscerli per sostenere ciò che al contrario è liberante ed emancipatore. Se di una cultura si considera arbitrariamente solo ciò che non piace e se ne fa una questione di cultura, allora tutte le culture sono conservatrici (se arbitrariamente si è scelto di vederne solo la componente conservatrice) o progressiste (se arbitrariamentre si è scelto di vederne solo la componente progressista). Chi invece riconosce il conflitto con le sue contraddizioni e ambiguità, riconosce che la cultura protestante ha prodotto le chiese strutturate autoritarie e istituzionali dei luterani ma anche i movimenti zwingliani e anabattisti; la cultura cattolica ha prodotto la Santa Inquisizione ma anche frati francescani che difendevano i diritti dei popoli colonizzati e la teologia della liberazione; la cultura marxista ha prodotto lo stalinismo ma anche il socialismo libertario; la cultura francese moderna ha prodotto l’assolutismo ma anche l’età dei lumi; la cultura illuminista ha prodotto la democrazia ma anche il capitalismo; la Rivoluzione francese ha prodotto i giacobini ma anche Napoleone; e così via.

    Ecco perché, anche se il nazismo è nato ed cresciuto nella “cultura occidentale”, non viene detto che la “cultura occidentale” sia nazista. Anzi, oggi viviamo nella stessa cultura ma non ci sono nazisti al potere: non è cambiata la cultura, ma il contesto sociopolitico entro cui tale cultura è espressa. Non si capisce per quale motivo lo stesso non debba valere per la “cultura araba” quando si dice che è teocratica o che non rispetta i diritti delle donne. Ecco perché non esiste nessuno scontro di civiltà.

    Infine, soprattutto, chi da questa sponda critica la “cultura araba” perché teocratica, bigotta, intollerante, discriminatoria, sessista, dovrebbe prima di tutto guardarsi in casa (anche se mi rendo conto che avere i fascisti in giardino non è assolutamente un buon motivo per astenersi dal criticarli quando sono nel giardino del vicino); inoltre rendersi conto che il modo migliore per combattere quanto di teocratico, bigotto, intollerante, discriminatorio, sessista esiste nella “cultura araba” è proprio evitare di immaginare una “cultura araba” in quanto tale. Per esempio, attualmente la concreta opposizione agli autoritarismi nel mondo arabo è quasi interamente composta da musulmani o gruppi in tutto e per tutto interni al mondo arabo. Parlando di “cultura araba” si comprendono nello stesso campo semantico, mentale e di riflesso anche politico, tanto l’autoritarismo quanto la maggioranza di coloro che lo stanno combattendo. Se l’obiettivo è sconfiggere l’estremismo autoritario, a che serve un concetto di “cultura” così definito, che traccia una immaginaria linea di confine in base alla quale l’autoritarismo e chi lo combatte stanno sullo stesso lato? Se si vuole migliorare le condizioni di vita del genere umano, le linee di divisione non vanno tracciate tra le culture, ma tra oppressi o oppressori.

  • Disinformazione civile

    Ieri è comparso, sul sito di Rivoluzione Civile, un articolo di Valentina Stefutti, candidata alla Camera dei Deputati, che chiarisce la posizione programmatica della sua lista rispetto alla questione della sperimentazione animale. L’analisi che viene proposta è purtroppo infarcita di inesattezze quando non di affermazioni false, che rinnovano il clima di disinformazione e distorsione della realtà molto diffuso sul tema grazie a una cattiva divulgazione e ad una scarsa educazione scientifica. Sono di seguito riportate le parzialità e le inesattezze presenti nell’articolo.

    «La sperimentazione sugli animali è un metodo basato sull’assunto, totalmente sbagliato, che i risultati ottenuti sugli esemplari in laboratorio possano essere utili per gli esseri umani»

    Questa affermazione è falsa: i risultati ottenuti su modelli animali in laboratorio sono di fatto stati utili nella ricerca e nella realizzazione di metodi di cura di una grande quantità di malattie, congenite e non; inoltre nessun ricercatore pretende che la sperimentazione animale sia di per sé sufficiente a dimostrare l’efficacia di una cura e la sua applicabilità su un essere umano, a causa della intrinseca diversità degli esseri viventi e delle loro risposte fisiologiche. I modelli animali costituiscono tuttavia un buon filtro tra le possibili vie da adottare nella ricerca, sia pura sia applicata, in quanto i risultati concernenti i meccanismi di base sono spesso generalizzabili, seppur con eventuali correzioni, a tutto il mondo animale.

    «Utilizzata come modello per lo studio delle malattie e per la sperimentazione di farmaci e sostanze chimiche, questa branca definita non a caso “cattiva scienza” dalla prestigiosa rivista scientifica internazionale “Nature” (novembre 2005), cela in realtà ingenti interessi economici»

    Questa affermazione è volutamente inesatta: Nature è una rivista molto prestigiosa e pubblica centinaia di migliaia di articoli. Ogni tanto, com’è normale nella prassi scientifica, dà spazio a legittime critiche su specifici modelli o applicazioni di tecniche che rientrano nell’ambito della sperimentazione animale: per esempio, il caso citato, del novembre 2005 (qui), metteva in discussione l’affidabilità di un particolare esperimento condotto su un particolare oggetto di studio, i test tossicologici, in particolari modelli murini. Non si tratta quindi di una critica ragionata della ricerca su animali in generale, ma di un dubbio legittimo che concorre allo sviluppo del dibattito intorno a risultati specifici.
    Inoltre, anche se l’articolo in questione avesse espresso forti critiche sulla sperimentazione animale in toto (cosa del resto piuttosto improbabile, dato che la ricerca scientifica non può fare a meno del suo oggetto di studio, per definizione stessa di scienza), dire che Nature avrebbe definito «cattiva scienza» la sperimentazione animale sarebbe comunque stato un ignobile tirare per la giacchetta una delle più prestigiose riviste scientifiche nel mondo: se in uno o più articoli sono comparse opinioni, pur suffragate da dati sperimentali o da analisi di altro tipo, contrarie all’efficacia della sperimentazione animale, ciò non fa di queste posizioni la posizione ufficiale di Nature.
    Questa posizione semplicemente non esiste: una rivista pubblica risultati, non esprime opinioni.
    Tra l’altro, è interessante citare un articolo su Nature contrario alla sperimentazione animale, viste le centinaia di migliaia di articoli che invece si basano proprio su questa e hanno quasi sempre mostrato coerenza e affidabilità nel tempo, confutando così l’idea che questa sia inutile e allo stesso tempo l’idea che Nature consideri la sperimentazione animale «cattiva scienza».

    «La logica che sta alle spalle della sperimentazione animale, lungi dal perseguire il miglioramento della salute umana, è piuttosto da identificarsi in un interesse economico. L’universo di aziende e risorse destinate all’allevamento di animali da laboratorio è grandissimo e per questo non si intende utilizzare metodi diversi e meno costosi dal punto di vista economico e delle vite animali sacrificate»

    Questa affermazione è parziale. Non è da escludere che le aziende ricerchino inevitabilmente il profitto privato, pure operando nel settore della ricerca, giacché il capitale ambisce a rigenerarsi e ad accrescersi, a prescindere dal mezzo, sia esso costituito da farmaci, beni di consumo, giocattoli o navi da guerra. Il difetto della frase riportata è che evita di citare i tanti casi in cui un miglioramento della salute umana c’è stato e omette il reale motivo dell’utilizzo di animali nella ricerca, che risiede nella definizione stessa di ricerca e di scienza: la scienza è, per definizione, sperimentale. La sperimentazione animale è semplicemente un’esigenza delle scienze biologiche, che per studiare l’essere vivente devono disporre dell’essere vivente: questo è nella natura del metodo scientifico.
    Inoltre, dipingere il mondo della ricerca come totalmente subordinato agli interessi delle grandi aziende significa insinuare che gli scienziati non siano dotati di indipendenza nelle proprie scelte professionali, ovvero che si rifiutino di adottare certi metodi sperimentali anziché altri con lo scopo esclusivo di garantire la tutela di interessi diversi da quelli scientifici; questo, effettivamente, può accadere, ma pensare che tutti gli scienziati che conducono esperimenti sugli animali, ovvero pressoché tutti gli scienziati del settore biologico, lo facciano con questo scopo, è puro complottismo.

    «Le reazioni avverse ai farmaci sono la quarta causa di morte nei Paesi industrializzati. Nella sola Europa sono circa 200mila le persone decedute a causa degli effetti collaterali»

    Questa affermazione è fuorviante: anche se la stima fosse affidabile (ma non me ne sono sincerato), il fatto che i farmaci manifestino effetti collaterali non è necessariamente correlato alla sperimentazione animale. Se questi effetti esistono è piuttosto dovuto alla natura stessa del farmaco: tutti i farmaci sono molecole tossiche e, nel somministrarle, si spera sempre che gli effetti positivi siano maggiori di quelli negativi per la salute. Si sono verificati casi, in passato, di farmaci ritirati dal mercato in quanto ne è stata scoperto un grado di tossicità non compensato dai loro effetti benefici. In ogni caso, gli effetti collaterali non possono di certo essere attribuiti alla sperimentazione animale.

    «D’altronde sono numerosi e ben più scientificamente accurati i metodi alternativi alla sperimentazione animale»

    Questa affermazione è incompleta. Esistono moltissimi metodi alternativi, come le colture cellulari, le simulazioni al computer, gli studi clinici ed altri, che di norma non usano animali vivi, ma morti, perché i materiali utilizzati da qualche parte devono pur venire. Anche i metodi alternativi, quindi, fanno uso degli animali, e non c’è da stupirsi: non si può studiare un animale senza animale.
    Questi metodi, inoltre, sono comunemente utilizzati in qualunque laboratorio di biologia nel mondo: far passare l’idea che siano pratiche poco diffuse e ostacolate dagli istituti di ricerca o dalle aziende farmaceutiche significa divulgare il falso.

    «Uno fra tutti, la tossicogenomica: un metodo che prevede di mettere in contatto il DNA della cellula umana con le sostanze delle quali intendiamo verificare l’effetto tossico o dannoso»

    L’esistenza di un metodo in grado raggiungere buoni risultati evitando di usare animali non dimostra che si possa farne a meno in generale: ad oggi, la maggior parte delle risposte fisiologiche non sono accuratamente prevedibili in assenza di un modello in vivo. Questo significa che in molti ambiti, per condurre una buona ricerca, non è sufficiente utilizzare metodi alternativi: per esempio, la tossicogenomica può servire a valutare gli effetti di una sostanza sul materiale genetico, ma non può prevedere gli effetti biologici cellulari, tissutali o sistemici dell’azione di una sostanza. Al momento, in nessun ambito della ricerca che coinvolge la biologia animale si può fare a meno degli animali.

    «Anche in tema di costi, abbandonare la sperimentazione animale sembra la soluzione migliore»

    È vero che la ricerca deve tener conto anche dei costi, ma non si può fare della riduzione dei costi della ricerca un cavallo di battaglia, soprattutto se il programma della lista con cui si è candidati propone un’inversione di tendenza rispetto ai tagli precedentemente apportati al settore.
    Si sta così facendo della questione scientifica un problema di carattere economico, come se lo sviluppo delle conoscenze e il progredire del sapere scientifico dovesse sottostare alle leggi di mercato, non diversamente dalle forze politiche dalle quali Rivoluzione Civile si vanta di distinguersi.

    Per concludere, c’è da fare una considerazione anche sulla competenza dell’autrice in materia di sperimentazione animale, ricerca scientifica, scienze della vita. Valentina Stefutti è un avvocato: è quindi competente in giurisdizione, ma non conosce il mondo della ricerca. Le opinioni espresse nel suo articolo sono frutto di un’ingannevole propaganda costituita da slogan forvianti che non esaminano come dovrebbero un argomento complesso, banalizzandolo e semplificandolo all’osso (e scusate se parlo di ossa), e propongono alle persone inesperte una visione parziale e insufficiente a una valutazione oggettiva; di un’informazione manipolata che cita, per esempio, l’aforisma di Einstein «nessuno scopo e tanto alto da giustificare metodi così indegni» che in verità non si riferiva alla sperimentazione animale, ma conferisce autorevolezza alla posizione contraria; dello sfruttamento, al pari di tanti movimenti politici, dell’impatto emotivo, che non invita a valutare razionalmente la realtà, ma a prendere posizioni identitarie che minano l’essenza stessa del pensiero critico.

    Fin dalla nascista di Rivoluzione Civile, li ho chiamati ironicamente «compagni che sbagliano». E purtroppo sbagliano sempre di più.

  • L’abuso di evoluzionismo, il sessismo e il complottismo

    Che alcuni, anche tra gli appartenenti alla comunità scientifica, considerino la scienza come uno strumento reazionario di legittimazione delle disuguaglianze sociali e di conservazione delle tradizioni a prescindere dai contesti e dall’etica, già lo si sapeva. In questo blog, l’argomento è stato ampiamente discusso in calce a un articolo intitolato Convergenze ideologiche.

    In Biologia come ideologia, R. Lewontin critica fortemente tale utilizzo e lo decostruisce organicamente. Un buon esempio è dato dall’articolo I Pennacchi di San Marco, da lui scritto in collaborazione con S. Gould, in cui mette in discussione l’integralismo di alcuni scienziati che pretendono di applicare la teoria dell’evoluzione impropriamente per spiegare qualunque fenomeno biologico, seguendo il paradigma il fenomeno esiste, quindi è stato favorito dalla selezione naturale. In realtà tanti caratteri che l’evoluzione si porta dietro sono selettivamente “neutri”, o sono il relitto di strutture preesistenti, o sono negativi ma selezionati in combinazione con caratteri positivi.
    La teoria dell’evoluzione è un buon modello, spiegano i due, ma non può essere la risposta a tutte le domande: un approccio del genere non solo rischia di portare a conclusioni errate, ma anche mortifica la ricerca scientifica.
    Un esempio valga per tutti: quello delle mele. In linea con l’usuale iter definito dal metodo scientifico, lo sperimentatore è inizialmente osservatore. Questi osserva che le mele cadono tutte verso il basso. Se assume che l’evoluzione possa spiegare l’esistenza attuale di ogni fenomeno biologico, egli concluderà che le mele cadono verso il basso perché sono state naturalmente selezionate, in quanto quelle che inizialmente cadevano verso il suolo avevano l’opportunità di rilasciare i semi e dunque germogliare, trasmettendo alla prole il proprio patrimonio genetico; le mele che “cadevano verso l’alto”, diversamente, non erano evolutivamente favorite.

    Un simile ragionamento, lo si trova nel testo Dalla natura alla cultura di B. Chiarelli; il secondo tomo è dedicato alle “origini della socialità e della cultura umana” e i seguenti sono alcuni esempi di applicazione forzata dell’evoluzionismo a fenomeni sociali:
    «Con la postura eretta […] l’apparato riproduttivo femminile si è venuto a trovare in posizione verticale. In queste condizioni, la ritenzione del liquido seminale dopo l’accoppiamento risulta difficile e dunque, per massimizzare le possibilità di concepimento, deve essersi verificato un insieme complesso di adattamenti» (notare il dunque deve);
    «La tendenza all’accoppiamento notturno conduce a incrementare la possibilità di fecondazione, poiché coincide con un periodo di tempo di diverse ore in cui la donna rimane in posizione orizzontale dopo l’accoppiamento»;
    «L’accoppiamento durante la notte o comunque in luoghi appartati, tipico della nostra specie, costituisce un doppio vantaggio: minimizzare la vulnerabilità nei confronti dei predatori e massimizzare la ritenzione dello sperma»;
    «L’aver relegato l’attività sessuale alle ore notturne e l’averla ridotta e considerata disdicevole in presenza d’altri può aver costituito una caratteristica atta a prevenire che altri maschi fossero tentati di accoppiarsi con le femmine già inserite in un legame di coppia»;
    ma Chiarelli dimentica che l’accoppiamento notturno e in luoghi appartati è tipico della nostra cultura (e non ne sono neanche del tutto sicuro). Noi non sappiamo se nelle culture preistoriche la sessualità fosse vissuta con meno inibizione e con abitudini diverse. E anche se le nostre abitudini attuali rispecchiassero quelle dei nostri antenati, niente dimostra che tali abitudini siano ereditabili e geneticamente determinate, e dunque soggette a selezione.

    Nella trattazione Interpretazione sociobiologia sull’origine della costante presenza del seno nella femmina umana, che fa compagnia ad altri interessanti titoli che non c’è tempo di analizzare, Interpretazione evolutiva dell’origine del pianto e del sorriso e L’origine del pudore e della vanità, Chiarelli cerca di rispondere alla domanda: «sotto quale pressione selettiva la presenza costante del seno e la sua forma si sono mantenuti ed hanno acquisito la funzione di carattere sessuale secondario, tra i più rilevanti nelle femmine della nostra specie?»
    La riposta è che «nella donna non esistono segnali esterni certi che caratterizzano il momento dell’ovulazione; l’acquisizione della postura eretta ha nascosto i genitali e […] il maschio, avendo perso questo importante meccanismo di segnalazione [turgore delle grandi labbra] è stato privato anche della possibilità di sincronizzare l’accoppiamento con l’ovulazione. In qualche modo questa perdita deve essere stata sostituita […] dalla prominenza del seno»
    L’argomentazione che segue è articolata ma non regge: si basa infatti sull’assunto che «la dimensione e la forma del seno hanno la funzione di mezzo attraverso il quale i maschi umani stabiliscono subconsciamente il probabile stato riproduttivo della donna», data la corrispondenza tra forma e dimensione del seno e stato riproduttivo (amenorrea, mestruazione, gravidanza, allattamento, menopausa), una corrispondenza però poco chiara e non sostenuta da dati sperimentali (se non in alcuni casi).

    Altre criticità riguardano alcune affermazioni di dubbia validità scientifica, come «l’uomo preferisce donne con distribuzione equilibrata delle masse» o «in generale gli uomini concordano che il seno rappresenti il simbolo sessuale per eccellenza». Il problema, infatti, è che per quanto l’attrazione sessuale sia un comportamento istintivo e quindi innato, il comportamento umano è profondamente influenzato da fattori culturali e quindi acquisiti, su cui la selezione naturale non può aver agito.

    A queste affermazioni vagamente arbitrarie, si affiancano trattazioni di sapore chiaramente maschilista, come quella che inizia perentoria dicendo «In genere gli uomini manifestano una maggiore aggressività rispetto alle donne» e che contiene da sé l’elemento che la smentisce, poiché continua «Quasi tutte le società e le culture umane favoriscono l’aggressività maschile, per cui uomini e donne crescono aspettandosi che gli uomini siano aggressivi».

    Per chiudere con il sorriso, ecco un’ultimo estratto:
    «Un aspetto recente nella cura del seno, da parte delle donne di civiltà europea, che merita considerazione per le conseguenze che può avere sulla riproduttività, è rappresentato dall’uso generalizzato del reggiseno. L’indiscriminato uso di questo indumento, introdotto alla fine del Settecento, si deve considerare come la conseguenza di un malcompreso egualitarismo. Infatti le donne dotate di un seno meno interessante hanno coperto questa loro parte del corpo, imponendo quest’uso, attraverso la moda, anche alle donne con seno appetibile, ciò ha condotto a ridurre l’interesse del maschio verso queste ultime, con l’intento di attirare l’attenzione sessuale anche su quelle con seno meno interessante».
    Insomma, l’indiscriminata applicazione dei principi dell’evoluzione può condurre a veri e propri complottismi.

    P.S.: durante qualche ricerca per la stesura di questo articolo, mi sono imbattuto in alcuni fatti imbarazzanti: Brunetto Chiarelli, l’autore di “Dalla natura alla cultura”, professore di Antropologia all’Università di Firenze, era iscritto alla P2 (tessera 797) e negli anni Ottanta lanciò la proposta dello “scimpanzuomo”, un ibrido uomo-scimmia da utilizzare per i trapianti e per i lavori servili. Cazzo, ho finanziato un massone simil-nazista.

  • Convergenze ideologiche: il circolo fallace delle sociobiologie

    Le coincidenze a volte sanno essere sorprendenti. Nelle ultime due settimane ho esposto su questo blog le mie perplessità su chi ha la pretesa di considerare universali, naturali, indiscutibili presunti sistemi sociali o leggi economiche quando piuttosto la loro giustificazione è ideologica.
    Ho cercato di dimostrare, nei dibattiti sviluppatisi in calce agli ultimi due post, che non esiste un’astratta e settecentesca “natura umana”, perché l’uomo vive in ogni epoca e in ogni luogo immerso in un ambiente culturale e imbrigliato in una rete di rapporti sociali.
    E cosa mi capita di andare a seguire? Una conferenza, tenuta da Maria Turchetto, docente di epistemologia delle scienze sociali all’Università di Venezia, peraltro già da me conosciuta come direttrice de L’Ateo, che tratta proprio del tema che mi ha ultimamente affascinato e che continua ad appassionarmi. Ve ne propongo un riassunto, ricostruito dai miei appunti e dalla mia memoria.

    Non molti sanno che nella Bibbia sono contenute due versioni della Genesi: in una Dio crea l’uomo a sua immagine e lo crea maschio e femmina, nell’altra, quella più conosciuta, la donna Eva è creata da una costola di Adamo, successivamente alla creazione di quest’ultimo. Nella prima versione i due generi sono creati uguali, mentre nella seconda esiste una evidente subordinazione della donna all’uomo, sia materiale (deriva da una sua parte) che temporale (è creata dopo).
    Richiamandosi all’esegesi biblica, è proprio questo argomento che, nel 2004, l’allora cardinal Ratzinger usò per giungere a una conclusione sulle differenze di genere che si può riassumere con la seguente: è giusto che la donna si adoperi per la conservazione della famiglia tradizionale. La donna ideale è una brava casalinga.
    Partendo da presupposti differenti, di natura scientifica, negli anni Settanta E. O. Wilson, considerato il fondatore della sociobiologia, giunse alle stesse conclusioni: le donne devono anzi non possono non stare a casa e svolgere un ruolo di cura, perché tale ruolo è determinato geneticamente.
    Potrebbe sembrare strano che basandosi su due pensieri così diversi quali quello scientifico e quello religioso si raggiungano idee tanto simili. Eppure questi due ragionamenti hanno qualcosa in comune: il determinismo. Nel caso dell’argomentazione religiosa del cardinal Ratzinger si tratta di un determinismo metafisico («Dio ha detto così quindi non può che essere così»), nell’altro, di derivazione scientifica, di un determinismo meccanicistico («così è scritto inevitabilmente nei geni»); ma sempre di determinismo si tratta, di affermazione dell’esistenza di leggi naturali a cui è impossibile evitare di sottostare.
    Le argomentazioni di Wilson suscitarono moltissimo interesse ed ebbero successo, soprattutto presso il pubblico allora crescente di lettori di divulgazione scientifica, ma in verità non si trattava di un fenomeno nuovo: era l’ultimo di innumerevoli esempi storici di utilizzo della biologia come strumento di legittimazione delle disuguaglianze sociali.
    Tale utilizzo fu fortemente criticato dal genetista Lewontin, che confutò la teoria sociobiologica fin dalla sua formulazione. In un suo libro, intitolato Biologia come ideologia, egli getta luce sulla fallacia dei presupposti sociobiologici su cui Wilson elaborava le sue teorie: l’errore di Wilson risiede nel considerare un particolare sistema sociale come espressione universale e naturale del genere umano, anziché come costruzione di forze sociali, culturali, politiche.
    In questo, nell’epoca moderna è possibile la sostituzione della religione con la scienza come strumento di giustificazione della realtà sociale esistente, affermando attraverso il determinismo l’impossibilità di alternative.
    Storicamente questo è accaduto in epoca moderna con il darwinismo sociale, il razzismo scientifico, la sociobiologia di Wilson. Lorenzo Calabi (in Darwinismo morale) ha definito «circolo fallace» l’artificio dimostrativo che sarebbe sotteso ai ragionamenti basilari di queste teorie, ovvero:

    Astraggono un comportamento sociale moderno e lo traspongono in una condizione naturale, […] dando ad esso un significato in quella condizione. Astraggono poi il significato e lo ricollocano nella contemporaneità

    concludendo così che quel comportamento è naturale e intrascindibile. Questo salto ontologico non è razionalmente accettabile. Allo stesso modo, qualcuno potrebbe osservare le formiche in fila indiana e notare che somigliano a operai lungo una catena di montaggio; tornato poi in fabbrica, troverebbe gli operai al lavoro e, vedendoli in fila indiana, concluderebbe che, dal momento che anche le formiche adottano un comportamento simile, questo deve essere naturale («Toh, gli operai fanno come le formiche, evidentemente è una legge di natura!»).
    Il darwinismo sociale è stato formulato da Spencer nella seconda metà dell’Ottocento prendendo spunto dalla teoria darwiniana dell’evoluzione attraverso la selezione naturale: secondo Spencer, ciò che accade in natura, ovvero la lotta per la sopravvivenza e la vittoria del più forte, si replica all’interno della società e ciò avviene inevitabilmente in quanto dovuto a leggi insite nella natura animale dell’uomo. Oltre che per la forzatura e l’interpretazione inesatta della propria teoria (che parla di sopravvivenza del «più adatto» e non del «più forte»), Darwin respinse la paternità di tale trasposizione sociale dell’evoluzionismo non appena gli fu rinfacciato di aver giustificato Napoleone e ogni commerciante che raggiri i clienti, in quanto più forti. Anzi, in opere successive esaltò le qualità collaborative e di solidarietà dell’animale uomo.
    Marx, con una strizzata d’occhio al naturalista, riconosceva il circolo fallace nella concorrenza e nell’interpretazione che Spencer ne dava («Nel mercato c’è concorrenza. La competizione è naturale. Dunque il mercato è naturale»).
    In effetti, nel caso del socialdarwinismo, il circolo fallace di cui parla Calabi non si chiude: Darwin aveva esplicitamente preso ispirazione, nella formulazione della sua teoria, dall’economista Malthus; ma Malthus non aveva preso ispirazione dalla natura. Si tratta dunque di un semicerchio, in cui la fallacia non risiede tanto in un salto ontologico bensì nell’invasione, da parte del darwinismo, di un ambito esterno al suo campo di applicabilità.

    La sociobiologia di Wilson attribuisce ai geni la responsabilità per comportamenti sociali, procedendo come segue: descrive caratteri comuni dell’essere umano in ogni luogo e in ogni tempo; afferma che tali caratteri sono universali perché genetici; conclude che, essendo genetici, sono stati determinati dal processo della selezione naturale, che seleziona caratteri vantaggiosi per l’individuo e, per estensione, per la specie. Ovvero: viviamo nel migliore dei mondi possibili.
    I più notevoli tra i caratteri comuni sono, guarda caso: eterosessualità, monogamia, amore per la proprietà privata, predominio del sesso maschile, xenofobia. Si tratta insomma di un pensiero profondamente reazionario espresso in forma scientifica. Oggi un qualunque antropologo può confermare che i caratteri sopracitati non sono effettivamente comuni alle società umane in ogni luogo e in ogni tempo, eppure liquidare la teoria di Wilson come stupida è inutile e potrebbe addirittura rivelarsi dannoso: le masse di “profani”, infatti, notoriamente tendono a optare per la via più lineare, semplice e breve e trascurare questo fenomeno comporta il rischio che si ripetano grandi tragedie come quelle che il secolo XX ha tristemente conosciuto.
    Va quindi confutata razionalmente punto per punto. La confutazione sistematica di questo modus operandi prende in esame i passaggi logici in cui si articola e l’affidabilità sperimentale delle presunte affermazioni scientifiche in esso contenute:
    –la scelta di caratteri comuni non è scientifica, perché non contempla un controllo; inoltre ignora concetti elementari di antropologia
    –affermare che i caratteri comuni sono universali significa confondere la descrizione di un fenomeno con la sua spiegazione
    –affermare che i caratteri comuni sono genetici non ha semplicemente senso: sarebbe come dire che siccome in Finlandia sono quasi tutti luterani allora esiste il gene del luteranesimo.
    –il meccanismo di espressione genica proposto denota una profonda ignoranza dei principi di biologia dello sviluppo (che del resto erano ancora poco chiari negli anni Settanta)
    –ricondurre la presenza di ogni carattere a eventuali vantaggi evolutivi significa seguire erroneamente un ingenuo adattazionismo (mentre non tutto ciò che c’è c’è perché favorito dalla selezione naturale, come spiegato elegantemente qui da Lewontin e Gould). Ragionando così, potremmo dimostrare che le mele cadono verso il basso perché la selezione naturale ha sfavorito quelle che “cadevano verso l’alto”.

    Insomma, i tentativi di legittimazione biologica dei sistemi sociali sono di scarso grado di scientificità. Da sempre le classi dominanti hanno cercato di fare apparire le differenze di classe come differenze antropologiche naturali, ma ciò impone loro di rievocare il mondo naturale, in cui, purtroppo per loro, l’enorme varietà di comportamenti e strategie rende del tutto arbitraria la scelta che operano sugli aspetti della realtà: per esempio, in natura la formica regina è la casalinga perfetta, non esce mai di casa e non fa altro che sfornare figli, e sarebbe un ottimo modello per chi volesse sostenere le disuguaglianze di genere, se non fosse che è incestuosa, dato che solo una copula con i propri figli maschi può farle avere figlie di sesso femminile. Ora, nessuno prenderà la formica regina come esempio per dimostrare la naturalità dell’incesto, invece ciò può accadere per il ruolo di cura del sesso femminile o per la catena di montaggio fordista.

    Confutati i principi della sociobiologia, resta da individuare cosa, se non i geni, determina i comportamenti umani nelle loro relazioni sociali. Nel fare questo, si deve reprimere la tendenza a considerare l’umanità, specificità distintiva del genere umano, in contrapposizione all’animalità.
    In Ontogeny and phylogeny, S. J. Gould insiste sulla continuità tra uomo e altri animali: sul piano genetico, uomo e scimpanzé sono affini per più del 98%. Allora cosa ci contraddistingue sul piano cognitivo? La risposta deriva paradossalmente proprio dall’alto grado di affinità genetica con i primati più vicini all’uomo: strettissima somiglianza genetica ma importanti differenze nei caratteri rivelano che le differenze genetiche interessano geni regolatori, che influiscono sulla costruzione dell’assetto morfologico, sui tempi dello sviluppo, sull’espressione di altri geni. Da qui deriva l’ipotesi, oggi piuttosto accreditata, che l’evoluzione dell’uomo a partire dalle grandi scimmie primitive sia un caso di neotenia, ovvero di ritenzione di caratteri infantili nello stadio di vita adulto: un uomo appena nato somiglia molto più ad un feto tardivo di scimmia che a una scimmia appena nata e un uomo adulto somiglia molto più ad una scimmia appena nata che a una scimmia adulta. L’uomo ha mascelle non prominenti e denti piccoli, ha pochi peli sul corpo, ha una notevole capacità di apprendimento, è capace di digerire il latte anche da adulto, nelle femmine la vulva è in posizione più frontale che negli altri ominidi, e soprattutto la testa nei neonati è grande in proporzione al resto del corpo e contiene un cervello che alla nascita non è ancora completamente sviluppato.
    Da quest’ultima caratteristica dipende il fatto che lo stadio dello sviluppo dell’encefalo che nelle altre scimmie è fetale, nell’uomo avviene in un neonato che è già a contatto con l’ambiente esterno, costituito principalmente dall’esperienza culturale.
    Allora non si può più dire che gli elementi comuni all’uomo in ogni tempo e in ogni luogo, ammesso che ce ne siano, sono di derivazione genetica, perché potrebbero essere dovuti all’influenza culturale! Che, siccome non è eliminabile, non permette di isolare sperimentalmente i fattori esclusivamente genetici: durante lo sviluppo del cervello, la cultura lo plasma, non solo metaforicamente ma anche materialmente, promuovendo la realizzazione di sinapsi tra certe popolazioni di neuroni piuttosto che tra altre, la sintesi di certi neurotrasmettitori piuttosto che di altri.
    Qualcuno a questo punto potrebbe pensare di aver dimostrato che l’uomo è del tutto privo di determinazione comportamentale. Non è esattamente così.
    Innanzitutto restiamo esseri corporei, costruiti secondo informazioni contenute nei geni, e tale vincolo non è da trascurare, almeno in linea teorica. Per quanto concerne il comportamento, comunque, è l’ambiente a farla da padrone (del resto il comportamento è definito come «modo di agire di un individuo nei rapporti con l’ambiente e con le persone con cui è a contatto») e nel caso dell’uomo l’ambiente è approssimativamente assimilabile alla cultura: non c’è nulla di assoluto.

    Detto questo, aggiungo una mia riflessione.
    Siamo dunque determinati nei comportamenti non tanto da fattori genetici quanto da fattori culturali. Ora, se fossimo determinati dai geni dovremmo pensare, come i sostenitori del pensiero unico e dei vari tipi di determinismo biologico, che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che lo stato di cose presente è inevitabile, che non esistono alternative possibili, perché i geni non sono sotto il controllo della nostra volontà.
    Ma siamo determinati dalla cultura, che al contrario dei geni è una nostra costruzione, e che se non ci piace possiamo distruggere, proprio come l’abbiamo costruita, seppur tra mille difficoltà.
    Viva Kant, viva la liberazione sociale.

  • La democrazia ha senso?

    Alcuni recenti discorsi mi hanno offerto l’opportunità di riflettere su concetti che davo ormai per assodati e su un interrogativo che potrebbe sembrare banale, ovvero: la dialettica democratica ha senso? E tali riflessioni hanno partorito una risposta positiva, quindi una conferma di ciò che pensavo prima di intraprendere le sopra menzionate discussioni. Si potrebbe osservare che crucciarsi tanto a riflettere su un’opinione e poi ribadirla non sia molto utile, per dirlo con un eufemismo, ma piuttosto l’attuazione di una retorica fallace e faziosa come la risposta di un Anselmo d’Aosta, che, sotto lo sguardo di un accigliato Gaunilone, fa platealmente uscire Dio dalla porta per farlo rientrare dalla finestra, ponendo sottobanco fin da subito ciò che intende dimostrare poi.

    Tuttavia, mettendo le mani avanti, rivendico il mio diritto di riconfermare un’opinione opinabile dopo che essa è stata sottoposta a critica e ha subito gli attacchi della dialettica, fosse anche indistinguibile dalla sua precedente versione, in quanto la dialettica fortifica il pensiero, permette la sua maturazione, implica un passaggio obbligato dinamico tra la tesi e la sintesi facendo sì che queste due non possano mai essere identiche: detto in altre parole, una critica non può essere ignorata e quando così sembra in realtà così non è.

    L’argomento è stato al centro di molte considerazioni provenienti da amici e conoscenti dell’area libertaria (odio appioppare etichette) che antepongono l’individuo alla collettività e mettono fortemente in discussione la validità della democrazia in quanto mezzo di imposizione della maggioranza sulle minoranze e l’individuo.

    Questi pensieri mi hanno riportato alla mente una lunga discussione, fatta due anni fa con un amico anarchico, che verteva sulla realizzabilità di un metodo decisionale in cui ogni scelta ha valore esclusivamente se condivisa all’unanimità dall’assemblea. Sostenitore dell’unanimità, il suo ragionamento era semplice:

    «La maggioranza non può decidere per la minoranza, perché schiaccerebbe la libertà di quest’ultima, quindi il confronto e il dibattito devono continuare finché si trova non un compromesso tra le parti, bensì qualcosa che realmente è voluto da tutta l’assemblea e che sarà approvato, infine, all’unanimità».

    «Ma ci sono questioni in cui non esiste tale alternativa», ribattevo io, «in cui va scelta questa cosa o quest’altra, senza vie di mezzo né vie traverse. E, soprattutto, ci sono questioni su cui non ci può essere unanimità perché non c’è certezza, non c’è assolutezza. Tante delle nostre opinioni si basano su presupposti non dimostrabili che, in virtù di tale indimostrabilità, non possono essere scalfite dal confronto e dal ragionamento dialettico e sono destinate a restare inconciliabili con altre opinioni: ecco perché su queste questioni non si potrà mai trovare un accordo unanime».

    «L’accordo unanime si può trovare», ribadiva lui, «perché siamo tutti ugualmente intelligenti e quindi in grado di capire su cosa basare i nostri ragionamenti, se su pregiudizi o su dati reali: parlandone, alla fine si escogita una soluzione che riesce ad accontentare tutti».

    «Ma come», replicavo, «come puoi esser certo che ciascuno sia in grado di distinguere la realtà da una sua interpretazione parziale basata su presupposti indimostrabili? Come puoi non prendere in considerazione la possibilità che il ragionamento sia scavalcato dall’irrazionalità e dall’emozione istintiva, trasformando l’unanimità in uno strumento dittatoriale ad uso di uno o pochi dei membri dell’assemblea, che, con retorica e sotterfugi, siano riusciti a manovrare le opinioni dei restanti membri?»

    «Ma ciò non sarebbe possibile, perché ogni individuo conosce bene il proprio vantaggio e quindi non permetterebbe che la decisione dell’assemblea diventi la decisione di una sua parte».

    Bene, ricordo che, conclusa la discussione, mi resi conto che essa era stata esattamente un esempio di ciò che avevo descritto: non riuscimmo a trovare un accordo sulla questione maggioranza-unanimità, sia perché è per definizione impossibile conciliare i due metodi, sia perché, latenti nel discorso, c’erano due diverse opinioni basate su presupposti non dimostrabili, che cozzavano sotterraneamente l’uno contro l’altro: lui, infatti, era convinto che siamo tutti ugualmente intelligenti e quindi capaci di prevenire prevaricazioni plebiscitarie all’interno di un’assemblea, io, dal canto mio, ero meno propenso ad accettare questa idea, sulla base di considerazioni scientifiche e sociologiche. Scientifiche perché se prima eravamo stupide scimmie e ora siamo senzienti esseri umani deve esserci stata selezione naturale sulla base di caratteri tra cui verosimilmente quelli riconducibili alla sfera intellettiva; sociologiche perché la sociologia, oltre che la storia, mostrano quanto sia facile che gruppi di persone siano dirottati verso interessi particolari che non giovano ad essi. Ora, oltre al fatto che la scienza, di cui io ho fatto il mio strumento per la dimostrazione del mio presupposto, per sua struttura non verifica ma falsifica, dunque non dimostra la verità ma la non verità, c’è anche un altro problema. Infatti sono sicuro che anche il mio amico riuscirebbe a sostenere ragionevolmente il suo presupposto, cioè che siamo tutti intelligenti allo stesso modo.

    La morale di questo breve racconto è che alcune scelte, al netto degli obiettivi che ci si pone, sono destinate a rimanere arbitrarie, dunque arbitraria in sede teorica rimane la mia preferenza per la democrazia piuttosto che per il sistema unanime.

    Esso suscita però altre domande, perché degli stessi problemi che esponevo in quella discussione (latenti derive autoritarie, predominio delle emozioni sulla ragione) è passibile il metodo democratico. Perché allora preferisco la democrazia? Perché preferisco il collettivo all’individuale? Perché penso che se pensi solo per te, commetti lo stesso errore di Adam Smith, a cui dobbiamo la convinzione che se alziamo il livello dell’acqua per far salire gli yacht dei ricchi, al nuovo livello si alzeranno anche le barchette dei poveri, lo stesso errore per cui si immagina l’individuo avulso da condizionamenti, capace di scegliere nel proprio interesse, autonomo e libero come se vivesse su un’isola deserta. Ma qui il discorso si chiude, tornando all’arguto Gaunilone, perché quest’isola non esiste.

  • Luna al perigeo, stanotte

    O graziosa luna, io mi rammento / che, or volge l’anno, sovra questo colle / io venia pien d’angoscia a rimirarti (G. Leopardi)

    Stasera la Luna apparirà più grande del solito, perchè sarà al perigeo, il punto più vicino alla Terra. Non solo: sarà contemporaneamente al perigeo e piena, mostrando tutta la superficie che le è possibile mostrarci e regalandoci uno spettacolo insolito.

    Le bellezze della natura sono infinite, e non ringraziamo per questo dèi onnipotenti, angeli incorporei, sacri libri o profeti pazzi e schizofrenici, ma antiche rocce e nuova luce.

    Ovvero: non ringraziamo nessuno, se non gli occhi di chi guarda.

     

     

     

     

     

    Forse perché della fatal quïete
    tu sei l’immago a me sì cara vieni
    o Sera! E quando ti corteggian liete
    le nubi estive e i zeffiri sereni,

    e quando dal nevoso aere inquïete
    tenebre e lunghe all’universo meni
    sempre scendi invocata, e le secrete
    vie del mio cor soavemente tieni.

    Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
    che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
    questo reo tempo, e van con lui le torme

    delle cure onde meco egli si strugge;
    e mentre io guardo la tua pace, dorme
    quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

    Alla sera, Ugo Foscolo

  • Alice’s adventures in Wonderland

    Alice Plaesance Liddel

    Ho appena finito di leggere quello che è considerato il capolavoro di Lewis Carrol, l’opera che meglio riflette la sua personalità ambigua e controversa.

    La prima cosa che salta all’occhio e alla mente leggendo il primo libro, il cui seguito sarà Attraverso lo Specchio, è la necessità di leggerlo in lingua originale; tale dovrebbe essere la scelta da preferirsi ogni volta che si decide di avventurarsi nella lettura di un romanzo scritto in una lingua che si conosce sufficientemente bene da poter considerare l’attività come un affinamento delle proprie capacità linguistiche; ma ovviamente tale scelta non sarebbe opportuna per meri scopi didattici, bensì per un vantaggio letterario e artistico nell’apprezzamento dell’opera.

    È un’ipotesi ormai accreditata quella secondo cui la visione del mondo di ciascuno si forma sulla base di classificazioni e categorizzazioni mentali che non possono prescindere dall’aspetto linguistico; ognuno coglie il mondo e percepisce i fenomeni secondo dei modelli di pensiero che solo la lingua può esprimere. Non a caso studi su individui bilingue per nascita hanno mostrato come, a seconda della lingua utilizzata in un certo momento, essi hanno una diversa percezione del mondo e un diverso modo di comportarsi di fronte agli oggetti e agli eventi, che vengono classificati mentalmente secondo dei “cassetti” che hanno l’aria di avere una natura del tutto kantiana (ipotesi di Sapir-Whorf).

    E sulla base di questo dato si potrebbero costruire tante teorie per spiegare fenomeni culturali come la tendenza a confondere certi concetti astratti, a stabilire certi tabù e non altri, ad elaborare un sistema valoriale che apprezzi qualcosa come virtù condannando qualcos’altro come vizio, a dividere dualisticamente in un modo preciso o impreciso il mondo materiale e la sua natura spirituale eccetera. Per esempio molte considerazioni interessanti sul rapporto di legame tra lingua e cultura potrebbero derivare dal fatto insolito che in arabo classico la stessa parola significa una coppia di concetti opposti (giusto-ingiusto, buono-cattivo), con la conseguenza che l’idea di guerra santa ha delle basi linguistiche.

    Ma prima viene l’uovo o la gallina? Insomma, per come la vedo io, «il linguaggio precede e nutre il pensiero» (Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, R. Lewis). Lo scopo di questi pensieri (se i pensieri possono avere uno scopo) non è tuttavia stilare una raccolta di considerazioni già fatte da tanti studiosi (N. Chomsky, U. Eco, U. Galimberti, G. Lakoff, R. Barthes…) dei quali, con la mia scarsa esperienza, non mi permetto di prevaricare il ruolo, sputando sentenze a destra e a manca sulla reciproca influenza che la cultura come sistema e il linguaggio come struttura esercitano.

    Invece volevo cogliere spunto dalla lettura di Carroll per fare delle riflessioni sull’importanza delle parole. Tralasciando quindi la necessità di leggerlo in inglese, per via dei continui giochi di parole, delle assonanze, delle filastrocche e dei fraintendimenti che rendono qualsiasi traduzione in una lingua diversa dall’originale un’opera a sé stante, c’è anche un’altra questione da affrontare: che, come scrive Pietro Citati in una prefazione ad Alice, «Lewis Carrol aveva compreso che la lingua non combacia con la realtà. La lingua è arbitraria. Da un lato sta la cosa […] dall’altra il nome, e fra loro si apre un abisso incolmabile» e che «i nomi non sono consequentia rerum, ma, al contrario, le cose sono le conseguenze dei loro nomi».

    Ora, se questo è vero per tutti e non solo per i bambini, per quanto forse Carroll non se ne rendesse conto, allora è vero che siamo tutti un po’ matti, né più né meno del Cappellaio.

  • C’è forse meno poesia?

    Gli esseri viventi non sono una sfida alla seconda legge della termodinamica. Nei loro tessuti essi amministrano una diminuzione locale di entropia solamente a spese di un aumento di entropia molto maggiore negli alimenti. Considerate insieme esseri viventi e alimenti e avrete un aumento dell’entropia.

    Si può sollevare comunque una seconda obiezione, più sottile. Nel corso della evoluzione, forme di vita semplici sono evolute in forme più complesse. Questa non è una diminuzione complessiva di entropia?
    Potrebbe esserlo, se le forme di vita semplici fossero realmente scomparse con la sostituzione di forme complesse e se nelle successive ere geologiche sulla terra fosse esistito solamente un insieme progressivamente più complesso di forme viventi.
    Invece rimangono forme di vita semplici, e il numero complessivo di forme di vita complesse è inferiore ad esse. Voi potete considerare l’insieme dei viventi proprio come costituito da una gerarchia di forme di vita semplici, più complesse, ancora più complesse, più complesse ancora, e così via: e ogni tappa procedendo verso l’alto è rappresentata da una massa totale sempre più piccola di tessuti viventi.

    C’è anche un’altra versione dell’ottovolente dell’energia. Parlando in generale, gli esseri viventi di grandi dimensioni e complessità vivono cibandosi di esseri più piccoli, che si cibano di altri più piccoli, e così via. I pescicani, per esempio, mangiano grossi pesci, i quali mangiano pesci piccoli, i quali mangiano pesciolini, i quali mangiano larve, le quali mangiano microrganismi unicellulari.
    Ma i cibi di cui si nutre un essere vivente vengono trasformati in suoi tessuti solamente grazie all’ottovolante dell’energia, e in questo modo solamente una piccola parte dell’energia libera degli alimenti viene immagazzinata nei tessuti dell’animale che si ciba, e il resto va sciupato.
    Si considera una scomoda legge dettata dall’esperienza, che occorrano cinque chili di alimenti per costruire mezzo chilo di tessuti, mentre gli altri quattro chili e mezzo di alimenti svaniscono in forma di calore e scorie.
    Deve dunque esserci un bilancio passivo. Ad ogni mezzo chilo di pescecane vivo debbono sempre corrispondere cinque chili di pesce di grossa taglia vivo, e a questo cinquanta chili di pesce piccolo, a questi cinquanta altri, cinquecento di pesciolini, a questi cinquecento, cinquemila chili di larve, a questi cinquemila, cinquantamila chili di microrganismi unicellulari.
    Questo, se volete, è un ottovolante dell’energia. Quella meravigliosa macchina che è il pescecane vivo, si mantiene in vita a spese della demolizione di una massa di microrganismi elementari che è centomila volte il suo peso. L’aumento di complessità è quindi più che pareggiato da questa colossale demolizione, e si deve considerare che complessivamente vi è un aumento dell’entropia.

    […] Ma si può sollevare un’obiezione ancora pià sottile. Le trasformazioni indotte dalla civiltà umana comportano una massiccia diminuzione dell’entropia, con la trasformazione dei minerali in metalli grezzi e quindi in meccanismi complessi; del legno in carta e poi in libri; delle sostanze chimiche in composti amorfi e poi in materiali forniti di una struttura. Ci si rende subito conto che questo lo si ottiene a spese di un aumento ben più grande di entropia legato al lavoro muscolare, alla combustione di carbone, di petrolio e così via.
    Questo è vero per quanto riguarda il lavoro fisico, ma per il lavoro intellettuale? Qual è la diminuzione di entropia legata alla trasformazione di macchie disordinate di colore in un quadro suggestivo, alla trasformazione di suoni caotici in una splendida sinfonia, alla trasformazione di parole disposte a caso in una grande opera letteraria, alla trasformazione di pensieri senz’ordine in una nuova sensazionale concezione?
    I fisici qui si ritirano.

    Isaac Asimov, La fotosintesi