Tag: repressione

  • Le rivolte in Francia sono una questione di classe

    Queste riflessioni sono state pubblicate anche su Napoli Monitor.

    Il figlio che non è abbracciato dal villaggio
    lo brucerà per sentirne il calore
    (proverbio)

    L’ennesima esecuzione razzista da parte della polizia francese ha innescato una rivolta per certi versi molto più esplosiva di quella del 2005. Le reazioni del governo, della borghesia, di una parte della sinistra, sono di una cecità agghiacciante, lontana anni luce dalla comprensione dell’origine sociale dello scoppio di tale rivolta. All’Onu, che chiede alla Francia di rivedere i metodi della propria polizia e di assicurarsi di prevenire e punire ogni comportamento discriminatorio, il governo di Macron risponde che nella polizia francese non esiste alcun razzismo. Al raro giornalismo ancora lucido che fa notare che la legge votata nel 2017 dall’attuale ministro dell’interno Darmanin ha portato alla quintuplicazione del numero di morti ammazzati dalla polizia, il ministro semplicemente nega che tale aumento sia mai avvenuto, in barba alle statistiche e ai documenti ufficiali.

    Invece di parlare di ciò che ha condotto all’omicidio di Nahel, si evoca la sua morte solo come presunto “pretesto” per bruciare tutto. Se l’omicidio di Nahel è un pretesto, qual è il vero motivo? Secondo Macron sono i videogiochi. Per alcuni osservatori, anche in Italia, incapaci di dissimulare il razzismo, il motivo è semplicemente la provenienza della popolazione in rivolta: irrazionale e presa da una furia immotivata, sarebbe costantemente in attesa di una qualunque scusa per bruciare tutto senza un perché.

    La vera questione neanche si tocca: l’origine di gran parte della popolazione in rivolta è coloniale. Il trattamento che questa popolazione riceve quotidianamente da parte delle istituzioni è coloniale. La gestione politica razzista è coloniale. Le rivolte delle “banlieues” a cui si assiste ciclicamente sono solo un’infinitesima parte della violenza coloniale su cui da secoli si basa la società francese.

    La scarsa conoscenza della questione coloniale francese rischia però di essere letta in maniera limitata da un pubblico italiano. Il colonialismo è ben più del “semplice” razzismo, che ne costituisce il lato culturale: resta il piano economico. Riducendo tutto al razzismo, l’aspetto economico strutturale rischia di passare inosservato. Il colonialismo è stato ed è innanzitutto un sistema che gerarchizza gli esseri umani per colore, nazionalità, origine, statuto amministrativo, e opera su questa base per estrarre ricchezza e distribuirla in maniera socialmente iniqua. Storicamente, il colonialismo ha consentito in maniera sostanziale l’accumulazione originaria, l’appropriazione di risorse e lavoro da parte degli uomini d’affari europei, e ha contribuito allo sviluppo del capitalismo. Oggi, la gestione coloniale della popolazione povera e di origine straniera è ancora la più forte forma di disciplinamento che tiene in piedi il sistema di sfruttamento.

    Le rivolte di questi giorni esprimono ampiamente una rabbia contro questo sistema. Poco importa che non ci siano rivendicazioni politiche ufficiali. La stragrande maggioranza degli oltre mille incendi di edifici ha colpito particolari obiettivi: commissariati, stazioni di polizia, caserme, municipi. La rivendicazione è sotto gli occhi di tutti: basta volerla vedere.

    Inizialmente sono stati attaccati i luoghi del potere poliziesco e delle istituzioni. In un secondo tempo è stato appiccato il fuoco anche ad altri luoghi del servizio pubblico, come scuole e biblioteche. Molta gente, pur comprendendo la rabbia per il razzismo e l’omicidio di Nahel, ha interpretato questi atti come puramente criminali, senza alcun contenuto politico, dimenticando che scuole e biblioteche, per quanto possa dispiacere, sono di fatto strumenti di esclusione sociale. Nonostante il suo valore emancipatore ideale, la scuola è per molti giovani la prima istituzione in cui le disuguaglianze sociali si trasformano in disuguaglianze scolastiche, in cui si subiscono discriminazioni razziste e disciplinamento poliziesco: addirittura, alcuni presidi collaborano direttamente con la polizia segnalando gli allievi più “vivaci”. In questo senso, la scuola non è che un’estensione del sistema poliziesco. In molte biblioteche di quartieri in cui la maggior parte delle famiglie a casa non parla francese, è difficile trovare materiale in lingue diverse. Anche in questo caso, un encomiabile intento emancipatore assume le sembianze concrete di uno strumento di esclusione o di imposizione culturale. L’attacco a questi luoghi è da leggersi come un attacco al sistema di esclusione sociale che opera quotidianamente nei quartieri. Non è un attacco ai “simboli” di tale sistema, ma proprio ai luoghi in cui materialmente esso prende forme visibili.

    In risposta a chi sostiene che la rivolta non abbia rivendicazioni concrete, è ancora più significativo il fatto che rapidamente si siano diffusi a macchia d’olio i saccheggi di negozi di ogni tipo fino ad arrivare al cuore dei quartieri ricchi delle maggiori città – qualcosa che non era mai avvenuto in contesti simili. Come spiegare questa evoluzione? Numerose scene dai quartieri in rivolta testimoniano del dispiegarsi di un momento di apertura, in cui tutto sembra possibile. Cadono i freni inibitori sociali, guardiani del desiderio, e la gente pare voler fare tutto ciò che normalmente è vietato. In questa disinibizione, in questo slancio desiderante, immediatamente emerge il bisogno-volontà di redistribuzione della ricchezza: quella ricchezza da cui il sistema capitalista-coloniale esclude socialmente.

    In questa dinamica di apertura è storicamente normale che capiti un po’ di tutto, e spiace dover fare l’avvocato del diavolo, perché significa che c’è qualcuno che in questa dinamica vede, appunto il diavolo, trasformandola in una questione morale. Perché ci si indigna per delle macchine ribaltate e bruciate e non per le migliaia di ingiustizie quotidiane considerate normali? Il sistema capitalista-coloniale fa in modo che certe categorie di persone abbiano meno possibilità di accedere agli studi; se vi accedono, hanno meno possibilità di concluderli; se li concludono, hanno meno possibilità di trovare un lavoro; se lavorano, hanno meno possibilità di essere ben pagati. Si tratta di una questione prettamente sociale, e sollevarla è squisitamente politico, che lo si faccia scrivendo comunicati ben impaginati o saccheggiando centri commerciali.

    Come mostra il caso di scuole e biblioteche, si potrebbe trovare una motivazione praticamente per ogni edificio dato alle fiamme nell’ultima settimana; a prescindere dalla sua funzione teorica e ideale ci si accorge che si tratta sempre di luoghi in cui si manifestano le disuguaglianze. Perché il sistema di oppressione e di esclusione dalla ricchezza è ovunque, e quando la rivolta esplode riesce a rendere visibile la sua presenza. Per dirla con Brecht, “tutti vedono la violenza del fiume in piena, ma nessuno quella degli argini che lo costringono”.

    Le rivolte in Francia sono una questione sociale. Davanti all’esacerbarsi sempre più intenso della questione delle disuguaglianze, lo stato francese si trova a un bivio: da una parte, l’emancipazione e la redistribuzione sociale della ricchezza, ovvero la costruzione di una società più inclusiva, egalitaria ed emancipatrice; dall’altra, il pugno di ferro per ristabilire l’ordine che produce e perpetua tali disuguaglianze, la violenza nuda e cruda a difesa degli interessi del potere capitalista razzista e coloniale, ovvero la strada del fascismo. In linea con la tendenza degli ultimi anni, acceleratasi vistosamente negli ultimi sei mesi e precipitata apertamente la settimana scorsa, il governo francese ha scelto il fascismo. (monsieur en rouge)

  • Come la stampa italiana parla di Deniz Resit Pinaroglu

    Che io sappia, nessun quotidiano italiano sta riportando la lettera di Deniz Pinaroglu, giornalista turco arrestato a Piacenza e rinchiuso nel CPR di Torino perché senza documenti, dopo aver fatto richiesta di asilo politico, e attualmente in sciopero della fame per denunciare le condizioni di una detenzione ingiusta.

    Molti giornali, specie nell’area liberale e progressista, stanno riportando la notizia con indignazione per il fatto che, come spiegato dal suo legale Federico Milano e riportato in una comunicazione della responsabile del comune di Torino Monica Gallo, garante dei diritti delle persone recluse, Deniz è un rifugiato politico (in Turchia, essendo attivista di sinistra, rischia di essere arrestato per motivi politici) e «non ha fatto niente». Dopo aver sottolineato nei titoli a caratteri cubitali che il giornalista non ha fatto niente facendo passare l’idea che la detenzione in un CPR sia solitamente riservata a persone che invece hanno fatto qualcosa in particolare, negli articoli in questione il passato e il presente di Deniz vengono raccontati brevemente, tralasciandone l’importante attività di documentazione che ha svolto negli ultimi anni alle frontiere europee e soprattutto nel presente, in questi giorni di detenzione a Torino, proprio a proposito delle condizioni inaccettabili all’interno del CPR e del meccanismo giuridico-amministrativo infernale del sistema della cosiddetta accoglienza. La Repubblica riporta a fine articolo le parole di Alda Re, dell’associazione Lasciateci entrare: «vuole essere trattato come rifugiato politico. Invece si ritrova in un inferno in terra». Non si aggiunge niente, nessun elemento che potrebbe stimolare la riflessione sul contesto degli eventi narrati. Forse che tutte le altre persone rinchiuse ingiustamente nel centro per l’unico motivo di non avere documenti in regola non vivono lo stesso inferno in terra? Forse che tutti gli altri e le altre non sono come Deniz rinchiuse “senza aver fatto niente”? Forse che l’«ingarbuglio giuridico» di cui parla La Stampa, in cui sarebbe intrappolato Deniz, è diverso dalla corsa a ostacoli dell’odissea amministrativa vissuta dagli stranieri indesiderati dalle politiche europee?

    Se i giornalisti che scrivono questi articoli avessero un minimo di etica professionale e di reale spessore morale, se provassero un qualche moto di solidarietà per un collega ingiustamente imprigionato insieme a decine di migliaia di altre persone che non hanno fatto nulla, se fossero veramente scandalizzati per le sue condizioni, se avessero davvero a cuore la sua causa e l’importanza del suo lavoro, pubblicherebbero la sua lettera e la diffonderebbero per aiutarlo a documentare questa situazione di cui le istituzioni sono responsabili, nel silenzio della stampa di sistema. Invece no: la lettera è del tutto ignorata, al giornalista imprigionato non viene data alcuna voce, e diventa soltanto il simbolo di quanto sia cattivo il regime di Erdogan.

    La lettera invece descrive piuttosto chiaramente la vita quotidiana all’interno di un CPR: parla di pressioni psicologiche, di ricatti, di ingiustizie e condizioni terribili e disumane, di atti di violenza e intimidazione, maltrattamenti sistematici, problemi di salute, attacchi di panico. Forse se questa lettera non è stata pubblicata è perché mette chiaramente in luce che la situazione assurda in cui si trova Deniz e le condizioni inaccettabili in cui sta vivendo non sono un caso isolato, ma la normalità del sistema di accoglienza e di detenzione europeo, che non ha colore politico distinguibile all’interno dello spettro delle posizioni attualmente rappresentate istituzionalmente, in una società sempre più xenofoba che accetta con sempre meno problemi una qualsiasi violazione dei diritti fondamentali. L’esilio di Deniz diventa sui giornali italiani simbolo di quanto sia cattivo il regime di Erdogan; su quanto sia cattivo anche il regime dell’altro lato del Bosforo e dei Dardanelli, sui giornali italiani non è ovviamente fatto cenno, ma di questo diventa simbolo il disinteresse l’indifferenza per le parole di Deniz mostrati da tali atteggiamenti.

    La lettera di Deniz Resit Pinaroglu (grazie a Blackpost per la traduzione in italiano)

    Alla stampa e alla pubblica opinione,

    Sono Deniz Resit Pinaroglu, un richiedente asilo dalla Turchia. Sono detenuto da un mese in un campo chiamato CPR a Torino. Sono stato soggetto di una serie di abusi e di pratiche contro la legge. Un poliziotto di Piacenza mi ha fermato e portato qui, in questo campo, ormai due mesi fa. Mi disse che sarei dovuto stare qui solo per 2 giorni. Senza fornirmi un avvocato ed avermi messo a disposizione un traduttore, mi hanno fatto firmare dei documenti in italiano, e mi hanno portato al CPR.

    Nella mia prima apparizione davanti a un giudice, è stata decisa la mia permanenza nel campo, senza neanche dare un’occhiata al mio caso.

    Ero in cerca di asilo, ma non in Italia. Una volta fermato mi dissero che nel caso in cui non avessi fatto la richiesta di asilo, sarei stato rimpatriato in Turchia, dove sono stato accusato di alcuni crimini, che qui non sono considerati tali. Mi hanno costretto dunque a firmare una richiesta di asilo. Sebbene io abbia comunicato anche il mio indirizzo di residenza, in seguito alla richiesta di asilo, il giudice ha deciso di continuare a tenermi recluso nel campo. I poliziotti e gli altri rifugiati, che sono attualmente prigionieri, mi dicono che il mio periodo di detenzione potrebbe andare da i 6 ai 12 mesi, e nessuno mi ha ancora comunicato quando potrò lasciare il campo. Ho dovuto lasciare il mio paese date le ingiustizie compiute dal mio governo, e per le assurde accuse mosse contro di me. Ora sono detenuto senza alcun titolo dalle autorità italiane. Per protestare contro questa situazione illegale, ho iniziato uno sciopero della fame dal 1 settembre alle ore 21:00. Le condizioni e il cibo qui sono terribili: il bagno, il luogo dove mangiamo e dormiamo, sono un unico ambiente non distinto. Per impedirci di documentare queste condizioni disumane, hanno rotto le fotocamere esterne dei nostri telefoni non appena siamo arrivati. Per un mese ci hanno fatto mangiare pollo secco e pasta fredda. Molte persone soffrono di attacchi di panico e si fanno male tra di loro, o a loro stessi. Le persone sono sottoposte sistematicamente a pressioni psicologiche. Coloro che arrivano sani, lasciano il campo con problemi di salute e mentali.

    La richiesta da parte mia, e dalle persone qui, è che chiunque sia in contatto con le istituzioni o con organizzazioni, e si trovi di fronte a questo testo, possa informarle al più presto, invece di rimanere in silenzio ed essere complice in questo crimine contro l’umanità, aiutateci.

    Dichiaro di essere in sciopero della fame, fino a quando qualcuno sentirà la mia voce, e sarò libero.

    Coloro che hanno deciso di detenermi qui sono responsabili di tutti i problemi di salute che avrò in seguito allo sciopero.

    deniz pinaroglu

    Qui qualche informazione in più sulla storia di Deniz, per chi vuole farsi un’idea del contesto della sua attività di giornalista e attivista.

  • Se duemila fermi arbitrari vi sembran pochi

    Si parta da una constatazione: da anni non si assisteva ad una giornata di repressione preventiva tanto massiccia come quella di ieri in occasione delle proteste per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma. Dopo settimane di allarmismo e montature ad arte, in cui è stato alimentato un clima di tensione ingiustificato portando una buona parte dell’opinione pubblica a indignarsi per fatti mai accaduti e del tutto ipotetici (come sa chi si è arrischiato a fare un giro della rete trovandola piena di insulti ai «black bloc figli di papà»), accostando i movimenti sociali al terrorismo e adottando una retorica apocalittica secondo cui Roma sarebbe stata colpita da attentati e devastata nella sua interezza, né gli attentati né gli scontri auspicati dalla stampa hanno avuto luogo (e notizia è diventata la loro assenza). Con la diffusione di notizie infondate, la stampa ha contribuito a costruire una verità sociale che non corrisponde alla verità fattuale, in barba alla tanto decantata guerra dei mezzi d’informazione ufficiali alle fake news e a quella che chiamano post verità, a loro dire responsabile della crescita dei movimenti di estrema destra, del populismo euroscettico, dell’elezione di Trump e dell’esito del referendum britannico sulla permanenza nell’Unione Europea.

    Secondo La Repubblica «i timori della vigilia per la presenza di black bloc si sono fortunatamente rivelati infondati». Forse sarebbe il caso di interrogarsi sull’affidabilità delle fonti? Se i timori che la stampa, con scarsissima þrofessionalità e mancanza di correttezza, ha alimentato, si sono rivelati infondati non sarebbe un’occasione per rivedere e mettere in discussione i propri sistemi di raccolta e valutazione delle fonti? Se giornali come il Corriere della Sera e La Repubblica avessero a cuore, come sostengono, la questione della correttezza dell’informazione e della lotta alle bufale e alle narrazioni basate su fonti inattendibili, se si stracciano le vesti in nome del buon giornalismo, potrebbero almeno dire per trasparenza su quali fonti infondate avevano costruito le proprie congetture?

    Sembra impossibile che ancora nessun giornalista stia incalzando e bastonando il ministro Minniti per la gestione dell’ordine pubblico di ieri a Roma, eppure si respira una certa compiacenza. Il Corriere della Sera descrive la giornata di ieri come «una giornata allegra». Forse si riferisce all’allegria di centinaia di fermi tra manifestanti pacifici e una pioggia di fogli di via di durata pluriennale motivati da ragioni pretestuose come l’essere in possesso di un sospetto capo di abbigliamento nero? Certo, i precedenti dello hijab islamico ma soprattutto del burkini la scorsa estate avevano già mostrato che anche nel cuore dell’Europa, i cui miti fondanti sono la libertà di espressione e la società aperta, possono essere vietati degli indumenti perché contrari ai valori morali socialmente accettati, ma il fermo con conseguente foglio di via per il possesso di felpe a causa del colore nero di queste ultime non erano ancora mai stati applicati a tappeto come procedura repressiva, come è successo ieri a Roma. Questo denota un inquietante abbassamento della soglia di tolleranza dei meccanismi repressivi: se una volta era vietato manifestare armati, l’interpretazione pratica di questa norma si è estesa passando a considerare come armi gli scudi e i caschi, arrivando oggi a considerare arma una sciarpa o un indumento nero. Ripetiamo che ci troviamo di fronte a casi di totale assenza di reato.

    Nella notte precedente la giornata di mobilitazione, le forze di polizia hanno fermato e identificato non meno di 1500 persone che in moltissimi casi sono state trattenute in questura anche il giorno successivo “per accertamenti”, in assenza di reato e senza che venisse fornita alcuna giustificazione, come se gli arresti di massa fossero una cosa normale in uno Stato di diritto. La stampa ha riportato la notizia di centinaia di arresti arbitrari preventivi senza batter ciglio. Nel corso della mattinata del 25 marzo, sono stati segnalati decine di casi di fermi senza valido motivo, di perquisizioni da parte della polizia degli autobus partiti per Roma dalle Marche, dalla Val Susa, dal Veneto, da Bologna, trattenuti per ore senza uno straccio di motivazione che potesse essere presa sul serio (per esempio, nel caso del bus dei valsusini il fermo dell’intero autobus e dei suoi passeggeri è stato ordinato dopo aver trovato un sessantenne in possesso di un pericolosissimo coltellino da formaggio) e scortati fino a centri d’identificazione (e di espulsione, se vogliamo; o pensavamo che la libertà di movimento fosse solo un problema dei migranti?) a Tor Cervara, all’ingresso della città, pare allestiti per l’occasione, impedendo a centinaia di persone di prendere parte alle manifestazioni. Anche questo non dovrebbe stupire: per celebrare l’Unione Europea senza alcuno spirito critico si affermano i valori europei, cioè anche quelle procedure politiche e sociali che si sono configurate come tali nella gestione dei flussi migratori: la limitazione della libertà di movimento e il reato di solidarietà. E anche il fatto che, come qualcuno ha fatto notare, il Questore di una città possa decidere a propria discrezione chi può entrare e chi meno, senza fornire motivazioni plausibili, sa più di Far West che di Stato di diritto, non dovrebbe stupire: i valori che si celebravano sono parole vuote.

    In questo clima che sarà onere del lettore definire, mentre i giornali riportavano acriticamente i declami deliranti delle forze dell’ordine che affermava di aver rinvenuto un gran numero di «sassi abbandonati» lungo il percorso previsto dei cortei e la polizia tentava di spezzare in maniera violenta e del tutto gratuita e provocatoria la coda del corteo pacifico e autorizzato, che saggiamente non ha reagito come avrebbero forse sperato gli agenti accecati dall’adrenalina o bavosi in preda ad un istinto primitivo, alcuni hanno cominciato a complimentarsi con il ministero dell’Interno per i metodi utilizzati per prevenire i disordini previsti (che erano previsti, tuttavia, solo nella testa dei giornalisti e della polizia), dunque a giustificare gli arresti di massa preventivi, i fermi e i fogli di via, tutto in assenza di reato e a discrezione ed arbitrio esclusivo del Questore di Roma.

    Il quale Questore ha rassicurato, in conferenza stampa trasmessa in diretta su RaiNews24: «Abbiamo verificato l’orientamento ideologico delle persone fermate». Rileggete questa frase. Ancora. Ancora. Sì, l’ha detto. Bravo il questore di Roma, difende i nostri valori™ europei™ reprimendo libertà di pensiero e limitando libertà di movimento e di espressione. Se non fosse chiaro: l’Italia è un paese in cui la polizia può trattenere migliaia di persone a caso per accertarne l’orientamento ideologico e provvedere a piogge di fermi e fogli di via se l’orientamento ideologico in questione non è gradito (se individuale o collettivo non è dato sapere, né è dato sapere come effettivamente si possa accertare o cosa non sia ammesso come orientamento). Bisognerebbe ricordare che l’unico orientamento ideologico che è costituzionalmente possibile discriminare è quello fascista, che la libertà di espressione è formalmente garantita e che uno dei ruoli della polizia in uno Stato di diritto sarebbe quello di assicurarla. Eppure l’apparato repressivo, tanto democratico con i razzisti che «hanno anche loro diritto di parola», non accetta nessun tipo di orientamento che sia difforme dalla norma politicamente definita (a quanto pare i razzisti sono conformi e possono parlare, manifestare, lasciare dichiarazioni alla stampa, partecipare a dibattiti televisivi, avere spazio e agibilità politica). La concezione di ordine pubblico del ministro Minniti non ha niente di diverso dall’ordine pubblico della Lega. A Bologna, come a Roma, come ovunque.

    Come scrive Rita Cantalino, la cosa più preoccupante è la generale noncuranza per una tale gestione dell’ordine pubblico, che si configura come una violazione del diritto a manifestare, una limitazione della libertà di espressione e di movimento. La gravissima frase del Questore di Roma sulla discriminazione su base squisitamente ideologica è passata piuttosto inosservata. Gli arresti di massa in assenza di reato sono il dovere della polizia di uno stato dittatoriale, non di diritto. Davvero in così pochi percepiscono quanto sia pericoloso farsi scivolare addosso giornate come questa?

  • Mele marce un cazzo

    Al congresso del Sindacato autonomo di polizia (Sap), gli assassini di Federico Aldrovandi sono stati accolti da una platea già euforica e «caricata», stando alle parole di Massimo Montebove, portavoce del Sap, a causa dei discorsi che avevano preceduto il loro ingresso trionfale: si era parlato di poliziotti uccisi dalla mafia, di poliziotti condannati ingiustamente, di vittime del terrorismo e della criminalità.

    Questo spiega, a detta di alcuni, il lungo applauso che ha salutato l’arrivo in sala di Paolo Forlani, Luca Pollastri e Enzo Pontani, tre dei quattro agenti condannati dalla Corte di cassazione il 21 giugno del 2012 per l’omicidio di Federico Aldrovandi a tre anni e sei mesi (tre anni dei quali coperti dall’indulto). Chi spiega così l’accorato sostegno ai tre assassini, specifica che in ogni caso si è trattato di un applauso e di un apprezzamento che intendevano essere un gesto di solidarietà umana nei confronti di «persone che hanno avuto dei problemi».

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come il 12 aprile, quando il povero «cretino da sanzionare» (parole del capo della polizia Alessandro Pansa) ha calpestato deliberatamente una manifestante inerme già malmenata e distesa sull’asfalto, forse «per dare una mano ai suoi colleghi» o per «frenesia e frustrazione», come suggerisce il prefetto di Roma. La tesi del “cretino isolato” è veicolata non solo direttamente dagli uomini delle istituzioni e dagli uomini dell’ordine pubblico, ma anche indirettamente dal montaggio di certi video (esempio) da parte di quelle trasmissioni che intenderebbero denunciare le violenze (finendo spesso per alimentare il consumo di dissenso). Che senso ha zoomare e mostrare alla moviola il piede di un agente che calpesta una manifestante quando tutto intorno si assiste alla violenza gratuita dei manganelli che infieriscono sui corpi aggrovigliati di persone indifese? Che senso ha, se non condannare selettivamente lo scarpone legittimando implicitamente il manganello?

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come qualche giorno dopo, quando gli agenti in assetto anti-sommossa hanno sgomberato 200 famiglie in occupazione abitativa alla Montagnola a Roma (vedi), caricando, entrando negli appartamenti per gettare a terra i malcapitati e manganellarli, lasciandosi dietro feriti, bambini piangenti e nuclei familiari senza più un tetto (vedi). Anche di loro è stato detto fossero «frustrati» e dunque, poveretti, in qualche modo giustificati.

    Descrivere queste azioni come spinte da una frustrazione eccezionale in contrapposizione ad un equilibrio ordinario significa muoversi all’interno di una narrazione che ne addossa al singolo poliziotto, o qualunque altro membro delle forze dell’ordine a seconda del caso, tutta la responsabilità (si tratta della ben nota narrazione delle “mele marce”). Eppure, se si è capaci di giustificare le teste calde e le mele marce in quanto «persone che hanno avuto problemi» e che sono «frustrate» a causa della situazione personale o familiare che li circonda, questo tipo di retorica non riesce a fare altrettanto riguardo all’influenza che può esercitare l’ambiente lavorativo, perché ciò significherebbe ammettere che ad essere marce non sono le mele, bensì l’intera cesta.

    Il Sap vanta circa 20 mila aderenti a fronte di un numero complessivo dei membri della polizia di Stato pari a 105.000 unità effettive. Ciò significa che circa un poliziotto su cinque vi è iscritto (non solo vicino, proprio iscritto), e un numero indefinito di altri costituisce quell’area rosa costituita da simpatizzanti non aderenti, tipica di ogni organizzazione strutturata. Dunque, almeno un poliziotto su cinque si riconosce in un’organizzazione che ha attaccato personalmente (vi ricordate?) la madre di Federico Aldrovandi esponendo sotto il suo ufficio uno striscione in solidarietà agli assassini del figlio. Coloro che innumerevoli volte hanno parlato della necessità di «isolare i violenti», coi violenti solidarizzano.

    In quell’occasione, l’allora ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri osservò che «chi ha manifestato non rappresenta la maggioranza dei poliziotti» (li rappresentava invece lei che li mandava in anti-sommossa a reprimere le proteste degli studenti) e l’allora capo della Polizia Gianni De Gennaro definì l’azione un «fatto da condannare» (lui che di fatti da condannare se ne intende).

    Questa volta ancora un’unanime condanna morale da prima pagina: il presidente del consiglio Matteo Renzi , il ministro dell’Interno Angelino Alfano e il capo della Polizia Alessandro Pansa rivolgono i propri sentimenti di vicinanza e di solidarietà ai genitori di Federico, indignati e agghiacciati dall’accaduto. A tali manifestazioni di solidarietà si accodano una serie di voci provenienti soprattutto dal PD e da SEL. Chi, come Cecilia Strada, presidente di Emergency, invita i «poliziotti democratici» a «dire qualcosa» aspettandosi nette prese di posizione, ottiene timide e ambigue esternazioni da parte di altre organizzazioni di polizia, come quelle di Ruggero Strano (segretario generale Autonomi di polizia) secondo cui «gli applausi di oggi sono una cosa vergognosa» ma non bisogna dimenticare che «questa vicenda ha mietuto solo vittime, da una parte e dall’altra», ad ulteriore dimostrazione di quanto poco peso e voce in capitolo i poliziotti “democratici” abbiano tra i reparti della Polizia di Stato.

    Matteo Renzi si dice solidale con la madre di Federico Aldrovandi, sia a titolo personale sia a nome di tutto il governo. Ma se Renzi volesse essere solidale più che a parole (perché la solidarietà è tale solo se si fa carne) potrebbe cominciare a pensare di fare qualcosa in suo potere. Potrebbe pensare di invertire la rotta di chi lo ha preceduto, riformando il sistema di selezione e addestramento delle forze di polizia; riformando il sistema carcerario affinché non esistano mai, in nessun posto, celle zero e spazi in cui si assiste ad una sospensione dello stato di diritto; introducendo il reato di tortura; arginando le derive autoritarie e le politiche repressive; ponendo le basi per la costruzione di un ambiente in cui gli abusi in divisa non si verifichino; garantendo che eventuali abusi in divisa vengano puniti integralmente e con la rimozione degli incarichi di chi insabbia, copre e spalleggia assassini, torturatori e corruttori. Finora, chi doveva essere punito non è stato mai trovato oppure ha ricevuto apprezzamenti, riconoscimenti e promozioni. Se Renzi è solidale deve invertire questa tendenza.

    E invece gli assassini di Federico saranno reintegrati nonostante le vive proteste.

    E invece chi rompe una vetrina sta dentro 12 anni e chi ammazza di percosse gratuite sta dentro qualche mese (se va bene).

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come i tre «sadici», gli aguzzini del carcere di Poggioreale. Come i macellai della Diaz. Come i torturatori di Bolzaneto. Come quelli che dal cavalcavia lanciano sassi sui manifestanti. Come quelli che sparano ad altezza uomo lacrimogeni vietati dalle norme internazionali. Come quelli che infieriscono in strada sui corpi di semplici cittadini fino ad ammazzarli. Come quelli che seviziano i detenuti. Come quelli che sgomberano a manganellate i blocchi di protesta dei migranti. Come quelli che sanno che resteranno impuniti.

    «Persone che hanno avuto dei problemi». Come tutte le altre volte.

    Tutta quella gente applaudiva, in massa all’unisono e col cuore, degli assassini. Mele marce un cazzo.

    congresso sap

  • Il vuoto feticcio della legalità

    da Milano in Movimento, qui l’articolo originale.

    Ormai la legalità è diventato un vuoto feticcio neanche fosse il dogma della santissima trinità.
    Devastano la Val di Susa? L’importante è protestare nei limiti della legalità (ovvero non fare nulla).
    Chiudono le fabbriche tipo la Innse di Lambrate? La protesta deve essere ordinata e civile (meno male che le tute blu della Innse sono della “vecchia scuola” ed hanno fatto a modo loro salvando i posti di lavoro…che se si stavano ad ascoltare altri la fabbrica sarebbe chiusa da anni…).
    Non hai più soldi per pagare l’affitto e ti sfrattano? Devi sorridere all’ufficiale giudiziario che ti butta in strada e guai a far qualcosa per impedirlo.
    Lavori in banca con contratto precario e non te lo rinnovano mentre la stessa banca che ti licenzia distribuisce miliardi di dividendi tra gli azionisti soliti noti della finanza italiana? Cercati un altro lavoro che se ti ribelli sei anti-democratico ed ideologico (come direbbe Renzi).
    Ti metti il casco in corteo per non farti aprire la testa dal celerino di turno? Non ci siamo, è illegale! Meglio farsi massacrare come alla Diaz che tanto poi gli autori rimangono impuniti…
    E l’elenco potrebbe andare avanti all’infinito.
    Il dogma della legalità che ci è stato propinato negli ultimi anni altro non serve che a spuntare le uniche armi di lotta che i deboli hanno nelle loro mani.

    Ormai non si vedono più le ragioni delle lotte e delle proteste.
    L’unico, nauseante ritornello è quello della legalità.
    Ma del resto, come dice l’antico proverbio, quando il dito indica la Luna, l’imbecille guarda il dito.
    Se i nostri bisnonni, i nostri nonni ed i nostri genitori avessero seguito le massime tanto di moda oggi non godremmo di una quantità di diritti incredibile.
    Per citarne alcuni: non avremmo il diritto di sciopero (ed infatti ce lo stanno togliendo), niente ferie e malattie pagate, niente sanità ed istruzione pubblica, niente edilizia pubblica, nessun diritto di abortire, centrali nucleari ancora aperte, latifondo vivo e vegeto… dobbiamo andare avanti?

  • Il manganello tecnico

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    La tecnica ci dice qual è il modo corretto di fare le cose: se non seguiamo i suoi dettami, stiamo tecnicamente sbagliando. Non c’è alternativa tecnica alle soluzioni tecniche dei problemi, quindi addossare a qualcuno la responsabilità di scelte tecniche finalizzate all’attuazione di soluzioni tecniche è non solo scorretto, ma anche stupido. Dal punto di vista di chi sostiene questo paradigma. Se non c’è altra scelta, che colpa ne ha il tecnico?

    Se il tuo computer non si accende, l’esperto di elettronica fa una diagnosi del problema e dice che purtroppo perderai i tuoi dati perché dovrai formattare il disco rigido, non puoi prendertela con il tecnico per la soluzione proposta, perché è l’unica possibile e dunque non è propriamente una scelta.

    Secondo un fronte comune che abbraccia la maggior parte dei giornali, dei politici e dell’opinione pubblica lo stesso vale per un governo tecnico: un tale governo non compie scelte, ma applica rigidamente i dettami imparziali della scienza economica, da cui derivano soluzioni univoche per risolvere i problemi di natura economica.

    Allora la militarizzazione della Val Susa non è più criticabile, perché è una militarizzazione tecnica. Fino alla caduta del governo Berlusconi, alle prime tensioni con le forze dell’ordine si accusava da più parte e a più riprese il governo di non saper intrattenere rapporti con i cittadini che fossero diversi dai lacrimogeni e dai manganelli. Ora, con il governo tecnico, non si parla più di cittadini: le persone coinvolte nelle tensioni e negli scontri sono sempre declassate a “violenti”, una categoria che si merita le botte, perché è composta da “incivili”. Le cariche della polizia, in quanto tecniche, sono giustificate, perché se il governo tecnico, responsabile, sobrio e austero del professor Monti le ordina, significa che non esiste alcun altro modo possibile di gestire la situazione: le cariche non derivano da scelte politiche, solo da “scelte” inevitabili di natura esclusivamente tecnica.

    Come è una scelta puramente tecnica quella di sbarrare la strada, lo scorso febbraio, a manifestanti pacifici di ritorno da un corteo No Tav, a manifestazione conclusa, con la celere in assetto antisommossa, ed è ancor più squisitamente tecnica la gestione delle operazioni da parte di un certo Spartaco Mortola, ex capo della Digos di Genova ai tempi della macelleria messicana, guardacaso assolto per i fatti di Genova «perché il fatto non sussiste» e guardacaso assolto anche dall’accusa di aver istigato alla falsa testimonianza durante il processo per l’irruzione della polizia nella scuola Diaz al G8 del luglio 2001.

    Ma il culmine dell’imparzialità e della sobrietà è stato toccato ieri, con la nomina di Gianni De Gennaro a sottosegretario di Stato da parte di Monti. Forse Monti, dopo il successo del film Diaz, ha pensato bene di manifestare il suo giudizio positivo, tecnico ovviamente, per l’operato ineccepibile, dal punto di vista tecnico ovviamente, durante il mandato di De Gennaro. Sopra, una foto esclusiva del suo curriculum.

  • La violenza degli argini

    Volevo raccontare il 15 ottobre che ho vissuto senza parlare degli scontri, senza condividere o condannare la violenza, senza appoggiare o rifiutare teorie su infiltrati e sui cosiddetti black bloc, senza dover difendere o stigmatizzare il comportamento della polizia italiana o dei manifestanti, senza tirare nessuno per la giacchetta.

    Non so se infine sono riuscito nel mio intento di descrivere con oggettività la giornata (scopo che sempre mi riservo, in tutte le situazioni e nella maggior misura in cui è possibile farlo), ma di certo non sono riuscito mio malgrado ad evitare di parlare di tutte le questioni accennate sopra: avrei preferito non farlo, perché parlare della giornata di ieri come una giornata di violenza o di non violenza significa fare il gioco dei potenti e adottare il linguaggio e la retorica dei loro organi di informazione. Ma leggendo tanti commenti sulla rete e diversi articoli di giornali di aree diverse mi sono reso conto che è necessario mettere in chiaro qualche punto: ecco quindi cosa ho scritto. Sono pensieri sparsi.

    Questione violenza-nonviolenza. Il voler a tutti i costi dividere nettamente il corteo di ieri in due cortei, uno violento e uno pacifico, non solo non aiuta a capire le dinamiche di ieri ma rispecchia poco la realtà dei fatti, come qualsiasi altro tentativo di categorizzare le anime molteplici di un movimento, attribuendo loro nomi e nomignoli stupidi e contrapponendoli (es. indignados, black bloc > indignados VS black bloc). È troppo semplicistico ragionare in codice binario, funziona solo per il benpensante che guarda passivo le immagini dello schermo televisivo passargli sotto gli occhi.

    Che è necessario abbandonare questo frame è stato già detto mille volte ma non fa male ripeterlo. Bisogna prendere atto che in piazza San Giovanni c’erano tante persone diverse, non tutte col casco e armate di spranghe, mazze e molotov, che comunque erano disposte allo scontro: uno scontro non per forza premeditato, uno scontro che può essere stato causato dagli idranti sugli stand che attendevano l’arrivo del grosso del corteo o dai lacrimogeni lanciati in mezzo alla folla su un corteo autorizzato. Non sto parlando degli incappucciati, sto parlando dei tanti altri che sono rimasti coinvolti negli scontri: tra loro immagino ci siano tanti che sono equilibrati in situazioni normali ma che possono, come tutti, perdere il controllo in condizioni anormali e nel mezzo della folla.

    Personalmente trovo strumentali e del tutto fuorvianti i richiami alla Genova del 2001 in riferimento alla presenza di possibili infiltrati, perchè gli infiltrati ci sono in tutte le manifestazioni, anche le più pacifiche, e poi allora si trattava di un movimento e di circostanze completamente diverse: chi, come La Repubblica, scrive «violenze come a Genova» ha dimenticato quanto diverse fossero allora le strategie messe in campo dal black bloc (sì, al singolare) rispetto allo scontro fisico che c’è stato ieri e devia l’attenzione, attraverso analogie e  meccanismi di associazione tra concetti, dal fatto (scontri) alla sua interpretazione (black bloc).

    Il discorso sui possibili infiltrati lo lascio ai complottisti e ai politicanti, perché neanche questo aiuta a comprendere l’accaduto: quelle persone in piazza San Giovanni si sono difese dai lacrimogeni e dai manganelli, e lo avrebbero fatto comunque, con o senza infiltrati. Perciò secondo me la verifica di eventuali infiltrazioni è solo una questione “giuridica”, ma dal punto di vista dell’analisi politica dell’accaduto è irrilevante.

    Mancanza di sintesi. Come scriveva qualcuno, il germe della violenza è insito nella natura stessa di protesta e se a volte rimane potenziale ed altre si fa atto ciò è dovuto alle circostanze; questa volta, per settimane o mesi, fin dall’inizio si è affermata l’intenzione di andare oltre il corteo rituale e la sfilata per il centro di Roma. Su questo si era tutti d’accordo. Però, come conseguenza del campanilismo dei movimenti italiani (che, da quello che mi pare di capire, si è puntualmente manifestato nelle varie assemblee di organizzazione della mobilitazione del 15 ottobre), non ci si era accordati sulle strategie da adottare per superare la tradizionale estetica del conflitto: chi voleva assediare i palazzi governativi, chi occupare il Colosseo e altri monumenti, chi restare nelle strade e nelle piazze a oltranza e, sì, anche chi auspicava una insurrezione popolare. C’è stata una così profonda mancanza di sintesi che, per le differenti strategie, non si è stati capaci neanche di accordarsi sul percorso del corteo, per dirne una, o di organizzare un servizio d’ordine unitario, per dirne un’altra. In particolare, ritengo che quest’ultimo fatto sia stata una delle cause principali dei problemi che la massa ha dovuto fronteggiare. Questa frammentazione era percepibile, bastava farsi un giretto tra i diversi spezzoni del corteo.

    Comportamento della polizia. Tutti, come sempre, hanno fatto a gara a condannare per primi la violenza. Io non esiterei a condannare l’ipocrisia di chi condanna unilateralmente la violenza degli incappucciati o dei manifestanti e allo stesso tempo si dice soddisfatto dell’operato della polizia, che di violenza ne ha usata. Perché la violenza della polizia deve essere giustificata? Qualcuno risponderà che lo scopo della polizia era evitare i disordini. Ma allora il fine giustifica i mezzi? Se è così, la violenza dei manifestanti era altrettanto legittima. Anche perché, quando vedo scene come questa, posso non condividere ma di certo capisco la reazione della piazza.

    Aggiungo un fatto curioso (ma non troppo) sul comportamento delle forze dell’ordine. Il percorso concordato partiva da piazza Repubblica, con destinazione piazza San Giovanni: quest’ultima era la piazza in cui si sarebbero dovute svolgere assemblee parallele e l’eventuale acampada con l’organizzazione di vari stand (poi buttati giù dagli idranti della polizia), che si trovavano là già prima che arrivasse la testa del corteo. Piazza San Giovanni era quindi legalmente riservata ai manifestanti che, secondo me, avrebbero dovuto mantenere il pieno diritto legale di entrarci; dopo l’inizio degli scontri, la polizia ha privato i manifestanti di questo diritto da essa stessa concesso, anzi ha trattato da criminali tutti coloro volessero accedere alla piazza da via Merulana, e giù lacrimogeni e manganelli, quando l’unica colpa che avevano era di seguire il percorso concordato di un corteo autorizzato dalla questura di Roma. Quindi contraddittoria non solo nella sostanza, ma anche nella forma.

    Opinione personale. Personalmente la violenza degli incappucciati non la condivido, ma non condanno la violenza dei manifestanti che si sono difesi da cariche e da lacrimogeni che li cacciavano da una piazza che doveva essere loro.

    La violenza degli incappucciati, io non la condivido non per motivi etici, ma per una questione politica e strategica: semplicemente hanno fatto male al movimento. Poteva essere un’esperienza politica lunga mesi, con piazze occupate e tutto quello che ciò comporta e che in Spagna sono stati capaci di mettere in pratica, invece si è risolto tutto in poche ore fumo nero. Tutti i possibili contenuti del movimento saranno oscurati dalla condanna delle frange estremiste, dalle accuse di infiltrazioni, dalla necessità di dissociarsi dall’uso della violenza e di dimostrare che i “veri indignati” sono quelli pacifici, dalla denuncia di incapacità di gestione dell’ordine pubblico e da tutti quei discorsi che implicano l’accettazione del frame violenza-nonviolenza e, ove possibile, del frame casta-anticasta che tanto piace a La Repubblica. Nessuno parlerà di speculazione finanziaria, di predominio della finanza sulla politica, di banche armate, di sovranità monetaria, di privatizzazioni, di annullamento del debito pubblico, di tagli alla formazione e alla sanità, di beni comuni e di lavoro.

    In pratica, ora che si è manifestata la violenza del fiume in piena nessuno noterà quella degli argini che lo costringono.

  • Contro l’Ancien Régime

    Alla fine ho dato forma al mio motto. Non so in verità se avrei preferito evitare di ingabbiarmi lasciandomi andare a presentazione di me e del blog che, si sa, spesso lasciano il tempo che trovano, perchè una persona, un carattere, una mente, una vita, un pensiero, non si possono giudicare in qualche riga e assolutamente non si possono riassumere.

    Comunque, Contro l’Ancien Régime è una pagina ancora incompleta. È stata scritta stanotte per effetto di un raptus espressivo che minava seriamente alla base la mia concentrazione per affrontare lo studio. Come molti noteranno, non è ancora una pagina di presentazione del blog né di me stesso. Ma datemi un po’ di tempo.


    I borghesi hanno fatto la Rivoluzione Francese ma sembrano avere dimenticato che ciò che ha fatto della Francia une Grande Nation è stato il trinomio «Liberté, Égalité, Fraternité». Appena ne hanno avuto la possibilità, hanno abbandonato il cappello frigio dei sanculotti giacobini per sostituirlo con un ben più sontuoso cilindro di feltro nero da abbinare al panciotto e a dorati gemelli da camicia. Hanno inventato il mito del realizzarsi, si sono industriati come mai prima nella storia moderna per il progresso e la crescita economica in nome di una storiella, molto in voga all’epoca, che parlava di una mano invisibile. Hanno armato migliaia di uomini per reprimere le azioni e soffocare le voci di chi alla storiella non credeva o non poteva crederci, di fronte all’evidenza lampante della sua fallacità; hanno mandato quegli uomini con fucili e manganelli contro le folle affamate esattamente come poco tempo prima i Re e i Principi ne avevano mandati contro di loro; poi li hanno mandati in terre lontane, a imporre con la forza la nuova religione del dio denaro a popoli increduli e indifesi; alla fine non era più rimasto niente e li hanno mandati ad ammazzarsi tra di loro, come carne da macello. Non contenti di questo, hanno cominciato a monetizzare oggetti e concetti di ogni tipo, anche i più impensabili: dall’aria all’acqua, dalle parole alla musica, dalla scienza alla conoscenza, dalla vita alla morte, dall’immaginazione alla coscienza; e una volta monetizzati, comprarli è stato per loro facile come rubare le caramelle a un bambino.

    Non è molto diverso dall’Ancien Régime. Quale Liberté, quale libertà di scelta consapevole posso vantare di avere se quando compro qualcosa non c’è alcuna trasparenza tra il marchio e il consumatore? Se quando voto democraticamente indicando qualcuno le decisioni le prende qualcun altro? Se non posso scegliere che lavoro fare per contribuire allo sviluppo civile e alla vita collettiva? Se non c’è reale partecipazione in scelte decisionali i cui effetti ricadono sulla testa di tutti? Che libertà ho, di fare cosa? Libertà di religione? È uno strumento di controllo sociale e limita la libertà nella misura in cui si basa su dogmi. Libertà di parola? Gli sgherri manzoniani sono pronti in ogni momento a manganellare o a censurarti se ti lasci sfuggire verità scomode. Libertà di scegliere che lavoro fare? Appartengo ad una generazione precaria sul piano lavorativo e sul piano esistenziale. Libertà di pensiero? «Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate», diceva una canzone, «e in cambio pretendete» la libertà di indossare vestiti firmati, di avere l’ultimo modello del cellulare, di aggiornare il vostro profilo di Facebook, di seguire i reality show, di accendere la televisione per contare, sorridendo beffardi dentro di voi, quante disgrazie sono capitate oggi ad altri.

    Dov’è l’Égalité quando l’economia è controllata da un’oligarchia dispotica e strutturata nel modo più vicino al totalitarismo che l’Occidente abbia saputo produrre dopo i Fascismi del Novecento? Quando la ricchezza è distribuita con un’asimmetria impressionante, per cui un decimo della popolazione sfrutta nove decimi delle risorse, mentre i restanti nove decimi della popolazione sono costretti a patire la fame, la sete, la miseria, le malattie nonostante che l’esistente sarebbe sufficiente per tutti? Dov’è la ragionevolezza dei padri illuministi della Rivoluzione, in tutto questo?

    Che Fraternité posso dire di vedere in un mondo in cui si riesce a giudicare una persona, pur fatta di una sua individualità, basandosi sul colore della sua pelle o sulla forma dei suoi occhi, annullando così completamente ogni possibile forma di comunicazione e comprensione? Dov’è la fratellanza tra i popoli quando si sganciano bombe su civili inermi, e tra le persone quando alcune vengono rinchiuse per anni in lager di detenzione per scontare la pena per il reato di essere clandestini? E dov’è ancora quando, una volta usciti dai lager, li si infila in un bastimento come capi di bestiame per riportarli nell’inferno da cui provenivano? E, nell’eventualità che riuscissero a evitare questa triste sorte, dov’è la fratellanza e l’umanità quando, restando, non trovano che insulti e discriminazioni?

    Non ci sono dubbi, questo è ancora l’Ancien Régime.

  • Bastardo populismo mediatico

    Pensate probabilmente che sto per scrivere dei fatti più recenti della cronaca politica e giudiziaria per associarli al mostruoso conflitto di interessi nel nostro paese e al cosiddetto populismo mediatico predominato quasi capillarmente da una cerchia ristretta di imprenditori-politici-criminali-fascisti italiani, visto che oggi abbiamo conquistato le prime pagine di una miriade di giornali internazionali (tanto per citarne qualcuno: New York Times, Le Monde, The Guardian, The Economist, El Paìs) con la notizia che l’on. Presidente del Consiglio Italiano Silvio Berlusconi è stato chiamato in tribunale per rito immediato, per evidenza delle prove delle accuse a suo carico (che sono due, tra cui sfruttamento della prostituzione minorile).

    Invece non è per esprimere l’orgoglio di aver conquistato, come Paese, notorietà in tutto il mondo, che scrivo stasera, bensì per puntare i riflettori su un altro evento, molto significativo e a mio parere importante per la sua pericolosità: i magistrati francesi si stanno mobilitando contro il presidente della République, Nicolas Sarkozy. Considero pericoloso il fatto come ho sempre considerato un pericoloso precedente la situazione politica ed istituzionale italiana.

    Del resto c’era da aspettarselo che, visto che dopo diversi anni di controllo mediatico di Berlusconi in Italia, nonostante i richiami alla moderazione da parte di organi nazionali, internazionali e non governativi, tale controllo non si è ridotto come richiesto ma anzi è stato rafforzato a sproposito e con spudoratezza e arroganza crescente, imponendo un controllo personalistico e aziendale della cosa pubblica a vantaggio di pochissimi imprenditori e dei loro amici, soffocando la politica con gli imperialistici principî dell’economia e della finanza, qualcuno si accorgesse che dopo tutto in Italia le cose vanno molto bene: volendo dire, con ciò, che è l’unico paese del capitalismo occidentale in cui la coincidenza totale tra classe politica e dirigenza economica non è tenuta nascosta all’opinione pubblica, così che non ci si fanno scrupoli di nessun tipo e lo Stato diventa una macchina funzionante palesemente per i soli interessi dei grandi ricchi o arricchiti. Detto in altre parole, in Italia gli stronzi possono fare quello che cazzo vogliono, soprattutto se sono ricchi.

    E i ricchi di tutto il mondo adorano questa possibilità, non vedrebbero l’ora di poter evadere liberamente le tasse, violare contratti di lavoro e rimanere impuniti, crearsi un harem di puttane e ballerine offendendo l’umanità delle donne, rubare soldi senza finire in galera. È ovvio che tutto questo faccia gola. Ma anche senza interpretare la situazione italiana come un controllo del sistema economico sulla politica, di certo il populismo mediatico ha costituito un ottimo esempio di gestione del potere. Nessuna opposizione, infatti, né sociale, né parlamentare, né culturale (se ce n’è stata), è riuscita a scardinare il potere del regime, per quanto questo si sia macchiato di colpe gravissime, cominciando da violazioni dei diritti umani nel respingimento dei profughi e nella gestione del G8 di Genova nel 2001, andando a finire agli ultimi scandali, passando per i controlli dei servizi televisivi, l’approvazione dello scudo fiscale, le leggi di smantellamento della formazione e della ricerca, i tagli alla cultura, i crolli di Pompei, gli attacchi continui agli organi giudiziarî, le violente repressioni dei terremotati aquilani, dei pastori sardi, dei cittadini di Terzigno, degli studenti di tutta la penisola e delle migliaia di cittadini che per un motivo o per l’altro si sono trovati in strada a protestare.

    Il regime ha retto ogni volta. E qual è il sogno di qualsiasi potere? Continuare ad esistere. Il potere ha capito che il berlusconismo paga e il populismo mediatico di Berlusconi costituisce, come già detto, un pericoloso precedente nella storia dell’Europa, che in molti sottovalutano. «In Francia o in Inghilterra non potrebbe mai succedere, si dimettono per una lampadina acquistata coi soldi pubblici! E poi c’è la legge sul conflitto di interessi». Spesso lo sento dire.

    Ma intanto la Francia vive da almeno un anno qualcosa di simile: tagli alla scuola, contrasti con la magistratura, abuso dei privilegi dati ai parlamentari sono i tre dati più palesemente somiglianti. A questo si aggiunga il fatto che Sarkozy, l’anno scorso coinvolto in una storia di tangenti avvenuta quando era ancora sindaco, non si è dimesso e ha detto con tono familiare «noi andiamo avanti», mentre, sempre l’anno scorso, un suo ministro (Hortefeux) girava le sedi diplomatiche facendo battute razziste sugli arabi (e anche questo non mi giunge nuovo). Sarkozy è coinvolto in varie controversie giudiziarie, come l’affaire Clearstream 2 (che richiama stranamente il caso Hyberian 2 di Silvio), o l’affaire Woerth-Bettencourt (in cui avrebbe ottenuto finanziamenti illeciti per la campagna elettorale del 2007), o ancora il caso che lo ha visto telefonare alla redazione del quotidiano francese Libération per lamentarsi del titolo che avevano dato un articolo definendolo gentilmente «journal de gauche de merde». Inoltre pare che abbia esercitato pressioni per fare ottenere a un suo favorito la direzione di un giornale a tiratura nazionale, Les Échos, approfittando della vendita delle quote azionarie.

    Insomma, in Francia c’è la legge sul conflitto di interessi, ma è facile aggirare la cosa (del resto anche secondo la legge italiana, cfr. art. 10 DPR 361/1957, «non sono eleggibili coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private risultino vincolati con lo Stato per contratti di opere o di somministrazioni, oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica», ma ciò non sempra importare a nessuno).

    «Genoa docet» è una frase utilizzata da alcuni riferendosi alla consapevolezza dei movimenti, dopo il G8 del 2001, che bisogna evitare gli scontri e che bisogna tuttavia essere sempre pronti a prendere le botte, perchè della polizia non ti puoi fidare. Ma Genova 2001 docet anche agli Stati nazionali come l’Inghilterra, che quest’autunno quando prendeva gli studenti che protestavano contro la triplicazione delle tasse universitarie, lasciava che le forze dell’ordine li picchiassero, non in strada, spudoratamente come accade in Italia come se fosse normale, ma pur sempre li picchiavano, al sicuro e al riparo da telecamere e testimoni.

    Il sogno berlusconiano è sempre più vicino. Viva la libertà!

  • Zone rosse

    L’ufficio di Questura di Palazzo Madama ha oggi inviato una mail a tutti i senatori per illustrare le misure di sicurezza straordinarie adottate per il 14 dicembre in vista delle manifestazioni “in modo da evitare il ripetersi di episodi come quello del 24 novembre scorso”, si legge nella mail che pubblichiamo integralmente.

    Si comunica che il giorno 14 dicembre prossimo, in concomitanza con la discussione presso le Camere delle mozioni sulla fiducia al Governo, sono previste manifestazioni di protesta che potrebbero interessare le zone circostanti le sedi del Parlamento.

    Allo scopo di tutelare l’ordine pubblico, la Questura di Roma ha predisposto una serie di servizi, comprendenti anche posti di blocco volti ad impedire l’avvicinamento dei manifestanti ai palazzi del Senato e della Camera dei Deputati, in modo da evitare il ripetersi di episodi come quello del 24 novembre scorso, allorché alcuni manifestanti tentarono di accedere dall’ingresso principale di palazzo Madama.

    In considerazione delle difficoltà che il dispositivo di sicurezza potrebbe comportare nell’accesso al Senato, l’Amministrazione ha richiesto alla Questura di garantire il transito dei Senatori e dei dipendenti, previa esibizione del tesserino di riconoscimento personale e del contrassegno di transito dell’autovettura; eventuali difficoltà che dovessero essere frapposte al transito dal personale di polizia presente sul territorio potranno essere segnalate telefonicamente alla Centrale operativa del Senato (tel. 06 xxxxxxxx), che provvederà – compatibilmente con la situazione – ad esperire ogni azione utile alla soluzione del problema. Si suggerisce, tuttavia, di anticipare l’arrivo in Senato alle prime ore della mattinata, in quanto successivamente l’eventuale concentrazione dei manifestanti in corrispondenza dei posti di blocco potrebbe rendere fisicamente impossibile il transito”.